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a c i t e l aker KA UBANOKO, LA NOSTRA CASA · 2020. 6. 23. · Warao costituiscono una delle...

Date post: 31-Jan-2021
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«Odissea Warao» / 1 a puntata: reportage dal centro autogestito dei migranti venezuelani KA UBANOKO, LA NOSTRA CASA BRASILE-VENEZUELA MC A B oa Vista. Estrema pe- riferia della città. Su- perata una scuola mi- litare, arriviamo da- vanti a uno spazio chiuso da reti e muri. Varcato un cancello semi divelto, abbiamo subito l’impressione di entrare in un piccolo mondo a parte. Alla nostra destra si erge un ex palazzetto sportivo costituito da due gradinate che circondano lo spazio di gioco in cemento, il tutto coperto da una tettoia di lamiera. Notiamo subito che, sui gradini, sono accumulate, borse, valigie, asciugamani e in- dumenti vari, utensili, suppellet- tili e oggetti casalinghi di ogni tipo. Tutto è posizionato con grande ordine. A terra, a fianco delle gradinate, ci sono dei ma- terassi e anche un vecchio letto. Alcune amache sono appese alle colonne della struttura. Sul terreno da gioco è stata siste- mata qualche tenda da campeg- gio. Il tutto ricorda un grande accampamento. Ai lati della struttura sono stesi dei teloni con l’inconfondibile scritta e logo dell’Unhcr-Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Nella capitale dello stato di Roraima (Brasile), alcune centinaia di migranti venezuelani di etnia warao, rifiutati dalle agenzie Onu, si sono orga- nizzati dal basso e hanno creato un’esperienza unica di convivenza e resilienza. A fianco dei mi- granti non indigeni e superando varie difficoltà. di MARCO BELLO e PAOLO MOIOLA Yakera! L a parola - «Yakera» - ci è subito piaciuta. Facile da pronunciare. Facile da ricordare. E, soprattutto, portatrice di un significato positivo. Gli indigeni warao la utilizzano in molte circo- stanze: per dire «va bene», ma anche per salutare. I Warao sono l’etnia del delta dell’Orinoco, in Venezuela, che sta lasciando le proprie comunità per rifugiarsi in Brasile. Abbiamo percorso un pezzo del loro viaggio di mi- grazione (Boa Vista, Paca- raima, Santa Elena de Uairén, Manaus) e visitato i centri che li ospitano per cercare di ca- pire dalla loro viva voce il per- ché di una scelta difficile, spesso drammatica. In questa indagine ci hanno aiutato i missionari della Con- solata che da tempo lavorano con i Warao, sia in Venezuela che in Brasile. M.B. - P.M. Y a k e r a ! I W a r a o , d a l l e p a l a f i t t e a l l e c i t t à © Paolo Moiola Proseguiamo quasi in punta di piedi, cercando di non invadere gli spazi con le nostre videoca- mere e fotocamere, come troppo spesso fanno i giornali- sti. Però non possiamo diven- tare invisibili. Qua e là tanti bam- bini si rincorrono e giocano. Pa- recchi di loro si fermano a guar- darci incuriositi. Mentre nei pressi di alcuni alberi ci sono dei focolari accesi con pignatte annerite appoggiate sopra. Di fronte a noi e ai lati varie ca- sette, meglio dire baracche, rea- lizzate con materiali di recupero, cartoni, assi di legno, lamiere, danno al luogo un’aria di villag- gio. Ci sono cartelli scritti a mano: «Si riparano biciclette», «Lavaggio». C’è pure un nego- zietto che vende piccole cose di utilità quotidiana, proprio come si fosse in un quartiere. Siamo a Ka Ubanoko, che - ci viene spiegato - nella lingua dei Warao significa «dormitorio co- mune». Si tratta di un centro sportivo mai terminato e poi ab- bandonato, del quale sono rima- ste in piedi diverse costruzioni tra cui un palazzetto, una pi- scina e altre strutture. Ci accompagna padre Oscar 10 gennaio ~ febbraio 2020 MC
Transcript
  • «Odissea Warao» / 1a puntata:reportage dal centro autogestito dei migranti venezuelani

    KA UBANOKO,LA NOSTRA CASA

    BRASILE-VENEZUELAMC A

    Boa Vista. Estrema pe-riferia della città. Su-perata una scuola mi-litare, arriviamo da-vanti a uno spaziochiuso da reti e muri. Varcato uncancello semi divelto, abbiamosubito l’impressione di entrarein un piccolo mondo a parte. Alla nostra destra si erge un expalazzetto sportivo costituito dadue gradinate che circondanolo spazio di gioco in cemento, iltutto coperto da una tettoia dilamiera. Notiamo subito che, suigradini, sono accumulate,borse, valigie, asciugamani e in-dumenti vari, utensili, suppellet-tili e oggetti casalinghi di ognitipo. Tutto è posizionato congrande ordine. A terra, a fiancodelle gradinate, ci sono dei ma-terassi e anche un vecchio letto.Alcune amache sono appesealle colonne della struttura. Sulterreno da gioco è stata siste-mata qualche tenda da campeg-gio. Il tutto ricorda un grandeaccampamento. Ai lati dellastruttura sono stesi dei telonicon l’inconfondibile scritta elogo dell’Unhcr-Acnur, l’Altocommissariato delle NazioniUnite per i rifugiati.

    Nella capitale dello stato di Roraima (Brasile), alcune centinaia di migranti venezuelani di etniawarao, rifiutati dalle agenzie Onu, si sono orga-nizzati dal basso e hanno creato un’esperienzaunica di convivenza e resilienza. A fianco dei mi-granti non indigeni e superando varie difficoltà.

    di MARCO BELLO e PAOLO MOIOLA

    Yakera!

    La parola - «Yakera» - ciè subito piaciuta. Facileda pronunciare. Facileda ricordare. E, soprattutto,portatrice di un significatopositivo. Gli indigeni waraola utilizzano in molte circo-stanze: per dire «va bene»,ma anche per salutare. I Warao sono l’etnia del deltadell’Orinoco, in Venezuela,che sta lasciando le proprie comunità per rifugiarsi in Brasile. Abbiamo percorso unpezzo del loro viaggio di mi-grazione (Boa Vista, Paca-raima, Santa Elena de Uairén,Manaus) e visitato i centri cheli ospitano per cercare di ca-pire dalla loro viva voce il per-ché di una scelta difficile,spesso drammatica. In questa indagine ci hannoaiutato i missionari della Con-solata che da tempo lavoranocon i Warao, sia in Venezuelache in Brasile.

    M.B. - P.M.

    Yakera! I Warao, dalle pal

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    Proseguiamo quasi in punta dipiedi, cercando di non invaderegli spazi con le nostre videoca-mere e fotocamere, cometroppo spesso fanno i giornali-sti. Però non possiamo diven-tare invisibili. Qua e là tanti bam-bini si rincorrono e giocano. Pa-recchi di loro si fermano a guar-darci incuriositi. Mentre neipressi di alcuni alberi ci sonodei focolari accesi con pignatteannerite appoggiate sopra. Di fronte a noi e ai lati varie ca-sette, meglio dire baracche, rea-lizzate con materiali di recupero,cartoni, assi di legno, lamiere,danno al luogo un’aria di villag-gio. Ci sono cartelli scritti amano: «Si riparano biciclette»,«Lavaggio». C’è pure un nego-zietto che vende piccole cose diutilità quotidiana, proprio comesi fosse in un quartiere.Siamo a Ka Ubanoko, che - civiene spiegato - nella lingua deiWarao significa «dormitorio co-mune». Si tratta di un centrosportivo mai terminato e poi ab-bandonato, del quale sono rima-ste in piedi diverse costruzionitra cui un palazzetto, una pi-scina e altre strutture.Ci accompagna padre Oscar

    10 gennaio ~ febbraio 2020MC

  • Liofo, missionario della Conso-lata congolese, che da alcunimesi segue la gente di KaUbanoko. In questo spaziooccupato e autogestito(come capiremo in seguito)vivono oggi in 639, tutti mi-granti venezuelani, di cui150 famiglie indigene,quasi tutte warao, ma an-che altre etnie (E’ñepa, Ca-riña, Pemon), e 76 famiglienon indigene. Padre Oscar ci guida dentroKa Ubanoko, verso una zonadi tende piantate sotto unatettoia di cemento. Anche quiogni angolo è diventato un fo-colare domestico nel quale viveuna famiglia, fianco a fianco conla famiglia vicina. Il missionarioconosce tutti, saluta, fa battutein portoghese e gli viene rispo-sto in spagnolo.

    FIORELLA, MEDICO E LEADERPadre Oscar ci conduce da Fio-rella Ramos, medico internista,indigena warao, «coordinatrice»

    A MC

    VENEZUELA

    B R A S I L E

    GUYANA

    GUYANAFRANCESE

    SURINAME

    Santa Elenade Uairén

    Boa Vista

    Pacaraima

    Manaus

    KA UBANOKO

    PINTOLANDIA

    © Kreative Zo

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    11gennaio ~ febbraio 2020 MC

    Qui sopra: la mappa mostra le tappe del reportage (in rosso è segnata quella di questa puntata). | In alto: donna warao nel campo di Ka Ubanoko, a Boa Vista.

    *

    1A TAPPA

  • VENEZUELA

    B R A S I L E

    GUYANA

    GUYANAFRANCESE

    SURINAME

    TRINIDAD &TOBAGOCaracas

    Georgetown

    Santa Elenade Uairén

    Tucupita

    Boa Vista

    Pacaraima

    Paramaribo

    ManausSantarem

    Cayenne

    Belém

    Fortaleza

    Natal

    São Luis

    Deltadell’Orinoco

    Rio delle Amazzoni

    Rio delle Amazzoni

    di Ka Ubanoko. Parla spigliataFiorella, ha 37 anni e due figli. InVenezuela era direttrice di unospedale, e in contemporaneafaceva visite private. «Conquello che guadagnavo riuscivoappena a comprare da man-giare, intanto correvo da un la-voro all’altro, senza poter starecon la mia famiglia e non re-stava nulla per aiutare i miei ge-nitori. Nel 2018 ho deciso di par-tire, ma ci ho messo un anno aprepararmi psicologicamente ea mettere da parte i soldi». È

    stata una scelta difficile, con-fessa Fiorella, lasciare i parenti,parte della famiglia, un buon la-voro, il proprio paese. La sua èperò una storia condivisa conmolti connazionali. L’8 gennaio 2019 Fiorella partecon la sorella e Fernando, il fi-glio più piccolo. Il viaggio dalVenezuela al Brasile non è peri-coloso né troppo caro, anche seè molto stancante e, se non hai idocumenti in regola, devi se-guire strade alternative per pas-sare la frontiera.

    Fiorella e il suo gruppo arrivanoa Boa Vista, capitale dello statobrasiliano più settentrionale, Ro-raima, la sera del giorno dopo.«Mio fratello - racconta - stavavivendo nell’abrigo (rifugio lette-ralmente, campo profughi inquesto caso, ndr) chiamato Pin-tolandia, per cui speravamo dipoterci sistemare lì, ma ci dis-sero che non potevamo entraresenza permesso. Ci accam-pammo non lontani per lastrada, dove c’era già una fami-glia indigena. Abbiamo vissuto19 giorni riparandoci sotto le tet-toie di una struttura locale. Inquel periodo abbiamo chiestoalmeno tre volte di entrare aPintolandia, ma non ci lascia-rono, dicendo che era pieno».

    * BRASILE-VENEZUELA

    In questa pagina: la mappamostra il percorso e le destinazioni dei migranti warao, dal deltadell’Orinoco, in Venezuela, a variecittà del Brasile. Un indigeno sulfiume con una canoa e, sullosfondo, le palafitte waraoe la foresta.

    *

    © Kreative Zo

    ne - Rivis

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    12 MC

  • MCA

    13gennaio ~ febbraio 2020 MC

    IWarao costituiscono una delle principali etnieindigene del Venezuela. Per numero infattisono il secondo gruppo più numeroso dopo iWayú (Guajiro). Secondo il censimento del2011, i Warao sarebbero 48.771, una cifra probabil-mente sottostimata. Il loro nome è un’autodeno-minazione che significa gente (arao) di canoa o, se-condo altri studiosi, gente delle terre basse. Gli in-digeni chiamano i non Warao hotarao, gente delleterre alte. Sia in un caso che nell’altro il significatodi Warao rimanda ai luoghi da essi abitati. Chesono i canali (caños) del delta dell’Orinoco nellostato Delta Amacuro e, dopo varie migrazioni, an-che le aree adiacenti della Guayana Esequiba (unterritorio conteso tra Guayana e Venezuela), non-ché gli stati venezuelani di Bolivar, Monagas e Su-cre. Conoscere l’ambiente naturale in cui vivono i Wa-rao è indispensabile per capire questo popolo. An-che se esso è cambiato e sta cambiando a causa deimutamenti climatici e dei disastri prodotti dal-l’uomo e anche se una parte consistente dei Waraosi è urbanizzata (soprattutto a Tucupita, capoluogodel Delta Amacuro) o è emigrata - non si sa se inmaniera stabile o temporanea - in Brasile.

    Come si diceva, la gran parte delle comunitàtradizionali dei Warao è posta lungo i canalidell’Orinoco. Questo fiume, che nasce nellacordigliera di Parima (massiccio della Guayana), hauna lunghezza di 2.140 chilometri e una portatad’acqua imponente, seconda soltanto a quella delRio delle Amazzoni. Prima di gettarsi nell’OceanoAtlantico, l’Orinoco forma un delta che raggiungeun’apertura di circa 400 chilometri. La vastità dellaregione deltica (circa 22.500 km2, poco meno dellaToscana) determina diversità tra le comunità waraoa causa dei maggiori o minori contatti con il mondonon indigeno (criollo) e delle diverse condizioni di

    ciascun microambiente. La vita è scandita dall’ac-qua. La stagione secca va da gennaio ad aprile, conmolti canali che diventano salmastri. La successivastagione delle piogge dura fino a settembre con unapiena (detta creciente) che sommerge coste e isoledel delta. Le case dei Warao - chiamate janoko, chesignifica il luogo della ja, l’amaca - sorgono lungo icanali, ma sono costruite su palafitte proprio peressere pronte a resistere alle maree. Per sopravvi-vere nel delta è necessaria una conoscenza precisadell’ambiente naturale, che comunque oggi risultameno gestibile e prevedibile di un tempo a causadei mutamenti prodotti da fattori antropici (inqui-namento delle acque fluviali e deforestazione, sututto). Le attività tradizionali dei Warao sono la pe-sca (in particolare del morocoto o pirapitinga e deigranchi), la caccia e la raccolta di frutti silvestri. Adesse si sono in seguito aggiunte alcune coltivazioniagricole, in primis quella del riso e poi la ColocasiaEsculenta della quale vengono mangiati sia i tuberi(bolliti oppure grigliati) che le foglie (come verdurecotte). La pianta autoctona per eccellenza è lapalma di moriche (conosciuta come palma di buritiin Brasile), una vera ricchezza della natura. Tutti isuoi componenti (foglie, frutti, semi, corteccia)sono infatti utilizzabili per fare prodotti di artigia-nato o come alimento. Dall’amido del moriche si ri-cava una farina (aru) che è alla base della dieta deiWarao.Come sempre accade per i popoli indigeni, la co-smovisione e la vita religiosa dei Warao sono diffi-cili da comprendere per i non indigeni. Quello chesi può affermare è che tradizione orale e mondomagico-religioso sono strettamente legati all’am-biente naturale in cui essi vivono. La presenza el’attività dei missionari sono cambiati nel corso deltempo, soprattutto in ambito cattolico. Dalla filoso-fia coloniale del «civilizzare l’indio selvaggio» si èpassati a interventi nel campo dell’istruzione edella salute, rispettando i valori indigeni.Negli ultimi anni, la situazione per le comunità wa-rao si è complicata a causa della presenza di variebande criminali che agiscono impunite lungo l’Ori-noco trafficando con la droga, la tratta delle donnee il contrabbando di benzina.

    Al momento, il futuro dei Warao non parepromettente. Molte comunità lungo l’Ori-noco sono state abbandonate o si sono spo-polate. Molti indigeni si sono urbanizzati, ma senzauna vera integrazione con i criollos. Altri sono emi-grati, ma si trovano a vivere in una condizione diisolamento e pura sopravvivenza. Una parte consi-stente dei Warao, popolo delle canoe, sembra dun-que aver perso per sempre la ragione prima delproprio nome.

    M.B. - P.M.

    Breve descrizione del popolo Warao

    Un futuro senza canoe?La gente delle canoe è nativa del delta dell’Orinoco. Oggi sono almeno 50mila,rappresentando la seconda etnia indigena del Venezuela.

    © Juan Carlos Greco

    Migrazioni | Popoli indigeni | Ambiente

  • Altre famiglie si uniscono e ilgruppo in strada arriva a con-tare 38 persone. «Usavamo i ba-gni di una stazione di benzinanon lontana, l’acqua la prende-vamo da un rubinetto a cui sipoteva accedere. Di giorno do-vevamo stare in un parco lì vi-cino seminascosti, mentre dinotte dormivamo sotto delle tet-toie. Mio fratello riusciva a por-tarci del cibo cotto da dentrol’abrigo». Del gruppo fa parte anche Ani-bal Pérez, un Warao della comu-nità di Mariusa. Tra lui, Fiorella esua sorella nasce un’intesa e itre, pensando al futuro, inizianoa scrivere un progetto di «Svi-luppo integrale», come lo defini-sce il medico. È l’embrione di KaUbanoko. «Nel progetto si pen-

    sava a un’organizzazione, siparlava di salute, educazione,economia e infrastrutture. È inquel periodo che conoscemmopadre Jaime Patias e Luis Ven-tura, entrambi della Consolata,che iniziarono ad appoggiarcicon alimenti e materiale per l’i-giene personale. Anche quellidell’Acnur venivano, ma dice-vano che non potevano acco-glierci nel centro». Intanto conti-nua ad arrivare gente dal Vene-zuela, e anche indigeni espulsida Pintolandia: «Eravamo ormai150 famiglie».

    MIRACOLO A BOA VISTAPoi accade una specie di mira-colo. «Un brasiliano informò ilcacique Wilson, uno di noi, chenon lontano da dove eravamo

    accampati c’era un grande spa-zio abbandonato, un club spor-tivo in rovina, dove avrebberopotuto sistemarsi molte per-sone». Un’avanguardia va a visitare ilposto. All’epoca è invaso da ar-busti ed erba alta. Vi sono na-scoste tre famiglie venezuelanenon indigene. Il centro è ancheluogo di passaggio di malviventie vi accadono cose strane. Mala decisione è ormai presa: Fio-rella e Anibal guidano il gruppoa prendere possesso di quelluogo. È il 3 marzo 2019, e perFiorella e i suoi sono ormai duemesi di vita trascorsi all’addiac-cio. Appena arrivati, i migrantiiniziano a ripulire l’intera area ea dividersi gli spazi. Fiorella e Anibal portano in que-

    * BRASILE-VENEZUELA

    14 gennaio ~ febbraio 2020MC

    In Venezuela,con quello cheguadagnavo riuscivoappena a comprareda mangiare.

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    Usciamo primadell’alba per andarea cercare nei rifiutilattine di alluminioda vendere.

    "In qualsiasi luogonoi siamo, nonsmetteremo maidi essere Warao.

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  • SOPRAVVIVERETorniamo verso il palazzetto vi-cino all’ingresso. Qui, sulle gra-dinate, hanno il loro «angolo»Alida Gomez e suo marito. Alida viene da Tucupita (capo-luogo del Delta Amacuro), è unasignora di una certa età, con trefigli grandi rimasti in Venezuela.A casa faceva l’insegnante, mapoi ha deciso di partire: «Il Ve-nezuela sta vivendo una situa-zione molto difficile in tutti gliambiti: economia, educazione,salute. Ho preso la decisionepersonale di venire in Brasileper aiutare la mia famiglia - ciconfida -. Speravo di poter tro-vare un lavoro rapidamente, mala realtà è ben diversa. Essereindigena, avere la nostra cul-tura, significa essere respinti intutti gli ambiti qui. Non abbiamol’appoggio di nessuno, siamosoli». Oggi Alida aiuta la comu-nità facendo la vice coordina-trice di Ka Ubanoko, ma la vita aBoa Vista è molto dura.«Usciamo prima dell’alba e an-diamo in giro a cercare rifiutiche si possono vendere, comele lattine di alluminio. Pren-diamo anche i vestiti in buonecondizioni. Mettiamo insiemepiù giorni di raccolta e ven-diamo il metallo. In questomodo guadagniamo qualchedecina di reais (la moneta brasi-liana, ndr) che ci serve per com-prare cibo. I vestiti recuperati lilaviamo con il cloro. Se ci ser-vono li usiamo, altrimenti li rega-liamo ad altre famiglie». In ef-fetti, in tutto Ka Ubanoko, inmezzo agli effetti personali por-tati dal Venezuela, si notanomolti oggetti di recupero, trovatinei cassonetti della città brasi-liana.Alida continua a descriverci lavita quotidiana nel campo: «I ba-gni sono senza alcuna privacy.Sono senza porte, e pure in-sieme alle docce. L’acqua chebeviamo è del filtro (ci sono duefiltri con tre rubinetti ciascuno,installati da Acnur, per oltre 600persone…, ndr). Per cucinare elavare usiamo l’acqua dell’ac-quedotto. Cuciniamo su fuochicon legna che recuperiamo ingiro. Occorre fare sempre atten-

    sto luogo il modello che ave-vano pensato nel progetto disviluppo e che avevano iniziatoad applicare dove erano accam-pati. «Già sulla strada avevamosperimentato questa organizza-zione. Anche perché erano ini-ziate ad arrivare donazioni daalcuni enti, ed è stato necessa-rio formare gruppi per evitareconflitti e soprusi».L’organizzazione si basa su uncoordinamento centrale conuna coordinatrice eletta, Fio-rella, e una vice coordinatrice,Alida Gomez, anch’essa Warao.Le famiglie sono divise ingruppi, normalmente secondola comunità di origine, chefanno capo a dei responsabilianch’essi eletti, detti cacique(«capo», nel mondo indigeno). Icacique sono cinque, di cuiquattro warao e una criolla(come vengono chiamati i nonindigeni). C’è poi un’organizza-zione per settore, tramite comi-tati, su tutto quello che è fonda-mentale per la comunità: educa-zione, pulizia, salute, alimenta-zione, sicurezza, sport, prote-zione del bambino e delladonna, infrastrutture. Eppure, la convivenza tra i varigruppi non è così facile comesembra. Tra gli abitanti di KaUbanoko talvolta scoppiano deiconflitti. «Da quando siamo qui,ci sono stati cinque scontri fisici.Quando avvengono, si cerca diregolarli tramite i cacique deigruppi di appartenenza dei sog-getti coinvolti - ci spiega Fiorella-. Alcuni capiscono, altri no. Inquesto caso siamo costretti adespellerli». A volte poi ci sonoincomprensioni tra indigeni enon indigeni, soprattutto acausa dell’inevitabile distanzaculturale. Fiorella ci mostra dove abita. Èun’abitazione improvvisata fattadi materiali di recupero, erettanella zona perimetrale del cen-tro sportivo, normalmente abi-tata dai non indigeni. Ci vive in-sieme a parte della sua famiglia.

    zione, perché qui ci sono moltemosche che portano malattie.Con la farina di grano facciamoarepas (delle specie di piadine,ndr). Mangiamo anche riso esalsiccia (wurstel di pessima fat-tura, ndr). Se abbiamo qualchesoldo in più, compriamo delpollo o altra carne. Chi ha amicio parenti a Pintolandia, ricevetalvolta del cibo avanzato daloro». Anche la lingua può essere unproblema. I venezuelani, indi-geni e non, parlano lo spagnolo(qui detto castellano, ndr), men-tre in Brasile devono imparare ilportoghese. Alida, che è qui daquasi un anno, ammette di ca-pirlo ma di non parlarlo.

    GLI «AMICI» DI KA UBANOKOKa Ubanoko è quindi unagrande realtà di migranti auto-gestita e autorganizzata. Nes-suna delle agenzie delle Na-zioni unite o delle grandi Ong,tantomeno il governo federale odello stato di Roraima, o la mu-nicipalità di Boa Vista, la control-lano e la gestiscono. Diversi entiintervengono con appoggi pun-tuali e specifici. Fiorella è moltobrava a tenere le relazioni e siera già fatta conoscere dalleistituzioni quando il gruppo eraaccampato sui bordi dellastrada. «Ci ha aiutato qualche istitu-zione civile e religiosa - ricordalei -. Come la pastorale migrantidella diocesi, le suore scalabri-niane, i missionari della Conso-lata, la Caritas. E Ong come Me-dici senza frontiere e Adra». Poco appoggio è invece arri-vato da Acnur (i due purificatorigià citati) e Oim (Organizzazioneinternazionale per le migra-zioni). L’esercito brasiliano (chea Roraima controlla gli abrigosufficiali come Pintolandia), è in-tervenuto ripristinando l’energiaelettrica che il comune avevatolto e mettendo in sicurezza lapiscina (vuota) del centro spor-tivo.«Cerchiamo di coinvolgere al-cuni enti tramite progetti. I mis-sionari della Consolata, adesempio, sono attivi su un pro-getto di alimentazione, sia ge-

    In senso orario dal basso: AlidaGomez, Fiorella Ramos e LeanyTorres Moraleda, donne warao.

    *

    MCA

    15gennaio ~ febbraio 2020 MC

  • Boa Vista. L’indirizzo è Av. Benjamin Constant 968, nelcentro della città, capitale dello stato di Roraima. È unamodesta casa su un solo piano, resa facilmente ricono-scibile dal suo vivace color arancione e naturalmentedalla grande bandiera venezuelana che sventola sul pennoneposto nel giardinetto antistante l’entrata. A sorvegliare la sede consolare c’è una sola persona, una poli-ziotta brasiliana, seduta tranquillamente davanti a un tavolino alato della porta d’ingresso. All’interno ci sono due impiegate ealcune persone in attesa. Sulla vetrata che separa le addette dalpubblico è appeso un foglio che informa del piano Vuelta a la pa-tria: requisiti, documenti, condizioni. È un programma istituitodal governo di Caracas per tentare di far tornare a casa i mi-granti.Il console si chiama Faustino Torella Ambrosini. Ci accoglie concordialità ricordandoci subito le origini italiane: i suoi genitoriarrivarono in Venezuela dalla provincia di Avellino. Prima di di-ventare diplomatico insegnava storia all’Università Centrale delVenezuela, il principale ateneo pubblico del paese. È console ge-nerale del Venezuela a Boa Vista dal dicembre 2018, dopo un’e-sperienza analoga di cinque anni a Manaus. Boa Vista non è unametropoli come quest’ultima ma è importante perché dista sol-tanto 215 chilometri da Pacaraima, porta d’ingresso in Brasile permolti venezuelani (indigeni inclusi) che infatti si vedono ad ogniincrocio, nei rifugi ufficiali (abrigos) e in quelli improvvisati.

    Nello studio dove ci accomodiamo, accanto alla bandiera, ilritratto del presidente Maduro sta in mezzo a quelli, piùpiccoli, dell’eroe nazionale Simón Bolívar e di Hugo Chá-vez. Siamo qui per chiedere al console della migrazione dei Wa-rao, ma non possiamo non iniziare dalla situazione generale delpaese. Com’è?, domandiamo. «Difficile», risponde senza pen-sarci su un attimo. E aggiunge: «È la situazione che vivono ipaesi e i popoli che soffrono a causa di un embargo illegale im-posto da uno stato che si considera al di sopra di tutti gli altri. IlVenezuela è un paese la cui economia si fonda sul petrolio e con

    nerale sia per i bambini. Con Fée alegria (dei Gesuiti, ndr), ab-biamo lavorato a un progetto dieducazione, differenziato pluri-lingue, perché qui siamo di di-verse etnie e lingue nazionali».Ci sono stati problemi perchéKa Ubanoko non è un posto uffi-ciale, anzi, è un’occupazione il-legale, per cui molte attività nonsi possono realizzare sul posto,ma occorre appoggiarsi ad altrienti e luoghi. Come il progettodella Consolata che si svolge inun oratorio dei frati Cappuccini,poco distante.«Con la Caritas abbiamo prepa-rato un progetto di tipo econo-mico: un appoggio per produrreartigianato e per l’agricoltura». Ilprogetto fornisce la materiaprima e alcune donne confezio-nano prodotti artigianali che poivendono. Mentre nel secondocaso dovrebbe fornire gli at-trezzi per coltivare e le sementi,ma non è ancora partito.

    SPIRITUALITÀ MIGRANTESuperato un campo in terra bat-tuta usato per giocare a calcio opallavolo, ci spostiamo verso lazona centrale di Ka Ubanoko,dove tante piccole tende a iglùsono appoggiate su un pavi-mento e riparate da un soffittoin cemento che pare precario.Innumerevoli fili corrono datutte le parti con panni e vestiticolorati appesi ad asciugare.Qui incontriamo Leany TorresMoraleda, che coordina il comi-tato culturale e spirituale di KaUbanoko. Leany è una giovanemamma, 29 anni con una figliadi 8, originaria della comunità diNabasanuka (nel delta del rioOrinoco, ndr), dove la sua fami-glia è sempre stata impegnataal servizio dell’identità indigena.Suo papà e suo zio hanno rico-perto anche cariche politiche. È

    * BRASILE-VENEZUELALa voce del governo venezuelano

    «I Warao si spostanoperché nomadi»A Boa Vista, non c’è semaforo o incrociodove non ci sia un venezuelano. E gli indigeniwarao si notano anche di più. Nella capitaledi Roraima, abbiamo incontrato il consoledel Venezuela, per chiedergli i motivi di tantimigranti del suo paese e di tanti Warao perle strade delle città brasiliane.

    Qui sopra: veduta dell’ex palazzetto di Ka Ubanoko con alcunetende e con le gradinate utilizzatecome «armadio» dei poveri averidei migranti. | In basso: FaustinoTorella Ambrosini, console generale del Venezuela a Boa Vista.

    *

    16 gennaio ~ febbraio 2020MC

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    oiola

  • MCA

    la valuta che ottiene dalla sua vendita compra ali-menti e medicinali, come anche materie prime e pro-dotti industriali di uso comune. Non avendo liberoaccesso al mercato estero e ai nostri conti bancari indollari, per il cittadino venezuelano la quotidianità siè fatta molto complicata».Anche per la popolazione dei Warao. Il console parladi un numero di indigeni attorno alle 69mila per-sone, mentre l’ultimo censimento - risalente al 2011 -ne contava circa 49mila. Rispetto alla gravità del pro-blema della loro migrazione, il nostro interlocutoreminimizza. «Sono - ci spiega - una popolazione no-made e in quanto tale si muovono. Dal Delta Ama-curo si sono distribuiti negli stati Monagas, Sucre,Bolivar, ma anche in Caracas, Valencia… Voglio direche non è da oggi che stanno venendo in Brasile.Sono sempre venuti qui. In questo momento, sem-plicemente ne arrivano di più e si fermano più alungo». Chiediamo al console se i Warao abbiano lasciato iloro fiumi anche sulla spinta di fattori ambientali einvasioni di gruppi non indigeni. «Il mondo è cam-biato ed è cambiato anche per i Warao. Le condizioniambientali nel delta dell’Orinoco non sono certa-mente le stesse di un tempo, ma rimangono sosteni-bili. È possibile continuare a pescare e a seminare,soprattutto palme e frutta tropicale». Facciamo notare al console come molte comunitàwarao lungo l’Orinoco e i suoi canali (i cosiddetticaños) si siano svuotate. «Abbiamo una popolazioneche è indigena e vive nel proprio habitat e una popo-lazione indigena che è trapiantata in città. Lo dicoperché molte persone che s’incontrano qui in Brasilesono indigeni urbanizzati. E poi vi chiedo: perché tratutte le etnie indigene del Venezuela in Brasile arri-vano soltanto i Warao? Perché - lo voglio ribadire -loro già venivano qui. Quasi tutti gli altri gruppi indi-geni sono sedentari, nonostante l’embargo econo-mico (che è la vera motivazione della migrazione deivenezuelani) valga per tutti».

    Nomadi ma anche urbanizzati: sembrerebbe unossimoro, o almeno una contraddizione intermini. Faustino Torella Ambrosini ribadiscei due concetti aggiungendo: «L’indigeno warao che èandato in città difficilmente torna indietro. Ha tuttoil diritto di agire così: queste persone appartengonoai popoli tradizionali, ma sono anche venezuelani. E

    poi, in questo loro cambiamento, c’è un ministeroche li aiuta».Il console si riferisce al ministerio del Poder Popularpara los Pueblos Indígenas, attualmente guidato daAloha Núñez, indigena Wayú (Guaijra). Cosa fa que-sto ministero?, gli chiediamo. «È stato creato per aiu-tare i popoli indigeni a integrarsi. A incorporarsinella società venezuelana. Sempre con rispetto per laloro volontà». Incorporarsi come?, insistiamo. «Adesempio, con la Gran mision vivienda para indigenas.Noi li aiutiamo a costruire le loro case utilizzandomateriali e disegni tipicamente indigeni. Come per lepalafitte». Il console ricorda anche l’esistenza diun’università, la Universidad indígena de Venezuela,istituita appositamente per gli indigeni negli stati Bo-livar e Amazonas. Chiediamo anche dell’operazione Vuelta a la patriapubblicizzata dal volantino affisso all’entrata. «È unprogetto - spiega il diplomatico - del nostro governoper i venezuelani che non hanno avuto fortuna neipaesi - Ecuador, Perù, Panama, Colombia, Argentinae Brasile - dove sono emigrati e che vogliono tornarea casa. L’esecutivo favorisce il rimpatrio di questepersone. Hanno partecipato anche gli stessi Waraoper una cifra importante: non meno di mille».

    Mille indigeni che sono rientrati, tornando dadove erano partiti. Non possiamo verificarela veridicità di questo numero, a prima im-pressione piuttosto elevato. Il console Faustino To-rella Ambrosini è un rappresentante ufficiale del go-verno di Caracas e, in quanto tale, non può che di-fenderne l’operato. A suo merito, va detto però chenon è rimasto chiuso nella propria sede consolare,ma ha visitato di persona gli abrigos di Boa Vista(ompreso quello spontaneo di Ka Ubanoko) e di Pa-caraima, dove sono concentrati molti Warao. E gliindigeni ci hanno confermato sia la visita del consoleche la sua disponibilità.

    Marco Bello - Paolo Moiola

    17gennaio ~ febbraio 2020 MC

    © M

    arco

    Bell

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  • laureata in turismo e ha passatoparte della sua vita in città, a Tu-cupita, dove insegnava nellascuola primaria. Allo stessotempo era molto impegnatanella pastorale indigena dellachiesa cattolica e con ungruppo culturale chiamato EcoWarao. «Con mia figlia e mia nipotesiamo partite a maggio e sape-vamo già dell’esistenza di KaUbanoko. Arrivate a Boa Vistadopo un viaggio rocambolescocon un gruppo di altri indigeni,passammo la notte alla rodovia-ria (la stazione degli autobus,dove c’è un centro di transitoper migranti gestito dall’eser-cito, ndr), senza dormire.Quando riuscimmo ad arrivare aKa Ubanoko, ad alcuni di noiparve molto brutto. La mia im-pressione invece fu positiva».I primi tempi non sono stati fa-cili. «La mia famiglia è cono-sciuta, così c’era qualcuno chenon voleva vederci a Ka Uba-noko e ci diceva di andare aPintolandia», racconta Leany.«Poi il cacique Camilo ci ha

    prese nel suo gruppo, e, vista lasua autorità, le acque si sonocalmate». Leany è sempre stata molto at-tiva nella promozione dei dirittie della cultura warao. Per que-sto si preoccupa subito dellapossibile perdita di identità, so-prattutto dei bambini migranti.«In Ka Ubanoko stiamo lavo-rando con l’infanzia missionaria.E all’inizio abbiamo avuto delleincomprensioni con i criollosperché loro sostenevano chenoi facciamo un’attività che liesclude. Abbiamo spiegato chela nostra visione è differente.Ovvero non è solo insegnare apregare, insegnare la parola diDio, ma stimolare i bimbi affin-ché conoscano la cultura warao,formino un sentimento di appar-tenenza, costruiscano un’iden-tità».Leany ci tiene a spiegare benela propria filosofia: «In qualsiasiluogo noi siamo, non smette-remo mai di essere Warao: è nelnostro sangue. Anche se an-dremo in un altro stato del Bra-sile, fisicamente saremo uguali.Ci adatteremo alla società diquesto paese, impareremo lalingua e avremo un lavoro. Masaremo sempre indigeni. Qui aKa Ubanoko stiamo facendo un

    buon lavoro, e ci siamo resi

    conto che i bimbi non indigeni,dopo aver ascoltato le canzonie visto i balli warao, iniziano acantare pure loro. Questo èmolto importante. Bimbi waraoche non parlavano la lingua ma-dre, adesso iniziano a farlo. Ilnostro impegno va molto più inlà. Quello che ci unisce è chesiamo venezuelani e siamo indi-geni. Tuttavia, se non pren-diamo in mano la situazione, lanostra gente smetterà di sentirsiindigena».Ka Ubanoko è un’esperienzaimportante, anche se è difficileprevedere quanto durerà. Per-mette ai migranti di non caderenell’assistenzialismo del campoprofughi, di prendere in mano lapropria vita e - allo stessotempo - sentirsi parte di un qual-cosa di organizzato, che pro-tegge e permette di essere pro-tagonisti. Per il bene comune.

    Marco Bello e Paolo Moiola(1.a puntata - continua)

    * BRASILE-VENEZUELA

    18 gennaio ~ febbraio 2020MC

    Questo servizio rientranell’ambito del progetto«The Warao Odissey» ese-guito da Missioni ConsolataOnlus e prodotto con ilcontributo finanziario dell’U-nione europea e della RegionePiemonte attraverso il bando«Frame Voice Report!» delConsorzio Ong Piemontesi.

    Fonti principali· H. Dieter Heinen, Los Warao,in «Los aborìgenes de Venezuela,volume III, Fundaciòn La Salle deCiencias Naturales, Caracas 2011.· Cecilia Ayala Lafée-Wilbert -Werner Wilbert, La mujer warao,de recolectora deltana a recolectoraurbana, Fundaciòn La Salle deCiencias Naturales, Caracas 2008.

    Qui sotto: mamma e bambiniwarao in una piccola tendapiantata sul campo da gioco dell’ex palazzetto di Ka Ubanoko.

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    © Marco Bello


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