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2013-2014 Ling.Gen.I

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linguistica generale
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a.a. 2013-2014 Linguistica generale (triennale Lettere) Strutture morfologiche e significato nell’indagine linguistica Unità didattica A (20 ore) Morfologia: entità, fenomeni e modelli di analisi Indicazioni bibliografiche generali: - T. De Mauro, Prima lezione sul linguaggio, Roma - Bari, Laterza, 2011 3 . Indicazioni bibliografiche relative all’unità didattica A: - S. Scalise - A. Bisetto, La struttura delle parole, Bologna, il Mulino, 2008. - A.M. Thornton, Morfologia, Roma, Carocci, 2005. - Materiali predisposti dal docente. Per i non frequentanti sono richieste le integrazioni seguenti: - S. Scalise, Morfologia, Bologna, il Mulino, 1994. - gli articoli di P. Ramat (Definizione di ‘parola’ e sua tipologia) e di G. Berruto (Considerazioni sulla nozione di morfema) in M. Berretta - P. Molinelli - A. Valentini (a cura di), Parallela 4. Morfologia. Atti del V incontro italo-austriaco della Società di Linguistica Italiana”, Tübingen, G. Narr Verlag, 1990, rispettivamente alle pp. 3-15 e alle pp. 17-28. Morfologia: entità, fenomeni e modelli di analisi 1
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a.a. 2013-2014

Linguistica generale (triennale Lettere)

Strutture morfologiche e significato nell’indagine linguistica

Unità didattica A (20 ore)

Morfologia: entità, fenomeni e modelli di analisi

Indicazioni bibliografiche generali:

- T. De Mauro, Prima lezione sul linguaggio, Roma - Bari, Laterza, 20113.

Indicazioni bibliografiche relative all’unità didattica A:

- S. Scalise - A. Bisetto, La struttura delle parole, Bologna, il Mulino, 2008.- A.M. Thornton, Morfologia, Roma, Carocci, 2005.- Materiali predisposti dal docente.

Per i non frequentanti sono richieste le integrazioni seguenti:

- S. Scalise, Morfologia, Bologna, il Mulino, 1994.- gli articoli di P. Ramat (Definizione di ‘parola’ e sua tipologia) e di G. Berruto (Considerazioni sulla nozione di morfema) in M. Berretta - P. Molinelli - A. Valentini (a cura di), “Parallela 4. Morfologia. Atti del V incontro italo-austriaco della Società di Linguistica Italiana”, Tübingen, G. Narr Verlag, 1990, rispettivamente alle pp. 3-15 e alle pp. 17-28.

Morfologia: entità, fenomeni e modelli di analisi

La morfologia (gr. morphḕ ‘forma’ + lógos 'discorso') è l’ambito delle scienze linguistiche che si occupa delle unità minimamente dotate di significato, gli elementi segnici che chiamiamo morfemi (unità della I articolazione secondo André Martinet).Essa costituisce uno dei piani dell’articolazione del linguaggio e rappresenta l’interfaccia tra il piano dei suoni/fonemi (fonetica/fonologia) e il piano della sintassi. Mostra tale valenza tanto in prospettiva sincronica, quanto in prospettiva

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diacronica, e ciò induce gli interpreti a riconoscere nella morfologia una dimensione centrale nell’organizzazione delle lingue e del linguaggio.

La morfologia studia la struttura interna delle parole e i loro rapporti entro un paradigma, per meglio dire i cambiamenti di forma esterna aventi riflessi funzionali. Essa rispecchia e risponde a caratteristiche e a funzioni peculiari del linguaggio verbale quali:

. economia: la morfologia permette di esprimere le medesime funzioni mediante i medesimi elementi, utilizzandoli un numero illimitato di volte (si pensi ai morfemi flessionali);

. coesione: la morfologia garantisce efficacemente la coesione testuale, in quanto offre un repertorio alquanto vasto di indicatori delle relazioni esistenti tra le diverse componenti dell’enunciato. Tale proprietà è massimamente evidente nell’accordo grammaticale, che segnala le relazioni morfologiche e sintattiche tra elementi diversi di uno stesso enunciato (lat. civis optimus est; it. Quella penna rossa è nuova e raffinata).

Nozione di ‘parola’

La ‘nozione’ di parola è da considerarsi un primitivo, poiché si presenta alla consapevolezza dei parlanti di una data lingua con un buon grado di evidenza intuitiva, più forte in quelli alfabetizzati ma rilevante anche in quelli non alfabetizzati.

. Di solito, i parlanti interiorizzano un’immagine del proprio idioma come articolato e articolabile in (sotto)unità, le parole appunto, ma con esiti strutturalmente differenti da lingua a lingua e che prescindono da quell’opzione culturale che è la scrittura.

In Language. An Introduction to the Study of Speech (New York 1921; trad it. Il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Torino 1969), il linguista antropologo Edward Sapir (1884-1939) ricorda che locutori amerindiani non istruiti e senza alcuna esperienza di scrittura erano in grado di dettargli testi nella loro lingua,

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‘parola per parola’, e che sapevano isolare parole entro un enunciato, potendo anche ripetergliele singolarmente.

. Nel parlato non vi sono interruzioni tra ‘parole’. Tuttavia, entro questo continuum i confini esistono, come dimostra il comportamento dei bambini in età prescolare, che sono in grado di individuare inizio e fine di una ‘parola’ allorquando si chiede loro “Che cosa significa x?”.

. D’altra parte, un fenomeno di natura psicologica quale l’analogia rende conto del fatto che la ‘parola’ - e con essa i costituenti morfologici (affissi e radici/temi) - è presente al senso linguistico dei parlanti, i quali sia in fase di apprendimento della L1 sia nell’apprendimento e nell’uso di una L2 producono forme analogiche come *piangiuto o *goed o *childs.Del resto, a questo fenomeno di mutamento morfologico, individuato nella sua natura psicologica dai Neogrammatici e indicato poi nel 1912 da uno degli allievi di Ferdinand de Saussure, Antoine Meillet (1866-1936) come una delle cause, insieme alla grammaticalizzazione, del mutare della morfologia, dobbiamo esiti che sono ormai fatti di langue nelle diverse lingue.

Fra gli esempi possibili, cfr. ingl. books per il più antico beech, oppure il coesistere nel lessico inglese di brother-s come plurale di brother creato per analogia di sister-s e dell’antico plurale metafonetico brethren nell’accezione “confratelli”, o ancora l’it. amav-o, con -o analogico della I pers. sing. del presente indicativo (am-o) che ha sostituito il più antico e ‘regolare’ -a (< lat. -am di impf. ama-ba-m).

. Si consideri poi che, per quelle lingue che hanno una tradizione lessicografica, la lemmatizzazione è un procedimento familiare per i parlanti, che imparano a riconoscere una forma ‘archetipica’, una ‘parola’ rappresentativa di tutte le variazioni formali note nel loro idioma.

Peraltro, definire linguisticamente l’oggetto ‘parola’ è problematico e ha costituito per non pochi studiosi (e paradigmi) di linguistica un punto critico, talora anche ‘evitato’ (così, ad esempio, nella prospettiva di André Martinet).

Alla riflessione linguistica di Ferdinand de Saussure (1857-1913), quale è testimoniata dal Cours de linguistique générale, dobbiamo attribuire questa considerazione (Ch. Bally - A. Sechehaye [éds.], Cours de linguistique générale, Lausanne - Paris 19161, p. 154):

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“… le mot, malgré la difficulté qu’on a à le définir,est une unité qui s’impose à l’esprit,

quelque chose de centrale dans le mécanisme de la langue”.

Possiamo convenire sul fatto che una parola è, al contempo, una unità fonologica, semantica e grammaticale (cioè morfosintattica) e in questi termini la definisce il linguista britannico John Lyons (1932-: Introduction to Theoretical Linguistics, 1968): “a word may be defined as the union of a particular meaning with a particular complex of sounds capable of a particular grammatical employment”.

Tuttavia, la definizione linguistica di parola e l’individuazione di criteri che, nella loro generalità interlinguistica, siano validi per tutti i tipi di parole possibili e attestati nelle lingue del mondo si sono rivelate operazioni particolarmente complesse per una molteplicità di fattori:

.‘parola’ individua un’unità di confine.La ‘parola’ è alla base della distinzione tra morfologia, che della struttura interna delle parole si occupa, e sintassi, che guarda a come le parole si organizzano e si combinano dando luogo a sintagmi e a frasi. Per la morfologia dunque, la ‘parola’ è un’unità (tendenzialmente) non minima; per la sintassi invece essa è unità minima.

.’parola’ ha ‘limiti’ diversi, secondo che si considerino distintamente i livelli grafico, fonologico, morfosintattico, semantico.D’altra parte, nessuno dei criteri riconducibili ai diversi livelli dell’analisi linguistica è di per sé bastevole a definire in modo interlinguisticamente e scientificamente valido che cosa sia ‘parola’:

. Parola ortografica: è l’idea più banale di ‘parola’ come sequenza posta tra spazi bianchi; è un’idea basata su criteri convenzionali, storicamente dati, e su regole di divisione della grafia che, fra l’altro, quand’anche siano adottate da una data comunità sono meno diffuse rispetto alla scriptio continua.

. Parola fonologica: la struttura fonologica e intonazionale, soprattutto per certe lingue, è un criterio importante al fine di delimitare i confini tra le parole, ma non è comunque sufficiente.

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Anche fenomeni che, in molte lingue, consentirebbero di identificare le parole entro la catena parlata presentano ‘limiti’ euristici e mostrano come il criterio fonologico non sia generalizzabile a tutte le lingue verbali.Si pensi, ad esempio, a fatti quali l’accento fisso, all’armonia vocalica, oppure a certi processi fonologici (ad. es. in tedesco la neutralizzazione dell’opposizione fonologica tra contoidi occlusivi sordi e contoidi occlusivi sonori in posizione finale di parola, come in <Rad> nom. sing. nt. “ruota” omofono rispetto a <Rat> nom. sing. m. “consiglio” con realizzazione [T]), che però non sono comuni a tutte le lingue e dunque hanno scarso valore indiziario.

. Al linguista statunitense Leonard Bloomfield (1887-1949; Language, New York 1933) dobbiamo aver definito ‘parola’ come “a minimum free form”. Ma neppure questa definizione, per quanto significativa, appare omnicomprensiva della varietà di manifestazioni della ‘parola’.Ad esempio, esistono ‘parole’ che hanno un grado di mobilità e di ‘libertà’ minore rispetto ad altre (si pensi ad esempio ad articoli, adposizioni e congiunzioni); d’altra parte, esistono ‘parole’ che i parlanti sentono come tali ma che, pur essendo libere, non possono dirsi ‘minime’ (si pensi ad esempio alle unità lessicali polirematiche o plurilessematiche, come it. gatto delle nevi o partire in quarta).

In effetti, esistono elementi che consideriamo ‘parole’ ma che si comportano come se non lo fossero e non rispondono ai criteri sopra elencati, mentre siamo portati a non considerare ‘parola’ elementi che si comportano come se lo fossero.

.Ieri ho visto un alligatore

.*Un ieri ho visto alligatore

.Maria è seduta in poltrona

.*Maria in è seduta poltrona.

In italiano, l’articolo ‘un’ e la preposizione ‘in’ non esistono in una frase che abbia senso compiuto se non combinati ad altre unità lessicali, a meno che non ricorrano in un contesto citazionale, metalinguistico-riflessivo.

.Ho guidato una macchina da corsa

.*Ho guidato una da corsa macchina

.Ho guidato una macchina da corsa velocissima

.Ho guidato una velocissima macchina da corsa

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.°Ho guidato una macchina velocissima da corsa

.Ho guidato un gatto delle nevi

.*Ho guidato un delle nevi gatto

.Ho guidato un enorme gatto delle nevi

.Ho guidato un gatto delle nevi enorme

.*Ho guidato un gatto enorme delle nevi

AFFISSI PAROLE SINTAGMI

↓ ↓

-bil-e il, un, da, per padrone, poltrona macchina da corsa-os-o quando, perché … imbevibile, spremuta … ferro da stiro,-ist-a corsa ad ostacoliin- … lacrime di coccodrillo …

. Inoltre, le lingue del mondo mostrano come le parole siano strutturalmente diverse e come esistano TIPI morfologici differenti, che possiamo porre lungo un continuum che ha nel tipo isolante ed in quello polisintetico (e incorporante) i propri estremi e che ‘apre’ ad una visione prototipica, scalare e non categoriale della ‘parola’.

Tipi morfologici

Su un piano generale, come dice Eugenio Coseriu, ‘parola’ è un universale possibile per tutte le lingue verbali, dal momento che esiste almeno un tipo linguistico (morfologicamente parlando), quello detto isolante, in cui la ‘parola’ appare come entità ben isolabile e riconoscibile.

Non meno vero è quanto afferma Edward Sapir (cit. da Id., Il linguaggio. Introduzione alla linguistica, p. 123):

“… tutte le lingue differiscono l’una dall’altra, ma certune sono più differenti delle altre. Dire questo equivale a dire che è possibile raggruppare le lingue in

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tipi morfologici. … è impossibile elencare un numero limitato di tipi che rendano piena giustizia alle caratteristiche specifiche delle migliaia di lingue e

dialetti che sono parlati sulla superficie della terra. Come tutte le istituzioni umane, la lingua è troppo variabile ed elusiva per essere etichettata con

sicurezza assoluta. Anche se operiamo con una serie di tipi minuziosamente distinti possiamo star certi che molte delle lingue che considereremo avranno bisogno di una certa potatura prima di entrare nei nostri schemi. … le lingue, muovendosi lungo strade diverse, hanno manifestato la tendenza a convergere

verso forme simili”.

Altra considerazione fondamentale, ancora con le parole di Sapir (op. cit., p. 126):

“Ogni lingua può e deve esprimere le relazioni sintattiche fondamentali, anche se nel suo vocabolario non si trova alcun affisso. Da ciò traiamo la conclusione

che ogni lingua è una lingua dotata di forma. Si intende che, a parte l’espressione delle pure relazioni, una lingua può essere ‘senza forma’, cioè, senza forma nel senso (meccanico e piuttosto superficiale) che essa non ha

l’ingombro di elementi non radicali … il cinese possiede una ‘forma interna’ nello stesso senso in cui si può dire che la possieda il latino, benché il cinese sia

esteriormente ‘informe’, mentre il latino è esteriormente ‘formale’”.

Su un piano tipologico, con riferimento alla strutturazione della parola, è possibile contrapporre le lingue di tipo isolante a lingue che esibiscono altri tipi morfologici, a partire da quello incorporante e includendo i tipi agglutinante, fusivo.La tipologia della ‘parola’ si manifesta come un continuum di strategie differenti, i cui estremi sono rappresentati dal tipo isolante e da quello incorporante.

Con ciò, facciamo appello ad un criterio di classificazione morfologica che ha avuto, tra i promotori nel secolo XIX August Wilhelm von Schlegel (1767-1845), Wilhelm von Humboldt (1767-1835), August Schleicher (1821-1868) e nel primo Novecento lo stesso Edward Sapir.

Vediamo i diversi tipi morfologici noti per le lingue del mondo.

Proprietà rilevanti per definire i tipi sono, come indicato da Sapir, due parametri fra loro combinabili:

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. Indice di sintesi: valuta il numero di morfemi che è possibile individuare entro una parola.

. Indice di fusione: valuta il grado di difficoltà con cui è possibile segmentare una parola; è dunque espressione del livello di trasparenza dei confini tra i morfemi e dei contenuti espressi da ciascun morfema.

Logicamente possibili sono, a priori, quattro tipi, dati dal combinarsi dei due criteri sopra citati:

1) Lingue le cui parole sono costituite da un unico morfema esprimente un unico significato,

2) Lingue le cui parole sono costituite da un unico morfema esprimente più significati,

3) Lingue le cui parole sono costituite da più morfemi ciascuno dei quali esprime un unico significato,

4) Lingue le cui parole sono costituite da più morfemi ciascuno dei quali esprime più significati.

Dei quattro, il tipo 2 è inesistente; i tipi linguistici concretamente ed effettivamente noti sono i seguenti: tipo isolante (1), tipo agglutinante (3), tipo fusivo (4, con il sottotipo detto introflessivo), tipo polisintetico/incorporante (4).

. Con tipo isolante si intende una lingua che presenta parole invariabili, prive di struttura interna, monomorfemiche e tendenzialmente monosillabiche, con indice di sintesi molto basso (pari a 1:1) e con indice di fusione nullo (data l’assenza di confini interni alla parola).In lingue annoverabili in questo tipo (come cinese e vietnamita quali esempi altamente rappresentativi) gli elementi lessicali, invariabili, vedono determinata sia la classe lessicale a cui appartengono, sia la loro relazione con altre parole in base alla posizione essi che occupano entro la frase. Nelle lingue di tipo isolante, i significati grammaticali (quali ad esempio tempo e aspetto verbale, numero, etc.) sono espressi non da morfemi legati, bensì da altri elementi lessicali autonomi.

Il cinese, ad esempio, ha un medesimo ideogramma e una stessa parola per esprimere il verbo e il nome (hua “dipingere” e “quadro”), grazie al processo della conversione (cfr. anche ingl. N bank e V to bank, Agg. dry e V to dry). L’ordine dei

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costituenti frasali è molto rigido e dà informazioni sulle relazioni grammaticali (ad es. il genitivo precede sempre il nome a cui si riferisce; l’aggettivo svolge funzione di predicato o di aggettivo a seconda che segua - ma hsiao “il cavallo (è) piccolo”- o preceda il nome - hsiao ma “il piccolo cavallo”). Mancano la flessione nominale (ad esempio le categorie grammaticali di genere e numero sono espresse attraverso mezzi lessicali, mediante parole autonome indicanti “femmina”, “maschio”, “molti”) e quella verbale (nel verbo la persona è indicata tramite un pronome; l’espressione del tempo è affidata ad avverbi, come “presto” per il futuro; particelle definiscono la dimensione aspettuale: le perfettivo, zhe imperfettivo, guo perfetto).

Si noti ad esempio in cinese:

who mai le yi ben shu

“io” “comprare” PASSATO “uno” CLASSIF. “libro”

e in vietnamita (lingua mon-khmer della famiglia austroasiatica):

tȏi doch sách

“io” “leggere” “libro”.

. Al polo opposto rispetto al tipo isolante, nelle lingue attribuibili al tipo polisintetico (come l’eschimese siberiano e il groenlandese) la parola è polimorfemica, vede la presenza di più morfemi lessicali e di molti morfemi grammaticali (l’indice di sintesi è basso) e la relazione tra elementi retti ed elementi reggenti viene ottenuta incorporando l’oggetto nel verbo. Questa somma di informazioni, in un qualunque altro tipo linguistico, richiederebbe di norma di essere espressa da un’intera frase.Talora il tipo polisintetico viene distinto dal tipo incorporante (E. Sapir non condivide tale distinzione), in cui una sola parola vede giustapposti morfemi di natura eminentemente lessicale.Una ‘parola’ in una lingua incorporante - quale il nahuatl (lingua uto-azteca merid.) o il ciukci (lingua paleosiberiana) - corrisponde in un qualunque altro tipo ad una struttura frasale.

Si veda, ad esempio, nello yup’ik siberiano:

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angya ghalla ng yug tuq

“barca” - ACCR. - “comprare” - DESID. - III sg.“lui vuole comprare un barca grande”

e in groenlandese occidentale (una varietà di eschimese):

illu mi nii(p) puq

“casa” - III sg. - “è in” - III sg.“(egli) è a casa sua”,

oppure:

ippasaq tikip-put aqagu-lu ikinnguta-at tiki-ssa-pput

“ieri” “arrivare”-IND.-III pl. “domani”-“e” “amici”-III pl. “arrivare”-FUT-IND.-III pl.“Sono arrivati ieri e i loro amici arriveranno domani”.

In una lingua incorporante come il nahuatl posso avere:

ni naka qua

“io” - “carne” - “mangio”“io mangio carne”

ma si pensi anche a composti inglesi NV quali (to) babysit, (to) horseride.

. Le lingue di tipo agglutinante (quali turco, finlandese, ungherese), invece, prendono il nome dalla tendenza ad agglutinare morfi grammaticali ad un (unico) morfo lessicale. L’indice di fusione è alquanto basso e la parola è facilmente segmentabile nelle proprie componenti; l’indice di sintesi è invece medio-alto.Le parole sono tendenzialmente polimorfemiche e ciascun morfo, in genere, esprime un solo morfema (morfi monofunzionali); l’ordine dei morfemi è lineare ed alta è la trasparenza costitutiva.

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Si noti ad esempio in turco:

el - ler - imiz - den “dalle nostre mani”

“mano” - PL. - “nostro” - “da” (Abl.).

Si consideri la flessione del sostantivo turco adam “uomo”:

Sing. Pl.Nom. adam Nom. adam-larGen. adam-in Gen. adam-lar-inDat. adam-a Dat. adam-lar-aAcc. adam-i Acc. adam-lar-iAbl. adam-dan Abl. adam-lar-danLoc. adam-da Loc. adam-lar-da

e quella plurale di el “mano”:

Pl.Nom. el-lerGen. el-ler-inDat. el-ler-eAcc. el-ler-iAbl. el-ler-denLoc. el-ler-de

in cui si noti l’allomorfia del morfema di plurale, che si presenta come -lar o come -ler in funzione del vocalismo del morfo lessicale (è il fenomeno dell’armonia vocalica, che assume funzione morfologica).

. Le lingue di tipo fusivo (con Edward Sapir, che preferisce questa designazione a ‘flessivo’) presentano una morfologia non necessariamente lineare ma ad incastro e spesso non trasparente, che prevede anche la modifica dell’elemento radicale (‘flessione interna’, rappresentata da apofonia quantitativa, qualitativa, metafonia, …), come accade nelle lingue indoeuropee. I morfi sono in genere cumulativi, poiché veicolano più informazioni morfosintattiche (scarsa, se non assente, è la biunivocità):

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.ingl. cat ~ cat-s, lat. nom. sing. amico-s (> amicu-s), it. (io) lessi (< legg-si) con morfemi grammaticali in posizione lineare;.ingl. foot ~ feet con segno ‘opaco’ creatosi in diacronia (dall’ant. ingl. sing. fōt ~ pl. fōt-i > fōt ~ foet-i con metafonia > medio ingl. sing. fōt ~ pl. foet con apocope della vocale finale > sing. foot ~ pl. feet ed esito fonetico u, i: che si presta a ‘rappresentare’ la differenza funzionale tra singolare e plurale);.verbi forti dell’inglese, con apofonia qualitativa (Ablaut): see ~ saw ~ seen; shake ~ shook ~ shaken;.verbi forti del tedesco, con apofonia qualitativa (Ablaut): brechen ~ brach ~ gebrochen; nehmen ~ nahm ~ genommen.

. Sottotipo del tipo fusivo è considerato quello introflessivo, che caratterizza la morfologia detta ‘a pettine’ delle lingue semitiche. Anche in questo sottotipo i morfi sono polifunzionali e la ‘parola’ è costituita necessariamente dal combinarsi ‘a pettine’ di una componente consonantica (in genere trilittera, talora quadrilittera), che porta un significato lessicale generale e relativo ad un’area di significato, e di una componente vocalica, che porta valori morfologici.

Ad esempio, in arabo:

KTB si riferisce all’ambito della scrittura, ai suoi agenti, ai prodotti e ai luoghi, senza essere parola, diversamente da:kataba “scrisse”kitāb “libro” e kutub “libri”kātib “scrittore”kutubī “venditore di libri”.

Verso una definizione prototipica di ‘parola’

Se la tipologia della ‘parola’ si manifesta lungo un continuum che ha nel tipo isolante e in quello incorporante/polisintetico i propri estremi, allora nel definire ‘parola’ è utile accogliere una prospettiva non tanto categoriale e discreta, bensì scalare, graduale e prototipica. Una simile prospettiva non comporterà quindi una risposta ‘sì/no’ alla domanda se una certa sequenza fonica dotata di significato e di

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funzione morfosintattica sia o meno ‘parola’, ma sarà in grado di riconoscere proprietà ‘idealmente’ caratterizzanti questa entità e criteri diagnostici per valutare il grado di vicinanza o distanza dal modello, cioè dal prototipo, delle entità concretamente oggetto di analisi.

Possiamo ricorrere a criteri ‘formali’, che nel loro cooccorrere si rivelano utili a definire interlinguisticamente ‘parola’:

. pausabilità: i confini di parola sono punti di pausa potenziale entro l’enunciato ed è parola ogni sequenza che possa essere preceduta e/o seguita (mai interrotta) da una pausa.

. coesione tra le parti costituenti e non interrompibilità: è parola quella sequenza di elementi che esibisce una struttura interna stabile e coesa (ad es. ocul-ist-a, non *ist-ocul-a; ferro da stiro, non *stiro da ferro; lat. reg-e-b-ant-ur, non *reg-ant-e-b-ur; lat. res publica, non publica res; si noti ingl. bibl-ic-ist e bibl-ist-ic, ted. Feldarbeitsforschungsgruppe “gruppo di ricerca di lavoro sul campo” e Feldforschungsarbeitsgruppe “gruppo di lavoro di ricerca sul campo”; eschim. ino-rssu-anguag “persona-grande-piccola” = “piccolo gigante” e in-ungua-rssuag “persona-piccola-grande” = “grande nano”) e che non può essere interrotta da altro materiale linguistico (ad es. padrone, ex-padrone, padron-issim-o, non *pa-xxx-dron-e; lat. res publica, non *res mala publica; ingl. blackbird in quanto composto, non a black and yellow bird in quanto sintagma).Si ricordi che, tra gli affissi, quelli discontinui (circonfissi, transfissi) e gli infissi sono meno frequenti, interlinguisticamente, rispetto a suffissi e prefissi. A testimoniare la predilezione delle lingue storico-naturali per queste due modalità di affissazione sta una formazione come lat. nom.sg. is-te, che già in età arcaica ha eliminato la flessione interna (gen.sg. *eius-te, cfr. invece gen.sg. eius-dem rispetto a nom.sg. is-dem).

. mobilità posizionale: è parola una sequenza di elementi linguistici che possono essere spostati in blocco (ad esempio: Questa spremuta è imbevibile, Imbevibile è questa spremuta!, non *Bevibile questa spremuta è im, *Imbevi questa spremuta è bile; lat. Brutus Caesarem occidit oppure Caesarem occidit Brutus oppure Occidit Caesarem Brutus … tutte frasi ugualmente grammaticali).

. isolabilità o enunciabilità in isolamento: è parola una sequenza di elementi linguistici che può costituire, da sola, un enunciato (ad esempio: Bevi!, Imbevibile!).

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Sono questi tratti tipici delle lingue isolanti e che permettono di riconoscere il prototipo di ‘parola’ nella struttura caratterizzante questo tipo morfologico: una parola invariabile, non formata secondo regole (cioè non derivata, né composta, né flessa), recante il minimo di informazione grammaticale, dunque massimamente opaca, simbolica e non motivata, dunque non iconica e non ‘descrittiva’.

Scomporre le parole in morfemi:

Analizzare una parola equivale a individuare i confini tra gli elementi che la costituiscono, dunque una operazione di scomposizione.Il principio di scomposizione e quello di commutazione entro il significante di una parola, utilizzabili per individuare le unità della fonologia, permettono di isolare anche le unità minime della morfologia (e anche i segni minimi), i morfemi:

<fangoso> <fang-> + <-os-> + <-o>{fang-} base lessicale, ‘radice’{-os-} suffisso derivazionale{-o} suffisso flessionale (+ singolare + maschile)

{fang-}: fango, fanghiglia, infangare, parafango, …{-os-}: cremoso, legnoso, ferroso, …{-o}: bello, brutto, corto, …

- In base alla funzione che i morfemi rivestono nella parola, distinguiamo tre tipi:

1. morfemi lessicali (o radici), portatori di un contenuto lessicale, referenziale, che rinvia ad un significato concettuale a sua volta associabile a un contenuto extralinguistico, oggettivo, connesso alla descrizione del mondo; essi costituiscono una classe aperta, sempre arricchibile in unità, potenzialmente illimitata;

. morfemi grammaticali, portatori di un significato grammaticale, funzionale, dunque linguistico e interno al sistema; costituiscono una classe chiusa e quantitativamente limitata, difficilmente arricchibile in unità. A sua volta, un morfema grammaticale può svolgere due diverse funzioni:

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2. derivazionale (o derivativo): permette di derivare parole nuove da parole (o morfemi lessicali) esistenti; dunque, crea parole nuove entro il lessico e tende a cambiare la categoria lessicale del derivato rispetto alla forma da cui deriva. I morfemi derivazionali sono sottoposti a restrizioni combinatorie (combinabilità parziale) e presentano lacune di distribuzione. Sono comunque in numero tendenzialmente maggiore rispetto ai morfemi flessionali.

3. flessionale (o flessivo): permette di dar conto delle concrete forme flesse in cui un lessema si presenta ed esprime i valori (o tratti morfosintattici) inerenti alle categorie grammaticali obbligatorie operanti in un dato sistema linguistico. Non crea, dunque, parole nuove entro il lessico, bensì forme flesse, e non cambia la categoria lessicale della forme in questione. I morfemi flessionali (anche detti desinenze) non presentano restrizioni (combinabilità completa) né lacune distribuzionali, diversamente dai morfemi derivazionali, e sono in numero inferiore a quelli, andando a costituire una classe chiusa.

Pertanto:

- In base al grado di contenuto semantico, morfemi lessicali, derivazionali e flessionali sono da porsi entro un continuum che va dal massimo di concretezza (tipica degli elementi del lessico) al massimo di astrattezza (tipica delle desinenze). D’altra parte, il medesimo continuum oppone i morfemi lessicali in quanto minimamente relazionali ai morfemi flessionali, che sono relazionali al massimo grado.

- Tale gradiente opera anche in base all’inventario, poiché si passa da un inventario aperto, quello proprio del lessico, ad uno chiuso, assai difficilmente modificabile nelle proprie unità, e massimamente per i morfemi flessionali.Con riferimento a questi tre criteri (posizione, contenuto semantico, inventario), si può proporre la scala seguente:

LESSICO > DERIVAZIONE > FLESSIONE

Alcune considerazioni ulteriori in chiave differenziale:

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I morfemi grammaticali tendono ad assumere collocazione diversa rispetto al morfema lessicale a seconda del contenuto che esprimono. Di fatto, è una tendenza universale quella per cui il/i morfema/i derivazionale/i segua/no immediatamente quello lessicale e che quest’ultimo subisca prima la derivazione, poi la flessione; uno degli universali individuati da Joseph Greenberg, infatti, rileva che se derivazione e flessione seguono entrambe la radice, la derivazione si trova sempre tra radice e flessione.Il morfema flessionale, dunque, tende a ‘chiudere’ la sequenza e ad essere posizionalmente più lontano dal morfema lessicale: libr-ett-o, amor-os-o, ma ted. Kind-er-chen (con -chen suffisso diminutivo).In ciò si può vedere un riflesso della natura (generalmente) più astratta e relazionale delle desinenze, che hanno una collocazione più iconica, rispetto a quella degli affissi derivazionali, la cui contiguità rispetto al morfema lessicale è da correlarsi alla loro funzione di ‘creatori’ di nuove parole e dunque di ‘diretti’ modificatori del valore referenziale della radice.

Una distinzione importante: morfemi liberi e morfemi legati

Diciamo morfema libero (free) un segno minimo che può occorrere liberamente in una frase, in modo indipendente dalla combinazione con altri, mantenendo il proprio contenuto; un morfema libero può costituire una parola.Non necessariamente è libero un morfema lessicale; ciò avviene solo in presenza di parole monomorfemiche (ad es. ingl. eat, club, apple, who, where, ted. drei, Pferd, wenn, Rat, it. tre, due, chi, dove, anche, poi, dopo, bar, lat. et, enim, sal, hic) ed è quindi osservabile in lingue a forte tendenza isolante o in quelle che presentano fatti di isolatezza (l’italiano, ad esempio, tende ad avere parole - almeno - bimorfemiche: gatt-o, per-a, can-e).

Diciamo morfema legato (bound) un segno minimo che non può ricorrere isolatamente in una frase e che manifesta il proprio contenuto solo combinandosi con altri (un morfema libero o un altro morfema legato con cui vada a costituire una parola), a meno che non si trovi in un contesto metalinguistico-riflessivo (ad es. “Il suffisso derivazionale ‘os’ in italiano …”).I morfemi grammaticali, comunque, sono senza eccezione tutti morfemi legati (it. -os-, -mente, -Vbil-, -ist-, -o, -e, can-, gatt-, lav-; ingl. -s, -dom, -ed); iperonimicamente li chiamiamo affissi.

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Morfema … una nozione problematica:

. morfema = l’unità ‘emica’, astratta, appartenente al livello della forma, della langue; idealmente, il morfema è un’entità minima, atomica, non ulteriormente scomponibile, omogenea, rappresentata da un unico morfo (biunivocità) …

. morfo = l’unità ‘etica’, concreta, che si ottiene dalla scomposizione lineare, con riferimento al piano della sostanza, alla parole (v. Charles F. Hockett, Problems of Morphemic Analysis, “Language” XXIII, 1947, pp. 321-343).

Tale distinzione ‘risolve’ molti problemi dell’analisi morfologica, in primo luogo il fatto che una parola possa non essere segmentata in porzioni minori, che parole in relazione grammaticale possano non condividere (o condividere solo in parte) una forma fonologica, che una o più funzioni morfosintattiche non siano rappresentate da alcun significante, ...

Casi problematici:

Allomorfo: l’insieme delle varianti formali di un morfema, che corrisponde a tutte le realizzazioni concrete in cui un morfema può presentarsi, mantenendo il proprio valore funzionale o lessicale. Esempi di allomorfia:

. il morfema lessicale “muoversi in direzione di un luogo vicino a chi parla”, presente in italiano nell’infinito pres. venire, conosce cinque allomorfi in distribuzione complementare:{ven-} (venire, veniamo, …),{veng-}(vengo, vengono), {venn-} (venni, vennero), {verr-}(verrò, verrei), {vien-} (vieni, vieni!);

. il morfema derivazionale italiano che esprime la ‘potenzialità’ in rapporto al morfema lessicale a cui si unisce:{-abil-} (mangiabile, osservabile), {-ibil-} (leggibile, godibile), {-ubil-} (solubile);

. il morfema flessionale di plurale nominale inglese, con distribuzione complementare in funzione del suono finale di parola:{-s} s (cat-s, cup-s) dopo contoidi sordi non fricativi né affricati, {-s} z (dog-s, god-s, sister-s) dopo contoidi sonori non fricativi né affricati e dopo vocoidi, {-es} ɪz (hors-es, bush-es) dopo contoidi fricativi o affricati;

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. i casi di allomorfia caratterizzanti le lingue con armonia vocalica (turco -ler : -lar; -mak : -mek; ung. -ak : -ek).

Altre situazioni di non biunivocità:

Suppletivismo: il suppletivismo è una manifestazione di ‘imprevedibilità’ e di opacità morfologica a livello orizzontale ed è un fenomeno ‘minimamente’ naturale. Entro un paradigma si ha, sincronicamente, quando le forme concrete in cui è rappresentato un lessema sono fonologicamente non derivabili l’una dall’altra ma appaiono al parlante semanticamente correlate. Così per lat. sum/fui rispettivamente dalle radici per “essere” e per “essere per natura”; it. andare/vado; ancora, per basi lessicali quali it. sangue/ematico, calore/termico, vento/eolico, fr. œil/oculaire/opticien, cheval/équestre/hippique, père/paternel.Si distingue (ma non sempre è facile) tra suppletivismo debole (ad es. it. Arezzo/aretino; Rovigo/rodigino; ingl. better/best ma ‘forte’ rispetto a good) e suppletivismo forte (ad es. it. Chieti/teatino, Ivrea/eporediese, buono/migliore/ottimo; lat. fero/tuli; ingl. go/went; it. vado/andiamo; sp. voy/iré, fr. il va/j’irai/nous allons) in base al grado di somiglianza fonologica tra la base e il derivato.

Morfo cumulativo (o cumulo morfemico): caratterizza le lingue tipologicamente fusive, che hanno morfi polifunzionali esprimenti valori morfosintattici multipli senza che la scomposizione del significante in segmenti minori possa portare ad un’attribuzione di specifici valori funzionali. Così, ad es., per lat. est, it. è, fr. est, nonché per ted. ist e per ingl. is (lingua a bassa fusività); oppure per lat. multae curae (nom. pl. femm.) in cui -ae veicola per l’aggettivo e per il nome i valori morfosintattici di [+ NOMINATIVO + PLURALE + FEMMINILE].

Morfo amalgamato (o m. portemanteau ): è considerato un sottotipo del morfo cumulativo e si ha quando, come nelle preposizioni articolate fr. <au> da à + le; <du> da de + le, gli elementi costitutivi non possono essere più separati e divengono indivisibili.

Morfo zero: si ha quando una o più funzioni morfosintattiche operano ‘fattorialmente’ (ciò che impone di presupporre i morfemi corrispondenti operanti a livello di langue), ma non sono rappresentate in alcun modo a livello di significante, nella parole. Ciò accade, ad esempio, per plurali italiani quali città, università, caffè, specie, per ingl. sheep, per lat. (nom.sg.) sal (rispetto a gen.sg. sal-is), per lat. (voc.

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sg.) lupe (rispetto a lup-u-s < lup-o-s), per cèco (gen. pl.) slov (da *slov-ŭ, rispetto a nom. sg. slovo “parola”).

Si deve però rammentare quanto si legge in CLG (p. 105): “occorre sempre fare appello a due termini simultanei; non è Gäste che esprime il plurale intrinsecamente, ma l’opposizione Gast/ Gäste”, e ciò poiché anche “le signe zéro” veicola valori morfosintattici entro un sistema.

Morfo vuoto: è tradizionalmente esemplificato dal caso delle vocali tematiche degli idiomi romanzi, espresse da un significante che, però, non pare portare alcun contenuto grammaticale e relazionale con riferimento alle funzioni morfosintattiche. Le opinioni degli specialisti peraltro sono divergenti al riguardo, poiché vi è chi riconosce a questi morfi (almeno) la funzione di segnalatori di appartenenza categoriale; è quanto accade per il sistema verbale italiano, in cui si riconoscono tre vocali tematiche (a, e, i) caratterizzanti le tre coniugazioni (-are, -ere, -ire):

am-a-re am-a-te am-a-va-tecred-e-re cred-e-te cred-e-va-tedorm-i-re dorm-i-te dorm-i-va-te.

Per quanti accettano di considerare le vocali tematiche parte del morfema lessicale è importante la nozione di tema (ama-, crede-, dormi-), esito dell’unione tra radice e vocale tematica.

Morfo soprasegmentale (o superfisso o sopraffisso): le lingue verbali possono attribuire ai tratti soprasegmentali funzione fonologica e il variare di quelli può veicolare valori morfosintattici diversi.Ad esempio, in inglese la mobilità accentuale permette di distinguere parole appartenenti a classi lessicali diverse (Nome ~ Verbo), come nelle coppie minime record (N, piana) ~ (to) record (V, tronca), export (N, piana) ~ export (V, tronca).In shilluk (lingua nilotica del Sudan meridionale) il tono ha valore distintivo e, dunque, permette di opporre wat “casa” (con tono alto costante) ~ wat “case” (tono discendente).

Morfo sostitutivo (replacive morph): in prospettiva sincronica, sono inclusi in questa categoria i casi di flessione metafonetica, quali ingl. foot ~ feet, goose ~ geese, mouse ~ mice, man ~ men, tooth ~ teeth, nella misura in cui alla stabilità del componente consonantico si associa la variazione del vocalismo radicale, che

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assume proprietà articolatorie diverse che veicolano l’opposizione tra singolare e plurale.

Morfo sottrattivo: si ha in casi nei quali un valore morfologico si manifesta attraverso la cancellazione di parte del significante. Ad esempio, diversamente da quanto accade nel tedesco standard, in un dialetto dell’Assia il plurale di hond “cane” è hon (v. anche infra).

Anche la nozione di morfema, dunque, appare problematica per quanto concerne i fenomeni che attengono al rapporto tra dimensione formale e controparte semantica dei morfemi (non biunivocità) e di cui sono testimonianza i morfi cumulativi, i morfi amalgamati, i morfi sostitutivi, i morfi zero, i morfi vuoti ...La nozione di morfema, però, è problematica anche per quanto concerne la posizione segmentale e distribuzionale dei morfemi, come dimostrano - eccezion fatta per suffissi e prefissi - i diversi tipi di affissi noti nelle lingue del mondo: circonfissi, infissi, transfissi, sopraffissi.

Scala di morfematicità: un morfema ‘ottimale’ dovrebbe avere le seguenti proprietà (v. G. Berruto, Considerazioni sulla nozione di morfema, in M. Berretta et alii [edd.], Parallela IV. Morfologia, Tübingen, G. Narr, 1990, pp. 17-28):

. mostra un significato ben riconoscibile (manifestazione di significato)

. è un ‘pezzo’ di significante, materialmente percepibile (manifestazione di significante). non presenta alternanze allomorfiche (allomorfia). è linearmente compatto e non interrotto, è continuo (linearità). è concatenativo e additivo e si aggiunge giustapponendosi ad altri (concatenazione additiva). è isolabile segmentalmente come sequenza di foni (isolabilità segmentale). non dà luogo a fusione con altri morfemi attigui e presenta confini ben individuabili (separabilità). ha una forma fonologica ben definita e specifica (definibilità della forma fonologica). corrisponde solo e sempre a un significato e un significato corrisponde sempre e sempre al morfema (biunivocità). non ammette significati plurimi in base al contesto di occorrenza (polisemia). non cumula su di sé significati o valori plurimi (accumulo di significati)

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. ricorre in più contesti, unito ad altri morfemi diversi, ed è riusabile (occorrenza multipla).

Modelli dell’analisi morfologica

Charles F. Hockett, Two models of grammatical description, “Word” X, 1954, pp. 210-234.

“… yet we have no completely adequate model”

MODELLO ENTITA’ E DISPOSIZIONI (IA “Item and Arrangement”): basato sui morfemi e

sul loro concatenarsi in combinazioni sempre più complesse.

(art. cit., p. 212): “The essence of IA is to talk simply of things and the arrangements in which

those things occur. One assumes that any utterance in a given language consists wholly of a

certain number of minimum grammatically relevant elements, called morphemes, in a certain

arrangement relative to each other. The structure of the utterance is specified by stating the

morphemes and the arrangement. The pattern of the language is described if we list the morpheme

and the arrangements in which they occur relative to each other … to cover the phonemic shapes

which appear in any occurrent combination”

(art. cit., p. 214): “A linguistic form is either SIMPLE or COMPOSITE. A simple form is a

MORPHEME. A composite form consists of two or more IMMEDIATE CONSTITUENTS standing in a

CONSTRUCTION and forming a CONSTITUTE. Constituents and construction recur in other

composite forms (save for an occasional unique constituent). Each IC (= immediate constituent)

occupies a certain POSITION in the construction; each is the PARTNER of the other(s)”

“The grammar, or grammatical system, of a language is (1) the morphemes used in the language,

and (2) the arrangements in which these morphemes occur relative to each other in utterances”

(art. cit., p. 215): “A morpheme may appear in more than a single phonemic shape. A single shape

of a morpheme is a MORPH; the various morphs which are the shapes or REPRESENTATIONS of one

and the same morpheme are its ALLOMORPHS. The alternations in shape of a morpheme are

predictable in terms of the environments in which it occurs … This necessitates a definition of

‘environment’: the environment of a morpheme-occurrence is the setting of that occurrence,

insofar as that setting can be described in purely structural (i.e., nonsemantic) terms”

Eugene A. Nida, “Morphology. The Descriptive Analysis of Words” (Ann Arbor, 1946 I ed.)

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1) Le forme che hanno una distintività semantica comune (‘a common semantic

distinctiveness’) e un’identica forma fonemica (‘an identical phonemic form’) in tutte le

loro occorrenze costituiscono un solo morfema

2) Le forme che hanno una distintività semantica comune (‘a common semantic

distinctiveness’), ma una forma fonemica differente (cioè con riguardo ai fonemi o al loro

ordine), possono appartenere a uno stesso morfema, purché la distribuzione delle

differenze formali sia definibile fonologicamente

3) Le forme che abbiano una comune distintività semantica (‘a common semantic

distinctiveness’), ma che differiscono nella forma fonemica in modo che la loro

distribuzione non possa essere definita fonologicamente appartengono a un unico morfema

se sono in distribuzione complementare alle seguenti condizioni: a) se sono forme che

appartengono alla stessa classe morfologica; b) se riguardano parole diverse da quelle

‘regolari’ …

4) Una differenza formale esplicita in una serie strutturale costituisce un morfema se in ogni

membro di questa serie la differenza formale esplicita e la differenza formale zero sono gli

unici tratti significativi per distinguere una unità minimale di distintività fonetico-

semantica

5) Le forme omofone sono da considerarsi come appartenenti a uno stesso morfema o a

morfemi differenti sulla base delle seguenti condizioni: a) le forme omofone con significati

chiaramente differenti costituiscono morfemi differenti; b) le forme omofone con

significati collegati appartengono a uno stesso morfema se le classi di significato sono

accompagnate parallelamente da differenze di distribuzione

6) Un morfema è isolabile se ricorre nelle seguenti condizioni: a) in isolamento; b) in

combinazioni multiple in almeno una delle quali l’unità con cui si combina ricorra in

isolamento o in altre combinazioni con costituenti non unici; c) in una singola

combinazione, purché l’elemento con cui ricorre appaia anche in isolamento oppure in

altre combinazioni con costituenti non unici.

MODELLO ENTITA’ E PROCESSI (IP “Item and Process”): basato sui morfemi e attento ad

individuare le regole che, a partire da un morfema soggiacente (underlying form), permettono di

dar conto di tutte le variazioni formali in cui questo appare in una data lingua.

Stephen R. Anderson, “Amorphous Morphology”, Cambridge 1992, p. 68): “If we accept the

evidence that the range of morphological possibilities in natural languages include some processes

that cannot properly be represented as the addition of an affix, we must conclude that a general

morphological theory should admit both affixional and non-affixional rules. Since a process-based

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approach (scil. IP) naturally accomodates affixation, but not viceversa, the alternative we should

prefer is to explore a theory of morphological processes”.

(Ch. F. Hockett, art.cit., pp. 227-228): “A linguistic form is either SIMPLE or DERIVED. A simple

form is a ROOT. A derived form consists of one or more UNDERLYING FORMS to which a PROCESS

has been applied. The underlying forms and the process all recur (save for occasional uniqueness)

in other forms. The underlying form or forms is (or are) the IMMEDIATE CONSTITUENT(S) of the

derived form, which is also called a CONSTITUTE; each underlying form is said to occupy a given

POSITION”

. le vocali tematiche dell’italiano e Il modello IP

Regola di cancellazione di vocale (RCV)

V [- accent.] → Ø/ - + V

I sg.

teme allomorfo soggiacente

+ o aggiunta morfo I sg.

teme + o disposizione risultante

temØ + o applicazione della RCV

temo forma flessa

II pl.

teme allomorfo soggiacente

+ te aggiunta morfo II pl.

teme + te disposizione risultante

non si applica

temete forma flessa

. un caso di ‘morfo sottrattivo’ in francese

Agg. M Sg. Agg. F Sg.

<plat> /pla/ <platte> /plat/

<frais> /frε/ <fraiche> /frεʃ/

<laid> /lε/ <laide> /lεd/

MODELLO LESSEMA E PARADIGMA (WP “Word and Paradigm”): non richiede

scomposizione morfemica in quanto è basato sul lessema.

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(Ch.F. Hockett, art. cit., p. 210): “the traditional framework for the discussion of Latin, Greek,

Sanskrit … a frame of reference”

Geert Booij, Inherent versus contextual inflection and the split morphology hypothesis, in G. Booij

- J. Van Marle (eds.), Yearbook of Morphology 1995, Dordrecht, Kluwer, 1996, 1-16:

“Two types of inflection should be distinguished, inherent and contextual inflection. Inherent

inflection is the kind of inflection that is not required by the syntactic context, although it may

have syntactic relevance. Examples are the category of number for nouns, comparative and

superlative degree of the adjective, and tense and aspect for verbs. Other examples of inherent

verbal inflection are infinitive and participles. Contextual inflection, on the other hand, is that kind

of inflection that is dictated by syntax, such as person and number markers on verbs that agree

with subjects and/or objects, agreement markers for adjectives, and structural case markers on

nouns”.

Joseph H. Greenberg, Some universals of grammar with particular reference to the order of

meaningful elements, in Id. (ed.), Universals of human language, Cambridge (Mass), 1963, 73-

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. univ. 28: se tanto la derivazione quanto la flessione seguono il radicale, o se esse precedono

entrambe il radicale, la derivazione si trova sempre tra il radicale e la flessione.

ted. Kind-er-chen

ol. held (sg.) held-en (pl.) held-en-dom

ol. scholier-en-dom

ingl. bound-ed-ness, lov-ing-ness.

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