0
A cura di Gattai Alessandro, Phd
A uso esclusivo degli studenti del corso di laurea in Psicologia del lavoro e delle
organizzazioni
INTRODUZIONE AL CONCETTO DI CLIMA
<<Le atmosfere psicologiche sono realtà empiriche,
fatti scientificamente descrivibili>>
(Lewin, 1946)
L‟organizzazione è un sistema socio-tecnico dove convivono aspetti soft e aspetti hard, lavoro
e tecnologia, persone e know how, sistemi e mondi vitali. Accanto all‟organizzazione definita
dall‟autorità o dalle tecnologie operanti, che stabiliscono strutture, procedure, sistemi di
coordinamento/controllo e dividono il lavoro individuando ruoli e mansioni, si muove tutto un
contesto latente costituito da comportamenti, usi, attese, motivazioni delle persone. Esiste
insomma, accanto all‟organizzazione tecnico/formale, un‟organizzazione delle persone che
nasce da fenomeni come le attese, le percezioni, le relazioni e la quotidianità (La Rosa, 1993).
Studiare un‟organizzazione non significa solo privilegiare una realtà obiettiva, strutturale, ma
anche sottolineare una realtà soggettiva di „‟clima‟‟ che non viene quasi mai presa
ufficialmente in considerazione.
Il concetto di clima ha una chiara derivazione geografico-metereologica che può risultare utile
per una sua comprensione intuitiva. Così come il clima metereologico è dato da un‟insieme
complesso di fenomeni (piovosità, umidità, temperatura, altitudine, ecc.) che nel loro insieme
rendono una regione più o meno adatta ad un particolare tipo di coltura e sensibile a particolari
eventi atmosferici (pioggia, neve, nebbia, siccità, ecc.) così il clima organizzativo possiamo
immaginarlo come un insieme dato da una serie di fattori la cui conoscenza dello stato medio
permette di prevedere, ad esempio, la maggiore incidenza di conflitti e litigi tra le persone, così
come la presenza di collaborazione e di rapporti di reciproca fiducia. Incide sui risultati che
quel gruppo/territorio può conseguire.
Il concetto di clima organizzativo, entrato nella letteratura psicologica negli anni ‟60, ha visto
nel decennio successivo un progressivo espandersi delle sue applicazioni ai più diversi tipi di
organizzazione. A tale ampiezza di applicazioni, tuttavia, non corrisponde un‟adeguata
chiarezza né una definizione univoca delle sue componenti concettuali ed operative (De Vito
Piscicelli, 1984).
Il primo a parlare di atmosfera psicologica fu Kurt Lewin che inserì tale concetto nella sua
teoria del campo con cui intendeva dare basi scientifico/statistiche alla psicologia sociale,
spiegando il comportamento umano come derivante dall‟interazione tra fattori interni (persona)
e fattori esterni (ambiente).
<<[…] Queste caratteristiche (persona e ambiente) del campo inteso come una totalità hanno
in psicologia un’importanza pari a quella che può avere, ad esempio, il campo di gravità nella
spiegazione dei fenomeni nella fisica classica […] >> (Lewin, 1946) .
Negli approcci ai climi organizzativi troviamo, innanzi tutto, teorie definite strutturali in cui
prevale, nella determinazione del comportamento umano, il peso dei fattori esterni (ambiente,
1
struttura, sistemi premianti, organigramma) su quelli interni. In altre teorie, invece, il rapporto
si inverte ed i fattori legati alla persona sono visti come più incisivi di quelli legati all‟ambiente
(teorie percettive).
Facendo poi riferimento al soggetto collettivo come „‟culla del clima‟‟ nei vari approcci
possono prevalere o la componente interattiva o l‟importanza dello sfondo. Nel primo caso
viene sottolineata l‟importanza della relazione e dell‟interazione fra i vari soggetti; nel
secondo, viene enfatizzato il ruolo giocato dalla cultura tipica di quello stesso gruppo.
Ciò che può produrre un ambiente di lavoro molto soddisfacente non coincide con ciò che può
produrre un ambiente fortemente centrato sulla prestazione. Un‟organizzazione percepita come
in attesa di elevati livelli di prestazione è associata soprattutto a un chiaro senso di direzione
(chiarezza dei fini aziendali valutati come stimolanti) e ad una chiara definizione dell‟autorità
in relazione alle diverse responsabilità. Viceversa, un ambiente di lavoro soddisfacente, darà
particolare importanza allo sviluppo della risorsa umana, a rendere le persone consapevoli delle
mete aziendali e a processi gestionali fluidi, dove le decisioni vengono prese velocemente e
realizzate senza che vi siano problemi relazionali.
IL CONCETTO DI BENESSERE
La psicologia dominante, sino ad oggi, è stata quella del malessere, una psicologia che parte
dall'assunto che questo esiste e che il suo compito è quello di scoprirlo e di ridurlo. Un
intervento quindi teso allo “stare meglio”, alla conquista di un qualcosa che possa migliorare il
contesto sociale, affettivo, organizzativo.
Un dispositivo mentale che, nel corso dei secoli, è stato usato da politici, governanti, dirigenti,
insegnanti e genitori di quasi tutte le culture del mondo: si minaccia il malessere e si indica
come evitarlo. Il mondo del lavoro, con le sue lotte, ne è indicativo.
Gli uomini hanno lottato per una paga più alta, per un ambiente di lavoro più vivibile, per la
sicurezza. Battaglie dure e lunghe che hanno portato a “stare meglio”. Ma lo stare meglio non
vuol dire certo conquista del benessere.
Spaltro in un suo intervento del 1997 dice che il benessere è qualcosa di soggettivo che ha la
persona singola come protagonista.
Un ribaltamento dei concetti che sino ad oggi hanno costruito il nostro habitat ambientale e
psichico. L‟autore avverte che la psicologia del benessere è oggi praticamente inesistente ed è
quindi prevalentemente teorica: <<[…] Essa, per realizzarsi, deve partire da una definizione di
benessere e dalla presa di coscienza della natura progettuale di ogni soggettività. In definitiva
la psicologia deve diventare più attenta alle soggettività benestanti abbandonando il modello
obiettivista malestante di derivazione medico-sanitaria […]>> (Spaltro, 1997).
E ancora: << […] Da qualche anno si è posta attenzione all'idea di benessere, come modalità
di vita, come sinonimo di qualità di vita, come opposto e contrario del malessere. Ciò ha
provocato un cambiamento radicale dell'idea di benessere non più considerato sinonimo di
ricchezza o salute (benessere obiettivo) ma sinonimo di qualità della vita e di felicità
(benessere soggettivo) […] >> (Spaltro, 1997).
Proprio analizzando il termine benessere, la sua derivazione etimologica, il variare dei
significati, l'intendersi del termine anche in funzione teologica, Spaltro getta le basi della nuova
2
psicologia: una psicologia dedicata allo studio degli aspetti piacevoli e non a quelli dolorosi
della vita psichica.
Se sino ad oggi il soggetto è stato sempre concepito come un “soggetto doloroso” (lotta per lo
stare un po' meglio), oggi i tempi sono cambiati e gli interessi stanno virando, anche se
lentamente, verso il benessere, il piacere e la soddisfazione dei desideri.
Chiarisce Spaltro : << […] Già la trasformazione del mondo costituito essenzialmente da
bisogni (dipendenza, frustrazione, paura, libertà) nel mondo prevalentemente costituito da
desideri (relazione, soddisfazione, speranza, comunicazione, negoziazione) ha rappresentato
un passo avanti per la costruzione della psicologia del benessere […]>> (Spaltro, 1997).
Ma c'è ancora uno scoglio da superare, quello di “liberare” il benessere dal suo significato
negativo, dai sensi di colpa che si porta dietro.
Ora, se è vero che le funzioni psichiche che determinano il benessere sono principalmente
l'invidia e la gelosia, l‟autore (1997) rileva anche come la “cultura giuridica” (quella per cui,
dato che tutti gli uomini tendono al benessere, e non essendocene per tutti, occorre che vi siano
delle norme che regolino la distribuzione del benessere - inteso così solo come quantità - e
quindi occorre una giustizia distributiva che ne regoli la diffusione obiettiva) abbia di fatto
bloccato il benessere.
Lo scopo di questo blocco, spiega Spaltro (1997), è appunto l'invidia, che in chi ha il potere, si
esprime come paura del benessere degli altri, che diventa minacciante e che lascia pensare ad
una maggiore autonomia dei nuovi benestanti rispetto ai vecchi. I vecchi benestanti fanno,
infatti, di tutto per evitare ai nuovi di realizzare benessere. Essi sono disposti anche a ridurre il
proprio benessere purchè non aumenti quello dei nuovi benestanti.
Indicato quindi che la psicologia del benessere è una psicologia soggettiva, indicato anche che
alla resa dei conti si tratta di avere un costrutto mentale diverso, Spaltro focalizza l'obiettivo
sulla relazione tra benessere e lavoro.
Con una premessa : << […] E' molto facile dire che il benessere sta nella soggettività, cioè è
soggettivo, e che è proprio il sentimento di essere soggetto, di essere titolare di una propria
ipotesi di benessere che consente di uscire dal benessere di stato, dalla verità di stato,
dall'organizzazione di stato, cioè unica, sacra, involabile, ma non mia […]>> (Spaltro, 1997).
Il lavoro gradevole è stato il sogno di molte generazioni: oggi può essere il progetto della
generazione che sta cominciando a lavorare. I giovani possono passare dall'utopia alla realtà.
Nel mondo del lavoro il conflitto tra benessere e malessere è giunto ad un momento di svolta:
la soggettività combatte la sua lotta per il benessere e non quella contro il malessere.
Ma che tipo di lavoro avremo in futuro? Qualcuno sostiene che il lavoro scomparirà, qualcun
altro parla del lavoro post-industriale, cioè teleorganizzato o meglio soggettivizzato al
massimo.
Il futuro lavoro, ipotizza Spaltro (1997), sarà essenzialmente sentimento ed esercizio di
cittadinanza e delle sue possibili declinazioni benestanti. Il conflitto di base non sta più tra
capitale e lavoro, ma tra cittadino e stato dove la resistenza al benessere si pratica più forte.
La cultura del benessere che avanza è anche la cultura del pluralismo e della diffusione a tutti
del benessere. la cultura del malessere è basata sull'idea che, essendo le risorse scarse, solo
pochi possono disporne e la maggioranza deve invece restare nel malessere. Il malessere dei
più è così funzionale al benessere di pochi.
Ciò nonostante si sta realizzando una società negoziale e la negoziazione non è più sulla
ripartizione “giusta” della ricchezza tra capitale e lavoro, ma su quella della sovranità tra i
gruppi della maggioranza dei cittadini (dimensione privata) e i gruppi della minoranza dello
stato (dimensione pubblica).
3
Tutto questo porta alla formulazione di nuovi principi della formazione e quello che oggi si
chiama benchmarking (lavoro cooperativo di scambio delle tecnologie e della capacità) può
agevolare molto questo processo di costruzione e diffusione di una pedagogia del benessere.
Il pericolo sta nella possibilità che la formazione diventi un sistema chiuso, difensivo degli
alibi che sinora hanno bloccato la realizzazione di un nuovo modello di formazione (contrasto
tra finalità del lavoratore e dell'impresa, necessità di soffrire per imparare, apprendimento
come indottrinamento, paura che lo sviluppo dei singoli possa intralciare le finalità
dell'impresa).
Così una psicologia del benessere sta sviluppando alcuni nuovi principi della formazione che
rappresentano la chiave di volta per lo sviluppo e l'apprendimento di una psicologia del
benessere.
Il lavoro sta cambiando ma noi continuiamo a far finta di niente e a lavorare come se tutto
fosse sempre lo stesso, ma poi ci troviamo di fronte al problema della disoccupazione che è
allarme in tutta Europa, ci troviamo di fronte alla tecnologia spesso irraggiungibile per i più e
con i vecchi modelli non riusciamo a spiegarci i fatti in cui viviamo.
Ciò determina il bisogno di rivedere la formazione lavorativa secondo nuovi principi così
riassumibili:
Ogni formazione è in fondo una formazione al benessere;
La formazione serve al soggetto ed è finalizzata allo sviluppo del soggetto;
Esiste una soggettività collettiva e non c'è contrasto tra individuo e società;
Il valore base della società del benessere è la sua soggettività;
Un soggetto è il titolare di un progetto di benessere;
La soggettività è permessa ai forti e vietata ai deboli: è un'aspirazione dei deboli;
Il lavoro futuro sarà soggettivo e connesso col sentimento di appartenenza e cittadinanza.
Ciò vuol dire che ogni formazione deve essere finalizzata al lavoro di domani e non al lavoro
di ieri.
Come conseguenza di questo scenario in movimento, cambiamo anche le relazioni industriali.
Lo scopo di ogni relazione industriale futura sarà la formazione dell'avversario, la
considerazione per l'avversario, per la controparte, per ciò che per secoli è stato considerato il
nemico da battere.
Poichè nessuno nasce benestante, perchè solo dopo lo diventa, poichè quindi è possibile, utile e
necessario imparare a vivere bene, le relazioni industriali rappresentano oggi il territorio ideale
per raggiungere quelle piattaforme di benessere che gli uomini non sarebbero in grado di
raggiungere, nè da soli, nè in piccoli gruppi isolari o in conflitto distruttivo e bellico tra loro.
Fare del conflitto una forza produttiva era lo slogan delle relazioni industriali classiche. Fare
del negoziato una costruzione di benessere rappresenta lo slogan della nuove relazioni
industriali.
Il futuro del benessere sta nel fatto che non esiste e che quindi va quotidianamente inventato. E
siccome sono i soggetti che lo inventano il futuro benessere non potrà che essere soggettivo. Il
benessere quindi si ottiene sempre di più non solo aiutando i poveri e le fasce più deboli, ma
aiutando tutti a raggiungere un maggior benessere.
Il negoziatore è quindi il professionista ideale della società del benessere e del futuro lavoro ad
alta qualità di vita.
Spaltro, schematizza questa ipotesi (figura 7), sottolineando la relativa incidenza delle parti
consapevoli e di quelle inconsapevoli nei tre livelli di funzionamento sociale da lui individuati
(coppia, gruppo e collettivo). Afferma, infatti, l‟esistenza di almeno quattro livelli di
interazione-scontro tra individuo ed altro individuo e tra individuo e mondo esterno in genere.
Questi livelli sono:
4
individuo-individuo (cultura di coppia e relazioni interpersonali);
individuo-piccolo gruppo (cultura micro e relazioni sociali);
individuo-grande gruppo o sistema sociale definito e limitato (cultura macro e relazioni
collettive);
individuo-sistema sociale indefinito (non ancora studiato sperimentalmente e riferito alle
relazioni indefinite).
La figura 7 mette in evidenza che il clima è sviluppato dal gruppo, mentre la cultura riguarda la
dimensione collettiva. In alto sono rappresentati gli elementi oggettivi presenti a livello di
consapevolezza, mentre in basso viene raffigurata la presenza della dimensione soggettiva più
inconsapevole (e forse inconscia) dell'organizzazione.
Fig. 7: Rappresentazione delle tre dimensioni relazionali (coppia/gruppo/collettivo) presenti
all'interno di qualsiasi organizzazione.
Alla luce di quanto detto, quindi, possiamo concludere che il clima è un costrutto psicologico
che si riferisce a percezioni sviluppate dalle persone nei riguardi del proprio ambiente di
lavoro. Il gruppo è la sede privilegiata del clima.
Il gruppo diventa la sede privilegiata di ogni intervento in azienda , essendo la struttura stessa
delle organizzazioni composta in piccoli gruppi
3.1 Il gruppo
I gruppi e le relazioni fra persone occupano un posto centrale nell'approccio psicologico e
soggettivo allo studio delle organizzazioni. Prima di alcune ricerche svolte negli anni 30-40
esisteva un luogo comune piuttosto diffuso in base al quale quanto più logici e razionali sono i
rapporti gerarchici tanto più facilmente l'attività dei singoli membri risulterà coordinata e
diretta al raggiungimento degli obiettivi che l'azienda si prefigge. L'ideale sotteso da questa
concezione è che le relazioni fra persone possano essere determinate semplicemente da una
certa forma data e i rapporti facilmente subordinabili alle necessità produttive dell'azienda.
Lo psicologo Elton Mayo definì questo presupposto una “rabble hypotesis” (un'ipotesi folle!)
della società. Come lo stesso Mayo specificò “in qualunque fabbrica che goda di continuo
successo” la direzione non è in rapporto con i singoli lavoratori ma sempre con gruppi di
lavoratori. In ogni reparto che opera continuativamente gli operai hanno formato - se ne
5
rendano conto o no - dei gruppi che hanno consuetudini, doveri, routine ed anche riti
appropriati; la direzione riesce o fallisce nella misura in cui è accettata senza riserve dal
gruppo”.
3.2 Il concetto di gruppo
Le lingue antiche non disponevano di alcun termine per designare un numero ristretto di
persone impegnate in una qualche forma di attività comune. II concetto e il termine di gruppo è
relativamente recente: compare solo nel XVIII secolo nell'accezione con la quale noi lo
utilizziamo oggi. Il termine gruppo etimologicamente nasce dall'italiano groppo. Groppo ha
come significato primario quello di “nodo”, ma ha anche delle connessioni con il germanico
“truppa” = massa arrotondata, quindi tondo. Da nodo e da tondo forse provengono il senso di
“riunione”, “assemblaggio”, “circolo”, “coesione” che il termine progressivamente assumerà
dopo il XVIII secolo anche in francese (groupe), in tedesco (gruppe) e in inglese (group).
Il termine "gruppo" è successivamente stato usato con un'accezione sempre più ampia sino a
comprendere insiemi sociali di dimensioni e strutture molto diverse che vanno, ad esempio, da
un concetto di collettività nazionale, alle classi sociali, fino alle realtà più limitate dei nuclei
familiari. II solo carattere comune a questi insiemi è determinato dalla pluralità dei soggetti e
dalla loro più o meno forte ed implicita solidarietà. E‟ preferibile riservare l'uso scientifico del
termine gruppo a un insieme (ristretto) di persone che devono e/o possono e/o vogliono
riunirsi.
Il termine di “membri”, con il quale di solito si denotano le persone che compongono un
gruppo, richiama alla mente l'immagine di un corpo le cui diverse parti sono allo stesso tempo
dipendenti e mobili; ricorda quindi un insieme di elementi fra loro distinti ma che conservano
qualcosa in comune e che quindi possono, proprio per questo, “fare” qualcosa insieme. Il
gruppo è “fare”, il gruppo è “azione”.
Al gruppo è generalmente associata l'idea di forza: valga a titolo esemplificativo l'espressione
“raggrupparsi” che esprime, in modo evidente, il fatto che gli individui singolarmente si
sentono più deboli e ritrovano in questa realtà un mutuo rinforzo.
“Il gruppo è qualcosa di più e di diverso della somma dei suoi singoli elementi”.
Quest'affermazione che Kurt Lewin uno dei primi ricercatori che gettò le basi scientifiche allo
studio psicologico dei gruppi, sviluppò a partire dalla psicologia della Gestalt (l'insieme è
diverso dalla somma dei suoi elementi) suggerisce di pensare al gruppo come a un qualcosa di
ordine diverso, con qualità e con risorse nuove rispetto ai singoli elementi che lo compongono.
Alcune considerazioni di carattere quantitativo aiutano a comprendere meglio come il
funzionamento dei rapporti interumani possa assumere diverse modalità. Il gruppo comincia
con la presenza di un terzo in una coppia e con i conseguenti e inevitabili fenomeni di
coalizione, accettazione, rifiuto, maggioranza, minoranza e le relative speranze e paure che li
accompagnano.
I “fenomeni di gruppo” si manifestano pienamente solo a partire da quattro o più componenti,
ovvero nel momento in cui il numero dei possibili rapporti due a due supera il numero dei
membri. Infatti fra tre persone A, B, C esistono solo tre possibili rapporti AB, AC e BC (ma sei
relazioni perché alle prime tre bisogna aggiungerne altre tre: BA, CA, CB). Ulteriormente fra
quattro persone A, B, C, D esistono sei possibili rapporti: AB, AC, AD, BC, BD e CD (e dodici
relazioni). Il numero delle relazioni possibili cresce con il numero dei membri in ragione della
formula n(n-1), mentre il numero dei rapporti cresce in ragione della formula: n(n-1)/2.
Superato il numero di 15 (o al massimo 20) persone il numero dei rapporti (e delle relazioni)
diventa talmente alto che la loro qualità cambia nuovamente e profondamente assumendo
caratteristiche diverse.
6
Proseguendo, in termini ancora per il momento solo quantitativi, si possono distinguere quattro
macro tipologie di rapporto:
DI COPPIA (A DUE)
DI GRUPPO (O DI PICCOLO GRUPPO, DA 3 A 15 PERSONE)
DI COLLETTIVO (O ORGANIZZATIVE, DA 20 A 500 PERSONE)
DI COMUNITÀ (DA 500 A MIGLIAIA)
Dal punto di vista qualitativo per ognuno di questi livelli di funzionamento sociale esiste una
cultura particolare, un insieme di elementi diversi che caratterizzano la relazione
indipendentemente dai soggetti interessati. La prima dimensione che, in termini anche
numerici, denota il rapporto sociale nella vita di ogni individuo è rappresentata dalla coppia. La
cultura che caratterizza questa realtà costituisce il primo gradino di una scala numericamente
sempre più complessa che trova la sua soluzione nella dimensione organizzativa e nella relativa
cultura che questa sottende.
Questo passaggio da una cultura ad un‟altra può anche essere definito mediante due parole
ricorrenti:
a) socializzazione (o passaggio dalla cultura di coppia alla cultura di gruppo)
b) collettivizzazione (o passaggio dalla cultura di gruppo alla cultura di collettivo).
La socializzazione e la collettivizzazione sono momenti particolarmente critici nella vita di
ogni insieme sociale ed entrambi trovano nel piccolo gruppo una dimensione sociale e
operativa centrale, perché è in grado di condizionare in modo determinante gli sviluppi (o i
blocchi) del rapporto sociale. Il piccolo gruppo, sia nella dimensione privata che in quella
lavorativa, può essere considerato come una sorta di “cinghia di trasmissione” che agisce in
due possibili direzioni: dall‟organizzazione all‟individuo e viceversa dall'individuo all‟
organizzazione.
Dall‟organizzazione all‟individuo il gruppo adempie a una funzione adattiva (con le sue spinte
al conformismo e all‟uniformazione) divenendo il primo e il più forte trasmettitore delle regole
(esplicite e implicite), delle norme e dei valori del sistema di cui esso fa parte (Sherif M., 1931;
Asch S.E., 1961). Viceversa, dall‟individuo all‟organizzazione, il gruppo svolge una funzione
innovativa attraverso cui si possono modificare regole (soprattutto implicite) e valori del
collettivo e la cui importanza si rivela particolarmente nei momenti di cambiamento operativo
ed organizzativo (K. Lewin, 1947; S. Moscovici, 1983).
3.3 I ruoli nel gruppo
Un modo ulteriore per osservare quanto accade in un gruppo è di considerarlo a partire dalle
sue componenti strutturali: come un insieme di ruoli in costante interazione fra di loro in
funzione del conseguimento di un obiettivo.
Osservando un gruppo al lavoro si nota come ogni partecipante svolga una certa funzione e dia
un proprio contributo (positivo o negativo che sia). II gruppo stesso esige che alcuni membri,
differentemente da altri, si comportino in un determinato modo. Ci si trova di fronte a ruoli
particolari riferibili da un lato ad aspetti individuali, le motivazioni e la particolare personalità
dei soggetti, dall'altro ad un aspetto funzionale, cioè legato ad una serie di aspettative che il
gruppo ha nei confronti dei suoi singoli membri.
Una definizione semplice e chiara di ruolo afferma che il “ruolo” è: “l’insieme delle norme e
delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa una determinata posizione
in una rete di relazioni sociali”(Gallino L.,1983). Già da questa definizione appare che padre,
7
madre, figlio/a, amico/a, ma anche capo o collega sono tutti differenti ruoli ai quali ciascuno di
noi “dà vita” all'interno di differenti relazioni o, a volte, nell'ambito della stessa relazione.
Il concetto di ruolo è centrale nel modello sociologico perché consente una chiave di lettura di
tutte le relazioni sociali. Il ruolo conferisce una certa “prevedibilità” ai comportamenti messi in
atto dal soggetto o da una determinata categoria di soggetti; da cui la dizione sociologica di
individuo come “attore sociale” come di qualcuno che interpreta una certa parte in larga misura
prestabilita. In questo contesto interessa evidenziare alcune conseguenze di questo modello in
ambito organizzativo, in particolare per quel che riguarda la miscela di norme e aspettative in
cui si coagula e attraverso cui si esprime qualsiasi ruolo, professionale e non.
Rispetto a ciascun ruolo sia l'organizzazione, sia il gruppo di lavoro sia la persona stessa sono
origine di aspettative precise e determinate. L'organizzazione fa riferimento a un mansionario
attraverso cui definisce le proprie aspettative in termini prevalentemente normativi. A loro
volta gli altri nel gruppo di lavoro, ovvero i colleghi, i superiori, i clienti, hanno specifiche
attese nei confronti di chi svolge una specifica mansione; queste attese hanno anche una certa
valenza normativa. Infine ultimo, ma non ultimo, chi si trova a svolgere un certo ruolo si
attende in prima persona da quel ruolo, e conseguentemente dagli altri, determinate cose. Le
aspettative personali non hanno valenze normative perché sono strettamente connesse alle
motivazioni che la persona ha nello svolgimento del ruolo.
Nella descrizione proposta il ruolo è qualcosa di intermedio fra noi e gli altri, una sorta di
“maschera” attraverso la quale entriamo in relazione gli uni con gli altri: dalla parte esterna è
definita dagli altri (dall‟organizzazione, dal cliente, dai colleghi ecc.) mentre internamente è
definita da noi stessi (dalle nostre motivazioni, dalla nostra esperienza, dal nostro carattere,
dalle nostre aspettative, ecc.). Nel modello sotteso dal concetto di ruolo troviamo ai due
estremi: da una parte, le attese formali e oggettive preordinate dall‟organizzazione,
all'estremo opposto le aspettative/motivazioni del soggetto. In altri termini l'insieme formale di
ruoli previsto dall‟organizzazione non risolve i comportamenti di ruolo attuati concretamente
dai soggetti perché questi ultimi sono definiti maggiormente dalla rete di aspettative che si
vengono a configurare nel gruppo e nella dinamica esistente tra individuo e gruppo. Per
riflettere più concretamente basti pensare a quando qualcuno in un gruppo mette in atto
comportamenti nuovi o addirittura contrari a quelli abituali, scattano immediatamente
meccanismi di critica, di disapprovazione o di condanna poiché la persona è venuta meno ad
aspettative di tipo sociale. Per verificarlo provate anche solo a vestirvi in modo diverso dal
vostro modo abituale, l'effetto è assicurato!
In ogni gruppo esistono una serie di ruoli che sono solo parzialmente legati alla persona, perché
sono in gran parte funzionali alla situazione che il gruppo attraversa, ovvero sono attese
sviluppate dagli altri che convergono su una persona in base a caratteristiche strutturali del
gruppo. Avviene così che una stessa persona può assumere ruoli diversi in gruppi diversi, ma
anche ruoli diversi nello stesso gruppo in fasi diverse. Il “bastian contrario”, l‟ “entusiasta”, l‟
“eterno scontento” sono presenze note in ogni gruppo, qui aggiungiamo che sono ruoli esistenti
in funzione del gruppo, la cui rappresentazione è momentaneamente, o permanentemente,
affidata ad alcuni componenti del gruppo.
Alcuni autori (K. Benne e P. Sheais, 1948), partendo dalla constatazione che il gruppo si
organizza differenziando delle funzioni al proprio interno e affidandone la rappresentazione ad
alcuni propri membri, hanno verificato che in ogni gruppo i vari possibili ruoli sono
sintetizzabili in base ai tre tipi di funzione da questi svolta, ovvero:
FUNZIONI DI BLOCCO
FUNZIONI DI MANTENIMENTO, O DI “CLIMA”
8
FUNZIONI DI PRODUZIONE O DI PROGRESSO VERSO L'OBIETTIVO.
Qui di seguito verranno illustrati questi ruoli. Vale la pena ricordare sin d‟ora che sono
osservabili sia nei gruppi di lavoro, in particolare in quelli con espliciti compiti decisionali, che
nei gruppi di vacanzieri, con obiettivi di divertimento e/o di organizzazione del divertimento.
Funzioni blocco
Le funzioni di blocco sono quelle più legate alla particolare struttura dei soggetti ed esprimono
bisogni individuali.
Questi ruoli risultano negativi ai fini della progressione del gruppo di lavoro e sono legati al
bisogno di servirsi in qualche modo, del gruppo. Si manifestano più spesso all‟inizio quando il
gruppo è ancora allo stato latente, è improduttivo e non si è sviluppato un certo clima fra i
membri. Infatti è prevalentemente all‟inizio che il gruppo suscita il più forte senso di
insicurezza e trovano più facilmente spazio questi ruoli.
Funzioni di mantenimento
Vi sono in ogni gruppo alcuni ruoli che svolgono la funzione di facilitazione allo stabilirsi delle
norme del gruppo e alla circolazione della comunicazione. In altre parole si tratta di ruoli che
contribuiscono a un clima “positivo” in cui i membri si sentono a proprio agio e possono
procedere meglio all‟esame e alla soluzione del compito. Sono i ruoli che maggiormente
aiutano il gruppo a costituirsi come unità che supera la semplice somma degli individui.
Funzioni di produzione
I ruoli che svolgono funzioni di produzione, ovvero di progressione verso l'obiettivo,
favoriscono direttamente l'attività del gruppo in rapporto agli scopi e risultano particolarmente
utili quando il gruppo tende ad evadere, quando il gruppo sì “perde” deviando su obiettivi che
non erano nelle premesse.
L‟APPROCCIO INTERATTIVO
Questo approccio è una sintesi dei precedenti, ma si distingue da entrambi. Il concetto di base è
che gli individui, rispondendo alla specifica situazione, interagiscono gli uni con gli altri e
questi scambi conducono ad un accordo condiviso che diviene l'origine del clima. In questa
prospettiva il clima organizzativo diventa una rappresentazione astratta creata dagli scambi
comunicativi fra i membri del gruppo ed i processi di interazione assumono il ruolo centrale fra
le condizioni organizzative e la percezione individuale (fig. 3).
Percezione
Individuale
Interazione
tra le persone
Condizioni
Organizzative
Clima
Organizzativo
9
Fig. 3: Relazioni tra condizioni organizzative, percezione individuale e interazioni fra le
persone del gruppo nel produrre il clima organizzativo secondo l‟approccio interattivo.
Per capire le importanti novità presenti nell'approccio interazionista è utile notare come la
proposta di suddividere gli approcci al clima in strutturali e percettivi sia riconducibile ad un
dibattito più ampio che attraversa la filosofia occidentale: la separazione tra aspetti oggettivi e
aspetti soggettivi della realtà e della conoscenza.
L'approccio strutturale si colloca nella prospettiva secondo cui la realtà è oggettiva, mentre
quello percettivo si rifà all'idea che la realtà sia soggettiva, in quanto esiste nella mente degli
individui. L'approccio interattivo offre un nesso tra questi due punti di vista, sostenendo che
per l'uomo la realtà e la conoscenza non sono né oggettivi né soggettivi, ma sono eventi che
acquistano significato nell‟intersoggettività. L'approccio interattivo da una parte rimanda
all'interazione tra gli individui impegnati nel processo d'interpretazione della realtà; dall'altra
riconosce che il processo intersoggettivo di costruzione del significato necessita
dell'interazione tra le condizioni oggettive e la consapevolezza soggettiva. Ed è proprio
quest‟ultimo elemento che rappresenta la maggior differenza rispetto ai due approcci
precedenti. La consapevolezza è sempre "consapevolezza di qualcosa" che l'individuo vive e
sperimenta come "fatto significativo" (Mumby, 1988). All'interno di ogni organizzazione le
persone sono continuamente impegnate nel processo di costruzione di senso organizzativo
tramite l'esplorazione condivisa di "fatti significativi" osservati in base alle precedenti
esperienze.
La spiegazione del clima, nella prospettiva interattiva, si collega attraverso i concetti di
"intenzionalità", "consapevolezza", "intersoggettività" e "interazione" a due correnti
filosofiche: la fenomenologia e l'interazionismo simbolico.
Joyce e Slocum si ispirano nei loro studi al filosofo tedesco E. Husserl (1859-1938) e alla sua
fenomenologia. Il filosofo parla dell'intersoggettività come del processo fondamentale grazie a
cui si costituisce un collegamento sovraindividuale fra le prospettive, le interpretazioni, i valori
e le credenze. Alla base dell'intersoggettività c'è la consapevolezza che gli altri hanno
esperienze simili alle proprie e quindi si costruisce il proprio "self" usando gli altri come
modelli. <<Ogni soggetto implica l'altro ed è consapevole dell'esistenza degli altri, ciò
determina l'interiorizzazione degli altri nella propria percezione del self e, conseguentemente,
l'esperienza degli altri diventa parte della propria consapevolezza individuale>> (Husserl,
1912-1928).
La seconda componente filosofica all'approccio interattivo ha le sue radici nell'interazionismo
simbolico del filosofo americano G. H. Mead che studiò la relazione esistente tra il Sé e il
significato. Secondo Mead il Sé della persona si forma nel corso dell'interazione sociale sulla
base dei significati che si sente attribuire dagli altri. Il filosofo individua due interazioni
complementari, quali: l'interazione sociale e l'autointerazione (o dialogo interiore). L'agire
umano diventa così il frutto del complesso rapporto che l'uomo ha con sé stesso e con gli altri.
L'azione sociale è costruita nel corso del suo stesso svolgimento e non è né una risposta, né uno
stimolo e ancor meno una scelta fra alternative predeterminate. Gli uomini, secondo questa
filosofia, agiscono in base ai significati che attribuiscono alle cose e interpretano costantemente
i significati emersi nel processo interattivo e autointerattivo. Solo in seguito, mediante
quest'interpretazione, decidono quale debba essere il successivo corso dell'azione. Il gruppo e
le relazioni interpersonali assumono un valore centrale nella formazione del clima.
Schneider e Reichers (1983) traggono da Mead l'idea che l'individuo e l'ambiente si
determinino l'un l'altro, e trovano in Blumer (1969) la chiave di volta da applicare allo studio
del clima. Egli, infatti, sostiene che: <<[...] il significato (che include percezioni, descrizioni e
10
valutazioni) non risiede in nessuna cosa particolare, e neppure nell'individuo percipiente.
Piuttosto il significato delle cose nasce dall'interazione tra le persone. Le azioni degli altri
servono per definire un evento, una pratica o una procedura per la persona in questione. Le
persone non applicano semplicemente il significato dato a loro dagli altri, ma controllano,
sospendono, raggruppano e trasformano le loro proprie percezioni degli eventi alla luce delle
interazioni che essi hanno con gli altri nell'ambiente […]>> (Blumer, 1969).
All‟interno dell'approccio interazionista, oltre agli autori già citati, si collocano anche Poole e
McPhee (1983) con quella che viene definita teoria strutturazionale. Questi sostengono che le
strutture sono transpersonali, nel senso che il clima non è più riscontrabile nelle percezioni
individuali ma nelle loro interazioni e lo definiscono come di: <<[...] un atteggiamento
collettivo, prodotto e riprodotto in continuazione attraverso l'interazione fra i membri>>
(Poole e McPhee, 1983).
In questa ottica il clima consente di interpretare e comprendere specifici eventi organizzativi
perché è un tramite e nello stesso tempo un risultato dell'interazione: è un tramite nel senso che
genera strutture specifiche dove queste non esistono ma, contemporaneamente, è anche un
risultato delle pratiche quotidiane presenti nelle organizzazioni strutturate (Quaglino e Mander,
1987).
Aspetti strutturali
Ognuno di noi svolge ogni giorno moltissime attività in quanto membro di un gruppo, con la
propria famiglia, gli amici, i compagni di lavoro ed altri.
Lo studio dei gruppi, pertanto, è importante, a livello psicologico e sociologico, sia perché essi
costituiscono un fenomeno diffuso, sia perché mediano molti dei contatti tra individuo e
società.
Che cos‟è un gruppo?
Una semplice estrapolazione dell‟interazione a due non è sufficiente a comprendere il
comportamento all‟interno dei gruppi, neppure di quelli “piccoli”, anche se è possibile,
naturalmente, riscontrarvi delle somiglianze.
“Due costituiscono una coppia, tre un piccolo gruppo”. Il più piccolo dei piccoli gruppi è
formato da tre persone.
Le dimensioni del più grande sono meno chiare; un‟indicazione utile viene dal sociologo R.F.
Bales: “Se ogni membro riceve da ognuno degli altri delle impressioni o percezioni, sufficien-
temente distinte per cui egli possa reagire ad ognuno degli altri membri preso singolarmente,
allora un insieme di persone può essere chiamato “piccolo gruppo”.
Gruppi che vanno da tre a circa trenta persone.
Quindi, prima caratteristica: ampiezza. Necessaria, ma non sufficiente.
Altra caratteristica fondamentale: l’interazione: i membri agiscono e reagiscono gli uni gli altri
ed in questo modo tra i loro comportamenti si instaura un rapporto di mutua influenza e di
interdipendenza.
Ancora un‟altra caratteristica ricorrente è che, un po‟ alla volta, i partecipanti cominceranno a
percepire il gruppo come un‟entità reale e sé stessi come dei membri: pertanto, la percezione
del gruppo come entità a sé stante da parte dei membri.
Il gruppo sviluppa, inoltre, degli obiettivi. Anche ove si costituisca per rispondere ad uno
scopo imposto dall‟esterno, è probabile che reinterpreti questo scopo secondo i propri punti di
vista ed è quasi certo che vi aggiungerà dei propri obiettivi.
Nel frattempo sorgeranno norme interne al gruppo; i membri agiranno secondo regole
prestabilite e si aspetteranno che così facciano anche gli altri: coloro che violano queste norme
si espongono alla disapprovazione ed a possibili sanzioni.
Dal momento in cui insiemi di norme giungono ad organizzarsi attorno a certe “posizioni”
11
all‟interno del gruppo, questo inizia ad avere una serie di ruoli.
Un‟ultima caratteristica è data dalla certezza che nel gruppo si stabilisca un insieme particolare
di relazioni affettive; i membri di un gruppo non sono emotivamente neutrali od indifferenti
l‟uno all‟altro. E‟ anzi più che probabile che l‟affettività interna al gruppo rappresenti uno dei
collanti maggiori di esso.
Proprio perché per prevedere e spiegare l‟operato delle persone entro i gruppi siamo costretti a
ricorrere a concetti come numerosità, interazione, percezione del gruppo, obiettivi, norme, ruoli
e relazioni affettive, possiamo dire che i gruppi sono, di fatto, reali, come entità psicologiche e
sociologiche.
Il gruppo è pertanto qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini
peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi.
Quel che ne costituisce l‟essenza non è la somiglianza o la diversità dei suoi membri, bensì la
loro interdipendenza.
Il grado di interdipendenza dipende, tra gli altri fattori, dall‟ampiezza, dalla coesione e
dall‟organizzazione del gruppo.
Esso in tal senso può definirsi come una totalità dinamica.
Un cambiamento di stato in una sua parte o frazione, interessa lo stato di tutte le altre.
Processi di gruppo
I processi, le dinamiche, di gruppo riguardano ciò che sta accadendo fra ed ai membri del
gruppo, mentre esso sta interagendo.
Nell‟ambito dell‟interazione di gruppo, infatti, si rilevano due aspetti fondamentali: contenuto
e processo.
Il contenuto riguarda l‟argomento, il compito, su cui il gruppo lavora.
Il processo riguarda elementi come il morale, la tonalità dei sentimenti, l‟atmosfera,
l‟influenza, gli stili d‟influenza, la leadership, la coesione, il conflitto, la partecipazione, la
competizione, la cooperazione, la motivazione, ecc.
Spesso, la causa maggiore di inefficace azione del gruppo è rappresentata da aspetti inerenti al
processo.
L‟attenzione e la sensibilità alle dinamiche di gruppo mette in grado di diagnosticare
precocemente i problemi ed, eventualmente, di gestirli più efficacemente.
Poiché i processi sono presenti in ogni tipo di gruppo, la consapevolezza di essi può consentire
una partecipazione più efficace; nonché fornire all‟operatore delle chiavi di lettura utili alla
comprensione di ciò che sta accadendo.
Piuttosto che parlare astrattamente di quelli che sono i processi emergenti del gruppo, appare
preferibile proporre alcune linee di osservazione, utili a dare evidenza a tali dinamiche ed a
sensibilizzarsi alla loro percezione ed individuazione.
Alcuni processi appaiono direttamente evidenti all‟osservazione, altri possono essere dedotti
dai primi.
1. Partecipazione
La partecipazione all‟interazione è indice dell‟interesse del componente ai problemi che il
gruppo dibatte.
Domande da porsi:
Chi ha partecipato di più?
Chi ha partecipato meno?
Mutamenti nel livello di partecipazione di un componente?
12
Comportamento del gruppo verso coloro che hanno partecipato meno.
2. Influenza
Influenza e partecipazione non sono la stessa cosa: qualcuno può parlare molto poco, ma essere
ascoltato attentamente dal gruppo; e viceversa.
Tipi di potere
Il potere sociale può essere definito come “l‟influenza potenziale di un soggetto X su di un
soggetto Y. L‟influenza viene definita come un cambiamento delle conoscenze, degli
atteggiamenti, del comportamento o dei sentimenti di Y che può essere attribuito a X”.
Tipi di potere, dal punto di vista del soggetto Y che può essere influenzato:
Potere di ricompensa: Y si rende conto che X ha il potere di ricompensarlo (bambino/madre);
Potere coercitivo: Y si rende conto che X ha il potere di punirlo (figlio/genitore);
Potere d‟esempio: Y desidera identificarsi od assomigliare ad X (fan/cantante);
Potere di competenza: Y attribuisce una maggiore conoscenza e competenza ad X
(discepolo/maestro);
Potere legittimo: Y accetta delle norme che permettono ad X di avere influenza su di lui
(avvocati/giudice);
Domande da porsi:
Chi è stato ascoltato attentamente quando ha preso la parola?
Chi è stato ignorato?
Che tipo di influenza è stato esercitato?
Che tipo di potere è stato espresso?
Cambiamenti nell‟influenza esercitata sul gruppo da un partecipante? In che direzione?
3. Stili di influenza
L‟influenza può assumere molte forme; può essere positiva o negativa (cioè può fare ottenere o
meno, a chi la esercita, il sostegno ed il gradimento degli altri).
Il modo in cui un membro tenta di influire sugli altri può rivelarsi fattore di grande importanza
nel determinare l‟apertura o la chiusura di altri a tale influenza (Lewin, Lippit e White 1958)
Autocratico, autoritario
Pacifista
Permissivo, lassista
Democratico, partecipativo
Domande da porsi:
Qualcuno ha cercato di imporre la sua volontà, i suoi valori al gruppo? Ha esercitato
pressioni sugli altri, per cercare di far sostenere le proprie decisioni? Ha espresso
valutazioni e giudizi sugli altri?
Qualcuno ha delegato il suo potere ad altri? Ha parlato soltanto per complimentarsi con gli
altri? Ha cercato costantemente di evitare conflitti e sensazioni spiacevoli?
Qualcuno ha manifestato disinteresse? Ha accettato passivamente le decisioni altrui, senza
prendere posizione? Partecipava meccanicamente e solo ove sollecitato?
Qualcuno ha cercato di far partecipare tutti alla discussione ed alla decisione? Ha accettato
con atteggiamento costruttivo le critiche? Ha espresso sensazioni ed opinioni, senza
esprimere giudizi o valutazioni sugli altri? Ha tentato di utilizzare i conflitti in modo da
promuovere un confronto positivo di idee?
13
4. Leadership
La complessità dello studio della leadership è evidenziato dai quattro approcci diversi adottati
in questo campo in momenti diversi.
Le caratteristiche della personalità dei leaders
Sono stati fatti grandi sforzi, dall‟inizio del 1900 fino agli anni „50, per descrivere la
personalità ed i correlati sociali degli individui identificati come leaders.
Questi correlati sono molti, anzi troppi.
Non è realistico aspettarsi che le stesse persone possano essere leaders in tutti i casi.
Ciò dimostra che valutare le caratteristiche delle persone ritenute leaders costituisce un
approccio poco fruttuoso.
Tuttavia sono emerse alcune generalizzazioni significative: i leaders di gruppo ottengono
punteggi più alti degli altri membri per quanto riguarda le valutazioni delle capacità
(intelligenza, quantità di conoscenze specifiche possedute, facilità di parola), della
socievolezza (partecipazione sociale, cooperatività, popolarità) e della motivazione (iniziativa,
perseveranza).
Fattori relativi alla situazione
Un diverso approccio, dal 1950, si è allora evoluto verso lo studio della coerenza e
dell‟incoerenza della leadership in situazioni differenti.
Quanto più il ricercatore modifica la situazione, tanto più riduce la coerenza di colui che
detiene la leadership.
Tuttavia, anche andando alla ricerca dei cambiamenti che si riscontrano nei leaders in
situazioni diverse, l‟approccio situazionale mantenne delle ipotesi sui leaders che non sono
state giustificate: esso accentrò l‟attenzione sugli individui specifici, anche se in situazioni
diverse.
Le funzioni della leadership
Un terzo approccio mette da parte il concetto di leader e ricerca invece quel comportamento
che potremmo considerare di leadership.
La leadership potrebbe venire definita, allora, come quel particolare tipo di comportamento
che spinge il gruppo al conseguimento dei propri scopi.
In un gruppo particolare la maggior parte di questi comportamenti potrebbe essere attribuita ad
un solo membro (leader), in un altro a due o più (leaders).
E‟ stato osservato che esistono funzioni specifiche per compiti, ma si è anche riscontrato che
un certo numero di funzioni ricorre in maniera sistematica.
Si è evidenziato che esistono almeno due funzioni di massima della leadership, importanti e
ricorrenti: una leadership orientata al compito, che si riferisce al comportamento che favorisce
gli scopi strumentali del gruppo, ed una leadership socio-emozionale, che si riferisce alle
attività che contribuiscono ad assicurare il benessere al gruppo stesso.
I ruoli della leadership
Un ultimo approccio è dato dall‟attenzione riservata ai ruoli giocati dalla leadership.
Il concetto di ruolo si riferisce ad una posizione, piuttosto che ad un individuo, tuttavia è un
concetto dinamico, che si riferisce ai processi ed al comportamento, una posizione in
movimento.
Tuttavia, un‟analisi della leadership in termini di ruolo richiede, quanto meno, una relativa
stabilità in tale comportamento, organizzato attorno ad una o più persone che lo assumono in
modo preponderante.
Qualora questi individui dovessero lasciare il gruppo, le loro posizioni permarrebbero e, una
volta che fossero di nuovo coperte, la struttura della leadership del gruppo sarebbe più o meno
14
quella di prima, anche se persone diverse svolgessero quelle funzioni.
Di solito la leadership viene ad organizzarsi intorno a due ruoli differenziati, ma
complementari.
Una figura è quella che è in grado di fornire la maggior parte delle idee e che viene considerato
il leader dagli altri.
L‟altra è quella meno attiva, ma più simpatica.
La leadership, pertanto, confermando l‟approccio funzionale, viene perciò ad organizzarsi
attorno a due ruoli coperti da due persone diverse, indicate di solito come “specialista nel
compito” e “specialista socio-emozionale”.
Tuttavia, soprattutto nel caso di legittimazione istituzionale, anche una sola persona può
coprire entrambi i ruoli.
Un tentativo di sintetizzare gli approcci anzi detti è relativo al “modello della contingenza”
(Fiedler), secondo il quale si ipotizza che l‟efficienza dei due stili opposti di leadership dipenda
dalle caratteristiche della situazione, favorevole o no al leader.
Secondo tale modello, quando le cose vanno nel modo migliore per il leader, egli dovrebbe
riuscire a rafforzare il proprio potere; quando la situazione è quasi caotica, una leadership
fortemente orientata al compito è meglio di niente; quando la situazione si regge su un delicato
equilibrio, allora il tatto, la considerazione e la consultazione sono probabilmente molto più
fruttuosi.
Domande da porsi:
Chi ha assunto la guida del gruppo?
Con quali modalità?
Che tipo di leadership?
Sono nate rivalità?
Lotte per la leadership?
Quali effetti hanno avuto sui componenti il gruppo?
5. Appartenenza al gruppo
I componenti il gruppo si preoccupano di essere accettati. Possono svilupparsi diversi modelli
di interazione, che offrono indicazioni sul livello e sul tipo di appartenenza.
In particolare, l‟appartenenza appare in diretta correlazione con la coesione (grado di
attrazione reciproca fra i componenti il gruppo): un gruppo mostra un alto grado di coesione
quando i propri membri sono fortemente attratti fra loro. Risulta condizionata da due ordini di
fattori principali (Cartwright e Zander, 1953):
Proprietà specifiche del gruppo (dimensione, obiettivo, composizione, leadership);
Bisogni di ogni membro del gruppo (quanto più il gruppo riesce a soddisfare i bisogni dei
membri, tanto più il grado di coesione è elevato)
Domande da porsi:
Si sono formati sottogruppi (in positivo, sostenendosi, o in negativo, ostacolandosi)?
Alcuni appaiono “dentro”, mentre altri sembrano “fuori”? Come vengono trattati quelli
“fuori”?
Alcuni si spostano da “dentro” a “fuori” e viceversa (con la postura, con la sedia, si
avvicinano e si allontanano)? In quali circostanze?
6. Procedure di decisione
15
Nel corso della vita del gruppo vengono assunte decisioni, senza prestare attenzione agli effetti
che tali decisioni, ma soprattutto i processi decisionali, potranno avere sui membri.
Sulle procedure di decisione influiscono, naturalmente, i processi di influenza sociale, i tipi di
potere, il tipo di leadership, le norme.
Modalità con cui si esprime la decisione:
Voto
Confronto
Consenso
Domande da porsi:
Che modalità decisionale è stata assunta? Effetti?
Qualcuno ha assunto una decisione ed ha cercato di realizzarla senza curarsi degli altri
(autocratico)? Effetti sugli altri?
Qualcuno ha offerto contributi e suggerimenti che sono stati ignorati? Effetti?
Sono stati fatti tentativi per coinvolgere attivamente tutti nel procedimento di decisione?
Effetti?
In che modo i suggerimenti e le decisioni dei membri sono stati supportati?
7. Comportamenti orientati al compito
Individuazione dei comportamenti riferiti all‟esecuzione del lavoro od alla realizzazione del
compito, che il gruppo deve affrontare.
In questo ambito, si riscontra l‟influenza particolare della leadership orientata, appunto, al
compito.
Domande da porsi:
Qualcuno ha posto domande, od enunciato suggerimenti, circa il modo migliore di
procedere per risolvere od affrontare il problema?
Qualcuno ha tentato di riassumere gli argomenti trattati nel corso della discussione, o i fatti
che si sono verificati all‟interno del gruppo?
Vi sono state richieste ed offerte di fatti, opinioni, idee, tentativi di ricercare soluzioni
alternative?
Chi ha aiutato il gruppo a stare in tema, ad evitare che si saltasse da un argomento all‟altro?
8. Funzioni di mantenimento
Queste sono le funzioni importanti per il morale del gruppo.
Servono a mantenere buoni ed armoniosi rapporti tra i componenti il gruppo ed a creare
un‟atmosfera tale da permettere ad ogni componente di dare il massimo contributo. Assicurano
un‟attività di gruppo distesa e priva di attriti.
In questo aspetto, si rileva l‟importanza del leader socio-emozionale.
Domande da porsi:
Chi ha aiutato gli altri a partecipare alla discussione?
Chi ha interrotto quelli che parlavano?
In che modo avviene lo scambio di idee tra i membri?
Vi è qualcuno troppo preoccupato per seguire la discussione?
Vi è qualcuno che aiuta gli altri a chiarire le loro idee?
16
In che modo le proposte, i contributi, vengono respinti? In che modo si reagisce a ciò?
9. Atmosfera di gruppo
Si tratta di quello che potrebbe essere definito il “clima” del gruppo.
L‟atmosfera è determinata da qualche fattore tipico del modo in cui il gruppo agisce e
prende forma in una sensazione generalizzata.
Naturalmente, le persone hanno preferenze diverse, circa il tipo di atmosfera, di clima, che
sperano di trovare in un gruppo.
Il trovare le parole che aiutino a descrivere l‟impressione comune, circa l‟atmosfera in cui
il gruppo agisce, può aiutare a comprenderne meglio le caratteristiche.
Domande da porsi:
Chi dà l‟idea di preferire un‟atmosfera amichevole, rilassata? Vi è qualcuno che tenta di
sopprimere i conflitti ed i contrasti?
Chi dà l‟idea di preferire un‟atmosfera di conflitto, di disaccordo? Qualcuno tende ad
annoiare, ad irritare?
I membri sembrano interessati, attenti?
E‟ un‟atmosfera distesa, armoniosa, pacifica?
E‟ un‟atmosfera tesa, elettrica?
Si tratta di un‟atmosfera di lavoro, di gioco, di soddisfazione, di pigrizia?
10. Emozioni
Siamo qui negli aspetti non verbali, affettivi in senso lato.
E‟ possibile farsene un‟idea dal tono delle voci, dalle espressioni facciali, dai gesti, dalle
varie manifestazioni non verbali.
Questi aspetti hanno grande rilevanza in rapporto alla meta-comunicazione, al livello di
relazione.
Offrono livelli di lettura sul piano affettivo.
Domande da porsi:
Quali emozioni sembra che provino i membri del gruppo: rabbia, irritazione, frustrazione,
calore, eccitazione, noia, competitività, ecc.?
Qualche tentativo di mascherare le proprie emozioni, particolarmente quelle ritenute
negative? In che modo?
11. Norme
Il gruppo sviluppa standard e norme di comportamento, che possono essere:
Esplicite (chiare per tutti)
Implicite (conosciute o sentite solo da alcuni)
Inconsapevoli (al di sotto del livello di consapevolezza di tutti)
Di solito, le norme sono espressione dei valori e dei desideri della maggioranza dei membri
circa ciò che può essere considerato “comportamento da adottare” (o “da respingere”) da parte
dei componenti il gruppo.
Alcune norme facilitano il processo del gruppo, altre lo ostacolano.
Domande da porsi:
17
Vi sono argomenti che il gruppo cerca di evitare? Qualcuno pare rafforzare queste
esclusioni? In che modo?
I membri si comportano reciprocamente in modo eccessivamente corretto od educato?
Vengono espresse solo emozioni considerate positive? Ci si mette d‟accordo con troppa
facilità?
Cosa accade quando qualcuno non è d‟accordo?
Si nota l‟esistenza di norme che regolano la partecipazione, o il tipo di interventi
consentiti?
I membri paiono sentirsi liberi di comunicarsi le proprie emozioni?
Gli interventi tendono ad essere limitati ad argomenti intellettuali od ad eventi estranei al
gruppo?
18
Bibliografia:
BROWN, R. Psicologia sociale dei gruppi, Il Mulino, 2000
COLAMONICO, P. Microcosmo, La Nuova Italia Scientifica, 1995
DE GRADA, E. Fondamenti di psicologia dei gruppi, Carocci, 1999
LICCIARDELLO, O. Il piccolo gruppo psicologico, Franco Angeli, 2005
LUFT, J. Dinamiche di gruppo, CittàStudi, 1997
SPALTRO, E. Conduttori. Manuale per l'uso dei piccoli gruppi, Franco
Angeli., 2005
SPALTRO, E. Il gruppo. Sintesi e schemi di psicologia plurale,
Pendragon, 1999
SPELTINI, G. , PALMONARI, A. I gruppi sociali, Il Mulino, 1999
Bibliografia leadership (oltre ai precedenti):
AVOLIO, B.J. Leadership a tutto campo, Guerini e associati, 2001
BENNIS, W., NANUS, B. Leader. Anatomia della leadership, Franco Angeli, 1988
DILTS, R.B. Leadership e visione creativa, Guerini e associati, 1999
GABASSI, P.G. e CERBAI, S. Leadership 1975-1996, Una bibliografia ragionata e
commentata, Franco Angeli
GORDON, T. Leader efficaci, La Meridiana, 1999
HERSEY, P., BLANCHARD, K., Leadership situazionale, Sperling & Kupfer, 1976
KERNBERG, O.F. Le relazioni nei gruppi. Ideologia, conflitto, leadership,
Cortina, 1999
KETS DE VRIES, M.F.R. Leader, giullari e impostori. Sulla psicologia della
leadership, Raffaello Cortina, 1998
KOTTER, J.P. Il fattore leadership, Sperling & Kupfer, 1989
QUAGLINO, G.P. Leadership, Nuovi profili della leadership per nuove
prospettive organizzative, Cortina, 1999
RICE, A.K., Esperienze di leadership, Giunti Barbera, 1974
TRENTINI, G., Oltre il potere, Discorso sulla leadership, Franco Angeli,
1999
19
La leadership situazionale
20
1. LA LEADERSHIP SITUAZIONALE
L'aspetto forse più innovativo della teoria della Leadership Situazionale, elaborata da Hersey e
Blanchard negli anni '70, è di aver superato gli schematismi e i "dogmatismi" delle precedenti
teorie sulla leadership, affermando che NON ESISTE UN MODO "GIUSTO" DI ESSERE CAPO,
non è possibile definire un solo stile di leadership che sia coerente alle diverse possibili situazioni,
ma al contrario, lo stile deve essere scelto in funzione delle diverse situazioni che il capo si trova di
fatto a gestire.
Il "nucleo" della Leadership Situazionale è tutto qui:
è una visione sistemica del rapporto capo-dipendente, nel quale il comportamento
dell'uno è influenzato da - e nello stesso tempo influenza - il comportamento dell'altro; il
tutto in relazione anche alle caratteristiche del contesto nel quale si sviluppa la relazione.
CONTESTO CONTESTO
COMPORTAMENTOdel DIPENDENTE
COMPORTAMENTOdel CAPO
Ora si tratta di trarre da questa idea di partenza delle indicazioni il più possibile operative, che siano
cioè utili per determinare il comportamento, lo stile del leader più coerente allo scopo di influenzare
meglio il comportamento altrui.
Possiamo porci fondamentalmente due ordini di domande:
COME ANALIZZARE E DEFINIRE LE SITUAZIONI
QUALI SONO I COMPORTAMENTI, GLI STILI PIU' COERENTI
21
2. L'ANALISI E LA DEFINIZIONE DELLE SITUAZIONI
Possiamo utilizzare come "discriminante" delle diverse situazioni il LIVELLO DI MATURITA' dei
collaboratori. Intendiamo per "maturità" l'insieme della "maturità nel lavoro" e della "maturità
psicologica".
La maturità nel lavoro è la competenza professionale specifica, l'esperienza maturata nello
svolgere un particolare lavoro, nel raggiungere un determinato obiettivo.
La maturità psicologia è la disponibilità e la volontà di assumersi in prima persona le
responsabilità che derivano dagli obiettivi assegnati; può essere considerato l'impegno nello
svolgere un lavoro,
Se un individuo, o un gruppo, possiede sia maturità lavorativa che maturità psicologica, emerge
un'altra dimensione della maturità che ne rappresenta un po' la sintesi:
l'AUTONOMIA che definiamo qui come la capacità di stabilire obiettivi di lavoro personali
elevati, ambiziosi, sfidanti, ma nello stesso tempo realistici e raggiungibili.
Possiamo affermare quindi che un individuo, o un gruppo, è "MATURO" quando:
possiede le competenze e le capacità necessarie per svolgere un lavoro;
è disponibile ad assumersi le responsabilità che ne derivano;
è capace di fissarsi obiettivi ambiziosi e raggiungibili.
Un capo si trova spesso a dover gestire singoli collaboratori ed in questo caso si tratterà di cercare
di definire il livello di maturità complessiva che l'individuo possiede.
E' opportuno ricordare che quando si gestisce un gruppo di collaboratori, il livello di maturità NON
è rappresentato dalla "media" delle maturità dei singoli: il gruppo è diverso dalla semplice somma
delle competenze dei collaboratori.
Incidono infatti, nel determinare la "maturità del gruppo", altri fatti quali il livello di conoscenza
reciproca, l'età del gruppo (cioè da quanto tempo è costituito come gruppo), il tipo di rapporti che
intercorrono tra i membri, il livello di fiducia reciproca, il grado di coesione, ecc.
E' chiaro che la maturità, del singolo o del gruppo, è anche in funzione delle caratteristiche dello
specifico compito e del contesto all'interno del quale viene richiesto il risultato; si tratta, in altre
parole, di analizzare il livello di complessità e di "novità" del compito e dell'ambiente, in
RAPPORTO alle caratteristiche di maturità dei collaboratori.
Possiamo rappresentare sinteticamente in modo grafico quanto detto, in questo modo:
MATURITA'- competenza- disponibilità- autonomia
CARATTERISTICHEINDIVIDUALI
CARATTERISTICHEDEL GRUPPO
CARATTERISTICHEAMBIENTALI
CARATTERISTICHEDEL TASK
Va sottolineato che a determinare la MATURITA' non sono i "valori assoluti", ma il RAPPORTO
RELATIVO tra caratteristiche dell'individuo, del gruppo, del task e dell'ambiente.
22
In questo senso si comprende come la maturità dei collaboratori non è un dato stabile, acquisito per
sempre, ma può variare fortemente in funzione della complessità del compito e/o del contesto nel
quale si opera.
Si rende a questo punto necessario "classificare" i diversi gradi di maturità, in modo da poterli poi
correlare ai diversi comportamenti del leader.
In altre parole: come determinare, operativamente la maturità dei collaboratori?
Evidentemente non esistono sistemi oggettivi che consentano di "misurare" una dimensione
complessa come quella della maturità. Si possono però costruire dei "questionari", delle "scale di
misurazione" che ci diano - perlomeno - delle indicazioni.
A puro titolo esemplificativo, riportiamo qui alcune domande che possono aiutare il capo a definire
il grado di maturità dei collaboratori:
M a t u r i t à l a v o r a t i v a
Questa persona, per svolgere questo particolare compito in questa situazione specifica:
ha esperienze di lavoro precedenti utili?
ha le conoscenze professionali necessarie?
ha la piena comprensione dei requisiti del lavoro?
M a t u r i t à P s i c o l o g i c a
Questa persona, nel perseguire questo particolare obiettivo in questa situazione specifica:
è pronta e disponibile ad assumersi responsabilità?
è motivata dal raggiungimento dei risultati?
si impegna nel lavoro?
Sinteticamente e schematicamente, si evidenziano quattro livelli di maturità (M):
BASSA MATURITA' (M1) La persona è non competente e non
preparata, non pronta ad assumersi
responsabilità.
MATURITA' MEDIO/BASSA (M2) La persona non è ancora competente, ma
dimostra disponibilità e volontà di
assunzione di responsabilità.
MATURITA' MEDIO/ALTA (M3) Il collaboratore è competente, ma si
mostra ancora insicuro, non
completamente disponibile ad assumersi
responsabilità personali.
ALTA MATURITA' (M4) Il collaboratore è ormai capace,
competente, disponibile, sicuro di sé.
E' chiaro che questa classificazione appena fatta è da ritenersi indicativa e da rappresentarsi lungo
un continuum che va dalla immaturità alla maturità completa.
23
3. GLI STILI DI COMPORTAMENTO DEL LEADER
Possiamo scomporre, da un punto di vista logico, il comportamento di un capo secondo due
dimensioni fondamentali:
IL COMPORTAMENTO DIRETTIVO o di GUIDA OPERATIVA
IL COMPORTAMENTO di RELAZIONE o di SOSTEGNO RELAZIONALE.
Il comportamento direttivo è composto da tutte le attività rivolte a fornire al collaboratore
indicazioni operative e normative, determinazione delle scadenze e dei controlli.
Il comportamento di relazione è composto dalle attività tese a favorire un buon rapporto capo-
dipendente e a fornire sostegno e supporto da un punto di vista più "psicologico", relazionale:
interazioni frequenti, coinvolgimento, scambio di opinioni, interesse per i problemi personali,
ascolto attivo, comunicazioni franche ed esplicite, ecc.
E' chiaro che, nella realtà, qualunque comportamento adottato da un capo sarà sempre un mix di
queste due dimensioni fondamentali; ciò che distingue un "stile" da un altro è proprio il prevalere di
una dimensione sull'altra e l'intensità di questi comportamenti. Ad esempio è possibile che lo stile di
un particolare capo sia caratterizzato da una grossa componente di indicazioni operative, di
istruzioni specifiche e da poca attenzione alla relazione personale: ciò non significa "non parlarsi",
ma tendenzialmente i rapporti capo-dipendente saranno caratterizzati soprattutto dai contenuti
tecnico-professionali del lavoro, preoccupandosi meno del "fattore umano" della relazione.
24
Graficamente possiamo rappresentare lo "stile del leader" usando queste due componenti
fondamentali:
alto
bassoaltobasso
comportamentodirettivo
E' da sottolineare che l'origine di questi assi non è zero; non è ipotizzabile infatti che un capo non
dia nessuna direttiva o non abbia nessuna relazione con i suoi collaboratori.
Proviamo ora a mettere in relazione i diversi livelli di maturità dei collaboratori con lo stile del
capo, cercando di individuare le maggiori coerenze in termini di efficacia.
25
3.a LA COERENZA TRA MATURITA' E
STILE
BASSA
MATUR
ITA'
(M 1) Persona non competente e non
preparata all'assunzione di
responsabilità.
Qual è lo stile più efficace nei confronti di una persona (o di un gruppo) caratterizzata da una bassa
maturità?
Probabilmente questo collaboratore avrà bisogno, prima di ogni altra cosa, di avere indicazioni
precise sul lavoro da eseguire, di conoscere a fondo la normativa e le procedure necessarie per
svolgere adeguatamente le proprie mansioni, mentre minore importanza avrà per lui - in questo
momento - l'aspetto relazionale.
Chiamiamo questo stile "TELLING", cioè "CHE DICE" le cose da fare, in una parola uno stile
DIRETTIVO nel quale il leader prende le decisioni per i collaboratori, pianifica ed organizza loro
il lavoro; il ruolo dei dipendenti consiste nel fare ciò che viene loro comunicato.
alto
bassoaltobasso
comportamentodirettivo
stiledirettivo
Come si vede, questo stile è caratterizzato da un ALTO comportamento direttivo e da un
relativamente BASSO comportamento di relazione (S1).
26
MATURITA'
MEDIO/BASSA
(M2) Persona non ancora
competente, ma disponibile
ad assumere responsabilità.
Questa persona è caratterizzata, rispetto a quella in M1, da una maggior disponibilità allo sviluppo
professionale: dimostra volontà di crescere e di assumere le responsabilità, ma non è ancora
completamente capace di fare il lavoro assegnato.
Sarà dunque opportuno mantenere relativamente alto il supporto e l'aiuto per ciò che riguarda il
contenuto del lavoro, affiancato però dall'attenzione crescente a spiegare il perché delle decisioni, a
tenere in considerazione l'opinione del collaboratore e a sviluppare quindi un comportamento di
relazione più alto.
E' uno stile che potremmo definire PERSUASIVO, nel quale le decisioni rimangono una
responsabilità del capo, ma vengono illustrate e motivate con l'obiettivo di coinvolgere
maggiormente il collaboratore attraverso un comportamento di relazione sempre più intenso.
alto
basso
altobasso
comportamentodirettivo
stilepersuasivo
E' uno stile caratterizzato da un ALTO comportamento direttivo affiancato da un ALTO
comportamento di relazione (S2).
27
MATURITA'
MEDIO/ALTA
(M3) Persona competente, ma
ancora insicura per ciò che
riguarda l'assunzione di
responsabilità individuali.
Il collaboratore è, da un punto di vista "lavorativo", ormai maturo, capace di svolgere
adeguatamente le proprie mansioni; mostra però qualche incertezza sul piano della
"determinazione", della sicurezza delle proprie scelte che pure sono oggettivamente corrette.
E' quindi il caso di diminuire progressivamente il comportamento direttivo, mantenendo però alto il
comportamento di relazione: si tratta di "rassicurare" il collaboratore, di dargli "fiducia nelle
proprie capacità", condividendo con lui il peso della responsabilità finale.
In questo stile PARTECIPATIVO, il capo e collaboratore decidono insieme le scelte qualificanti il
lavoro e l'attenzione prevalente del leader sarà tesa ad agevolare l'assunzione di decisioni autonome
da parte del collaboratore.
alto
bassoaltobasso
comportamentodirettivo
stilepartecipativo
Lo stile partecipativo è caratterizzato da un BASSO comportamento direttivo e da un ALTO
comportamento di relazione (S3).
28
ALTA
MATU
RITA'
(M4) Persona capace, competente,
disponibile, responsabile, sicura di sé.
A questo punto il collaboratore è autonomo, è in grado di fissarsi gli obiettivi all'interno delle linee
guida di riferimento stabilite dal capo.
In questa situazione l'intervento del leader è limitato alla definizione delle linee di riferimento
generali e alla disponibilità a fornire ai i collaboratori aiuto e supporto solo quando viene richiesto.
E' uno stile DELEGANTE, nel quale i livelli di interazione personale sono relativamente bassi e
molto scarso il comportamento direttivo. (S4)
alto
bassoaltobasso
comportamentodirettivo
stiledelegante
29
Uno schema riassuntivo di quanto esposto:
STILE 3 STILE 2
STILE 4 STILE 1basso
basso altoCOMPORTAMENTO DIRETTIVO
(GUIDA)
MODERATAALTA BASSA
M4 M3 M2 M1
Maturità dei Collaboratori
stile di leadership
La curva "a campana" tracciata nel grafico rappresenta lo stile più efficace in funzione della
maturità dei collaboratori (evidenziata lungo un continuum da destra a sinistra - bassa e alta).
Come evidenziato dalla figura, i quattro stili fondamentali che abbiamo illustrato sono un graduale
modificarsi del mix delle componenti fondamentali (relazione e guida).
30
4. CONSIDERAZIONI GENERALI
4.1 LE DEGENERAZIONI DEGLI STILI
Crediamo valga la pena di sottolineare come ognuno di questi stili sia coerente ad una data
situazione di maturità e nello stesso tempo che ciascuno di questi modi di "essere capo" può
degenerare in un comportamento che non è mai funzionale.
"Fuori" dallo schema sopra esposto si possono evidenziare le esasperazioni degli stili:
uno stile eccessivamente direttivo rischia di diventare autoritarismo;
un certo modo, un po' capzioso di persuadere diventa facilmente manipolazione, con
tutti gli effetti boomerang che ne conseguono;
partecipare sempre o comunque è assemblearismo, primo passo per lo scarico di
responsabilità individuali ("è stato il gruppo") e per non decidere;
lo stile delegante non deve diventare lassismo e disinteresse.
4.2 UTILIZZO DELLO SCHEMA
Una delle responsabilità del capo dovrebbe essere quella di favorire lo sviluppo professionale
dei collaboratori che gli sono affidati. Questo significa che lo stile del leader dovrebbe,
partendo dalla maturità attuale dei collaboratori, stimolarne la crescita in termini di maturità.
Riprendendo ciò che si diceva all'inizio e interpretando questo schema in un'ottica sistemica,
dovrebbe essere possibile, per il capo, "educare" gradualmente i propri collaboratori,
influenzandoli con il proprio stile di comando.
L'errore gravissimo che può commettere un capo è infatti quello di "dirigere" i propri
collaboratori adottando uno stile coerente ad un livello di maturità "inferiore" rispetto a quello
effettivo. Ad esempio adottare uno stile direttivo con collaboratori di maturità M3. La
conseguenza è quella di provocare una sorta di "involuzione" nella maturità delle persone o
perlomeno, di farle sentire "soffocate" da uno stile troppo pressante.
Altrettanto rischiosa è la situazione opposta: ad esempio avere uno stile delegante a fronte di
maturità M1 o M2.
Le persone si sentono in questi casi, "abbandonate" e possono interpretare la delega o la
partecipazione come lassismo o scarico di responsabilità da parte del capo. In una parola, il
modificarsi dello stile - che pure è necessario - deve essere graduale nel tempo.
Quanto detto vale per lo sviluppo professionale del collaboratore: idealmente, dal momento
dell'assunzione (M1) all'autonomia completa (M4).
Abbiamo visto però che la maturità dei singoli individui (e dei gruppi) è in funzione anche
dello specifico compito da svolgere e dello "stato d'animo" del momento: un collaboratore
normalmente autonomo può, per motivi personali di insoddisfazione e di scoramento,
"retrocedere" ad un livello di maturità inferiore; un obiettivo nuovo e particolarmente
complesso da raggiungere, in una situazione ambientale incerta ed ostile, determina un
31
"abbassamento" della maturità relativa di collaboratori normalmente gestiti in modo
partecipativo. Il leader deve possedere la capacità e la sensibilità di valutare queste variazioni
della "maturità relativa" dei collaboratori e modificare di conseguenza momentaneamente il
proprio stile di guida.
4.3 GLI STILI INDIVIDUALI
La ricerca sperimentale ha evidenziato che la gran parte dei managers è caratterizzata dall'uso
prevalente di uno o due stili, che vengono chiamati stile fondamentale e stile di sostegno, e
dal relativo abbandono degli altri due stili.
Ci riferiamo in questo caso a persone che tendono ad adottare un certo stile perché coerente
con i propri bisogni e con la loro "personalità" e non in funzione della maturità effettiva dei
collaboratori.
La combinazione di due stili determina una sorta di "profilo" prevalente del manager che può
comportare alcuni rischi.
Vorremmo qui evidenziare i "pericoli" dei diversi profili, ricordando che sono da considerarsi
tali nel momento in cui i managers adottano solo, o con grossa prevalenza, gli stili qui
descritti indipendentemente dalla situazione specifica.
32
Profilo 1-3 (direttivo-partecipativo)
Il rischio più grosso che corrono i managers con questo tipo di profilo è di
ETICHETTARE i propri dipendenti, dividendoli in due grandi categorie nelle quali si
perdono tutte le sfumature individuali. da una parte i "buoni", persone motivate ed
affidabili, dall'altra i "cattivi", pigri, irresponsabili da tenere sotto stretto controllo.
Essendo la relazione capo-dipendente un fenomeno sistemico, il rischio vero è che
questa "visione del mondo" del manager diventi poi la realtà effettiva: trattando le
persone sempre in modo direttivo, queste non si assumeranno nessuna iniziativa e
tenderanno a sfuggire gli incarichi più gravosi confermando in questo modo la
"profezia" del capo.
Profilo 1-4 (direttivo-delegante)
Questo profilo è molto simile a quello 1-3 con una differenza: la divisione dei
dipendenti in due categorie non è fatta sulla base della loro motivazione al lavoro, bensì
sulla loro competenza.
Da una parte ci sono i "competenti", che vengono "lasciati in pace", liberi di svolgere in
piena autonomia i compiti affidati, dall'altra gli "incompetenti" che hanno bisogno di
guida costante, di indicazioni precise, di controlli puntuali.
Anche in questo caso valgono le riflessioni fatte in precedenza a proposito delle
"profezie autoconfermanti".
Profilo 2-3 (persuasivo-partecipativo)
E' il profilo più diffuso; il rischio di questo profilo è di essere scelto perché "non
rischioso". Di fatto adottando questi stili non si rischiano grosse incoerenze tra il
comportamento del capo e la maturità dei collaboratori; si tende però ad "appiattire" le
differenze, non si colgono le situazioni nelle quali sarebbe più opportuno un
comportamento direttivo o uno stile delegante: le persone e le situazioni vengono
considerate tutte simili.
Profilo 1-2 (direttivo-persuasivo)
Questi managers non diminuiscono mai il loro comportamento di guida, sono sempre
portati, in altre parole, a "condurre il gioco". E' il profilo tipico degli "ex-venditori" o
degli "ex-tecnici" passati a ruoli direzionali, ma che non smettono di interessarsi a fondo
dei contenuti tecnici del lavoro, dando indicazioni precise di comportamento anche
quando i collaboratori potrebbero essere in grado di decidere autonomamente. Ciò che
questi managers pensano è spesso qualcosa del tipo "nessuno può fare le cose meglio di
come faccio io".
33
Profilo 2-4 (persuasivo-delegante)
Sono i managers che tendenzialmente sono portati ad avere delle relazioni interpersonali
molto intense con i propri collaboratori fornendo loro tutto il supporto tecnico e
direttivo di cui hanno bisogno (stile 2). Non sono però capaci della necessaria gradualità
nel passare allo stile delegante: se il collaboratore reagisce bene allo stile persuasivo e
dimostra interesse, viene "di colpo" responsabilizzato dando così la sensazione di un
ingiustificato abbandono. Il collaboratore può infatti interpretare la delega completa
come disinteresse del capo nei suoi confronti, come una "punizione" non meritata.
Profilo 3-4 (partecipativo-delegante)
Il rischio di adottare sempre e solo questo profilo è di essere di fatto di poca guida. E'
tipico dei capi interessati al "fattore umano", ma che tralasciano - forse per mantenere
delle buone relazioni - la necessaria attenzione agli obiettivi ed ai risultati. Questi
managers sono "incapaci" di gestire persone con bassa maturità che rischiano di non
essere aiutate a crescere dal punto di vista professionale.
Vorremmo sottolineare ancora che queste descrizioni sono per forza di cose schematiche e per
certi versi semplicistiche: l'obiettivo era di evidenziare i rischi dovuti all'adozione di stili
"monolitici", senza la necessaria flessibilità di comportamento che le situazioni richiedono.
Apprendimento organizzativo, individuale e generativo
Cosa mai sarà una learning organization? Che fattori e dinamiche la caratterizzano? Come
sviluppare organizzazioni che imparino e che facilitino lo sviluppo delle proprie persone?
Una learning organization è un‟organizzazione in cui le persone possono espandere continuamente
le proprie capacità per raggiungere i risultati che vogliono. In queste organizzazioni è diffuso un
orientamento alla creazione di nuovi modelli e strumenti, alla libertà di espressione delle
aspettative-aspirazioni individuali e all‟integrazione delle diverse ottiche.
Il paradigma della LO si diffonde per assumere strategie flessibili, adattive e produttive a fronte di
contesti macrosociali fluidi ed altamente destrutturati. Ma per raggiungere questo obiettivo è
necessario che organizzazioni e persone ri-scoprano come aver voglia di imparare
quotidianamente e ad ogni livello e da ogni esperienza; è necessario uno shift-of-frame da un
orientamento alle procedure ad uno più focalizzato sulla vision.
Si possono presentare alcune tipiche situazioni a questo proposito:
La maggior parte delle persone ha la capacità e la voglia di imparare ma l‟organizzazione (o
la funzione) in cui lavorano spesso non favoriscono la riflessione e lo scambio di idee.
L‟organizzazione incoraggia la riflessione e lo scambio di idee ma le persone non hanno
voglia.
L‟organizzazione e le persone non incoraggiano la riflessione e lo scambio di idee e le
persone.
34
L‟organizzazione incoraggia e facilita la riflessione, lo scambio e la generazione di idee e le
persone hanno voglia di partecipare a questo processo creativo.
L‟apprendimento è la capacità che permette all‟essere umano (ed alle sue organizzazioni) di ri-
creare sé stesso in relazione all‟ambiente ed alle proprie aspettative, l‟apprendimento può essere
dunque considerato come lo strumento che l‟uomo utilizza per ottimizzare la sua relazione con
l‟ambiente. Riprendendo le Scale Evolutive (Bruscaglioni, 2001; Sardu, 2003) possiamo
ipotizzare, in figura 1, la scala evolutiva tendenziale dello strumento apprendimento. Questa
rappresentazione permette di focalizzare l‟attenzione sul processo evolutivo e sui salti di qualità
che il soggetto compie per raggiungere lo stadio evolutivo seguente.
Primariamente un individuo e un‟organizzazione impara a fronteggiare le esigenze di
sopravvivenza; in una fase successiva, al variare delle condizioni ambientali la persona o
l‟organizzazione impara per far fronte ai nuovi aspetti emergenti del contesto; nella fase seguente
la persona (o qualsiasi altro sia il soggetto protagonista) impara a trasformare pezzi del contesto a
seconda delle proprie esigenze, comincia ad intervenire sull‟ambiente; nel successivo momento il
soggetto impara a generare, a creare nuove cose e nuovi pezzi di mondo che prima non esistevano.
L‟apprendimento generativo prevede i livelli precedenti di apprendimento e li ingloba, non si dà il
successivo senza il precedente, ma avere in mente quale sia il successivo gradino evolutivo aiuta
nell‟acquisizione delle risorse necessarie per compiere il salto di qualità verso il seguente.
Possiamo leggere l‟intero processo come processo in cui la persona apprende come utilizzare lo
strumento apprendimento a fronte di diverse condizioni e, dunque, chiederci come facilitare
l‟acquisizione e l‟utilizzo di questo strumento per creare e sviluppare learning organization.
Oppure possiamo leggerlo come il processo in cui il soggetto da passivo-spettatore diventa attivo-
attore, da responsivo nei confronti del mondo a creatore di nuovi pezzi di mondo.
35
Figura 1: Scale evolutive applicato all'apprendimento
GESTIRE IL BENESSERE ORGANIZZATIVO
di Carlo Consiglio
La “Modernità liquida”descritta dal sociologo Bauman attraversa anche le organizzazioni produttive
e addette ai pubblici servizi. L‟incalzare dei cambiamenti non consente di consolidare esperienze,
competenze, processi operativi perché intanto bisogna riadattarsi a nuovi scenari tecnologici e a
nuovo scenari di concorrenza globale. La società dell‟abbondanza ha liberato parte della
popolazione dalle rigidità imposte dalla limitatezza delle risorse senza tuttavia trovare equilibri che
garantiscano il benessere personale. Nei contesti organizzativi il principio della rapidità, di
innovazione, di cambiamento, di riconversione, diventa sempre più strategico di quello di
consolidamento, di posizione, di sfruttamento del knowhow acquisito. La gerarchia, che garantiva
continuità, “saggezza”, responsabilità decisionale diventa ostacolo, difesa del potere, incapacità a
recepire le istanze della base professionale, le richieste dei mercati, le opportunità da cogliere.
A livello delle persone che operano nelle organizzazioni tutto questo si traduce in stress, sia
negativo, disagio, sofferenza, perdita di sicurezza, sia positivo, impegno, ricerca, carico di lavoro. I
sintomi di questo malessere e di questa pressione sono da tempo presenti, riconoscibili e
riconosciuti, analizzati con le indagini sul clima organizzativo e sulle strategie di coping, con
misurazioni dello stress e le ricerche sul burnout, testimoniati dalla domanda formativa in
36
evoluzione dalle competenze tecnico-professionali alle capacità personali, di autostima, di
resistenza (hardiness), di selfmanaging, di “resilienza”.
Fondamentalmente la tematica del benessere organizzativo nasce dall‟esigenza di valorizzare al
massimo il contributo delle risorse umane in ambito organizzativo. A sua volta l‟esigenza di
ottenere questa valorizzazione deriva da una serie di fattori che hanno profondamente trasformato i
contesti organizzativi sia produttivi che amministrativi, sia pubblici che privati. Si rifletta sul fatto
che i processi produttivi di qualsiasi natura (produzione di beni, di servizi, di apprendimento, di
ricerca, di aiuto) sono sempre stati regolati da impianti organizzativi basati sulla predisposizione di
strutture, procedure, sistemi di potere, strumentazioni operative e gestionali progettati in funzione
della razionalizzazione e della economia delle attività da svolgere, e della loro verificabilità e
controllabilità. In questi apparati organizzativi “pre-disposti” si inseriscono poi le competenze e le
energie delle persone che forniscono il loro apporto lavorativo. Ancorché gli apparati siano in
continua evoluzione e aggiornamento resta il fatto che la partecipazione delle risorse umane risulta
sempre adattiva e subordinata alle esigenze di un processo produttivo pre-stabilito.
Questa impostazione, da cui sembra non si possa mai uscire, ha comportato da sempre una serie di
implicazioni, di conseguenze e di problematiche. Ha implicato inizialmente una concezione
meccanicistica del contributo delle persone, prevedendone una prestazione “tecnica” che ignorava,
e considerava disturbanti, le componenti soggettive di tipo motivazionale, relazionale e emozionale.
Si è privilegiato così più l‟attenzione all‟apporto quantitativo ed esecutivo della prestazione
(lavorare sodo, impegnarsi di più, fare il proprio dovere, non fare errori, rispettare le regole e gli
adempimenti) che all‟aspetto qualitativo e innovativo, generando una cultura gestionale e una
leadership autoritaria ancora oggi molto presenti. Successivamente si è indagato a fondo sulle
componenti soggettive del lavoratore sia sul fronte del miglior utilizzo e rendimento nell‟apparto
produttivo (che restava sempre pre-stabilito), sia sul fronte della minimizzazione di danni e
ostacoli, e conseguenti costi, dovuti alla sua autonomia emozionale e psichica, causa di
disfunzionalità di grande portata (disaffezione, assenteismo, infortunistica, conflittualità, burn-out,
ecc.). Ciò spiega come tradizionalmente l‟attenzione del benessere organizzativo si è concentrata ad
elaborare due tematiche principali, quella della sicurezza sul lavoro e quella della salute psicofisica
della persona. Ma in entrambi i casi l‟impostazione è stata inevitabilmente risanatoria, riduttiva, tesa
cioè a ridurre, a diminuire il malessere e dunque il benessere era inteso come assenza del malessere,
come eliminazione del disturbo, come normalizzazione (cioè primato della norma), non come
aggiunta di un elemento generativo. Si è rimasti cioè nella logica dei “fattori igienici” di Herzberg,
quelli che creano conflittualità solo se carenti, ma che, perseguita una certa soglia di accettabilità,
non inducono di per sé stimoli motivanti.
E questo è il punto, perché attualmente lo scenario in cui agiscono le organizzazioni è radicalmente
mutato e con ciò tutte le implicazioni connesse. I processi produttivi, pubblici e privati, devono
confrontarsi costantemente con: evoluzione tecnologica a incremento esponenziale, annullamento
delle distanze spaziali e temporali, globalizzazione e competitività esasperata, alta domanda di
qualità dell‟output (prodotti e servizi) a fronte della pesante compressione delle risorse investibili in
input, diversificazione e innovatività dei contenuti e delle attività, incessante e precipitosa
variabilità degli assetti economici e sociali, delle tipologie di “governance”, delle emergenze
energetiche ed ambientali.
I fattori di successo (o di sopravvivenza) in questo contesto diventano: la prontezza di reazione e di
riconversione, la flessibilità e l‟adattabilità, l‟intelligenza “situazionale”, la forte integrazione delle
variabili di sistema, l‟autonomia decisionale e la responsabilità.
37
In questa nuova sfida, i processi produttivi governati da apparati organizzativi pre-disposti in base a
parametri tecnici e normativi risultano ineluttabilmente rigidi, vincolanti, paralizzanti, contro-
produttivi. Ed è invece la risorsa umana quella che diventa determinante, diventa risorsa strategica,
pregiata, fattore differenziativo,“capitale umano”. E sono infatti le persone le uniche risorse
dell‟organizzazione in grado di poter essere flessibili, adattabili, intelligenti, situazionali, in
apprendimento continuo, collaborative, creative e innovative, autonome e responsabili. Ma le
persone sono anche un sistema integrato complesso in cui lottano perennemente per l‟equilibrio
ragione e passione, valori e emozioni, idealità e debolezze, ambizioni e risentimenti, intelligenze e
intolleranze, ansie e talenti, disponibilità e bisogni, ecc. ecc. La persona è dunque un soggetto
psicologico, non il mero contraente di una transazione economica, le cui performances si
acquisiscono con un contratto o con un incentivo. Cade il mito delle prestazioni corrispettive lavoro
contro denaro, attraverso cui, tirando e spingendo, ci si illude ancora che tutto si possa ottenere
dalle persone. La valorizzazione delle persone richiede molto di più, richiede un ambiente che le
coinvolga nel mobilitare spontaneamente tutte le potenzialità produttive.
Questo “ambiente generativo” deve essere caratterizzato da quello che oggi viene individuato come
“benessere organizzativo”, cioè un contesto che favorisca l‟investimento psichico dei soggetti che
vi operano, e, per questa via, l‟appartenenza, la partecipazione, l‟espansività del proprio potenziale,
l‟espressione delle competenze, la generazione di soluzioni e di innovazione, la rigenerazione delle
energie, la relazionalità positiva e solidale, la costituzione di un clima avvincente, rassicurante e
gratificante. E‟ un contesto che va analizzato e compreso in ogni specifica variabile produttiva per
poi poterne incrementare intenzionalmente il tasso di benessere con progettualità gestionale.
E proprio l‟acquisizione degli elementi e degli strumenti per declinare questa progettualità
gestionale è l‟obiettivo pedagogico del Master, la cui architettura segue un percorso che attraversa
tutte le aree gestionali dell‟organizzazione che incidono nella costituzione del contesto generativo.
Gli esperti in benessere devono essere professionisti in grado di “leggere” i processi organizzativi e
di individuare le aree di criticità psicologica e professionale attraverso strumenti di rilevazione
come l‟analisi del clima, la valutazione dei fattori di stress, l„accertamento degli agenti di disagio
motivazionale, sia di natura relazionale, sia operativa, sia strutturale.
Le aree della gestione del benessere organizzativo individuate sono nove e per esigenze di sintesi di
seguito ne viene sviluppata una rassegna che traccia le componenti specifiche di ogni area.
Le aree sono:
1. BENESSERE GESTIONALE
2. BENESSERE PROCESSIVO
3. BENESSERE STRUMENTALE
4. BENESSERE PRESTAZIONALE
5. BENESSERE PROFESSIONALE
6. BENESSERE RELAZIONALE
7. BENESSERE VALUTATIVO
8. BENESSERE AMBIENTALE
9. BENESSERE CONTRATTUALE
38
I contenuti essenziali delle aree sono:
1. BENESSERE GESTIONALE
Chiarezza della vision e dei valori e coerenza delle strategie
Credibilità, affidabilità e omogeneità della leadership
Visibilità di prospettive
Omogeneità e compattezza della cultura organizzativa
Supporto nelle situazioni di crisi e gestione positiva degli insuccessi
Programmabilità non vanificata da contraddizioni gestionali
Trasparenza dei processi decisionali
2. BENESSERE PROCESSIVO
Linearità e fluidità dei lay-out per avere la massima razionalità ed efficienza
Funzionalità ed essenzialità dei processi operativi (evitando incoerenze, duplicazioni, sprechi,
ecc.)
Partecipazione alla progettazione dei processi operativi
Distribuzione appropriata dei ruoli e dei carichi di lavoro e delle risorse professionali e
strumentali
Integrazione intersettoriale (compatibilità procedure, format, software, ecc.)
Cultura e prassi del “cliente interno”
3. BENESSERE STRUMENTALE
Tecnologie adeguate e avanzate
Disponibilità degli strumenti e dei mezzi
Istruzione efficace e personalizzata
Help desk tempestivi all‟uso delle tecnologie
Efficienza della manutenzione
Sistemi di comunicazione interna
Accessibilità dei data base
Automazione di processi in tempo reale
39
4. BENESSERE PRESTAZIONALE
Bilancio delle competenze approfondito e aggiornato
Matching tra competenze e ruoli
Assegnazione di delega effettiva
Attribuzione dei livelli di responsabilità e di autonomia appropriati ai soggetti
Coinvolgimento negli obiettivi e nelle programmazioni
Fattibilità e “engagement” di compiti e risultati assegnati
Riconoscimento dei risultati
5. BENESSERE PROFESSIONALE
Prospettive di crescita e di autorealizzazione
Presenza di attività di tutorship e mentoring
Coaching personalizzato di sviluppo a parte dei capi
Opportunità di apprendimento e di esperienze
Programmi mirati di formazione
Cura delle pari opportunità
Utilizzo della valutazione del potenziale
6. BENESSERE RELAZIONALE
Qualità delle relazioni e della comunicazione
Spirito di collaborazione e fiducia reciproca
Largo impiego della dimensione di gruppo (team work, team building, ecc.)
Ascolto delle problematiche e del dissenso
Clima organizzativo monitorato periodicamente
Attenzione ad evitare situazioni di mobbing e bossing
7. BENESSERE VALUTATIVO
Anticipazione e chiarezza dei criteri valutativi
Omogeneità tra i valutatori nell‟applicazione dei criteri
Coerenza ed equità nell‟applicazione dei criteri
Riconoscimenti sia individuali che di gruppo
Colloqui personalizzati di valutazione
Trasparenza dei criteri di mobilità
8. BENESSERE AMBIENTALE
Localizzazione della sede di lavoro e raggiungibilità (tempi e mezzi)
Localizzazione interna degli uffici (contiguità, accessibilità, barriere)
Spazi di lavoro: ampiezza, salubrità, gradevolezza, riservatezza e comfort
Servizi: mensa, distributori bevande, infermeria, asilo nido, navette, ecc.
Rispetto dei vicoli ambientali, acquisti ecologici, certificazione ambientale
9. BENESSERE CONTRATTUALE
Chiarezza contrattuale e retributiva
Perequazione contrattuale e retributiva
Copertura assicurativa e previdenziale
Opzionalità contrattuale
40
Flessibilità ad personam
Compatibilità internazionale.
Essere esperti di benessere organizzativo, in conclusione, non vuol dire sapersi sostituire ai manager
in tutti i rami della gestione aziendale, ma vuol dire avere la preparazione e gli strumenti per
leggere e analizzare le situazioni contingenti, saper diagnosticare un clima organizzativo, sapersi
orientare nell‟individuare le aree critiche di intervento per migliorare la condizione prestazionale
delle persone, saper pianificare, insieme ai responsabili degli enti e delle aziende, un programma di
sviluppo interno inteso a instaurare quel “ambiente generativo” indispensabile per ottenere una alta
qualità dei risultati.
L‟ambizione di fondo di questo progetto è di liberarsi dal vincolo tayloristico primigenio e che si
arrivi a concepire processi produttivi e amministrativi in cui le componenti strutturali (normative,
organizzazione, lay-out, procedure, strumenti) non siano “pre-stabiliti”, ma, pur nel rispetto dei
vincoli, siano costruiti e implementati in funzione e al servizio delle esigenze di espressione dei
know-how, delle professionalità e delle passionalità delle persone impegnate a operarvi
Carlo Consiglio, consulente senior, docente di Promozione del Benessere presso l’Università di
Genova e al Master in Benessere Organizzativo dell’Università di Firenze.
BIBLIOGRAFIA
- Avallone F., Paplomatas A. (2005), Salute Organizzativa. RaffaelloCortina, Milano.
- Ballabio L., Paronetto D. (2006), Personaleprofessionale. Formare ben-essere e bell-
essere nelle nostre persone e nell'organizzazione, Franco Angeli, Milano.
- D‟Amato A., Majer V. (2005), Il vantaggio del clima. RaffaelloCortina, Milano.
- D‟Imperio G. (2005) La passione per l’emozione: la prossima meta dei manager, in
“Senza passione non c‟è vita”. Ed. Scuola di Palo Alto, Milano.
- Di Nuovo S., Rispoli L., Genta E. (2000), Misurare lo stress. Franco Angeli, Milano.
- Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica 24 marzo 2004 “Misure finalizzate al
miglioramento del benessere organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni”.
- Hamel G. (2001), Leader della Rivoluzione. Il Sole24Ore, Milano.
- Mayer V., Marocci G. (2003), Climi Organizzativi. Carocci, Roma.
- Marocci G., Andreoni P. (1997), Sicurezza e Benessere nel Lavoro. Ed. Psicologia, Roma.
- Zani B., Cicognani E. (1999), Le vie del benessere. Carocci, Roma.
- Zapelli G.M., (2005) Esercizi di coraggio. Etas, Milano.
Prevenire il burnout e costruire l‟impegno
Nello studio delle possibili cause del burnout è fondamentale includere l’analisi del contesto
organizzativo nel quale l’individuo opera. La struttura e il funzionamento di questo contesto
sociale plasmano il modo in cui le persone interagiscono tra loro e il modo in cui eseguono il
41
loro lavoro. Quando l’ambiente lavorativo non riconosce l’aspetto umano del lavoro, il rischio
di burnout cresce, portando con sé un alto prezzo da pagare.
Nella natura del lavoro stanno avvenendo cambiamenti dirompenti dovuti alla competizione
globale, all’innovazione tecnologica, ai sistemi di controllo più serrati e a una retribuzione
inadeguata. Il contesto organizzativo è continuamente modellato da forze sociali, culturali ed
economiche potenzialmente rischiose. Di conseguenza, le organizzazioni sono messe a dura
prova, forzate ad aumentare la produttività, a riprogettare le gestioni e a resistere allo
sfruttamento opportunistico da parte di altre persone. Le tensioni derivanti da grandi
cambiamenti sociali finiscono spesso col danneggiare le persone, i lavoratori che
interiorizzano tali mutamenti e li trasformano in stress fisico e psicologico.
Così, la tensione scende come una cascata partendo da un contesto politico ed economico,
passando attraverso le politiche regionali, l’organizzazione locale e, infine, si riversa sui
singoli individui.
La realtà è che, nonostante sia l’individuo a fare esperienza di burnout, è la discrepanza tra
persona e lavoro a costituirne la causa principale.
Le nuove proposte teoriche nell’ambito della Psicologia del Lavoro cercano di dare una più
complessa concettualizzazione della persona all’interno del contesto lavorativo.
Maslach e Leiter (1997) hanno elaborato un nuovo modello interpretativo che si focalizza
principalmente sul grado di adattamento/disadattamento tra persona e lavoro. Secondo questi
autori la sindrome del burnout ha maggiori probabilità di svilupparsi quando è presente una
forte discordanza tra la natura del lavoro e la natura delle persone che svolgono tale lavoro.
Queste discrepanze sono da considerarsi come i più importanti antecedenti del burnout e sono
sperimentabili in sei ambiti della vita organizzativa: carico di lavoro, controllo, ricompense,
senso comunitario, equità, valori.
Maslach e Leiter (1997) hanno ridefinito il burnout come una erosione dell’impegno nel
lavoro. Quest’ultimo, secondo gli autori, sarebbe caratterizzato da tre fattori (energia,
coinvolgimento ed efficacia) che rappresentano i poli opposti delle dimensioni del burnout:
impegno e burnout non sono altro che le due estremità opposte di un continuum. L’impegno di
ogni individuo può essere valutato attraverso l’utilizzo dei punteggi opposti (positivi) sulla
scala del MBI.
Oggi il burnout rappresenta un rischio troppo elevato per ogni contesto organizzativo: i costi
economici, la produttività ridotta, i problemi di salute e il generale declino della qualità della
42
vita personale o lavorativa (tutte possibili conseguenze di questa sindrome) sono un prezzo
troppo alto da pagare.
E’ dunque consigliabile l’adozione di un approccio preventivo per affrontare il problema
burnout. E’ fondamentale fare un investimento sulle persone per poter contare su lavoratori
ben preparati, leali e dediti, capaci di realizzare un lavoro di qualità. Questo tipo di
investimento deve prendere in considerazione i valori umani presenti nell’ambito dell’attività
lavorativa, cercando così di rafforzare l’organizzazione per una futura sopravvivenza.
Il modo migliore per prevenire il burnout è sicuramente puntare sulla promozione
dell’impegno nel lavoro. Ciò non consiste semplicemente nel ridurre gli aspetti negativi
presenti sul posto di lavoro, ma anche nel tentare di aumentare quelli positivi. Le strategie per
aumentare l’impegno sono quelle che accrescono l’energia, il coinvolgimento e l’efficacia.
Anche l’organizzazione deve mostrare ai suoi dipendenti lo stesso tipo di impegno, rispetto e
interessamento che essa pretende da loro. Il modo migliore per farlo è quello di prendere delle
misure per ridurre le sei possibili discrepanze che si verificano tra le persone e il lavoro. Le sei
aree di vita organizzativa nelle quali emergono queste discordanze rappresentano il contesto
immediato nel quale gli individui si imbattono al lavoro, e all’interno di ciascun area si
trovano i punti di partenza del cammino che dal burnout porta all’impegno. Ogni area infatti,
contiene i fattori di rischio che da un lato, possono causare i problemi relativi al burnout,
dall’altro offrire le soluzioni per un buon adattamento e un valido impegno.
Lo scopo di una buona strategia organizzativa a livello preventivo è quello di creare strutture
e processi gestionali in grado di incrementare l’impegno nel lavoro. Un buon intervento deve
essere inizialmente condotto dalla direzione centrale per poi diventare un vero e proprio
progetto organizzativo che coinvolge tutti i lavoratori.
Un’efficace strategia che voglia prevenire il burnout e promuovere l’impegno deve iniziare
con un’analisi tra il personale (“Organizational Check-up Survey”) sugli aspetti chiave della
vita organizzativa. Questo tipo di analisi permette di valutare il modo in cui
un’organizzazione si occupa delle proprie responsabilità nei confronti dei dipendenti. In altri
termini, rivela in quale misura il posto di lavoro sta promuovendo la loro produttività e il loro
impegno.
Attraverso l’analisi tra il personale si possono valutare i livelli di impegno/burnout tra i
dipendenti, l’estensione della discrepanza lavoro-persona nelle sei aree della vita
organizzativa e il rapporto tra le diverse strutture e procedure gestionali e le sei aree. Tutte le
43
informazioni ricavate da questo tipo di analisi potranno essere migliorate per migliorare la
cultura organizzativa.
L’analisi identifica le questioni che hanno maggiori possibilità di influenzare l’impegno del
personale. Il successivo intervento infatti, si dovrà focalizzare su una struttura o prassi
gestionale in grado di influenzare una o più aree nelle quali emergono le discrepanze.
Un intervento organizzativo, condotto a livello preventivo, potrebbe richiedere molto tempo
per l’implementazione e comportare la necessità della collaborazione di più persone, tuttavia
il suo impatto potrebbe risultare molto efficace. Il cambiamento che ne può derivare è
sicuramente di una portata più ampia rispetto a quello di un intervento individuale.
L’organizzazione, focalizzandosi sull’incremento dell’impegno e sulla promozione dei valori
umani, potrà aumentare la capacità di perseguire la propria missione: una sua eventuale
spesa economica per effettuare un intervento preventivo sarà un sicuro investimento per il
futuro.
La gestione delle risorse umane in ambito lavorativo ha assunto negli ultimi anni un ruolo di
fondamentale importanza, tanto da rientrare negli obiettivi primari di qualsiasi azienda.
Nessun ambiente organizzativo può oggi ignorare gli effetti negativi derivanti da una mancata
presa di coscienza di queste problematiche. Gestire le risorse umane e quindi l’attività
professionale richiede impegno costante nel tempo e costi fisici e psichici non sempre
facilmente definiti o definibili. Tuttavia nessuna previsione di budget, in qualunque azienda,
può sostenere il raggiungimento dei propri obiettivi senza considerare le risorse umane.
Le aziende, all’inizio di un progetto preventivo, possono oggi avvalersi di un nuovo
strumento: l’ Organizational Check-up Survey (OCS).
Nel questionario, la prima scala (“Relazione con il lavoro”) valuta l’esperienza di ciascun
individuo sul continuum burnout-impegno. Questo strumento permette di misurare le tre
dimensioni centrali dell’esperienza di una persona con il lavoro: esaurimento-energia,
depersonalizzazione-coinvolgimento e inefficienza-successo/realizzazione. Lo strumento
inoltre, comprende altri item che valutano sia la percezione dei lavoratori rispetto alle sei aree
di vita organizzativa (carico di lavoro, controllo, ricompense, senso di comunità, equità,
valori) sia le strutture e le procedure gestionali corrispondenti (supervisione, comunicazione,
sviluppo delle capacità e coesione del gruppo di lavoro). Inoltre è presente una scala
(cambiamento) per valutare i mutamenti nel contesto organizzativo. Tale complemento
all’MBI è definita come analisi tra il personale ed è considerato un mezzo per progettare e
valutare interventi organizzativi intesi a creare l’impegno nel lavoro.
44
Il nuovo questionario è stato indicato da alcuni autori (Maslach e Leiter, 2000) come un efficace
strumento per analizzare i contesti organizzativi e progettare cambiamenti all‟interno di essi. Questo
test infatti, è fonte di numerose informazioni che riguardano il rapporto tra persona lavoro e può
essere preso in considerazione per eventuali interventi e strategie preventive. Attraverso questo test
si potrà approfondire lo studio della sindrome del burnout in relazione agli aspetti specifici
dell‟ambiente di lavoro.
Una recente ricerca, condotta su 203 lavoratori operanti nell’area toscana, ha cercato di
verificare le proprietà psicometriche di questo nuovo strumento. Il lavoro si è concentrato
soprattutto sull’analisi delle undici scale di OCS, escludendo i primi sedici item (“Relazione
con il lavoro”), i quali rappresentano la nuova versione del MBI.
2 Burnout
2.1.Un particolare tipo di risposta allo stress negativo
Freudenberger H. in “ Staff burnout, Journal of social issues” del 1974 introduce il termine
Burnout per indicare una condizione rilevata fra i lavoratori delle professioni d‟aiuto specialmente
socio sanitarie.
Maslach (1982) afferma di essere stata la prima ricercatrice ad occuparsi del burnout nei primi
anni settanta quando ancora non se ne sapeva nulla.
Ella afferma che le ricerche erano inesistenti tanto da dover partire da zero, intervistando la gente
e analizzando le sue risposte.
Quando iniziò ad intravedere uno schema significativo C.Maslach espose le sue idee durante un
convegno nazionale tenuto nell‟agosto del 1973 (convegno della American Psychological
Association a Montreal)
Il termine burnout o meglio ancora burning out inizia a diffondersi negli Stati Uniti alle metà
degli anni 70 in riferimento ad una situazione osservata con frequenza sempre maggiore negli
operatori dei servizi sociali e in generale nelle professioni d‟aiuto (helping profession).
45
Si notava che dopo mesi di impegno il personale si brucia, ha un crollo morale e manifesta un
atteggiamento di nervosismo e irrequietezza, oppure di apatia indifferenza e di cinismo nei
confronti del proprio lavoro.
Il termine probabilmente è mutuato dal gergo dell‟atletica,
negli anni trenta questo termine era usato per definire un atleta che dopo una serie di successi si
esaurisce si svuota di ogni energia e tensione emotiva, si brucia (termine usato anche in italiano e
non solo per lo sport) e non riesce a dare più nulla.
Secondo Maslach e Jackson ( 1986) il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di ridotta
realizzazione personale, di depersonalizzazione che può insorgere in operatori che lavorano a
contatto con la gente.
Maslach e Jakson (1986) definiscono il burnout come una sindrome costituita da :
Esaurimento emotivo
svuotamento risorse emotive
il non avere più niente da offrire a livello psicologico
ridotta realizzazione professionale
percezione propria inadeguatezza al lavoro
caduta di autostima
depersonalizzazione
atteggiamenti negativi di distacco e cinismo e ostilità verso la gente cui si lavora
Nel Burnout si distinguono due fattori:
Fattore organizzativo
organizzazione del lavoro
46
tipo di mansione esplicata
conflitti interpersonali e di ruolo
inadeguato riconoscimento delle competenze
esclusione delle funzioni decisionali
scarsa coesione nei gruppi di lavoro
mancanza di feedback
mancanza di sostegno sociale
Caratteristiche personali
debole e remissivo nei confronti degli altri
difficoltà ad identificare i limiti tra coinvolgimento
professionale e personale
difficoltà a controllare impulsi ostili
facilità alla frustrazione
ricerca d‟approvazione
motivazione professionali irrealistiche
competitività aggressività impazienza
…” il burnout – dice Maslach (1986) – può essere considerato come una sindrome caratterizzata
da esaurimento psicoemozionale, da spersonalizzazione e da riduzione delle capacità personali che
può presentarsi nei soggetti che si occupano delle persone” ….. .
Tre sono i sintomi predominanti: fatica, cinismo, inefficienza.
La fatica deriva direttamente dallo stress individuale, il cinismo è la reazione negativa agli altri
e al lavoro, l‟inefficienza nasce dall‟autovalutazione negativa.
47
Spesso queste condizioni si presentano assieme, fino a penalizzare chi lavora e renderlo
demotivato nei confronti della sua professione……” la comparsa della sindrome del burnout è
legato probabilmente ai cambiamenti avvenuti nei posti di lavoro sia nel modo in cui si
lavora”…..”Oggi infatti il posto di lavoro viene considerato freddo ostile esigente. Il che porta a
sfinire a livello fisico e spirituale molti operatori”…..(ANSA del 29.05.02 C.Maslach ospite della
Fondazione Gaslini di Genova).
……”Al personale che opera nei servizi socio sanitari e nelle istituzioni educative viene spesso
richiesto di passare un tempo considerevole in intenso coinvolgimento con altre persone.
L’interazione tra operatore e utente è frequentemente centrata su problemi contingenti di
quest’ultimo (problemi di tipo psicologico sociale o fisico) ed è, perciò spesso gravata da
sensazioni d’ansia, imbarazzo, paura o disperazione.
Poiché non sempre la soluzione dei problemi dell’utente è semplice o facilmente ottenibile , la
situazione diventa ancor più ambigua e frustrante.
Per la persona che lavora continuativamente con la gente in circostanze simili, lo stress cronico
può logorare emotivamente e condurre al burnout.
Il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta
realizzazione personale, che può insorgere in coloro che svolgono una qualche attività lavorativa
di aiuto.
Un aspetto chiave di tale sindrome è l’aumento della sensazione di esaurimento emotivo.
Venendo a mancare le risorse emotive, gli operatori sentono di non essere più in grado di dare
se stessi a livello psicologico.
Un altro aspetto della sindrome del burnout è lo sviluppo di depersonalizzazione , cioè di
atteggiamenti e di sentimenti negativi, cinici nei confronti degli utenti.
Questa percezione distaccata o perfino disumanizzata degli altri può indurre gli operatori a
ritenere che l’utente, in un modo o nell’altro, si meriti i problemi che ha (Ryan, 1971). La
48
diffusione tra chi è occupato in professioni di questo atteggiamento negativo verso gli utenti è stata
ben documentata (Wills, 1978).
Lo sviluppo di depersonalizzazione appare collegato con l’esperienza di esaurimento emotivo e
questi due aspetti del burnout dovrebbero essere modificati.
Un terzo aspetto delle sindrome di burnout – la riduzione del senso di realizzazione personale –
si riferisce alla tendenza a valutarsi in modo negativo, particolarmente per quanto attiene al
proprio lavoro con le persone.
Gli operatori possono sentirsi scontenti di se stessi e non realizzati nel loro lavoro.
Le conseguenze del burnout sono potenzialmente molto pericolose per il personale, per gli utenti
e per le istituzioni all’interno delle quali essi interagiscono.[…]Inoltre, il burnout, costituisce un
importante fattore nel provocare tra i lavoratori turnover, assenteismo, morale basso.
Il burnout sembra, altresì, associarsi con la presenza di difficoltà personali, che includono
esaurimento fisico insonnia, incremento nell’uso di alcool o farmaci, problemi coniugali o familiari
.La complessiva coerenza dei risultati che emergono da queste ricerche ci ha indotto a postulare
l’esistenza di una sindrome specifica di burnout…..” (C.Maslach, S.Jackson MBI – 1986)
Maslack e Jakcson (ibid) postulando l‟esistenza di una sindrome specifica di burnout , ne hanno
dato una definizione operativa, in modo da evitare che il termine stesso divenisse contenitore di tutti
i tipi di crisi lavorative.
Il burnout è considerabile come un processo multifattoriale costituito dalle tre dimensioni, tra
loro indipendenti esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale..
Dal punto di vista lavorativo lo stress si può quindi configurare come ..”funzione del reciproco
adattamento tra organizzazione e individuo, come equilibrio tra domanda proveniente
dall’ambiente di lavoro e capacità di risposta individuale” (Marocci e Bernabei , in La Rosa 1992)
49
2.2 MBI - Maslach Burnout Inventory –
…..” Il MBI è stato costruito per valutare tre aspetti della sindrome di burnout: esaurimento
emotivo, depersonalizzazione e mancanza di realizzazione personale. Ogni aspetto è misurato da
una apposita sottoscala” ….. (Maslach Jakson – 1986-)
1) La sottoscala “esaurimento emotivo” è composta da nove item ed esamina la sensazione di
essere inaridito emotivamente ed esaurito dal proprio lavoro.
2) La sub scala “depersonalizzazione” comprende cinque item che descrivono una risposta
impersonale e fredda nei confronti dei propri utenti.
in entrambe le scale i punteggi più alti corrispondono ad un più elevato livello di burnout
3) La sottoscala “realizzazione personale” contiene otto item che misurano la sensazione
relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo in un lavoro a contatto
con la gente.
in questa scala punteggi bassi corrispondono ad un alto livello di burnout
◙ I punteggi sono ottenuti tramite una scala Likert così costruita :
QUANTO SPESSO:
0 = mai; 1= qualche volta all‟anno; 2 = una volta al mese, 3 = qualche volta alla settimana; 4 una
volta alla settimana; 5 = qualche volta alla settimana; 6 = ogni giorno
EX:
Quanto spesso affermazione:
0 – 6 Al lavoro mi sento depresso
(Da: Analisi dei servizi socio sanitari – Sirigatti, Stefanile – O.S.)
50
Il MBI è un test ad autosomministrazione, l‟esperienza maturata sul campo indica che per
completarlo in media ci vogliono intorno ai cinque/dieci minuti
L‟adattamento italiano è stato eseguito da Sirigatti e Stefanile.(1993)
Da “Aspetti e problemi dell‟adattamento italiano del MBI” – bollettino psic. applicata 1992 –
202 –203 - : …….” La presenza in Italia di Christina Maslach nel 1983 diede l‟avvio ad una serie di
ricerche per la messa a punto della versione italiana del Maslach Burnout Inventory (MBI)
(Stefanile 1984). Sulla base della versione preliminare italiana del MBI – fornita direttamente dalla
Maslach – si condussero alcune indagini esplorative, volte in primo luogo a saggiare la validità di
costrutto dello strumento”….
La versione italiana del MBI derivata dalle ricerche preliminari fu poi somministrata a numerosi
operatori che svolgevano professioni di aiuto in diversi contesti e realtà geografiche italiane.
….”Le indicazioni tratte da questo insieme di ricerche potranno costituire utili elementi per lo
studio dello stress nelle professioni di aiuto e dei suoi correlati, nonché, in termini più specifici,
potranno contribuire ad una più precisa definizione del concetto di burnout e allo sviluppo di
strumenti di misura diversi, per alcuni aspetti, dal MBI” (Stefanile, Sirigatti 1992)
2.3 Ricerche sulla sindrome di burnout
Maslach (1986) invita ad includere il MBI nelle ricerche e nelle valutazioni di interventi nelle
organizzazioni del lavoro al fine di avere una maggiore comprensione delle variabili personali,
sociali e istituzionali che favoriscono o inibiscono il manifestarsi del burnout , in modo da ampliare
le conoscenze al riguardo degli aspetti teorici delle emozioni e dello stress lavorativo.
51
2.4 Una nuova frontiera per il burnout.
Maslach e Leiter (1997) nella prefazione del loro libro “The truth about burnout” dicono che
questo libro assume un significato concettualmente diverso da ciò che avrebbero potuto scrivere
anni prima …..” A quel tempo ci saremmo concentrati sui servizi sociali personali e sui servizi
sanitari, per i quali il burnout ha sempre rappresentato un serio problema .Oggi, come risultato dei
cambiamenti sociali ed economici, il burnout si è diffuso maggiormente, divenendo un problema
importante in tante altre professioni; perciò abbiamo allargato la nostra messa a fuoco e la nostra
analisi del fenomeno”…. (Maslach Leiter 1997)
Maslach e Leiter (ibid) nel loro lavoro ci presentano una visione nuova della sindrome di
burnout, visione in parte già anticipata e supposta da Maslach (Maslach 1986) partendo proprio dal
presupposto che il cambiamento repentino e sostanziale nei posti di lavoro e nel modo in cui si
lavora abbia reso il posto di lavoro freddo ostile e soprattutto esigente sia in termini psicologici che
economici. ….. “Le richieste quotidianamente avanzate dal lavoro, dalla famiglia e da tutto il resto
consumano la loro energia e il loro entusiasmo. La gioia del successo e il brivido della conquista
sono sempre più difficili da ottenere. La dedizione e l’impegno nei riguardi del lavoro si stanno
affievolendo, mentre molte persone stanno diventando ciniche, si tengono a distanza e cercano di
non farsi coinvolgere troppo….” (Maslach Leiter 1997)
Va detto che il modello di riferimento di Maslach e Leiter è il mondo del lavoro degli Stati Uniti
d‟America dove il ritmo frenetico e la ultra flessibilità delle risorse umane in qualsiasi campo
della vita lavorativa rappresentano uno dei dogmi neoliberisti più diffusi.
Gli autori quindi nel loro lavoro fanno riferimento a situazioni lavorative estreme rispetto al
contesto di tutele sindacali e ammortizzatori sociali presenti in Europa e in particolare nel nostro
paese.
52
In un‟economia globale anche le organizzazioni del lavoro risentono pesantemente dei modelli
d‟oltreoceano, fosse solo per la necessità di far fronte alle continue sfide dei mercati. Sfide che
spesso si tramutano nella stessa sopravvivenza delle aziende.
L‟accelerazione delle dinamiche lavorative, la compressione dei costi da parte delle aziende e
non ultima la riduzione della forza lavoro impiegata in carichi di lavoro sempre maggiori e
asfissianti fa si che nel nostro paese inizia ad esserci una certa comunanza con quel modello
d‟oltreoceano descritto da Maslach e Leiter (ibid).
53
3 Le sei discrepanze fra persone e lavoro
3.1. Come cambia il posto di lavoro
Maslach e Leitier (ibid) postulano che la struttura sociale moderna derivi nei posti lavori una
condizione di cambiamento radicale del posto di lavoro stesso.
Per Maslach e Leitier le organizzazioni stanno trasformando la struttura del loro valore. I guadagni
prodotti sono convertiti in rendimenti azionari a breve termine, il denaro ottenuto alimenta il passo
frenetico delle fusioni e delle acquisizioni a livello internazionale. La priorità di queste
organizzazioni è quella assoluta di produrre flusso di cassa in modo da coprire i loro debiti,
tralasciando la qualità dei loro prodotti e di conseguenza mettendo in secondo ordine l‟asset
primario delle proprie risorse cioè i loro dipendenti.
Si assiste quindi ad una dominanza delle questione finanziaria a discapito degli interessi delle
risorse umane che generano la produzione dei bene o dei servizi.
Le organizzazioni pretendono il sacrificio dai loro dipendenti esclusivamente a vantaggio
dell‟organizzazione stessa senza ridistribuire la ricchezza sia in senso di ricompense tangibili
(salariali) che in termini di accrescimento umano e professionale (formazione e migliori condizioni
organizzative)
Per le organizzazioni orientate al profitto: …..”I valori che definiscono la qualità della vita
organizzativa non sono quelli di un gruppo di lavoro coeso che si impegna per fornire prodotti o
servizi eccellenti, ma sono quelli di una gestione esclusivamente orientata al risultato economico
finale in una realtà che ha un disperato bisogno di flusso di cassa. …(Maslach Leiter 1997)
54
Bakker, A.B., Demereuti, E. Schaufeli, W. (2002). Validation of Maslach Burnout Inventory-
General Survey: An Internet Study. Anxiet y, Stress and Coping: An International Journal, 15(3),
245-260.
Leiter, MP., Maslach, C. (2000). Preventing Burnout and Building Engagement: A Complete
Program for Organizational Renewal. Jossey-Bass, San Francisco.
Maslach, C. (1998). A multidimensional theory of burnout. Theories of Organizational Stress. Ed.
CL Cooper, 68-85, Oxford, UK: Oxford Univ. Press.
Maslach, C. e Leiter, MP. (2000). Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della
demotivazione al lavoro. Ed. Erickson, Trento.
Maslach, C., Schaufeli, W. e Leiter, M. (2001). Job burnout. Annual Rewies Psychology, 52, 397-
422.
Pellegrino, F. (2000). La sindrome del burn-out. Centro Scientifico Editore, Torino.
Salanova, M., Schaufeli, W., Llorens, S., Peiro, J.M. e Grau, R. (2000). From “Burnout” to
“Engagement”: A new perspective? Revista de Psicologia del Trabajo y de las Organizaciones,
16(2), 117-134.
Schaufeli, W., Martinez, I., Marquez-Pinto, A., Salanova, M. e Bakker, A.B. (2002). Burnout and
Engagement in university students: Across national study. Journal of Cross Cultural Psychology,
33(5), 464-481.
.
FOCUS GROUP1
Di Emanuela Chemolli, Phd
«Il focus group può essere definito come una tecnica di rilevazione per la ricerca sociale basata
sulla discussione tra un piccolo gruppo di persone, alla presenza di uno o più moderatori,
focalizzata su un argomento che si vuole indagare in profondità.»
Da questa affermazione si può dedurre che gli elementi fondamentali della tecnica del focus group,
sono:
1 La tecnica oggi nota con il nome di «focus group» risale agli anni ’40. Dimenticato per decenni nella ricerca
scientifica-sociale, oggi è stato recuperato in molti settori.
55
o il gruppo come fonte di informazione;
o l‟interazione tra i partecipanti;
o la focalizzazione su uno specifico argomento;
o l‟interesse ad uno studio in profondità;
o la presenza di uno o più moderatori.
Nel focus group la ricchezza di informazioni prodotta deriva:
o da un confronto di tipo cognitivo;
o da una interazione interpersonale;
o da una creazione di un‟atmosfera confidenziale tale da favorire l‟espressione di opinioni e
sentimenti.
La rilevazione non è basata sulle risposte dei singoli partecipanti alle domande del moderatore2-
come, invece, in una intervista in profondità – bensì sulla loro interazione.
La caratteristica peculiare del focus group è l‟interazione tra i partecipanti, quindi grazie a questa
tecnica si recupera la dimensione relazionale nella formazione delle opinioni.
L‟unità d‟analisi, quindi, è sempre il gruppo nel suo complesso, e NON il singolo partecipante.
La specificità rende difficile la comparabilità dei risultati persino di una stessa serie di focus group
ed è del tutto illecita la loro generalizzazione al di là della particolare situazione da cui sono emersi.
Il focus group permette di individuare la gamma delle possibili posizioni su una determinata
questione, ma non consente di conoscere la loro distribuzione nella popolazione.
Ma l‟obiettivo in questa ricerca dell‟utilizzo del focus group non è la generalizzazione (svolta, per
altro, nella prima parte della ricerca), ma la comprensione.
Per molto tempo il focus group è stato utilizzato quasi esclusivamente nella fase preliminare della
ricerca, allo scopo di raccogliere informazioni utili alla stesura del disegno. Spesso i focus group
sono utilizzati per la costruzione dello strumento da adottare successivamente. Talvolta vengono
condotti anche quando una prima stesura dello strumento è già pronta, per effettuare il pre-test.
«I focus group si sono rivelati utili anche nella fasi conclusive della ricerca, in sede di
interpretazione di risultati emersi dall‟applicazione di altre tecniche e strumenti, soprattutto nel caso
di relazioni inaspettate tra variabili. In questo modo, il punto di vista di gruppi di persone con le
stesse caratteristiche del campione coinvolto integra quello del ricercatore (Dawson et al. 1992;
Frey e Fontana, 1993; Krueger, 1994; Morgan, 1988).»3
Obiettivo del focus group potrebbe essere quello di sottoporre ai partecipanti un prodotto, un
documento o un questionario, per avere le loro reazioni o per raccogliere le loro opinioni in merito.
Gli scopi del focus group in fase di valutazione dei risultati raggiunti possono essere:
o verificare se l‟interpretazione dei dati effettuata dal ricercatore trovi conferma presso la
popolazione oggetto d‟indagine;
o capire il significato dei risultati;
o stabilire se l‟indagine sia stata esaustiva;
o identificare i punti critici dello strumento approntato;
o stabilire quali siano le conseguenze o le conclusioni che si possono trarre dai risultati dal
punto di vista delle azioni da intraprendere;
o stabilire quali possano essere le reazioni della popolazione target alle azioni programmate a
partire dai dati raccolti.
Questi sono solo dei punti su cui riflettere; un elenco non esaurisce la gamma delle possibili
applicazioni di questa tecnica in questa fase precisa.
2 Moderatore: non è un intervistatore, ma una persona che modera una discussione. 3 Corrao S. (1999), Il focus group: una tecnica di rilevazione da riscoprire, in «Sociologia e ricerca sociale».
56
L‟uso di due tecniche, come questionario e focus group, nello stesso piano di ricerca permette di
mirare sia alla generalizzazione dei risultati sia all‟approfondimento.
Krueger suggerisce alcune domande di fondo da porsi ogni qualvolta si decida di svolgere i focus
group:
o Quali sono le ragioni per cui si è deciso di procedere allo studio?
o Quali sono le informazioni importanti che si vogliono ottenere?
o Chi dovrà usare le informazioni? Chi vuole le informazioni?
o Come dovranno essere usate le informazioni?
CAMPIONAMENTO FOCUS GROUP
Per la selezione dei partecipanti si ricorre a campionamenti non probabilistici, detti anche «a scelta
ragionata», perché:
i risultati non sono generalizzabili;
c‟è un‟autoselezione dei partecipanti;
le opinioni sono strettamente legate al contesto in cui sono state espresse. [Stewart e
Shamdasani, 1990].
La scelta delle persone da inserire nel campione deve essere guidata dagli obiettivi di ricerca; perciò
il gruppo di ricerca dovrebbe decidere quali caratteristiche debbano possedere i partecipanti perché
possano fornire le informazioni desiderate.
PARTECIPANTI: attenzione alla modalità di contatto, il tipo di incentivo offerto, il luogo in cui si
effettuano i focus group.
Nella lettera di partecipazione verranno indicati:
scopi e argomenti dell‟incontro;
data, luogo, ora prevista;
attestato di frequenza.
VALUTAZIONE: i dati del focus group sono validi quando soddisfano l‟obiettivo della ricerca.
Ci sono tre momenti chiave nella valutazione della qualità dei dati ottenuti attraverso i focus:
a. a priori: rispettati i criteri che sono alla base dell‟organizzazione di un focus group;
b. in-progress: monitoraggio dell‟andamento del focus group;
c. ex-post: adeguatezza delle interpretazioni rispetto ai dati raccolti, raggiungimento degli
obiettivi informativi iniziali, verifica della completezza delle informazioni raccolte.
APPROFONDIMENTO SU LA VALUTAZIONE STRESS LAVORO CORRELATO AI SENSI
DEL T.U. 81/08
Un approccio quali-quantitativo alla valutazione dello stress lavoro-correlato e del burnout
nel settore ospedaliero
Alessandro Gattai
1 Introduzione
57
Scegliere un approccio quantitativo e qualitativo al contempo per la diagnosi di una
organizzazione lavorativa, è da ritenersi una metodologia da perseguire tutte le volte che ne venga
data l‟opportunità al ricercatore od al consulente. È opportuno infatti confrontarsi con il
committente, affinchè si realizzino condizioni adatte per poter trattare sia dati qualitativi che
quantitativi.
Oltre al dibattito metodologico fra teorie esterne al contesto studiato (etiche) e teorie interne ad
esso (emiche) (Pike, 1966), l‟esperienza sul campo porta a confrontarsi sul fatto che possa risultare
di maggiore utilità adottare strategie multiple e diversificate, al fine di poter avere la migliore
“fotografia” possibile della realtà oggetto di investigazione.
All‟interno della consulenza per lo Stress Lavoro Correlato, in particolare in ambito sanitario si
è cercato di misurare i sentimenti, le percezioni, le aspettative, gli atteggiamenti, le speranze e le
paure dei soggetti che la compongono.
L‟organizzazione è un sistema socio-tecnico dove convivono aspetti soft e aspetti hard, lavoro e
tecnologia, persone e know how, sistemi e mondi vitali. Accanto all‟organizzazione definita
dall‟autorità o dalle tecnologie operanti che stabiliscono strutture, procedure, sistemi di
coordinamento/controllo e dividono il lavoro individuando ruoli e mansioni, si muove tutto un
contesto latente costituito da comportamenti, usi, attese, motivazioni delle persone. È ipotizzabile
che possa esistere accanto all‟organizzazione tecnico/formale, un‟organizzazione delle persone che
nasce da fenomeni come le attese, le percezioni, le relazioni e la quotidianità.
Il punto di vista teorico, seguito per la progettazione della parte qualitativa del lavoro, è stato di
tipo costruttivista4 (Kelly, 1955). Da questa prospettiva, per comprendere l‟organizzazione è
4 Kelly fonda e sviluppa la sua concezione della personalità sull‟idea che il soggetto “costruisca” gli eventi della realtà.
Da ciò discendono articolate elaborazioni concettuali (i corollari) attraverso le quali vengono chiarite le diverse
specificazioni e i diversi significati del rapporto individuo - ambiente.
A tale proposito Kelly enfatizza la capacità creativa dell‟essere vivente di rappresentarsi l‟ambiente, anziché rispondere
semplicemente ad esso. È infatti in virtù di tale facoltà di rappresentarsi il proprio ambiente che l‟individuo può anche
modificarlo, costruirlo e adattarlo alle proprie esigenze. La teoria dei costrutti personali è perciò una teoria dei modi in
cui una persona perviene a rappresentarsi, a interpretare, a prevedere i vari eventi e, di conseguenza, a fondare su tali
rappresentazioni, interpretazioni e previsioni la propria condotta ed il proprio rapporto con il mondo.
Con la nozione di costrutto, Kelly si riferisce appunto agli schemi o alle lenti che l‟individuo crea per conoscere gli
eventi. Come ha sostenuto Landfield (1971) il costrutto è un unità centrale del significato ed è definito dai contrastanti
modi di comprendere e organizzare gli eventi della vita che l‟individuo usa per cercare di dare un senso alla propr ia
esperienza.
58
necessario partire dal comportamento degli individui, dalle loro credenze e motivazioni e dalle loro
interazioni: il mondo organizzativo è considerato una realtà co-costruita e negoziata dagli attori che
ne fanno parte e la sua realtà è ritenuta consistere nel sistema di assunti e significati condivisi
intersoggettivamente (Avallone & Farnese, 2005).
L‟approccio metodologico seguito è stato di ispirazione etnografica. L‟etnografia si muove dal
presupposto che le interpretazioni date dagli attori guidino in modo sostanziale la loro azione.
Questo non significa ritenere che le interpretazioni siano in grado di spiegare completamente i
comportamenti messi in atto, ma che invece possano chiarire quel è il quadro di riferimento entro il
quale l‟azione si situa e il modo in cui le azioni delle persone saranno comprese od otterranno
risposta. L‟insieme di queste interpretazioni e il modo in cui costantemente si rafforzano o sono
negoziate nell‟interazione costituiscono la cultura.
Nella discussione di questo capitolo, si intende riportare un‟esperienza diretta effettuata in due
reparti ospedalieri di un ospedale del centro Italia. L‟intervento si è distinto in due fasi: la prima
caratterizzata da gruppi di discussione con i lavoratori, la seconda dalla somministrazione del
Maslach Burnuot Inventory (Maslach & Jackson, 1986).
2.1 L’incontro fra le persone e le istituzioni sanitarie
La qualità della vita è da considerarsi un diritto fondamentale di tutti gli individui (Farr &
Markova, 1995) e per garantirla è necessario che l‟individuo goda anche di un buon stato di salute.
Secondo la definizione dell‟O.M.S. la salute è “uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e
non la semplice assenza di malattia o infermità, è un diritto umano fondamentale” 5
. Sempre
secondo l‟O.M.S. nella Carta di Ottawa (1986) 6
per la promozione della salute e del benessere
riporta che:
“le società contemporanee sono complesse e interdipendenti, la salute non può essere un
obiettivo isolato […]. Il principio guida generale per il mondo intero, per le nazioni, le regioni o le
comunità deve essere sempre il sostegno reciproco; dobbiamo avere cura gli uni degli altri della
nostra comunità, del nostro ambiente naturale”.
La qualità dei servizi offerti alla persona è determinata da sistemi e servizi di cura (Care Health
System) che operano al fine di prevenire malattie e promuovere la salute di tutti i cittadini. Il
5 Conferenza Internazionale sull‟Assistenza Sanitaria Primaria, Alma Alta, URSS, 6-12 settembre 1978.
6 1° Conferenza Internazionale sulla promozione della salute 17-21 novembre 1986, Ottawa, Ontario, Canada
59
rapporto che esiste tra gli utenti del servizio e tra le istituzioni viene poi mediato dal rapporto
operatore sanitario-paziente. Per cui sempre maggiori studi vengono effettuati per cercare di
comprendere quale siano le variabili migliori per ottimizzare tale rapporto.
Per comprendere la qualità della relazione tra l‟operatore e il paziente è opportuno fare
riferimento al livello di soddisfazione da quest‟ultimo manifestata. La soddisfazione del paziente
relativamente alle cure ricevute deriva a sua volta dal tipo di comunicazione che si instaura con
l‟operatore e dalla sua capacità di risposta (Bowers, Swan & Koehler 1994).
Le resistenze che il paziente ha nei confronti dei servizi sanitari/ospedalieri sono dovute alla
paura di ricevere una diagnosi sfavorevole, al timore di svolgere esami dolorosi o alla
preoccupazione di dover instaurare un rapporto intimo con una persona che si trova ad una livello
superiore rispetto ad esso. Infatti l‟asimmetria che caratterizza il rapporto tra operatore e paziente
può essere fonte di stress. Tale asimmetria è relativa a un‟ineguaglianza del rapporto di potere e/o a
una differenza di compiti tra i due soggetti. C‟è quindi una persona che pone un quesito ed un‟altra
che invece dà una risposta e fornisce il proprio aiuto; come suggerisce Chiland (1995) l‟incontro tra
professionista e paziente è caratterizzato proprio dall‟incontro tra una domanda e un‟offerta.
Gli studi di Ratanawongsa, Wright, e Carrese (2008), indicano che bassi livelli di benessere
degli operatori influenzano i rapporti con i pazienti, le interazioni con i colleghi e le prestazioni
sanitarie che vengono offerte. Questo studio conferma, come già mostrato in altre ricerche (Papp et
al., 2004), che esiste una correlazione positiva tra il benessere dei lavoratori e la loro percezione
circa la qualità delle cure che offrono ai pazienti, e la loro soddisfazione di carriera. Il benessere
inciderebbe quindi sulle capacità di cura, sulle capacità comunicative e sulla professionalità degli
operatori.
3 Stress e Burnout
Lo stress è un tipico fenomeno organizzativo che deriva da un‟eccessiva richiesta dell‟ambiente
nei confronti del lavoratore. Questa valutazione eccessiva dipenderebbe dalla percezione
dell‟individuo più che dalla situazione oggettiva.
La gestione delle risorse umane ha assunto un‟importanza fondamentale nell‟ambito lavorativo.
È infatti provato che l‟assetto emotivo del personale influenzi l‟efficacia lavorativa e la funzionalità
di un‟impresa (Maslach & Leiter 2000). Sempre maggiore è quindi la necessità di prevenire
qualsiasi forma di stress sul lavoro, compresa la sindrome di burnout.
Gli studi su questo fenomeno negli ultimi anni hanno assunto sempre maggiore rilevanza a
causa della scarsità del numero di infermieri i quali dovrebbero mantenersi sempre qualificati nello
60
svolgere i ruoli di assistenza clinica e non dovrebbero mai essere soggetti a sindromi di questo tipo
(Aiken, L.H., Buchan, J., Sochalski, J., Nichols, B. & Powell, M., 2004). I dati di alcune ricerche,
confermano infatti che sempre meno giovani scelgono di svolgere la professione infermieristica
(Booth, 2002).
Un altro motivo per cui il burnout ha assunto fondamentale importanza è relativo alla sua
associazione con l‟insoddisfazione dei pazienti e con altre misure di qualità del servizio, così come
hanno mostrato alcuni studi (Vahey, D.C., Aiken, L.H., Sloane, D.M., Clarke, S.P. & Vargas, D.,
2004). Lo stress sviluppato sul lavoro risulta anche essere connesso allo sviluppo di problemi di
salute nei dipendenti (Gray, 2000).
Il termine burn-out letteralmente significa “bruciato”, “esaurito”, “scoppiato”, “cortocircuitato”
(Contessa, 1987) e deriva dal gergo sportivo: negli anni Trenta veniva utilizzato per indicare la
condizione di quegli atleti che, dopo un periodo di successi, improvvisamente vanno in crisi e non
riescono a dare più nulla dal punto di vista agonistico. Analogamente, gli operatori sociali in
burnout non riescono a dare più nulla dal punto di vista relazionale (Rossati & Magro, 1999). Il
burnout si distingue dallo stress, il quale può essere una concausa del burnout; ed essendo un
disturbo del ruolo lavorativo e non della personalità si distingue anche da altre forme di nevrosi.
Lo stress entra a determinare il burnout ma non coincide con esso, piuttosto il burnout ne
costituisce un esito possibile in presenza di determinate condizioni (Trombini 1994; Del Rio,
1990). Il burnout è il risultato non tanto dello stress in se, ma dello stress non mediato, dell‟essere
stressati senza via d‟uscita, senza elementi di moderazione senza sistema di sostegno (Farber,
1983).
Stress e burnout non si identificano, emerge piuttosto l‟idea che i sintomi del burnout
compaiono dopo un certo periodo di esposizione a condizioni stressanti, come conclusione di un
percorso segnato da tensione e affaticamento. Esiste quindi un susseguirsi di fasi diverse che
conduce al burnout (Trombini, 1994; Del Rio, 2000).
Secondo Maslach e Jackson (1986) il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di ridotta
realizzazione personale, di depersonalizzazione che può insorgere in operatori che lavorano a
contatto con la gente e definiscono il burnout come una sindrome costituita da esaurimento emotivo
(svuotamento risorse emotive, il non avere più niente da offrire a livello psicologico), ridotta
realizzazione personale (percezione propria inadeguatezza al lavoro), depersonalizzazione
(atteggiamenti negativi di distacco e cinismo verso la gente con cui si lavora).
Freudenberger (1974) introduce il termine burnout per indicare una condizione rilevata fra i
lavoratori delle professioni d‟aiuto specialmente socio sanitarie.
61
Maslach (1982) afferma di essere stata la prima ricercatrice ad occuparsi del burnout nei primi
anni settanta quando ancora non se ne sapeva nulla; le ricerche erano inesistenti tanto da dover
partire da zero, intervistando la gente e analizzando le sue risposte.
Quando iniziò ad intravedere uno schema significativo Christine Maslach espose le sue idee
durante il convegno della American Psychological Association a Montreal nell‟agosto del 1973.
Dal punto di vista lavorativo il burnout si può quindi configurare come funzione del
reciproco adattamento tra organizzazione e individuo, come equilibrio tra domanda proveniente
dall‟ambiente di lavoro e capacità di risposta individuale (Maslach & Leiter, 2000).
Alcuni ricercatori ritengono invece che il burnout abbia una struttura a due fattori costituita
soltanto da esaurimento emotivo e depersonalizzazione (Kalliath, T. J., Gillespi, D. F., O‟Driscoll,
M. P. & Bluedorn, A.C., 2000). Altri ancora hanno suggerito che sia addirittura un fenomeno
unidimensionale (Brenninkmeijer & VanYperen, 2003; Halbesleben & Buckley, 2004).
Nonostante i vari punti di vista, la definizione proposta da Maslach e Jackson (1981) viene
ritenuta un punto di riferimento per gli studiosi di questo fenomeno.
Viene messo a punto da Maslach e Jackson il Maslach Burnout Inventory (1986) strumento
prevalentemente rivolto a operatori socio sanitari e educatori sociali, adattato nella versione italiana
da Sirigatti e Stefanile nel 1993.
Le sindromi da stress come il burnout che derivano dal lavoro possono essere meglio
fronteggiato se si dispone di una buona rete di rapporti sociali (House & Wells, 1978;
Yancik,1984), comprese buone relazioni con i supervisori (Constable & Russell, 1986; Fawzy,
Wellisch, Pasnau & Leibowitz, 1983).
Essere sotto esaurimento e cinismo in maniera cronica corrode con la credenza dei soggetti nella
loro capacità di poter aver influenza sul loro lavoro. Queste tre esperienze interdipendenti formano
la sindrome del burnout (Leiter, 2008).
Limitatamente la definizione dell‟exhaustion come aspetto del burnout, incoraggia
un‟attenzione esclusiva sui diversi impatti del carico di lavoro e della mancanza di energia. Questa
relazione è centrale per lo stress lavorativo e per le ricerche sul burnout. I lavoratori hanno una
limitata capacità di dedicare l‟energia alle richieste lavorative. Eventualmente essi proveranno fatica
nel momento in cui incontreranno eccessive richieste avendo poco tempo per soddisfarle. Benchè
questa dinamica sia un importante parte del processo del burnout, non è l‟unico che concorre a
definirlo.
Il burnout è un argomento di interesse primario per i professionisti delle relazioni d‟aiuto in
settori quali i servizi sociali, l‟assistenza sanitaria e l‟istruzione. Secondo l‟attuale terminologia
62
(Maslach, Leiter, 1999, 2000; 2008), queste professioni sono considerate high touch (a contatto
continuo), ed implicano, cioè, numerosi contatti diretti con persone in difficoltà. Queste professioni
possono esigere a tal punto, sia emotivamente che fisicamente, da comportare un rischio elevato di
burnout. La dedizione che tali professioni richiedono, le lunghe giornate lavorative e l‟eccessivo
carico di lavoro sono spossanti, come le sono anche i potenziali conflitti che si creano con clienti,
pazienti, studenti, colleghi o supervisori. Il focus originale del burnout era infatti centrato sulle
professioni dedicate al servizio di aiuto verso gli altri (Freudenberger, 1974; Maslach &
Jackson,1981).
La sua importanza è stata non solo che la gente si sentiva esausta dal troppo lavoro, ma che
aveva perso la capacità di coinvolgimento nel loro lavoro, non avendo più a cuore i loro destinatari
dei servizi. Inoltre, la perdita del senso di realizzazione nel lavoro, porta a ritenere di non dare più
un contributo significativo attraverso il proprio lavoro.
Con l‟ampliamento della sindrome del burnout al di là dei servizi rivolti alla persona, la
relazione che le persone instaurano con il proprio lavoro rappresenta un continuum di cui il burnout
costituisce il polo negativo che presenta le seguenti caratteristiche: Esaurimento (stress individuale);
Disaffezione negativa (reazione negativa agli altri e al lavoro); Inefficacia professionale
(valutazione negativa di se stessi). Al polo positivo si colloca l‟impegno nel lavoro, una condizione
positiva caratterizzata dalle tre dimensioni Energia, Coinvolgimento e Efficacia professionale. Le
strategie per promuovere l‟impegno possono essere fondamentali, allo stesso tempo, sia per la
prevenzione, che per la riduzione del rischio di burnout (Maslach & Leiter, 2000).
Il continuum burnout-impegno si focalizza sulla sintonia, o integrazione, tra il lavoratore e il
suo ambiente lavorativo. Più elevata è la sintonia, maggiore è la probabilità che ci sia impegno; al
contrario, maggiore è la discrepanza, più grande è la probabilità di andare incontro al burnout.
L‟ampliamento del costrutto ha portato alla realizzazione del Maslach Burnout Inventory-
General Survey (Schaufeli, Leiter, Maslach, Jackson, 1996), che è stato adattato anche nella
versione italiana (Borgogni, Galati, Petitta, & Centro Formazione Schweitzer, 2005).
Da questo punto di vista, il carico di lavoro e l‟esaurimento sono un unico processo da
considerare con il burnout.
Il Job Demand/Resources (JD/R), come modello di burnout (Bakker, Demerouti, &
Schaufeli, 2002; Bakker, Demerouti, & Verbeke, 2004), considera come lo squilibrio, fra le
richieste fatte e le risorse a disposizione del lavoratore, possa contenere le informazioni più rilevanti
da prendere in considerazione, per determinare il livello di burnout. Effettivamente in questo
modello si considera in modo particolare come le richieste provenienti dal posto di lavoro siano gli
63
antecedenti più importanti della componente energia/esaurimento a disposizione dell‟individuo. Il
modello comprende largamente le qualità relative della vita lavorativa, ma considerandole soltanto
come risorse, trascura le loro implicazioni per la partecipazione e l‟efficacia.
Una prospettiva completa sul contesto organizzativo del burnout considera pure la
congruenza dei valori (Leiter & Maslach, 2004, 2009; Maslach & Leiter, 2000).
Leiter (2008) ritiene centrale, come processo, il fatto che i dipendenti nel monitorare la
congruenza dei loro valori personali con quelli dell‟organizzazione possono trovare delle
dispercezioni. I loro giudizi di congruenza sono un fattore determinante nella loro rapporto
psicologico con il lavoro. Congruenza dell‟esperienze personali e dei valori organizzativi come
conferma per i lavoratori della loro rilevanza per l‟organizzazione. Congruenza che assicura le
persone che lavorano, le quali sono ben posizionate per perseguire ciò che è veramente importante
nella loro carriera.
L‟individuo solitario ha solo un impatto modesto in un mondo post-lavoro industrializzato.
Persone che lavorano in una organizzazione con i valori congruenti sono motivati a perseguire gli
obiettivi condivisi e sono rassicurati sul fatto che essi possiedono l‟efficacia per il raggiungimento
di tali obiettivi.
Al contrario, l‟esperienza di conflitti di valore, con un datore di lavoro può essere
l‟occasione per una crisi di carriera. Quando sono in conflitto, perseguendo i valori personali il
rischio riguarda la natura del lavoro (Leiter, 2008; Maslach & Leiter 2006).
Laschinger & Finegan, 2005; Verplanken, 2004; hanno trovato correlazioni di forte
incongruenza tra i valori ed il burnout.
Un ampio studio svedese ha trovato che il rapporto tra valore e congruenza nel burnout
risulta essere evidente all‟interno una vasta gamma di occupazioni in tutto il paese (Lindblom,
Linton, Fedeli, & Bryngelsson, 2006).
Alla luce di queste considerazioni, si prevede che l‟incongruità abbia valore nelle
implicazioni per tutti e tre gli aspetti del burnout. In primo luogo, i conflitti con l‟organizzazione o
con responsabili all‟interno dell‟organizzazione stessa esaurisca l‟energia dei lavoratori.
Sia la tensione del conflitto e la futilità del talento sprecato sono estenuanti. In secondo
luogo, i conflitti di valore diminuiscono il coinvolgimento dei lavoratori nel loro lavoro.
Terzo, perdono il loro senso di efficacia e di realizzazione in quanto dedicano il loro tempo e
il loro talento per le attività di poca importanza personale. L‟impatto combinato di congruenza e
valore costituisce un processo fondamentale nello sviluppo del burnout.
64
4 La valutazione dello stress lavoro correlato: i gruppi di discussione
Alla luce della circolare del Ministero del lavoro e delle Poliche Sociali, redatta dalla
Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro7, viene fatto espresso riferimento al caso
in cui vi sia la necessità di dover ricorrere ad una valutazione approfondita del rischio stress lavoro
correlato, utilizzando diversi strumenti, quali questionari, focus group, interviste semistrutturate.
Al di là della valutazione complessiva nel merito della circolare medesima, che sembrerebbe
dare un‟interpretazione non proprio congruente con lo spirito della legge, ed in particolare con
l‟accordo dell‟8 Ottobre 2004, espressamente citato nell‟Art. 28 del T.U.; riteniamo importante
porre in risalto come anche in sede di commissione sia stata data rilevanza all‟uso sia di strumenti
quantitativi (questionari), che qualitativi (focus group, interviste semistrutturate).
Nel presentare l‟utilizzo della tecnica del focus group in ambito della valutazione dello
Stress Lavoro Correlato, possiamo considerare essere importante, nella conduzione di un gruppo di
discussione, il modo e lo stile di conduzione del professionista; sia che si tratti di un gruppo di
discussione, di formazione o di psicoterapia.
Per stile e modo di conduzione non si faccia confusione con quanto il conduttore sia
percepito positivamente o negativamente dai membri del gruppo, ma di quanto esso stesso sia
congruente ed empatico nei confronti del gruppo; della propria abilità ad essere centrato nello
schema di riferimento di ogni partecipante del gruppo, rendendo circolare la comunicazione,
cercando di non perdere e quindi di osservare i predicati non verbali dei partecipanti.
Non si sottolineerà mai abbastanza l‟importanza di aiutare il gruppo ad avere fiducia nella propria
capacità di analisi. Questo fa parte dello stesso processo che comprende la riduzione della
dipendenza dal facilitatore.
Un altro aspetto è relativo al fatto che l‟influenza e l‟attività devono essere condivise. Le incertezze
nella fase formativa della vita di gruppo lasciano spazio all‟influenza ed all‟iniziativa nella struttura
informale del gruppo stesso. Si manifesta, quindi, una forte tendenza a lasciare la direzione
informale ai partecipanti aggressivi, autoritari o forse eccessivamente attivi, considerati “l‟anima
della compagnia”. Così facendo si facilita certamente l‟avvio del gruppo, ma si provoca anche
l‟effetto indesiderabile di inibire i partecipanti meno sicuri e di stabilire una gerarchia di gruppo.
Questa situazione è tanto difficile da cambiare quanto efficace nel limitare l‟apertura, l‟accettazione
e la libertà del gruppo.
7 Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, Roma 18.11.2010, Prot.15/SEGR/0023692
65
Per questo motivo il facilitatore deve dimostrare continuamente, il suo rispetto e la sua
considerazione per tutti gli interventi, specialmente quelli dei membri che vengono messi in disparte
o che trovano difficoltà ad esprimersi.
Talvolta è necessario reagire in modo alquanto diverso agli interventi dei membri, a seconda che
questi si dimostrino subito attivi o passivi. Non è necessario concentrare il processo di gruppo sui
primi, la loro attività continuerà.
Se i partecipanti schivi, però, non vengono facilitati, possono accettare di essere messi in disparte
per tutta la durata del gruppo; ed il loro contributo potenziale andrà perduto.
E‟ utile iniziare ogni gruppo con una precisa presentazione del conduttore, chi è e perché è
lì, non tralasciando la citazione dell‟Art. 28 del T.U. 81/08, e facendo riferimento all‟accordo
dell‟8.10.2004; rassicurando i partecipanti sulla tutela della privacy rispetto al colloquio che si
appresteranno a fare, dichiarare il numero di appartenenza all‟ordine degli psicologi, come ulteriore
garanzia della propria professionalità, cercando da subito di instaurare un contratto psicologico
(Anderson, Schalk 1998) con i presenti, in base alle percezioni circa l‟esito di questo scambio,
l‟individuo deciderà fino a che punto si sente membro e quanto desidera impegnarsi, coinvolgersi,
farsi carico della propria parte.
Il passo successivo consiste nell‟informare i partecipanti che durante la discussione si
prenderanno appunti sul nostro taccuino personale, in modo da poter aver migliore memoria della
discussione che ci appresteremo a fare, segnalando, inoltre al gruppo, che l‟optimum sarebbe quello
di poter registrare tramite supporto digitale il colloquio, spiegando che non ce ne avvaleremo al fine
di garantire la loro privacy.
Le domande stimolo usate appartengono ad una check list, che per necessità di
standardizzazione sono uguali in tutti i gruppi.
Le domande stimolo usate, pur se a volte presentate in ordine diverso, a seconda di come si
sviluppa la discussione, sono categorizzabile in 4 aree: apertura al gruppo, analisi dei punti di forza
e debolezza percepiti nella proprio organizzazione del lavoro, percezione del futuro rispetto
all‟organizzazione di appartenenza, senso di fiducia nell‟organizzazione.
La prima domanda da porre, può essere meglio definita come uno stimolo per facilitare
l‟apertura del gruppo, come prima cosa sarebbe opportuno rivolgersi ai partecipanti chiedendo:
“Come state? Come va?” Tecnicamente si chiama “Warming up” o riscaldamento del gruppo,
generalmente, salvo esigenze di tempo dettate da necessità organizzative (limite di tempo per la
conduzione, imposto dalla direzione del personale) la domanda è rivolta in modo gruppale e non
direttivo.
66
Più in generale sarebbe preferibile non effettuare un giro di tavolo, ma dirigersi verso ogni
partecipante, lasciando che le persone si attivino secondo i propri tempi, dando quindi modo ai
membri del gruppo di sentirsi maggiormente a proprio agio nel “qui ed ora”.
Può succedere a volte di incontrare gruppi molto asettici o demotivati, in questo caso per
non rimanere troppo nel silenzio ed evitare imbarazzi, si rivolge la domanda ad un partecipante
precisando che la stessa verrà rivolta a tutti.
Spesso capita che alla domanda come va; la risposta sia: “..bene, o tutto bene” ; in questo
caso è utile chiedere di spiegare quali sono le cose che lo fanno stare bene in azienda, cercando di
mantenere circolarità nello sguardo, in modo da non perdere i segnali non verbali degli altri
partecipanti.
Di fatto per ogni asserzione del partecipante che si presenti come una risposta chiusa, si
reindirizza la conversazione sul significato di quanto è stato asserito, facendo attenzione a non
esprimere termini di giudizio, ma semplicimente utilizzando la produzione verbale della risposta, si
riformula la stessa, cercando di allargare la cornice di riferimento.
In alcuni casi si possono usare delle vere e proprie riformulazioni cognitive, per esempio la
formula …”allora lei mi sta dicendo che”…., o …”se io ho capito quello che mi sta dicendo, lei mi
sta dicendo che….”. Con questa tecnica (Rogers, Kinget, 1970), si fa riascoltare alla persona o al
gruppo quello che abbiamo ascoltato, permettendo così la possibilità di avere feedback di conferma
o disconferma.
Le domande successive coinvolgono il gruppo nell‟analisi dei punti di debolezza e di forza
della propria organizzazione del lavoro, invitando i partecipanti a proporre proprie soluzione sul
miglioramento dell‟organizzazione stessa.
Lo scopo di queste domande è quello di rendere l‟idea ai partecipanti dei gruppi, di
capovolgere la piramide organizzativa, dove le persone diventano il vertice, ed il vertice diventa la
base, da un punto di vista psicologico potremmo dire che questo favorisce un cambio di percezione
rispetto al proprio modo di essere collocato in azienda. La vita nelle organizzazioni è accompagnata
da esperienze di ambivalenza: voglia di “esserci” come persona intera e voglia di sottrarsi.
Condizioni soggettive (Spaltro 1993) che influenzano il “senso di esserci”: - significatività esperita
(quanto è significativo il mio contributo) - responsabilità esperita (quanto posso contribuire alla
soluzione dei problemi) - conoscenza dei risultati (quanto è efficace quello che produco) - sicurezza
(quanto posso impegnarmi senza aver paura di conseguenze negative per il mio status, immagine,
carriera).
67
Durante la conduzione, spesso si può ricorrere ad un espediente, facendo giocare ogni
partecipante ad immedesimarsi nel ruolo di capo dell‟azienda, chiedendoli quale sarebbe la prima
cosa utile per lui da fare al fine di migliore l‟organizzazione ed il modo di lavorare delle persone, in
modo da facilitare il membro del gruppo ad avere il più possibile presa di conoscenza rispetto alle
tematiche trattate nella discussione fra i partecipanti.
Il gruppo di discussione viene concluso, facendo un riassunto di quanto detto durante l‟
incontro, in modo da poter fare avere al gruppo, in maniera trasparente, qual è l‟impressione che si è
avuto fino a quel momento, tecnicamente si usa questa frase:…”alla fine di questo nostro incontro,
dopo avervi ascoltato, queste sone le cose che mi sono rimaste più impresse, vi chiedo di
confermarmi o meno se le mie congetture sono congruenti con quello che avete detto fino ad
ora…”
Questa modalità permette al gruppo di confermare o meno l‟analisi del consulente,
rafforzando il contratto psicologico con il gruppo.
L‟esperienza sul campo fa dire che questa strategia ha il duplice vantaggio di migliorare il
processo di trasparenza e apertura del gruppo rispetto ai dati qualitativi che si vogliono raccogliere e
soprattutto di creare un effetto sul clima all‟interno dell‟azienda rispetto all‟indagine svolta.
La diffidenza e la non accettazione verso il consulente, riteniamo che non facilitino il lavoro
di consulenza, rendendo quest‟ultima sicuramente più difficile ed in alcuni casi, pressochè nulla.
I lavoratori sono sicuramente il miglior veicolo promozionale per diffondere positivamente
il lavoro che si sta portando avanti, favorendo quindi l‟accettazione del consulente e del compito
che sta svolgendo.
5 L’importanza del dato qualitativo
In una ricerca svolta in un ospedale pediatrico, si era rilevato dai gruppi di discussione e
dall‟osservazione naturalistica nei reparti, decisi segnali positivi nei rapporti con i piccoli pazienti.
Il personale intervistato autoriferiva, al contempo, alti livelli di stress, sicuramente non riconducibili
al rapporto operatore/paziente.
Si era infatti notato, grazie all‟osservazione sistematica e partecipante e al materiale di trascrizione
emerso dai gruppi di discussione, che da parte dei genitori vi era una continua richiesta nei
confronti degli operatori sociosanitari, ad avere informazioni sullo stato di salute dei piccoli, e un
costante stato di tensione con il resto del personale che andava dalla qualità del cibo, al modo in cui
venivano praticate le iniezioni. Si rivelò da subito evidente che il rapporto e la natura stressogena
per il personale non era il rapporto con i pazienti ma con i genitori dei bambini. Ad una delle
68
domande, fatte nelle interviste semistrutturate, e più precisamente alla domanda: “E’ più faticoso
gestire il rapporto medico genitore o medico bambino”, il nostro campione concordò
unanimemente che vi era forte tensione nel rapporto con le figure genitoriali.
Dai punteggi rilevati tramite il M.B.I., fu riscontrato alto burnout per quanto riguarda la variabile
D.P. (depersonalizzazione). La nostra analisi ci portò a considerare che vi fosse un nesso fra gli
aspetti della sottoscala D.P. e quanto rilevato nei gruppi di discussione.
Grazie al dato qualitativo potemmo rilevare che il cinismo non fosse rivolto direttamente ai pazienti
di questa particolare struttura pediatrica, ma fosse traslato8 verso i genitori dei bambini. In tutti i
gruppi i partecipanti manifestavano disagio nel rapporto con i genitori dei bambini.
L‟importanza del qualitativo aveva permesso di poter avere una lettura profonda del dato
quantitativo fornito dal test, il sentimento di distacco non era verso il paziente ma verso i genitori
dei pazienti.
La possibilità di aver approcciato questa organizzazione con un approccio metodologico sia
quantitativo (somministrando il M.B.I. ed uno strumento appositamente costruito per l‟analisi del
benessere organizzativo) che qualitativo (focus group, osservazione sistematica e partecipante)
aveva permesso al ricercatore di poter focalizzare le soluzioni organizzative in maniera mirata, nella
redazione del piano di miglioramento; il quale prevedeva al suo interno, la creazione di un punto
unico di contatto all‟interno della struttura, affidato a personale qualificato ed appositamente
formato a prendere in carico le richieste dei genitori, e a fornire loro tutte le informazioni che era
possibile dare loro, in merito all‟avanzamento dello stato dell‟artev della cartella clinica dei piccoli
pazienti.
Conclusioni
In questo capitolo, pur restringendo il campo alla consulenza in ambito sanitario, si è cercato di
presentare come l‟approccio metodologico del consulente, possa determinare il successo o
l‟insuccesso della consulenza stessa.
Non solo nel case study riportato, ma in tutte le consulenze ci imbattiamo nella necessità di inserire
in un adeguata cornice concettuale i dati rilevati dagli strumenti di rilevazione
psicologica/organizzativa.
8 A.Freud (1968). Il concetto (e il termine) “traslazione” era destinato inizialmente a indicare che il rappporto fra
analista e paziente nel suo reale manifestarsi è sempre deformato da fantasie e relazioni oggettuali che scaturiscono dal
passato del paziente, e che proprio queste deformazioni possono essere trasformate in mezzo tecnico capace di rivelare
l‟evoluzioni patogena del passato del paziente. Al giorno d‟oggi il significato del termine è stato ampliato sino al punto
da includere tutto quanto avviene tra analista e paziente e senza più alcun riguardo a ciò che deriva e alle ragioni del suo
accadere.
69
E‟ da considerare utile, dunque, ricorrere al dato quantitativo in ogni occasione, sia di consulenza
che di ricerca, ritenendo altresì, pressoché irrinunciabile la relazione intersoggettiva con le persone
coinvolte nell‟indagine, non per senso di appartenenza ad un filosofia, ma per un semplice fatto di
“qualità” nel fornire alle aziende/istituzioni la visione più nitida, o meno sfuocata, di quali siano i
livelli stress nella relazione con il lavoro e di come l‟organizzazione del lavoro possa essere un
antecedente delle cause stress lavoro correlate.
Il burnout è un rischio sia per le persone che per le organizzazioni del lavoro.
La possibilità di intervenire sia sui singoli che sul contesto organizzativo riteniamo sia un approccio
moderno che va nel senso dell‟efficienza e dell‟efficacia che detta l‟agito di ogni singola realtà
aziendale e ospedaliera.
Le istituzioni di successo conoscono il loro mercato sociale e si affermano perché sono in grado di
fornire, prodotti o servizi che risolvono le esigenze della persone.
In questo scenario diviene sempre più importante la capacità delle aziende sanitarie di sviluppare al
loro interno dei processi volti al miglioramento continuo.
..”Quando un’organizzazione è insensibile nei riguardi delle persone – delle sue aspirazioni, dei
suoi limiti e del modo in cui lavora – lo stress cronico ne rappresenta il risultato inevitabile”.
Bibliografia
Aiken, L.H., Buchan, J., Sochalski, J., Nichols, B. & Powell, M. (2004).Trends in international nurse
migration. Health Affairs, 23 (3), 69-77.
Anderson N., Schalk (1998), The Psychological Contract in Retrospect and Prospect, “Journal of
Organizational Behavior”, Vol. 19, p. 643.
Avallone F. & Farnese M. L. (2005). Culture organizzative. Modelli e strumenti di intervento. Milano:
Guerini.
Bakker, A.B, Leiter M.P., edited by (2010). Work Engagement A Handbook of Essential Theory and
Research. Psychology Press.
Bakker, A.B., Schaufeli, W.B., Leiter, M.P., & Taris, T.W. (2008). Work engagement: The
emergence of a new concept in occupational health psychology. Work & Stress, 22, 187-
200.
70
Bakker, A.B., Demerouti, E., Verbeke, W.( 2004) Using the Job Demands-Resources model to predict
burnout and performance. Human Resource Management, Volume: 43, pp. 83-104
Bakker, A.B., Demerouti, E., & Schaufeli, W.B. (2002). Validation of the Maslach Burnout Inventory –
General Survey: An Internet study. Anxiety, Stress, and Coping, 15, 245-260.
Borgogni L., Galati, D., Petitta, L., & Centro Formazione Schweitzer (2005). Il questionario Checkup
organizzativo: Manuale dell’adattamento italiano. Firenze: Organizzazioni Speciali.
Booth, R. (2002). The nursing shortage: a worldwide problem. Review of Latin America Enfermage, 10
(3), 392-400.
Bowers, M.R., Swan, J.E. & Koehler, W.F. (1994). What attributes determine quality and satisfaction with
health care delivery? Health Care Management Review, 19(4), 49–55.
Brenninkmeijer, V. & Van Iperen, N. (2003). How to conduct research on burnout: advantages and
disvantages of unidimensional approach in burnout research. Occupational and
Environmental medicine, 60, 13-20.
Chiland, C., (1995). Sintesi e prospettive. In: Braconnier, A., Chiland, C., Choquet R., Pomarede, R., La
depressione negli adolescenti (1998). Roma: Borla.
Constable, F. & Russel DW., (1986). The effect of social support and the work environment upon burnout
among nurses. Journal of human stress, 20 – 26.
Contessa, G. (1987) L’operatore cortocircuitato. Milano: CLUP.
Del Rio G. (1990); Stress e lavoro nei servizi. Sintomi, cause e rimedi del burnout. NIS Roma
Farber B. A. (1983), Stress and burnout in the human service professions, Pergamon Press, New York.
Farr R. M., Markova I. (1995), “Professional and lay representations of health, illness and handicap: a
theoretical overview”, in Markova I., Farr R. M., Representations of health, illness and handicap,
Singapore, Harwood Academic.
Fawzy, F.I., Wellisch, D.K., Pasnau, R.O. & Leibowitz B. (1983). Preventing nursing burnout: a challenge
for liaison psychiatry. Gen Hosp Psychiatry, Jul,5(2),141–149.
Freud A. (1968) in Nagera H. (1972) I concetti fondamentali della psicoanalisi. (A cura di) Bollati
Boringhieri (1978) – pp. 10
Freudenberger, H.J. (1974). Staff burnout. Journal of Social Issues, 30, 159-165.
71
Gray, P. (2000). Mental Health in the Workplace: Tackling the Effects of Stress. London: Mental Health
Foundation.
House, J.S., & Wells, J.A. (1978). Occupational stress, social support, and health. In A. McLean, G. Black
and M. Colligan (Eds.), Reducing occupational stress: Proceeding of a conference. U.S.
Department of Health, Education, and Welfare.
Kalliath, T. J., Gillespi, D. F., O‟Driscoll, M. P. & Bluedorn, A.C., (2000). A Test of the Maslach Burnout
Inventory in Three Samples of Healthcare Professionals. Work & Stress, 14, 35-50.
Kelly, G.A. (1955). The psychology of Personal Constructs, New York, Norton
Laschinger, H.K.S. & Finigan, J. (2005). Empowering nurses for work engagement and health in hospital
settings. Journal of Nursing Administration, 35, 439-449.
Leiter, M. P., & Maslach, C. (2009). Nurse turnover: The mediating role of burnout. Journal of Nursing
Management, 17, 331-339.
Leiter, M. P. (2008). A Two Process Model of Burnout and Work Engagement: Distinct
Implications of Demands and Values. G Ital Med Lav Ergon ; 30: A52-A58.
Leiter, M. P., & Maslach, C. (2004). Areas of worklife: A structured approach to organizational predictors
of job burnout. In P. Perrewé & D. C. Ganster, (Eds.), Research in occupational stress and well
being , 3, 91-134. Oxford, UK: Elsevier.
Leiter, M. P., & Maslach, C. (1999). Six areas of worklife: A model of the organizational context
of burnout. Journal of Health and Human Services Administration, 21, 472-89.
Lindblom, K. M., Linton, S. J., Fedeli, C. & Bryngelsson, I. (2006). Burnout in the working population:
relations to psychosocial work factors. International Journal of Behavioral Medicine, 13, 51-59.
Farr R. M., Markova I. (1995), “Professional and lay representations of health, illness and handicap: a
theoretical overview”, in Markova I., Farr R. M., Representations of health, illness and handicap,
Singapore, Harwood Academic.
Maslach, C., & Leiter, M. P. (2008). Early predictors of job burnout and engagement. Journal of Applied
Psychology, 93, 498-512
Maslach, C. & Leiter, M. P. (2006). Reversing Burnout: How to rekindle your passion for your work.
Stanford Social Innovation Review. 4 (1) 42-49.
Maslach, C. & Leiter, P. (2000). Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della
demotivazione al lavoro. Milano: Feltrinelli.
72
Maslach, C. & Jackson, S.E. (1986). M.B.I.: Maslach Burnout Inventory (2 ed.). Palo Alto, CA: Consulting
Psychologists Press.
Maslach, C. (1982). Burnout: The Cost of Caring. Prentice Hall. NJ: Englewood Cliffs.
Maslach, C., & Jackson, S.E. (1981). The measurement of experienced burnout. Journal of Occupational
Behaviour, 2, 99-113.
Papp, K.K., Stoller, E.P., Sage, P., Aikens, J.E., Owens, J., Avidan, A., Phillips, B., Rosen, R. & Strohl,
K.P. (2004). The effects of sleep loss and fatigue on residentphysicians: a multi-institutional,
mixed-method study. Acad Med, 79, 394–406.
Pike, K. L. (1966). Etic and emic standpoints for the description of behavior. In A. G. Smith (Ed.),
Communication and culture: Reading in the codes of human interaction. Holt, Rinheart & Winston,
New York (pp. 152-163).
Ratanawongsa, N., Wright, S.M. & Carrese, J.A. (2008). Well-being in residency: Effects on
relationships with patients, interactions with colleagues, performance, and motivation.
Patient Education and Counseling , 72 , 194-200.
Rogers C.R., Kinget M. (1970) “Psicoterapia e relazioni umane”, Bollati Boringhieri, Torino
Rossati, A. & Magro, G. (1999). Stress e burnout. Roma: Carocci editore.
Schaufeli, Maslach, C., Jackson, S. E., & Leiter, M. P. (1996). Maslach Burnout Inventory Manual (3rd
ed.). Palo Alto, CA: Consulting Psychologists Press.
Sirigatti, S. & Stefanile, C. (a cura di).(1993). The Maslach Burnout Inventory: adattamento e taratura per
l’ Italia. Firenze: O.S.
Spaltro E. (1993). Soggettività. Patron Bologna
Trombini G., “Come logora curare. Medici e psicologi sotto stress”, Ed. Zanichelli, Bologna, 1994
Vahey, D.C., Aiken, L.H., Sloane, D.M., Clarke, S.P. & Vargas, D. (2004). Nurse burnout and patient
satisfaction. Medical Care, 42 (2), 57- 66.
Verplanken, B. (2004). Value congruence and job satisfaction among nurses: a human relations
perspective. International Journal of Nursing Studies, 41, 599-605.
Yancik, R. (1984). Coping with hospice work stress. Journal of Psychosocial Oncology, 2(2), 19-35.
73