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abuso processo1

Date post: 27-Oct-2015
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1 CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Incontro di studio (cod. 5948) – L’abuso del processo civile Roma 16.10.2012 Stefano Benini Abuso del processo e principio della ragionevole durata 1. L’accostamento di termini antitetici. 2. Impostazione funzionalistica del problema dell’abuso. 3. La valutazione etica dell’abuso. 4. Il giusto processo e la “responsabilizzazione” dei soggetti processuali. 5. La ragionevole durata, da diritto a valore dell’ordinamento processuale. 6. L’abuso nelle applicazioni della legge Pinto. 7. Emersione giurisprudenziale di fattispecie di abuso. 8. Applicazioni giurisprudenziali del principio di ragionevole durata. 9. Un freno alle suggestioni della ragionevole durata. 10. L’abuso processuale e il regime delle spese. 11. L’abuso processuale come “temerarietà attenuata”. 12. L'evoluzione legislativa recente. 13. Case management e poteri del giudice. 14. Il calendario del processo. 15. Prima del calendario. 16. Una sintesi dei rimedi contro l’abuso dilatorio.
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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

Incontro di studio (cod. 5948) – L’abuso del processo civile Roma 16.10.2012

Stefano Benini

Abuso del processo e principio della ragionevole durata 1. L’accostamento di termini antitetici. 2. Impostazione funzionalistica del problema dell’abuso. 3. La valutazione etica dell’abuso. 4. Il giusto processo e la “responsabilizzazione” dei soggetti processuali. 5. La ragionevole durata, da diritto a valore dell’ordinamento processuale. 6. L’abuso nelle applicazioni della legge Pinto. 7. Emersione giurisprudenziale di fattispecie di abuso. 8. Applicazioni giurisprudenziali del principio di ragionevole durata. 9. Un freno alle suggestioni della ragionevole durata. 10. L’abuso processuale e il regime delle spese. 11. L’abuso processuale come “temerarietà attenuata”. 12. L'evoluzione legislativa recente. 13. Case management e poteri del giudice. 14. Il calendario del processo. 15. Prima del calendario. 16. Una sintesi dei rimedi contro l’abuso dilatorio.

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1. L’accostamento di termini antitetici. Il problema dell’abuso del processo appare intimamente collegato al principio della ragionevole durata, tanto che il titolo della presente relazione rappresenta un’associazione scontata, in virtù della quale il primo termine sembra avere un senso alla luce del secondo senza il quale il primo neppure meriterebbe considerazione, o anche, l’attuazione del secondo è strettamente legata al dimensionamento nel primo. Nel comune sentire, si tratta però di un’associazione antitetica perché se la ragionevole durata costituisce un principio dell’ordinamento processuale, l’abuso degli strumenti processuali ne impedisce la realizzazione. E’ un’associazione che comincia a diffondersi non appena, approssimativamente a cominciare dagli anni ’90, si evidenzia il dramma della durata del processo civile, e quale rimedio alle reiterate condanne dello Stato italiano per la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, vengono concepiti i primi interventi legislativi, quasi sempre indotti dalla necessità di contenimento della spesa pubblica. A tal fine viene promulgata una legge che elabora un nucleo di rimedi interni alla violazione del principio (legge 24.3.2001, n. 89, c.d. “legge Pinto”), ed è in applicazione di questa che emerge in negativo il problema dell’abuso del processo che, in quanto ascrivibile al comportamento della parte, contribuisce a una dilatazione dei tempi processuali per una misura che non può essere ascritta all’inefficienza dell’apparato processuale. L’espressione “abuso del processo”, sovente associata a perifrasi contigue o equivalenti, quali “temerarietà della lite” o “artata resistenza in giudizio”, diviene patrimonio lessicale della giurisprudenza applicativa della legge Pinto. La contrapposizione si delinea dunque nella diversa natura dei due elementi, l’uno a carattere privatistico, contrassegnato dall’esercizio delle facoltà che l’ordinamento processuale riconosce alla parti, l’altro, corrispondente all’interesse generale dell’efficienza dell’apparato, cui è rimessa l’amministrazione della giustizia. A ben vedere, la contrapposizione è il frutto di una banalizzazione contingente, che deformando il vero senso di ciascuno dei due elementi della contrapposizione, rappresenta un ostacolo alla loro comprensione, e condiziona le ipotesi di lavoro che si vogliano delineare per il ristabilimento dell’efficienza del processo. Il fatto è che, da un lato, l’ordinamento processuale italiano non identifica una nozione univoca del termine “abuso”, che proprio grazie alle misure via via predisposte per garantire il bene costituzionale dell’efficienza processuale viene fuori in negativo, con contorni per niente nitidi, tanto che non esiste una vera coscienza che il fenomeno oggettivamente esista. Dall’altro, la ragionevole durata non è solo un valore pubblicistico del processo, ma anche un corollario del diritto fondamentale di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.), che riceve autonomo riconoscimento con la legge costituzionale 23.11.1999, n. 2, di riforma dell’art. 111 Cost. Sicché, se l’abuso, dalla sua accezione etimologica, che risponde ad un uso eccessivo, strumentale, illecito, di una facoltà, si traduce in termini processuali in un comportamento della parte che ostacola il tempestivo svolgimento della causa, il

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confine tra la correttezza e l’arbitrio si sposta ove nella strategia difensiva, comunque esplicata, si identifichi una modalità di esercizio di un diritto costituzionale che non può essere compresso, finendosi per stemperare l’accezione negativa che al termine è connessa. In quanto nozione connotata da un apprezzamento negativo, l’ampiezza dell’”abuso” è strettamente connessa ai limiti di legittimità dell’operare di chi potenzialmente potrebbe compierlo, ovvero, all’estensione dell’”uso”. L’abuso appare tradizionalmente assistito da un’intenzionalità lesiva nei confronti dell’altrui sfera giuridica (che è indipendente dalla violazione dei precetti deontologici), mentre nel momento in cui si comincia a ravvisarne le sembianze anche in altre manifestazioni, lesive di interessi pubblici, quale quello della ragionevole durata, l’intensità della colpevolezza passa in secondo piano, fino a ingenerare il dubbio che la fattispecie, pur sempre oggetto di censura, possa ancora definirsi “abuso”. Non è un caso che nell’ordinamento francese, l’abuso è distinto dal comportamento dilatorio1. La constatazione trasferisce immediatamente la tematica dal terreno dell’etica a quello della disciplina processuale, sì come configurata dal legislatore in un determinato momento storico. Su questo punto si deve constatare che la normativa recente mostra sensibilità al problema, non tanto sulla figura e sull’entità dell’abuso in sé, quanto sulle esigenze processuali che alla luce del principio di ragionevole durata debbono assistere la realizzazione dei principi del giusto processo, in un clima che dal 1999 in poi appare nettamente mutato. La stessa giurisprudenza, in nome del principio di economia processuale, ha negli ultimi tempi reinterpretato alcuni istituti processuali, dando risposte innovative rispetto ad approdi nemmeno tanto remoti (si pensi alla questione del frazionamento giudiziale dei crediti unitari), finendo per porre in crisi gli stessi presupposti ideologici fondanti del processo ispirato al principio dispositivo, rivestendolo di prerogative sempre più marcatamente pubblicistiche, in cui è lo stesso ruolo del giudice che richiede una ridefinizione. Paradossalmente, se i concetti si abuso e ragionevole durata vengono fuori di pari passo, come l’uno l’impedimento dell’altro, ci si accorge che non è solo l’abuso a ostacolare la ragionevole durata, perché questa, che deve essere realizzata dalla legge, è spesso insita nella disciplina legislativa degli istituti processuali, e allora, a livello di principi, la correlazione tra abuso e ragionevole durata viene sopraffatto dalla necessità di riscrivere le regole del processo rapido ed efficiente, e d’altra parte l’abuso non è solo un ostacolo all’efficienza, ma anche un sistema di sviamento della ricerca della verità e in tale ambivalenza richiederebbe un appropriato sistema sanzionatorio. 2. Impostazione funzionalistica del problema dell’abuso. Alla base delle incertezze e degli equivoci resta la fondamentale disomogeneità dei due termini dell’associazione antitetica che si è creata, identificandosi l’abuso in un 1 L’art. 32-2 del code de procédure civile recita: “Celui qui agit en justice de manière dilatoire ou abusive peut ȇtre condamné à une amende civile…”.

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comportamento soggettivo connotato in modo riprovevole, e, diversamente, la ragionevole durata in un valore astratto e obiettivo virtuoso, sicché l’accostamento, sia pure in termini antitetici, ne raccomandava il collocamento in un territorio concettuale comune che rendesse possibile l’analisi della fenomenologia del comportamento nell’aspirazione teleologica alla realizzazione del valore. Sicché il concetto di abuso ha assunto nell’analisi dottrinale una connotazione funzionale, con una “percezione come problema incombente ed esiziale per il concreto svolgimento delle attività procedimentali nella direzione di risultati di giustizia sostanziale”2. Parimenti, la ragionevole durata, nell’aspetto pubblicistico di impellente obiettivo da conseguire per ragioni economiche, ha finito per fondersi e confondersi con il principio di economia processuale, e trascendere il contesto garantistico nel quale l’art. 111 Cost. lo immerge3. Da qui il tentativo di razionalizzazione del problema, nell’incontro tra i due elementi antitetici, ad un’aspirazione funzionale di lotta all’abuso del processo quale condizione necessaria al conseguimento del bene della ragionevole durata, o se si vuole, dell’economia o dell’efficienza processuale. A ciò si aggiunga che l’occasione di analisi giurisprudenziale dei due termini in contrapposizione è pregiudizialmente condizionata dalla sistematica della legge Pinto, che interviene a posteriori non per realizzare un modello processuale ispirato al principio ottimale della ragionevole durata né per reprimere il fenomeno dell’abuso, ma per regolare le conseguenze di singole violazioni della ragionevole durata, intesa non come interesse superiore, ma come diritto della parte in causa. Il ritardo nell’elaborazione autonoma di una nozione di “abuso del processo” è generalmente sembrata riconducibile ad un’impostazione essenzialmente sostanzialistica del problema, che con difficoltà ha sottratto da quest’area l’esercizio del conseguente diritto di azione4. Ché anzi, il versante processuale è rimasto a lungo impermeabile all’evoluzione concernente la relativizzazione dell’uso di diritti fondamentali5, dalla quale ha almeno avuto l’effetto di isolare una tipologia di attività di tutela, che in quanto prive di interesse processuale e quindi processualmente non proporzionate rispetto a intenti di effettiva tutela del diritto, possono qualificarsi in tal senso abusive. E’ sembrato a lungo che l’idea stessa di abuso fosse intrinsecamente confliggente con una concezione liberale-classica del processo civile, fondata sul dispiegamento del tutto libero delle attività di difesa tecnica. Ignota in giurisprudenza fino alla applicazioni della legge Pinto, la nozione, nella materia processuale, è stata

2 A. DONDI, Abuso del processo (diritto processuale civile), in Enc.dir.-Annali, Milano, III, 2010, 3. 3 L.P. COMOGLIO, Etica e tecnica del giusto processo, Torino, 2004, 88. 4 V. ANSANELLI, Abuso del processo, in Digesto disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, Torino, I, 2007, 2. 5 A. DONDI, Spunti di raffronto comparatistico in tema di abuso del processo, in Nuova giur. civ., 2003, 62.

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oggetto di elaborazione da parte di una minoranza dottrinale, sulle indicazioni provenienti da consolidate esperienze comparatistiche6. Non è un caso che è proprio con riferimento alle esperienze di altri ordinamenti, le prime elaborazioni teoriche del concetto di abuso processuale sembrano subito prendere le distanze da quella concezione liberale di libera competizione delle parti in causa, dandone univoca attribuzione all’“attività propria della categoria professionale più tipicamente caratterizzante l’assetto del processo civile, ossia l’avvocatura”, attesane l’indubbia “funzione-cardine di gestore della fase introduttiva e di quella di trattazione”7. Tale ricostruzione è suggestivamente evocativa della cultura processuale statunitense, cui sembra risalire l’emersione del problema dell’abuso (particolarmente nella fase del discovery all’interno della disciplina del pre-trial), con l’individuazione del difensore come soggetto-tipo al quale riferire la messa in atto di attività abusive8. Se nella definizione minima dell’abuso del processo si trova unanime consenso come “utilizzazione distorta di strumenti del processo legittimi”9, la constatazione che l’utilizzazione abusiva presuppone che il soggetto sia titolare di una determinata attività processuale che ammetta una qualche discrezionalità nella scelta delle modalità di esercizio, è tutt’uno con il riconoscimento della titolarità delle opzioni difensive in capo al difensore tecnico. Ciò spiegherebbe la debolezza dei segnali di interesse nei confronti dell’elaborazione di una nozione di abuso del processo, con una marcata riluttanza ad includere tra le questioni cruciali il problema delle modalità di esercizio della difesa tecnica in giudizio, giacché dei rimedi giurisdizionali è lecito abusare e ciò non rappresenta un fenomeno negativo10, e, corrispondentemente, con la tendenza a risolvere il problema riducendolo allo scarso apparato della disciplina di diritto positivo o all’incapacità o alla cattiva volontà del “sistema giustizia”. La virtuale attribuzione di connotazioni etiche di segno negativo all’esercizio delle attività11, determina la confluenza nella problematica di istanze extraprocessuali, perché attinenti a profili etici e deontologici della professione di avvocato, per la quale si trova un deterrente specifico nell’art. 88 c.p.c., di cui si riscontra la scarsa efficacia, a causa dell’attenzione solo generica che viene riservata alla norma, 6 L.P. COMOGLIO, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 322. 7 A. DONDI, Abuso, cit., 3-4. 8 A. DONDI, Spunti, cit., 66. 9 A. DONDI, Abuso, cit., 2. Analogamente, secondo M. TARUFFO, Elementi per una definizione di “abuso del processo”, in AA.VV., Diritto privato – III. L’abuso del diritto, Padova, 1998, 447, l’abuso è definibile come “impiego di un rimedio processuale per il conseguimento di un fine che non è proprio di quel rimedio, poiché non rientra nell’ambito degli scopi al cui raggiungimento esso è preordinato”. 10 Come osserva criticamente M. TARUFFO, Elementi, cit., 435. 11 A. DONDI, Manifestazioni della nozione di abuso del processo civile, in AA.VV., Diritto privato – III. L’abuso del diritto, Padova, 1998, 465.

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nonostante le profonde ripercussioni processuali non solo come apprestamento di tattiche dilatorie, ma anche nello sviamento dalla ricerca della verità12. L’interazione, finora non sufficientemente praticata, tra la disciplina del processo e la normativa di etica professionale dell’avvocato, consiglierebbe anzi “come una corretta policy di riforma del processo alla luce di una cultura dell’abuso non possa che passare attraverso la predisposizione di sanzioni” non riferite alla sola parte in senso sostanziale, ma con “diretto coinvolgimento dell’avvocato, nella forma di conseguenze disciplinari e sanzioni pecuniarie”13. 3. La valutazione etica dell’abuso. Le suggestioni comparatistiche vengono svalutate nella doverosa considerazione delle diversità che caratterizzano i sistemi processuali degli ordinamenti di common law, e le regole comportamentali alle quali è soggetto il ceto forense in quegli ordinamenti14. Inoltre, sempre con riguardo alla professione di avvocato in Italia, è sempre in forza delle tecniche processuali che vanno parametrati i criteri concernenti la deontologia forense, e sotto tale profilo non potrebbe disconoscersi come “ciò che è processuamente lecito non può essere deontologicamente scorretto…la deontologia può intervenire ove la legge non sia arrivata, colmando le lacune del sistema e indirizzando il ceto forense sotto un profilo più strettamente etico, ma non può porsi in contrasto con quanto la legge statuisca in modo sufficientemente chiaro”15. In particolare non è sembrato che il comportamento etico del difensore involga un dovere di collaborazione con il giudice alla realizzazione del principio di ragionevole durata16, giacché è sembrato “fuori luogo, e fors’anche in contrasto con lo stesso art. 24 Cost., pretendere che il ruolo dell’avvocato nel processo sia tutt’uno con quello del giudice”. Il dovere di tenere un comportamento conforme alla legge e alla deontologia, secondo criteri di lealtà e probità, non comporta che i difensori “tengano comportamenti in contrasto con i propri interessi”, non essendo tenuti a “realizzare l’interesse superiore dello Stato, ma solo quello individuale della parte che assistono”17. Viene anche citato Calamandrei, che dopo aver sottolineato le differenze tra malafede processuale e diritto alla difesa18, non escluse tra gli atti difensivi leciti nemmeno il c.d. negozio indiretto, sicché non è apparso comportamento 12 A. DONDI, Abuso, cit., 5. 13 A. DONDI, Abuso, cit., 11. 14 G. SCARSELLI, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 95. 15 G. SCARSELLI, Lealtà, cit., 96. 16 Cass. 5.9.2008, n. 22404, rv. 604515: a carico delle parti processuali vi è sì il dovere di non porre in essere comportamenti dilatori, ma non quello di dare impulso al processo, attraverso richieste di anticipazioni di udienza od altre istanze dirette a velocizzarne i tempi. 17 G. SCARSELLI, Il nuovo art. 96, 3° comma, c.p.c.: consigli per l’uso, in Foro it., 2010, I, 2238. 18 P. CALAMANDREI, Il processo come giuoco, in Studi sul processo civile, Padova, 1957, VI, 45 ss.

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deontologicamente riprovevole nel processo “che una parte ponga in essere un atto lecito e previsto dal sistema, e tuttavia realizzato non tanto per gli effetti processuali che esso produce per legge, quanto per le prevedibili reazioni che esso provocherà nell’atteggiamento degli altri soggetti del processo, e in primo luogo la controparte e il giudice”19. Il diritto di agire in giudizio deve comprendere anche la possibilità di compiere tutte le attività processuali consentite in astratto dalla legge, per cui non sarebbe possibile, in nome della ragionevole durata, impedire alle parti di scegliere modi e tempi della tutela giurisdizionale, imponendo loro di agire sempre e comunque in tempi rapidi, e le esigenze di contenimento della durata del processo non possono mai ledere il diritto di difesa. Si è però obiettato che la formulazione “moraleggiante” con cui l’art. 88 c.p.c. richiama le parti e i loro difensori a “comportarsi in giudizio con lealtà e probità” non può indurre a relegare la norma alla dimensione di un generico richiamo alla correttezza, essendo assunto, il comportamento leale e probo, a contenuto di un preciso dovere, e d’altro canto il modo con il quale la parte rispetta o viola tale dovere è assunto, in altre norme del codice di rito, a criterio di diverse valutazioni o a fondamento di sanzioni (artt. 92, 116, 175)20. Il tema dell’abuso del processo assume dunque, prima della necessaria valutazione in termini funzionali, ed il suo diretto collegamento con il principio di ragionevole durata, una dimensione etica. 4. Il giusto processo e la “responsabilizzazione” dei soggetti processuali. Il giusto processo è anche assunzione di responsabilità da parte dei difensori, oltre che del giudice21. La garanzia della difesa costituzionalmente prevista dall’art. 24 Cost., deve intendersi, alla luce della riscrittura dell’art. 111 Cost., come garanzia di una “giusta” difesa, svolta nell’interesse del cliente mediante l’utilizzazione corretta delle potenzialità del processo, senza che ne vengano distorte le finalità ad esso proprie22. A proposito del divieto di parcellizzazione della tutela giurisdizionale di un credito unitario, la Suprema Corte ha sottolineato la costituzionalizzazione, in base agli “inderogabili doveri di solidarietà, consacrati nell’art. 2 Cost.”, dei canoni di buona fede e correttezza, ed ha invocato i canoni fondamentali del giusto processo (di cui è parte integrante la ragionevole durata)23. 19 G. SCARSELLI, Il nuovo art. 96, cit., 2240. 20 C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, 2011, I, 395. 21 Si legge in Cass. 1.3.2012, n. 3189, rv. 621254, che l'art. 111 Cost., secondo comma, con lo statuire che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo, detta una regola per l'interpretazione delle singole norme del codice di rito funzionalizzata alla celerità del processo, secondo la quale al giudice è impedito di adottare provvedimenti che, senza utilità per il diritto di difesa o per il rispetto del contraddittorio, ritardino inutilmente la definizione del giudizio. 22 V. ANSANELLI, Abuso, cit., 7. 23 Cass. 15.11.2007, n. 23726, in Foro it., 2008, I, 1519.

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Nel momento in cui il “giusto processo”, da categoria sistematica fino ad allora desumibile dall’interpretazione coordinata di più garanzie costituzionali, si è trasformata in esplicita ed autonoma enunciazione costituzionale, emerge un’essenziale componente “deontologica” concernente non tanto l’idoneità tecnica e l’efficiente funzionalità dei mezzi e delle strutture del giudizio, quanto la correttezza delle condotte di tutti i protagonisti della vicenda processuale, che imporrebbe di rendere verificabile, in ogni situazione, l’etica intrinseca al processo, nei comportamenti di chi (parte, difensore, giudice o p.m.) esercita (o non esercita) i diritti, i poteri e gli oneri di cui è titolare24. Il processo deve essere giusto in termini oggettivi, funzionali e strutturali, con riguardo all’effettività degli strumenti messi a disposizione per la tutela dei diritti, in contraddittorio paritario, davanti a un giudice terzo e imparziale. Il processo deve però essere anche giusto in termini soggettivi e comportamentali, se ed in quanto sia retto da principi etici e deontologici, che impongono a tutti i soggetti coinvolti precisi doveri di condotta nel processo”25. Ciò che fino ad oggi si è giustificato nel quadro di non commendevoli strategie, originanti al più difficoltà alla controparte processuale, non può essere qualificato solo in funzione del pregiudizio che provoca ad un soggetto specifico, ma altresì in considerazione del pregiudizio che arreca al sollecito e ordinato svolgimento del processo: la condotta processuale abusiva è “plurioffensiva”26 poiché mira sia a recare pregiudizio all’avversario, sia a mettere in crisi il processo. E rompe il sottile equilibrio che deve caratterizzare i valori del giusto processo. Il diritto di azione e difesa non può essere inteso in senso assoluto, potendo subire legittime limitazioni in rapporto alle esigenze di tutela di altri interessi, tra i quali la celerità del giudizio. 5. La ragionevole durata, da diritto a valore dell’ordinamento processuale. E’ proprio il richiamo all’esigenza di celerità del processo, che è messa in pericolo dall’abuso, sia esso mirato a creare difficoltà all’avversario, o, direttamente, a far trascorrere il tempo perché si vuole allontanare una decisione sfavorevole, ritrasferisce il problema nella sua dimensione funzionale, dalla quale si era partiti, senza trascurare l’eventualità di altri, non commendevoli obiettivi (la lievitazione della parcella dell’avvocato, l’indennizzo per l’irragionevole durata), Si è detto che la ragionevole durata è parte integrante del diritto di tutti ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi, e in tale veste era già apprezzabile nella prospettiva dell’art. 24 Cost.27, vuoi perché la durata del processo

24 L.P. COMOGLIO, Abuso, cit., 329. 25 L.P. COMOGLIO, Abuso, cit., 330. 26 M. TARUFFO, Elementi, cit., 453. 27 Corte cost. 22.10.1999, n. 388, in Foro it., 2000, I, 1072: “il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi, garantito dall’art. 24 Cost., include il diritto ad una ragionevole

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non deve andare a danno della parte che ha ragione28, vuoi censurando un sistema che se non esclude la tutela giurisdizionale, la rende estremamente difficile29, o che impone termini dilatori senza una giustificazione costituzionalmente rilevante30. Il tema si è progressivamente “arricchito” dei tangibili riconoscimenti risarcitori davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per violazione dell’art. 6, §1, della Convenzione europea del 1950. Con l’art. 111 Cost. si ha un mutamento di prospettiva, perché se da un lato il bene della rapidità processuale, è autonomamente garantito in termini espressi, e non più meramente ricavabile per implicito dalla garanzia del diritto di azione, pure di esso non si può fare a meno di tener conto, quando si vogliano concretizzare i diversi requisiti che il secondo comma sancisce come essenziali per il giusto processo (contraddittorio, parità delle parti, giudice terzo e imparziale). L’effettività della tutela giurisdizionale si misura anche in base alla capacità dell’ordinamento di garantire il risultato richiesto nei limiti di una giusta durata. L’economia processuale diviene un valore dell’ordinamento, e i mezzi che “la legge” deve apprestare per “assicurare la ragionevole durata” si traducono in strumenti funzionali. Il principio di economia processuale, lungi da fornire un semplice canone interpretativo31, è venuto ad assumere la funzione di stabilire se una norma possa dirsi conforme alla previsione costituzionale che impone al legislatore di dettare una disciplina idonea a contenere la durata del processo in termini ragionevoli32. L’economia processuale ha anche una doppia valenza: le norme processuali devono preoccuparsi di garantire non solo l’economia interna (risparmio di attività, di tempo), ma anche quella esterna, prevenendo il sorgere di altri processi. Questo significa che non è possibile fermarsi al dato immediato della duplicazione di attività, del dispendio di tempo, occorrendo anche verificare se tale immediata diseconomia in realtà non sia utile al fine di prevenire altri e diversi processi. Il principio non comporta soltanto che il legislatore debba approntare misure per conseguire il massimo possibile risultato in termini di tempo, spese ed oneri

durata del processo, affinché la decisione giurisdizionale perseguita tramite l’azione, assicuri l’efficace protezione della situazione tutelata e, in definitiva, la realizzazione della giustizia”. 28 Corte cost. 28 giugno 1985, n. 190, in Foro it., 1985, I, 1881. 29 Corte cost. 17 marzo 1998, n. 62, in Foro it., 1998, I, 969. 30 Corte cost. 11 giugno 1975, n. 138, in Foro it., 1975, I, 1596. 31 In relazione a tale mutamento di prospettiva, coincidente con l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 111 Cost, si è ritenuta non ravvisabile un'esigenza di tutela dell'affidamento riposto dall'attore in relazione ad intervenuto mutamento dell'orientamento giurisprudenziale in materia, atteso che il principio del giusto processo, non consente più di utilizzare, per l'accesso alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia, e impedisce, perciò, di accordare protezione ad una pretesa priva di meritorietà e caratterizzata per l'uso strumentale del processo (Cass. 22.12.2011, n. 28286, rv. 620985). 32 G. OLIVIERI, La «ragionevole durata» del processo di cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, 2° comma, Cost.), in Foro it., 2000, V, 254.

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(individuali, collettivi, sociali) nello svolgimento del processo, e più in generale nell’amministrazione della giustizia, ma ha contestualmente di mira la razionalizzazione tecnica dei meccanismi processuali, allo scopo di realizzare il massimo risparmio possibile di atti, risorse, energie, nell’esercizio di diritti, poteri e doveri di cui le parti siano titolari all’interno del processo33. L’imperativo enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost., seconda parte, consacra una garanzia minima ed essenziale del giusto processo, in aggiunta a quelle della prima parte (contraddittorio tra le parti, condizioni di parità, giudice terzo ed imparziale)34. L’attuazione del principio costituzionale va concepita in una sfera in cui la piena realizzazione del contraddittorio, della parità tra le parti, del giudice terzo e imparziale avvenga nel quadro dell’efficienza processuale. La nuova garanzia dovrebbe inoltre fornire un’ottica diversa per lo scrutinio di costituzionalità di molti istituti del processo vigente, che nel disciplinare il dipanarsi del processo, rendono possibili gli abusi di una parte in danno dell’altra, nonché un irrazionale allungamento dei tempi35. Alla luce dei principi del giusto processo è ora lecito chiedersi se l’art. 88 c.p.c. possa offrire una diversa possibilità di lettura, relazionata in primo luogo al contegno ispirato alla buona fede che l’altra parte può attendersi dall’avversario nell’esercizio dei poteri processuali contrapposti: in proposito si è osservato che l'art. 88 c.p.c. “finisce per innervare innervare il contraddittorio e per costituire uno degli addendi importanti ed essenziali della disposizione si cui all'art. 111, secondo comma, Cost.”36. Più in generale, s'impone una rilettura dell'art. 88 c.p.c. secondo un obiettivo di economia processuale, come rispetto dei tempi di svolgimento della procedura: dovere che diviene pregnante alla luce della nuova formulazione dell’art. 81-bis c.p.c., del quale si dirà oltre. Il valore rappresentato dall’attuazione delle garanzie delle parti è tendenzialmente in conflitto con le esigenze di semplicità, rapidità, efficienza del processo: l’attuazione di quelle garanzie assume valore prioritario rispetto alle esigenze di efficacia e funzionalità del processo. La priorità nell’esercizio dei poteri difensivi delle parti sull’esigenza di contenere i tempi del giudizio37, tuttavia, non significa che l’esplicazione ne sia per definizione corretta, dovendosi ammettere l’eventualità che l’esercizio del potere processuale assume il riferimento alle garanzie come mero pretesto, per legittimare comportamenti diretti ad ostacolare il corretto ed efficiente funzionamento del processo38. Questa dimensione della lealtà dovuta al processo come entità ispirata ai valori dell’art. 111 Cost., quindi anche alle esigenze di

33 L.P. COMOGLIO, Etica, cit., 89. 34 L.P. COMOGLIO, Etica, cit., 91. 35 L.P. COMOGLIO, Etica, cit., 92. 36 F. CORDOPATRI, Un principio in crisi: victus victori, in Riv. dir. proc., 2011, 277. 37 G. OLIVIERI, La «ragionevole durata», cit., 254. 38 M. TARUFFO, Elementi, cit., 455.

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economia processuale, potrebbe altresì offrire la chiave di lettura per un distacco del nuovo terzo comma dell’art. 96 c.p.c. dal contesto della responsabilità aggravata per lite temeraria, con i presupposti tradizionalmente fissati per l’applicabilità del primo comma, come specifica reazione dell’ordinamento agli abusi dilatori del processo. Ma anche di ciò si dirà oltre. 6. L’abuso nelle applicazioni della legge Pinto. Nell’assenza di definizione di “abuso del processo” (l’espressione non compare in alcun testo legislativo), pare necessario verificare se essa possa desumersi dall’elaborazione giurisprudenziale, quale elemento negativo ricavabile dal concetto di ragionevole durata, in primo luogo, e dai tentativi operati dalla giurisprudenza allo scopo di contenere i tempi di svolgimento processuale. Un approccio al problema che parta dalla teorica definizione di abuso, sembra sterile, e irrimediabilmente destinato a sfociare in risultati di scarso utilizzo nel contesto processuale, attesa la non compiuta elaborazione della categoria a livello dottrinale: non va dimenticato che il fenomeno da più parti viene perfino ontologicamente negato, se si fa eccezione dell’utilizzo dello strumento processuale, in mala fede o con grave colpa. Anche perché l’elaborazione concettuale del tema, che pur non è mancata, si è svolta prevalentemente a livello teorico partendo dai riferimenti comparatistici di cui ha auspicato la riproducibilità, almeno in parte, nel nostro ordinamento – il che comporterebbe una riformulazione del ruolo del giudice nel processo, e dei relativi poteri, non solo nella direzione organizzativa, ma anche nell’adozione di sanzioni – ma senza una indagine “epidemiologica” completa dei casi di abuso. Nelle prime applicazioni della legge Pinto, il dovere di tener conto del comportamento delle parti fece ritenere che i rinvii concordemente richiesti dalle parti dovessero essere detratti dal processo al fine di stabilirne lo sforamento dei limiti di ragionevole durata39, specificandosi anzi che qualora la parte abbia richiesto rinvii della causa o vi abbia consentito, in base a ragioni di propria convenienza, non può, al fine di evitare che l’eccessiva durata del processo derivatane sia addossata al proprio comportamento, dolersi del mancato esercizio dei poteri di direzione del processo medesimo da parte del giudice istruttore40. In prosieguo è introdotta la limitazione ai casi in cui i rinvii richiesti dalle parti siano imputabili ad intento dilatorio o a negligente inerzia delle stesse, e, in generale,

39 Cass. 27.9.2006, n. 21020, rv. 593124; Cass. 1.8.2003, n. 11712, rv. 565559 (che fa riferimento a rinvii influenzati da scelte processuali delle parti); Cass. 29.11.2002, n. 16936, rv. 558819. Analogamente Cass. 21.9.2005, n. 18589, rv. 583289, che pure avverte come “detti rinvii, pur dovendo in linea di massima essere attribuiti esclusivamente a comportamenti delle parti, possono essere imputati in parte anche all'apparato giudiziario, quando risultino violati i termini ordinatori dei rinvii di cui alle norme di rito”. 40 Cass. 3.9.2003, n. 12808, rv. 566492; anche di recente, Cass. 16.7.2012, n. 12161, rv. 623351.

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all’abuso del diritto di difesa, restando addebitabili gli altri rinvii alle disfunzioni dell’apparato giudiziario, salvo che ricorrano particolari circostanze, che spetta alla p.a. evidenziare, riconducibili alla fisiologia del processo41. Negli arresti più recenti, invece, dal computo generalizzato di tutta la durata processuale viene tenuto fuori il caso in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie utile al percepimento dell’indennità, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza. Tali situazioni definibili “come abuso del processo”, devono essere provate dall’amministrazione42. In una occasione si è definito abuso del processo l'esercizio di un diritto in contrasto con lo scopo per il quale viene riconosciuto, che tradisce sul piano funzionale le dichiarate esigenze di correttezza e completezza dell'accertamento, e comporta un prolungamento dei tempi che è irragionevole per definizione. Ma occorre evidentemente impedire che a questi prolungamenti del processo, come della sua stessa promozione per scopi diversi da quelli per i quali è previsto, possa giovarsi colui cui l'abuso risulti imputabile. Le situazioni di abuso si pongono pertanto come limiti funzionali della norma che riconosce il diritto all'equo indennizzo per la durata non ragionevole del processo43. Si aggiunge che l’esito sfavorevole del giudizio può tuttavia incidere riduttivamente sulla misura dell’indennizzo, allorché la domanda sia stata proposta in un contesto tale da renderla, se non temeraria, comunque fortemente aleatoria44. La violazione del diritto alla ragionevole durata del processo non discende, comunque, come conseguenza automatica, dall’essere stati disposti rinvii della causa45 di durata eccedente i quindici giorni (art. 81 disp. att. c.p.c.), ma dal superamento della durata processuale ragionevole in termini complessivi, in rapporto

41 Cass. 10.5.2010, n. 11307, rv. 613258; Cass. 17.9.2010, n. 19771, rv. 615177. Secondo Cass. 12.7.2011, n. 15258, rv. 619023, non possono essere ascritti in toto al comportamento delle parti i ritardi dovuti alle continue richieste di rinvio non funzionali al contraddittorio e al corretto svolgimento del processo, rilevando gli stessi, almeno in parte, in caso di inerzia ed acquiescenza dell’istruttore. Riguardo al processo penale, secondo Cass. 14.3.2011, n. 5995, rv. 617241, il giudice deve valutare se, e con quale portata quantitativa, alla protrazione temporale abbia contribuito il comportamento della stessa parte che chieda di essere indennizzata, o i suoi difensori, mediante richieste di rinvio: anche detti rinvii però possono essere imputati in parte all’apparato giudiziario, ove per le relative insufficienze e disfunzioni, la lunghezza di ciascuno di essi non risulti interamente giustificata dalle ragioni per cui è stato chiesto. 42 Cass. 26.4.2010, n. 9938, rv. 612722; Cass. 9.4.2010, n. 8513, 612537; in precedenza Cass. 7.3.2003, n. 3410, in Giust. civ., 2003, I, 905. 43 Cass. 26.4.2010, n. 9938, rv. 612722, cit. 44 Cass. 13.11.2009, n. 24107, rv. 244651. 45 Sono comunque scomputabili i rinvii cagionati dall’astensione degli avvocati, che non costituiscono disfunzioni attribuibili a violazioni di sistema (Cass. 18.7.2005, n. 15143, rv. 513829; Cass. 19.7.2010, n. 16838, rv. 614959, quest’ultima relativamente al procedimento penale).

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ai parametri di ordine generale fissati dall’art. 2 della legge n. 89 del 200146. Ove complessivamente la durata sia tollerabile, i rinvii operati dal giudice per l'improvviso aumento del carico di lavoro dell'ufficio adito per effetto del contestuale deposito di numerosissimi ricorsi aventi lo stesso oggetto di quello che ha introdotto il giudizio presupposto, non comportino di per sé la violazione47. Il ritardo imputabile al comportamento delle parti, viene dunque detratto dalla durata del processo nell’accertamento della violazione dei limiti fissati dalla giurisprudenza europea applicativa della Convenzione dei diritti. In altre occasioni il concetto di abuso viene allargato (ai fini della riduzione del danno) alla piena consapevolezza, incompatibile con l’ansia connessa all’incertezza sull’esito del processo, dell’infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità, con questo connotandosi la condotta – sembra di capire: ma si tratta di affermazioni astratte – anche come colpa grave48. In tali casi l’abuso impedisce la configurazione di quel danno morale inteso come ansia e stress di trovarsi coinvolti in iniziative giudiziarie diuturne, cui il soggetto stesso abbia dato origine. Altrove, alla lite temeraria viene associato, ma senza ulteriori specificazioni, il caso di “vero e proprio abuso del processo”49. Una specificazione si ha, almeno, in negativo, ove, premesso che non deve tenersi conto dell’abuso del processo o della lite temeraria, non si rinviene tale ipotesi, e di conseguenza deve escludersi che nella valutazione della ragionevole durata di un giudizio promosso nei confronti di ente previdenziale per il riconoscimento del diritto all’assegno di invalidità, il giudice dell’equa riparazione possa tenere conto del solo tempo processuale successivo all’insorgenza dell’infermità invalidante, ove questa risulti sopravvenuta in corso di causa50. Un’altra, rara specificazione, esclude l'esistenza di un danno non patrimoniale nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della parte o sia comunque destinato a produrre conseguenze che la parte stessa percepisce come a sé favorevoli: nella specie, alla stregua di un complesso di elementi, la controversia oggetto del processo civile presupposto - conclusosi con l'estinzione per inattività delle parti, a seguito di transazione stragiudiziale - era stata completamente gestita fuori dell'ambito processuale, con conseguente carenza di interesse del ricorrente alla celere definizione del giudizio in cui era convenuto, essendo il suo interesse quello, opposto, alla stasi del procedimento per coltivare la prospettiva, poi concretizzatasi, della definizione in sede stragiudiziale51.

46 Cass. 24.3.2011, n. 6868, rv. 617352; Cass. 15.11.2006, n. 24356, rv. 594625; Cass.2.3.2005, n. 4450, rv. 579810; Cass. 1.3.2005, n. 4298, rv. 580228; Cass. 5.3.2004, n. 4512, rv. 575864; Cass.1.8.2003, n. 11712, rv. 565558. 47 Cass. 23.12.2011, n. 28568, rv. 620883. 48 Cass. 29.3.2006, n. 7139, rv. 589510; 28.10.2005, n. 21088, rv. 584708. 49 Cass. 11.5.2005, n. 9921, in Guida al dir., 2005, fasc. 25, 36. 50 Cass. 30.9.2005, n. 19204, rv. 585182. 51 Cass. 13.4.2006, n. 8716, rv. 587970.

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L’impostazione della disciplina in tema di “equa riparazione” prevista dalla legge Pinto testimonia un’elaborazione ancora largamente incerta della nozione, ed è lontana dall’impostazione decisamente sanzionatoria che in altri ordinamenti funziona come deterrente per il futuro52. Si è anche annotato che nella equazione “processo lungo=abuso del processo” aleggia la sensazione che il soggetto virtualmente imputabile di tale attività dilatoria sia sostanzialmente il giudice53. Diversamente, come già osservato, nell’ordinamento statunitense, in cui il soggetto-tipo cui riferire l’attività abusiva, è il difensore. Il giudice presunto responsabile del ritardo è del resto avvalorato dalla più recente giurisprudenza, sopra richiamata, che in virtù di una enfatizzazione del potere direttivo da parte del giudice istruttore, ascrive alle parti i soli ritardi determinati da abuso, al più configurato come comportamento in malafede, che è il solo limite oltre il quale la responsabilità della dilatazione abnorme della durata del processo, non può essere ascritta all’amministrazione, ma alle parti. Tale affermazione appare tralaticia, e apparentemente priva della consapevolezza dell’abuso del processo, anche perché – si è osservato54 – in mancanza di reali poteri coercitivi da parte del giudice il processo ha comunque una ragionevole durata quando i suoi tempi siano la conseguenza di un comportamento consapevole di entrambe le parti: se queste, con il loro comune comportamento, dimostrano di volere (o comunque di accettare) tempi processuali meno solleciti, il processo che le riguarda avrà comunque una durata ragionevole. Del resto, se il legislatore intervenisse, costringendole ad agire in tempi da lui strettamente predeterminati, violerebbe il loro diritto d’azione e di difesa, che riguarda anche i tempi delle attività processuali: si vedrà più avanti come l’affermazione sia da smentire alla luce delle più recenti modifiche legislative (art. 81-bis disp. att. c.p.c.: calendario del processo). 7. Emersione giurisprudenziale di fattispecie di abuso. Il primo esempio storico di reazione giurisprudenziale ad abusi finalizzati alla dilatazione dei tempi processuali riguarda l’uso del regolamento di giurisdizione in funzione della sospensione automatica del processo, che la riforma dell’art. 367 c.p.c. (con l’art. 61 legge 26.11.1990, n. 353) ha scongiurato, rendendo la sospensione facoltativa, su apprezzamento del giudice istruttore. Prima della modifica legislativa la giurisprudenza non aveva potuto far altro che ravvisare i presupposti della

52 A. DONDI, Spunti, cit., 62. 53 Il decreto che riconosce l’indennità deve essere trasmesso alla Corte dei Conti per l’eventuale esercizio dell’azione di responsabilità, oltre che agli organi titolari dell’azione disciplinare (art. 5 legge n. 89/01: l’eventuale rivalsa nei confronti del magistrato, tuttavia, dovrebbe essere ascritta al giudice ordinario, ai sensi della legge 13.4.1988, n. 117 (Cass. 27.5.2009, n. 12248, rv. 608286). 54 G. OLIVIERI, La ragionevole durata, cit., 256.

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responsabilità aggravata per le spese ove ritenesse lo scopo dilatorio del regolamento di giurisdizione55. La parcellizzazione in più giudizi della tutela giurisdizionale del credito nascente da un unico rapporto obbligatorio è ora decisamente contrastata dalla giurisprudenza della Suprema corte56. In precedenza se ne era avvalorata la legittimità57, mediante l’argomentazione a contrario dall’art. 1181 c.c., che legittima il creditore a rifiutare l’adempimento parziale (e dunque gli consente anche di chiederlo), pur non mancando resistenze ad ammetterla in nome delle regole generali di correttezza e buona fede. Il revirement giurisprudenziale muove dalla constatazione di un quadro normativo evolutosi nella duplice direzione, sia di una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede – siccome specificativa (nel contesto del rapporto obbligatorio) degli “inderogabili doveri di solidarietà”, il cui adempimento è richiesto dall’art. 2 Cost. – sia in relazione al canone del giusto processo, di cui al novellato art. 111 Cost. Il riferimento al principio di buona fede processuale quale limite all’abuso che si estrinseca mediante il frazionamento di crediti unitari, appare porsi a baluardo degli interessi del debitore, ingiustamente penalizzato attraverso la moltiplicazione delle iniziative processuali a suo danno. Va anche ricordato che nelle azioni parcellizzate potrebbe comunque ravvisarsi un illecito disciplinare previsto dal Codice deontologico forense (art. 49). Per quanto interessa in questa sede, a parte il riferimento alla costituzionalizzazione del principio di correttezza e buona fede in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. – il che consente il controllo, da parte del giudice, dello statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi anche nella fase giudiziale – è in relazione all’art. 111 Cost. che le Sezioni unite ritengono necessaria una lettura “adeguata” della normativa di riferimento (in particolare dell’art. 88 c.p.c.), nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della “ragionevolezza della durata” del procedimento e della giustezza del processo, inteso come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che giusto non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi. In ordine alle conseguenze della proposizione di una domanda parcellizzata, la Cassazione ha affermato che la domanda è improponibile; e che detta improponibilità investe ciascuna delle singole domande (in ciascuna delle relative diverse cause, 55 Cass. 2.3.1982, n. 1280, in Foro it., 1982, I, 1006; Cass. 12.1.1984, n. 225, in Foro it., 1984, I, 1624; Cass. 3.11.1986, n. 6420, in Foro it., 1987, I, 57. 56 A partire dalla pronuncia delle Sezioni unite, Cass. 15.11.2007, n. 23726, in Foro it., 2008, I, 1514). 57 Cass. 10.4.2000, n. 108/SU, in Giust. civ., 2000, I, 2265.

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contestuali o scaglionate nel tempo) in cui è stata frazionata la domanda concernente l'intera somma in questione (e cioè la domanda come avrebbe dovuto essere proposta per essere ritenuta rituale ed dunque proponibile)58. Ciò pone una prima questione nell’ipotesi in cui, per una qualche ragione, il creditore abbia in qualche modo conseguito la condanna per una parte dell’importo, ed agisca per le successive tranches: in tal caso, giocoforza, dovranno esser dichiarate improponibili solo le successive domande. Sembra da ammettere la domanda giudiziale che si limiti ad una frazione dell’intero ammontare di un credito unitario, purché l’attore dichiari di abdicare al residuo. Del principio è stata fatta applicazione in materia di trattamento di fine rapporto, qualora si sia formato il giudicato sull'inserimento, nella base di calcolo, delle indennità contrattuali erogate in maniera fissa e continuativa, restando preclusa una nuova domanda di riliquidazione della prestazione medesima ancorché fondata su profili differenti quali il riconoscimento dei compensi per lavoro straordinario59. Sempre in materia di spettanze lavorative, la restituzione di somme indebitamente ricevute e relative all'erogazione degli accessori dell'indennità di buonuscita deve avvenire attraverso il pagamento in un'unica soluzione, dovendosi escludere l'applicabilità, in via estensiva od analogica, della norma di cui all'art. 26 del d.P.R. n. 1032 del 1973, secondo la quale il recupero dell'indennità di buonuscita indebitamente corrisposta avviene mediante una pluralità di trattenute sul trattamento di quiescenza, attesa la natura speciale ed eccezionale di tale disposizione60. E’ improponibile la domanda di risarcimento dei danni alla persona subiti dall'attore in occasione di un sinistro stradale, nel quale lo stesso aveva subito altresì danni materiali, oggetto di separato giudizio concluso con sentenza passato in giudicato61: dal principio di infrazionabilità si è anzi ricavata l’ulteriore conseguenza che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta, per cui ove l'atto introduttivo indichi specifiche voci di danno, a tale specificazione deve darsi valore meramente esemplificativo, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà attorea di escludere dal petitum le voci non menzionate62. Nel caso di annullamento dell'ordinanza di requisizione, la domande di risarcimento del danno consequenziale alla dedotta illegittimità del provvedimento e di quello derivante dalla perdurante occupazione dopo la scadenza del provvedimento, appartengono entrambe alla giurisdizione amministrativa, in quanto la compressione della situazione soggettiva del titolare dell'immobile travolge la distinzione tra la situazione anteriore e quella successiva alla scadenza del termine configurandosi 58 Cass. 11.6.2008, n. 15476, rv. 603542; Cass. 20.11.2009, n. 24539, in Giur. It., 2010, 1875. 59 Cass. 3.12.2008, n. 28719, in Riv. it. dir. lav., 2009, 711. 60 Cass. 22.12.2009, n. 26961, rv. 611016 61 Cass. 22.12.2011, n. 28286, rv. 620984 62 Cass. 31.8.2011, n. 17879, rv. 619359.

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l'occupazione per entrambi tali periodi come "usurpativa", non è quindi necessario frazionare la pretesa risarcitoria in due distinte domande da rivolgersi, rispettivamente, al giudice amministrativo ed al giudice ordinario, opponendosi ad una siffatta conclusione sia le esigenze di concentrazione ed accelerazione processuale insite nella disciplina introdotta in tema di giustizia amministrativa, sia il principio di ragionevole durata del processo63. Parimenti, qualora la lesione del diritto del lavoratore abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro (es. dequalificazione, comportamenti denunciati come mobbing), si deve fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza, con la conseguenza che va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario allorché tale cessazione sia successiva al 30 giugno 199864. Ci si è posti la questione se il divieto di frazionamento riguardi anche i crediti che maturano in relazione a rapporti di durata, trattandosi di crediti sequenziali. Ma la lettura delle pronunce in cui la corte ha fatto riferimento alla contestualità e alla sequenzialità, a ben vedere, ridimensiona il problema, giacché le uniche due sentenze che si riferiscono al dato temporale, riguardano il momento in cui è stata fatta la domanda, non il momento della maturazione del credito (in un caso65, si parla, peraltro senza aggancio alla fattispecie, di frazionamento giudiziale, contestuale o sequenziale, nell’altro66 di plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo). E’ da ritenere, dunque, che nel caso di maturazione del credito nel tempo, sia esso o meno un rapporto di durata (ad es., forniture in tempi diversi rappresentate da varie fatture, rate di condominio o canoni di locazione) siano ammissibili domande frazionate nel tempo, purché ciascuna di esse raccolga tutti i crediti fino a quel momento maturati. In tema di legge Pinto, non si è negato al medesimo ricorrente l'ulteriore indennizzo relativo ad un nuovo periodo di durata interamente eccedente la durata ragionevole già individuata dal primo provvedimento67. Nel caso di frazionamento soggettivo, ravvisabile ove più soggetti, che dopo aver agito unitariamente nel processo presupposto, propongano contemporaneamente distinti ricorsi per equa riparazione, con identico patrocinio legale, dando luogo a cause inevitabilmente destinate alla riunione, in quanto connesse per l'oggetto ed il titolo, si configura come abuso del processo, contrastando con l'inderogabile dovere di solidarietà, che impedisce di far gravare sullo Stato debitore il danno derivante dall'aumento degli oneri processuali, e con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, avuto riguardo all'allungamento dei tempi processuali derivante dalla proliferazione non necessaria dei procedimenti. Tale 63 Cass. 9.3.2009, n. 5625, rv. 607088 64 Cass. 23.4.2009, n. 9658, rv. 607620. 65 Cass. 15.11.2007, n. 23726, cit. 66 Cass. 11.6.2008, n. 15476, cit. 67 Cass. 21.12.2011, n. 27935, rv. 620929

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abuso non è sanzionabile con l'inammissibilità dei ricorsi, non essendo illegittimo lo strumento adottato ma le modalità della sua utilizzazione: s’impone per quanto possibile l'eliminazione degli effetti distorsivi che ne derivano, e quindi la valutazione dell'onere delle spese come se il procedimento fosse stato unico fin dall'origine68. Si è ritenuto costituire violazione del dovere di lealtà e probità delle parti così come disciplinato dall'art. 88 c.p.c. la condotta processuale di una parte caratterizzata dalla ripetuta contestazione della giurisdizione del giudice adito in simmetrica opposizione alle scelte di controparte, unita alla richiesta, accolta, di sospensione del giudizio ai sensi dell'art. 295 c.p.c., trattandosi di un comportamento processuale idoneo a pregiudicare il diritto fondamentale della parte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 111 Cost. Da ciò si è inferita l'applicazione dell'art. 92, primo comma, ultima parte c.p.c., secondo il quale, il giudice, a prescindere dalla soccombenza può condannare una parte al rimborso delle spese anche non ripetibili che, in violazione dell'art. 88 c.p.c., ha causato all'altra parte69. In tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, si è argomentata l’inammissibilità della mutatio in appello da domanda di risoluzione del contratto e risarcimento del danno a domanda di recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), anche al fine di reprimere situazioni di abuso, rendendo il contraente non inadempiente doverosamente responsabile delle scelte operate, impedendogli di sottrarsi ai risultati che ne conseguono, quando gli stessi non siano corrispondenti alle aspettative che ne hanno dettato la linea difensiva, posto che la modifica potrebbe risultare callidamente e surrettiziamente funzionale a riattivare il meccanismo legale di cui all'art. 1385, secondo comma, c.c., una volta che la liquidazione del danno in primo grado si sia dimostrata poco soddisfacente70. 8. Applicazioni giurisprudenziali del principio di ragionevole durata. Negli ultimi anni la giurisprudenza ha adottato la ragionevole durata come canone interpretativo degli istituti processuali. Dall’art. 111, secondo comma, Cost, in base al quale la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo, deriva una regola per l’interpretazione delle norme di rito finalizzata alla celerità del giudizio71. La costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo “impone all’interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo per cui ogni soluzione che adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento

68 Cass. 3.5.2010, n. 10634, rv. 613006; Cass. 5.5.2011, n. 9962, rv. 616894. 69 Cass. 20.8.2010, n. 18810, rv. 614316. 70 Cass. 14.1.2009, n. 553, in Foro it., 2010, I, 1264; Cass. 6.3.2012, n. 3474. 71 Cass. 7.1.2009, n. 55, rv. 606310: “la Corte di cassazione, in luogo di cassare la sentenza impugnata con il rinvio della causa ad un nuovo giudice di appello, può decidere nel merito la controversia, con la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto”.

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del processo, deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico-concettuale ma anche, e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione del detto oggetto costituzionale”72. Ispirandosi, in modo più o meno esplicito, al principio costituzionalizaato della ragionevole durata, la Corte di cassazione ha apportato soluzioni davvero innovative nell’applicazione di vari istituti processuali. Si possono riportare alcuni esempi, senza alcuna pretesa di completezza : - il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo nel processo chiesta tempestivamente dal convenuto ai sensi dell’art. 269 c.p.c., al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, è discrezionale, potendo il giudice rifiutare di fissare una nuova prima udienza per ragioni di economia processuale e per motivi di ragionevole durata del processo: il principio della ragionevole durata del processo rende irrilevante la violazione di legge compiuta dal giudice di primo grado che non ha consentito la chiamata in causa da parte del convenuto73; - in nome dei principi costituzionali stabiliti dal nuovo testo dell'articolo 111 Cost., che ai fini del giusto processo di durata ragionevole escludono la legittimità di soluzioni interpretative che comportino il ritardo nella definizione della controversia, si è giustificata la decorrenza del termine breve per il ricorso in cassazione a decorrere dalla notifica di un primo ricorso inammissibile o improcedibile74; - la necessità di escludere soluzioni interpretative che comportino un sacrificio del principio di concentrazione delle tutele, che è aspetto centrale della ragionevole durata del processo ha determinato una attrazione, in capo al Tribunale per i minorenni come giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla misura e sul modo con cui ciascuno dei genitori naturali deve contribuire al mantenimento del figlio75; - la lettura costituzionalmente orientata (art. 24, 111 e 113 Cost.) della disciplina processuale, ordinaria e amministrativa, che tenga conto delle argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni in parte nuove svolte di recente dalla dottrina sul tema, ha indotto ad affermare che è stato dato ingresso nell’ordinamento processuale al principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale, e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione76; - nonostante la lettera dell’art. 37 (alla cui stregua il difetto di giurisdizione del giudice ordinario rispetto a un giudice speciale «è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo»), in forza del principio della ragionevole durata del processo deve ritenersi che, in assenza di rilievo o eccezione della questione di giurisdizione nel corso del giudizio di primo grado, il giudice d’appello, in difetto di 72 Così, nella motivazione, Cass. 30.7.2008, n. 20604, in Foro it., 2009, I, 1130. 73 Cass. 23.2.2010, n. 4309, in Foro it., 2010, I, 1775. 74 Cass. 23.7.2007, n. 16207, rv. 599892. 75 Cass. 3.4.2007, n. 8362, rv. 595912. 76 Cass. 22.2.2007, n. 4109, in Foro it., 2007, I, 1009.

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specifico motivo di impugnazione in tal senso, non possa rilevare d’ufficio la questione, essendosi su di essa formato giudicato implicito (questa interpretazione è stata oggi codificata, riguardo al solo processo amministrativo, dall’art. 9 nuovo cod. proc. amm.)77; - nella vicenda di una domanda davanti al giudice di pace per la corresponsione da parte di un comune del c.d. reddito di cittadinanza, cui è seguita prima la dichiarazione di incompetenza per materia da parte del giudice di pace in quanto a suo avviso si trattava di controversia assistenziale ex art. 442 c.p.c. devoluta alla competenza del tribunale quale giudice del lavoro, e poi, in sede di appello, l’esclusione del carattere assistenziale della causa, e per altro verso la pronuncia sul merito del tribunale giudice d’appello, la Cassazione, pur affermando il carattere assistenziale della causa, ha rigettato il ricorso senza esaminare la questione di competenza e ciò in base al solo richiamo al principio della ragionevole durata del processo (e, in prospettiva, in base al richiamo del nuovo art. 360-bis, n. 2, c.p.c.)78; - la notificazione dell’atto d’impugnazione eseguita presso il procuratore costituito per più parti, mediante consegna di una sola copia (o di un numero inferiore), è valida ed efficace sia nel processo ordinario che in quello tributario, in virtù della generale applicazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo79; - rilevatasi d’ufficio la violazione della regola del litisconsorzio necessario, non si è ritenuto di cassare le sentenze impugnate e rinviare le cause al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 383, terzo comma, c.p.c., non considerando rilevante la violazione della regola del litisconsorzio necessario in base al principio della ragionevole durata del processo, quando il ritorno al primo giudice comporterebbe dispendio di energie processuali non suscettibili di garantire meglio le esigenze della difesa e partecipazione della parte al processo80, così anche allorché si sia verificata l'omessa pronuncia sull'eccezione di inammissibilità dell'appello, si è omessa la cassazione con rinvio della sentenza impugnata ed esaminato il merito del ricorso, apparendo la suddetta eccezione infondata, con inutilità del ritorno della causa in fase di merito81; - nel caso in cui il ricorso per cassazione sia valutato inammissibile in mancanza dell’esposizione sommaria dei fatti, della specificità dei motivi e del rispetto del principio dell’autosufficienza, si è ritenuto superflua la concessione di un termine per la notifica, omessa, del ricorso per cassazione alla parte totalmente vittoriosa in appello, aggiungendo che la concessione del termine richiesto avrebbe significato avallare un comportamento contrario al principio di lealtà e probità processuale (art.

77 Cass. 9.10.2008, n. 24883, in Foro it., 2009, I, 806. 78 Cass. 9.8.2010, n. 18480, rv. 614384. 79 Cass. 15.12.2008, n. 29290, in Foro it., 2009, I, 3104. 80 Cass. 18.2.2010, n. 3830, in Foro it., 2010, I, 1775. 81 Cass. 11.4.2012, n. 5729, rv. 622281.

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88 c.p.c.), atteso che gli istanti erano già in precedenza consapevoli della necessità della stessa82. 9. Un freno alle suggestioni della ragionevole durata. Le reazioni della dottrina al tentativo, peraltro definito “coraggioso”83, di applicare il principio costituzionale della ragionevole durata del processo come matrice di nuove regole processuali che innovano orientamenti giurisprudenziali consolidati “se del caso superando interpretazioni basate sulla lettera della legge”, sono state criticamente unanimi. È indiscutibile che (pur affermando l’art. 111, secondo comma, Cost. che “la legge” assicura la ragionevole durata del processo), alla presenza di più interpretazioni consentite dalla lettera della disposizione legislativa (interpretata ai sensi dell’art. 12 preleggi), il principio della ragionevole durata del processo possa (o addirittura debba) concorrere a scegliere l’interpretazione (la norma) più coerente con le esigenze di economia processuale (del sistema giustizia civile) di cui è espressione il principio della ragionevole durata. Il ricorso a tale principio non è invece consentito quando la lettera della disposizione legislativa esclude una simile interpretazione84. In altri termini si tratta di una collisione tra un principio costituzionale concretizzato in via interpretativa dal giudice comune e un’idea del legislatore ispiratrice di una regola legislativa di segno diverso. Una cosa è superare, in via di interpretazione conforme a Costituzione, il testo di una disposizione legislativa obsoleta che si regga esclusivamente su sé stessa, o che entri in conflitto con un’altra regola legislativa espressiva del principio costituzionale. Altra cosa è superare, sulla base di una concretizzazione interpretativa di un principio costituzionale, una disposizione che, come ad esempio l’art. 37 c.p.c., è espressione fedele e coerente di una mens legis, di un giudizio di valore del legislatore di segno diverso. Per quanto obsoleti, i giudizi di valore legislativi possono essere disattesi nel nostro sistema solo dallo stesso legislatore o dalla Corte costituzionale85. Si è osservato che il divieto di domande giudiziali frazionate nulla ha a che vedere con il principio di ragionevole durata, in quanto il ritardo che il frazionamento della domanda produce non riguarderebbe il singolo processo, ma l’organizzazione complessiva della giustizia e i suoi costi, che sarebbero aggravati e appesantiti dalla pluralità dei giudizi, laddove la controversia avrebbe potuto risolversi con un’unica sentenza: problema di cui non dovrebbe farsi carico il giudice, cui la legge non

82 Cass. 3.11.2008, n. 26373, in Giur. it., 2009, 668; analogamente Cass. 22.3.2010, n. 6826, rv. 612077 e Cass. 18.1.2012, n. 690, rv. 620539, per la mancanza del quesito di diritto, che rende superflua l’integrazione del contraddittorio. 83 R. CAPONI, Ragionevole durata del processo e obsolescenza di regole legislative, in Foro it., 2009, I, 3104. 84 A. PROTO PISANI, Tre note sulla recente giurisprudenza delle sezioni unite sul processo civile, in Foro it., 2011, V, 80. 85 R. CAPONI, Ragionevole durata, cit., 3196.

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riconoscerebbe poteri propulsivi, dietro ai quali possono annidarsi margini di discrezionalità86. La valutazione complessiva delle esigenze di celerità ed efficienza del sistema giustizia, non limitate all’economia processuale interna del singolo processo, sono del resto presenti in alcune esplicite ricostruzioni motivazionali: a proposito delle necessità di deflazione del ricorso per cassazione, la Suprema Corte ha riconosciuto che il filtro al giudizio di legittimità, così costruito dalla legge 18.6.2009, n. 69, non diversamente dal filtro a quesito, introdotto dal d.lgs. 12.2.2006 n. 40 ed ora abrogato, sono il risultato della convinzione di dover attuare, in nome del principio di effettività della tutela giurisdizionale, un adeguato bilanciamento tra diritto delle parti al ricorso per cassazione per violazione di legge, affermato dall’art. 111 Cost., e concreta possibilità di esercizio della funzione di giudice di legittimità, garanzia a sua volta del principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge (art. 3 Cost.). Adeguato bilanciamento conseguibile solo con un impiego economico della risorsa di questa articolazione della giurisdizione, che per ragioni intrinseche alla funzione richiede d’essere esercitata da un numero di giudici tale da consentire e non impedire la formazione di indirizzi interpretativi dotati, oltre che di persuasività, di tendenziale stabilità. Adeguato bilanciamento che impone il ricorso a tecniche di esame, di decisione e di motivazione proporzionate alla novità e difficoltà delle questioni di diritto prospettate dai litiganti87. D’altro canto, è ribadito dalle Sezioni unite che “che il significato univoco della disposizione non può essere obliterato” neppure “in ossequio al principio della garanzia della ragionevole durata dei giudizi, affermato con il nuovo art. 111 Cost., principio che certamente costituisce uno dei cardini interpretativi delle norme processuali ma che non autorizza l’interprete a ignorare la voluntas legis”88. Alla base del “progetto di riforma silenziosa del diritto processuale civile” ad opera della Corte di cassazione, vi sarebbe dunque non solo la preoccupazione della gestione dei singoli processi, ma anche dell’andamento complessivo del fenomeno processuale, per cui il problema del singolo processo va inserito in una “valutazione complessiva e globale”. Non è però riconoscibile un principio costituzionale che assegni al giudice compiti propulsivi, dietro ai quali non possono non annidarsi margini di discrezionalità, nell’obiettivo di combattere la proliferazione oggettivamente non necessaria dei procedimenti, che incide negativamente sull’organizzazione giudiziaria. Secondo questa opinione, è più corretto ragionare in termini di abuso degli strumenti processuali, che va sicuramente represso, senza indugiare su pretenziosi programmi di politica giudiziaria che sono preclusi all’ordine giudiziario89. 86 G. VERDE, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, 514-5. 87 Cass. 6.9.2010, n. 19051, in Foro it., 2011, I, 117. 88 Cass. 6.9.2010, n. 19047, in Foro it., 2011, I, 120. 89 G. VERDE, Il processo, cit., 515.

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La revisione critica della dottrina riguardo ai tentativi della Suprema Corte di rivisitare gli istituti processuali alla luce del principio di ragionevole durata, ha fatto richiamare la contrapposizione tra norme costituzionali programmatiche e precettive, sembrando che la ragionevole durata del processo non possa che considerarsi quale norma programmatica, ovvero quale norma costituzionale che impone al legislatore di rendere leggi volte ad assicurare che la durata del processo non ecceda un tempo ragionevole. Il che impedisce al giudice, a prescindere dalla legge processuale, o in contrasto con la legge processuale, di determinare di volta in volta, e caso per caso, le regole del processo, e/o di leggere e/o interpretare le norme in modo difforme dal loro tenore letterale. Se il precetto della norma è chiaro, il giudice non può stravolgerlo in ossequio ad un principio costituzionale, ma solo, se crede, rimettere la questione alla Corte costituzionale, poiché l’interpretazione della legge non può spingersi fino all’applicazione della stessa in aperto contrasto al suo tenore letterale, se si vuole anche in violazione dello stesso art. 12 preleggi. In questi termini, il principio di ragionevole durata del processo non costituisce più solo per il cittadino la perdita della pre-conoscenza delle regole processuali, ma anche per il giudice l’acquisizione di un potere assoluto di determinazione delle modalità di svolgimento del rito, in deroga ad ogni criterio di legalità90. Il pericolo di un’evoluzione del sistema basato sulla discrezionalità dei giudici (della Suprema Corte), è che le regole processuali finiscano per ingessarsi sugli atteggiamenti autoritari della giurisprudenza91. A fronte del potere di libera interpretazione delle norme processuali, che la Cassazione va applicando in contrasto con il loro tenore letterale, vi è il disposto dell’art. 360-bis, n. 2, c.p.c., introdotto dall’art. 47 della legge n. 69/09, per il quale il ricorso in Cassazione è inammissibile quando la violazione della norma processuale non ha compromesso i principî regolatori del giusto processo: ne scaturirebbe un sistema nel quale il giudice, in nome della ragionevole durata del processo, può liberamente reinterpretare i precetti processuali contenuti nel codice di rito o in altre leggi speciali, mentre la parte non può denunciare in Cassazione alcuna violazione della legge processuale se questa non attiene al “giusto processo”, ovvero ad un termine elastico che, di nuovo, è rimesso alla interpretazione del giudice92. 10. L’abuso processuale e il regime delle spese. Si è già osservato che l’intento di scoraggiare manovre speculative nel processo è divenuto obiettivo del legislatore nel più ampio disegno di abbreviare la durata delle cause civili. Inizialmente, l’accertamento della lite temeraria, o, più in generale, dell’abuso del processo, non ha perseguito finalità di sanzione diretta dell’eventuale illecito, ma, 90 R. CAPONI, D. DALFINO, A. PROTO PISANI, G. SCARSELLI, In difesa delle norme processuali, in Foro it., 2010, I, 1797. 91 G. VERDE, Il processo, cit., 517. 92 R. CAPONI, D. DALFINO, A. PROTO PISANI, G. SCARSELLI, In difesa, cit., 1796.

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nell’ideologia della legge Pinto, ha rivestito rilevanza puramente incidentale e strumentale, nella determinazione dell’entità concreta di ciascuna violazione93. L’idea di fondo è quella di guardare al processo in cui si è abusato, come evento storico già realizzato, e non come complessa attività in progress in cui si debbano approntare strumenti di intervento in itinere per non permetterne l’abuso94. Il fatto è che ad oggi la risposta legislativa, a sprazzi, per via di successivi aggiustamenti, si è estrinsecata in riforme (se così si possono chiamare) a costo zero. Non occorrono particolari riflessioni per convincersi che “qualsiasi forma che riguardi le norme processuali e che non sia preceduta da una radicale modifica della nostra organizzazione sortirà effetti assai scarsi”95. Sfugge all’economia del presente lavoro una meditata analisi delle cause della crisi della giustizia civile, né tanto meno è possibile fare un prontuario dei rimedi che più realisticamente occorrerebbero per una riforma strutturale96. L’unico settore d’intervento al quale può ricondursi una strategia di repressione (e dissuasione) dell’abuso processuale, è la regolamentazione delle spese di causa. Che però interviene sempre a posteriori. Il tentativo di prevenire l’insorgere delle liti, e di deflazionare il contenzioso, viene operato, fin dagli anni ’70, con l’esperimento di procedure preliminari di conciliazione: da ultimo, con il procedimento di mediazione, che è reso obbligatorio per particolari tipi di controversie, enumerate dall’art. 5 d.lgs. 4.3.2010, n. 28. Si tratta di misure che perseguono l’obiettivo della ragionevole durata, sempre in modo indiretto, cercando di raffreddare l’aumento delle sopravvenienze del contenzioso. Oltre alla prevista improcedibilità della causa per il mancato esperimento della procedura di mediazione, il contegno delle parti in relazione alle procedura conciliative è rilevante sotto il profilo del regime delle spese. Con l’art. 91, primo comma, seconda parte, c.p.c., che subito dopo l’affermazione del criterio della soccombenza, ne introduce un correttivo, il giudice, salvo compensazione, accolla le spese successive alla proposta conciliativa (evidentemente formulata nel corso della causa) alla parte che abbia ingiustificatamente rifiutato tale proposta, se la domanda sia stata accolta in misura non superiore alla stessa. L’art. 92 c.p.c. prevede la facoltà del giudice di escludere la ripetizione delle spese, a favore della parte vincitrice, ritenute eccessive o superflue, e inoltre, indipendentemente dalla soccombenza, può condannare una parte al rimborso delle spese cagionate alla controparte per trasgressione al dovere di lealtà e correttezza, di cui all’art. 88 c.p.c.

93 L.P. COMOGLIO, Abuso, cit., 326. 94 A. DONDI, Spunti, cit., 65. 95 G. VERDE, Il processo, cit., 509. 96 Una sintesi degli interventi strutturali urgenti è formulata da A. PROTO PISANI, Giustizia civile: è davvero impossibile la soluzione della crisi?, in Foro it., 2011, V, 149-150.

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La norma che in astratto poteva svolgere il ruolo più incisivo è l’art. 96 c.p.c., che, intitolato “Responsabilità aggravata”, integra una species di responsabilità civile, dalla marcata impronta soggettivistica, costituita dalla temerarietà, la quale rivela il suo proprium come abuso del diritto di azione (e di difesa, dato che riguarda anche la resistenza in giudizio con malafede o colpa grave). L’esercizio di un diritto fondamentale, quello di azione e difesa in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., può integrare un illecito, ogni volta che un’iniziativa giudiziaria non corrisponda ad un concreto interesse della parte, che, eventualmente protetto sul piano sostanziale dall’ordinamento, venga utilizzato dalla stessa al solo fine di arrecare danno o molestia ad altri. Il secondo comma sanziona le ipotesi particolari dell’esecuzione di provvedimento cautelare, della trascrizione di domanda giudiziale, dell’iscrizione di ipoteca giudiziale, dell’inizio o compimento dell’esecuzione forzata, ogni volta che il giudice riconosce l’inesistenza del diritto in base al quale tali attività sono state avventatamente compiute. Il maggior rigore nella configurazione della responsabilità aggravata prevista nel secondo comma (anche a titolo di colpa lieve) si giustifica alla luce della gravità degli effetti ricollegabili ad iniziative che incidono direttamente sul patrimonio del debitore; o mediante escussione, o mediante vincoli che ne pregiudicano fortemente la libera circolazione. Gli elementi che legittimano la condanna ex art. 96, primo comma, c.p.c., sono costituiti dalla soccombenza del responsabile (che non può essere parziale), dalla male fede o colpa grave nell’intraprendere una lite o nel resistere in giudizio (per la verificazione dell’ipotesi di cui al secondo comma è sufficiente la colpa lieve), dalla domanda di risarcimento della parte che risulta vincitrice (l’intervento officioso è limitato alla liquidazione del danno), dal nesso causale tra lite temeraria e danno. E’ appena il caso di notare che il problema dell’individuazione dei casi di responsabilità aggravata è sempre stato distinto da quello della lealtà e probità nel compimento degli atti processuali. Le stesse pronunce che hanno sanzionato gli intenti dilatori perseguiti con la proposizione del regolamento di giurisdizione, allorché, prima della novella del ’90, esso comportava la sospensione obbligatoria del processo, hanno qualificato il fatto come artatamente prodotto per recare danno alla controparte, e quindi ascrivibile alla responsabilità della parte in senso sostanziale. Secondariamente, le stesse pronunce, hanno riscontrato l’inosservanza del difensore di detta parte ai doveri di lealtà e probità posti dall’art. 88, primo comma, c.p.c. (con conseguente denuncia all’autorità che esercita il potere disciplinare, a norma del secondo comma dell’art. 88)97, non potendosi comunque sottacere che la lite temeraria e le ipotesi di responsabilità aggravata, rappresentando sempre comportamenti deviati, fanno ritenere tali condotte non conformi al precetto della lealtà processuale98. 97 Cass. 6.10.1988, n. 5398, rv. 460029; Cass. 6.4.1987, n. 3306, in Foro it., 1987, I, 2071; Cass. 3.11.1986, n. 6420, in Foro it., 1987, I, 57. 98 G. SCARSELLI, Lealtà, cit., 136-7.

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La necessità che la parte deduca e dimostri nel comportamento dell’avversario la ricorrenza dell’elemento soggettivo, nel senso della consapevolezza, o dell’ignoranza, derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza delle tesi sostenute99, e insieme le difficoltà connesse alla prova del danno, dovendo la parte farsi carico di provare, e non semplicemente allegare, sia l’an che il quantum debeatur (o almeno la concreta desumibilità di detti elementi dagli atti di causa), hanno reso assai episodica l’applicazione della norma100. Negli ultimi tempi la giurisprudenza ha reso più agevole l’onus probandi, ammettendo che l’interessato possa dedurre, a sostegno della sua domanda, condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, così desumendosi il danno subìto da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio della ragionevole durata del processo e della legge Pinto, secondo cui, nella normalità dei casi, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e per di più non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente), causano ex se anche danni di natura psicologica, che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa101. Le pronunce citate stabiliscono dunque un collegamento con la tematica del processo lungo, ma sotto un profilo del recupero degli elementi indizianti ai fini della liquidazione del danno: l’abuso perpetrato nella proposizione della domanda palesemente infondata, o nella resistenza pretestuosa in giudizio, si caratterizza, con le conseguenze risarcitorie della responsabilità aggravata, per il danno alla controparte processuale derivantegli dall’aver dovuto subire una causa, ma senza specifica considerazione della durata. 11. L’abuso processuale come “temerarietà attenuata”. L’art. 45, comma 12, della legge n. 69/09, ha aggiunto un terzo comma dell’art. 96 c.p.c. I presupposti di applicabilità della norma, che, nella sua non impeccabile

99 Da ultimo, Cass. 30.6.2010, n. 15629, rv. 613721; Cass. 7.5.2007, n. 10299, rv. 597087. 100 Cass. 21.7.2006, n. 16751, in Foro it. 2007, I, 460; Cass. 9.9.2004, n. 18169 rv. 576913; Cass. 6 .2.1998, n. 1200, rv. 512281. 101 Cass. 30.4.2010, n.10606 rv. 612639; Cass. 23.1.2009, n. 1793 rv. 606252; Cass. 27.11.2007, n. 24645, in Giust. civ., 2008, I, 906: secondo Cass. 12.10.2011, n.20995, in Nuova giur. civ., 2012, 326, sotto il profilo del danno patrimoniale, in assenza di dimostrazione di specifici e concreti pregiudizi derivati dallo svolgimento della lite, è legittima una liquidazione equitativa che abbia riguardo allo scarto tra le spese determinate dal giudice secondo le tariffe e quanto dovuto dal cliente in base al rapporto di mandato professionale; mentre, sotto il profilo del danno non patrimoniale, la liquidazione equitativa deve avere riguardo alla lesione dell'equilibrio psico-fisico che, secondo nozioni di comune esperienza (anche in forza del principio della ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 Cost. ed alla legge 24 marzo 2001, n. 89), si verifichi a causa di ingiustificate condotte processuali.

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formulazione102, prevede la possibilità di condanna, irrogata dal giudice anche d’ufficio, della parte soccombente in causa, al pagamento di un somma equitativamente determinata, e inoltre, la qualificazione della nuova misura, e le modalità di irrogazione della stessa, sono al centro di un acceso dibattito, e di applicazioni giurisprudenziali contrastanti. E’ indubbio che l’intervento legislativo miri a rivitalizzare un istituto scarsamente applicato in ragione del difficile assolvimento dell’onere probatorio. E’ anche certo che se ne è voluto fare un serio deterrente per porre rimedio all’eccesso di litigiosità che affligge l’ordinamento giuridico italiano: si può dunque dire, in linea generale, che esso mira a reprimere l’”abuso dilatorio”, mentre la lite temeraria concreta un “abuso sostanziale”. E’ rilevatore il contesto delle modifiche apportate al codice di rito dalla riforma del 2009, tutte finalizzate a favorire l’accelerazione dei tempi processuali, nel quadro di misure più generali “per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività”. La nuova norma muta completamente lo scenario della responsabilità processuale aggravata, anche se le opzioni interpretative sul rapporto che s’instaura con le fattispecie tradizionali di cui al primo comma, è ancora discusso. Non è chiaro se la finalità indubbiamente deflativa che è insita nel terzo comma sia collegata, quanto ai presupposti, alla responsabilità aggravata, ovvero se il giudice possa emettere una condanna supplementare ogni volta che pronuncia sulle spese indipendentemente da un’indagine sulle intenzioni che hanno fatto da sfondo all’iniziativa litigiosa della parte. Sembra ragionevole proporre una lettura della norma atta a configurare un elemento sanzionabile recuperando valore precettivo al fondamentale dovere di osservare un comportamento processuale ispirato ai canoni della correttezza, imposto dall’art. 88 c.p.c. che prescrive alle parti e ai loro difensori “di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”, anche nell’ottica della contenimento di iniziative defatigatorie: il criterio-guida dovrebbe essere la condotta processuale del soccombente in ordine alla sua concreta incidenza sull’obiettivo del giusto processo di ragionevole durata103, dandosi comunque un significato alla collocazione della nuova norma nel contesto dell’art. 96, che esige anche requisiti soggettivi e quindi comportamenti imputabili, nel presupposto della mala fede o colpa grave, o almeno sotto il profilo della colpa lieve104. La contemporanea abrogazione dell’art. 385, quarto comma, specificamente introdotto per il giudizio di cassazione, che richiedeva la colpa grave, potrebbe significare che la responsabilità si configura anche per colpa lieve, per violazione dei

102 S. BENINI, Abuso del processo e temerarietà attenuata, in AA.VV., Libro dell’anno del diritto 2012-Enciclopedia italiana, Torino, 635. 103 ACIERNO, M., e GRAZIOSI, C., La riforma del 2009 nel primo grado di cognizione: qualche ritocco o un piccolo sisma?, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2010, 167; LUPANO, M., La “nuova” responsabilità aggravata, in Giur. it., 2011, 236. 104 GIORDANO, R., Brevi note sulla nuova responsabilità processuale c.d. aggravata, in Giur. merito, 2010, 437.

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doveri di correttezza di cui all’art. 88 c.p.c. Ciò ha indotto la dottrina a classificare la fattispecie di riferimento del terzo comma, come “temerarietà attenuata”105. La misura, intesa in senso sanzionatorio, presenterebbe assonanze con i punitive damages dell’esperienza anglosassone, che hanno funzione deterrente e sanzionatoria106, il cui innesto, tuttavia, nel tessuto ordinamentale italiano, è tutt’altro che agevole. A tale concezione sembra ispirarsi la più parte delle pronunce di merito107, volte a ravvisare nella disposizione in oggetto una sanzione civile a carico del soccombente, mirata a evitare l’instaurazione di giudizi senza ragione, opposizioni meramente dilatorie, condotte processuali unicamente volte a ostacolare la realizzazione del diritto mediante l’abuso di una risorsa rara quale è il processo108, a scoraggiare comportamenti strumentali alla negazione del diritto109, a deflazionare il contenzioso fine a sé stesso, che, aggravando il ruolo del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in trattazione mosse da ragioni serie o urgenti nonché agli interessi pubblici primari dello Stato110. 12. L'evoluzione legislativa recente. La riforma del 2009 costituisce il primo nucleo di interventi di una qualche organicità, ai fini dell’abbreviazione dei tempi processuali. Essa però, nell’ottica specifica di prevenzione e repressione dell’abuso del processo, appare timida111. I possibili riferimenti ad una coerente ideologia dell’abuso del processo appaiono ancora scarsi, solo allusivi, variamente collocati, e in ogni caso indicativi piuttosto di una tendenza a conformare il processo a principi di efficienza e di economia, che non a specifici propositi di reazione efficace al fenomeno dell’abuso del processo112. La prima misura che il legislatore predispone contro l’uso dilatorio degli strumenti processuali, con l’art. 96, terzo comma, c.p.c., è ancora prudentemente inquadrata nello schema (più topografico che ideologico) della responsabilità aggravata: la pregiudiziale della soccombenza raffredda molto una sanzione generale contro gli abusi dilatori perché conferma in qualche modo un’idea di fondo che chi ha ragione può comunque abusare degli strumenti processuali. Il che è ribadito dalla Corte

105 L’espressione, che compare in MANDRIOLI C. e CARRATTA A., Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 31, è ripresa da FRADEANI, F., Note sulla “lite temeraria attenuata” ex art. 96, comma 3, c.p.c., in Giur. it, 2011, 144, e da S. BENINI, Abuso, cit., 636. 106 F. FRADEANI, Note, cit., in Giur. it, 2011, 147. 107 Se ne può trovare un repertorio, con commento di G.L. BARRECA, La responsabilità processuale aggravata: presupposti della nuova disciplina e criteri di determinazione della somma oggetto di condanna, in Giur. merito, 2011, 2704. 108 Trib. Roma 11 gennaio 2010, in Giur. merito, 2010, 2175; Trib. Prato 6 novembre 2009, in Foro it., 2010, I, 2229. 109 Trib. Milano 20 agosto 2009, in Foro it., 2010, I, 2229. 110 Trib. Varese-Luino 23 gennaio 2010, in Foro it., 2010, I, 2229. 111 S. BENINI, Abuso, cit., 642. 112 A. DONDI, Abuso, cit., 8.

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costituzionale, che rispondendo al dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 96, primo comma, c.p.c., nella parte in cui non prevede una misura risarcitoria a favore dello Stato in ipotesi di lite temeraria, indipendentemente dalla soccombenza, fa intendere che le possibili soluzioni sono plurime, nessuna delle quali costituzionalmente vincolata, e quindi rimesse alla discrezionalità del legislatore, apparendo peraltro incompatibile con la conformazione della disciplina sulla responsabilità aggravata, a tutt'oggi ancorata al rapporto dialettico tra le parti, l'introduzione di una sorte di sanzione “amministrativa” per il pregiudizio recato ad un interesse pubblico, quello alla celerità del processo e alla sostenibilità dei suoi costi113. La legislazione successiva alla riforma del 2009, con interventi ancora frammentari, persegue tuttavia con maggior decisione l’obiettivo di attenuare il fenomeno infausto della durata delle cause civili in Italia, intervenendo sull’organizzazione, interna ed esterna del processo, e anche con l’introduzione di sanzioni pecuniarie, limitate al processo d’appello. A meno di un’improbabile intervento migliorativo sull’art. 96, l’evoluzione legislativa può indurre all’interpretazione di questa norma in senso decisamente sanzionatorio, dato che l’abuso del processo, come ha riconosciuto la Cassazione penale, con riferimento all’azione civile strumentale nei confronti del c.t.u. per determinarne l’incompatibilità, può trovare risposta efficace dall’applicazione attenta e coerente delle norme che il legislatore ha posto a contrasto dell’azione strumentale e temeraria, in particolare l’applicazione dell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. costituisce un ulteriore e specifico rimedio, la cui attivazione dipende solo dall’attenzione, comprensione e diligenza del giudice114. La Suprema corte ha avvalorato l'interpretazione del terzo comma in chiave sanzionatoria, nel momento in cui ha ribadito il carattere risarcitorio dei primi due commi, con conseguenti oneri probatori, a differenza dall’art. 45, comma 12, della legge 69/09, il quale ha aggiunto un terzo comma all’art. 96 c.p.c., introducendo una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario115. La Corte costituzionale, nell'ordinanza sopra richiamata, ribadisce l'attinenza esclusiva al rapporto tra le parti delle conseguenze da lite temeraria “anche nel caso della condanna d'ufficio alla pena pecuniaria”116. Si è osservato che la violazione dell’art. 88 c.p.c. trova nell’art. 96 sanzione ulteriore rispetto al 92, primo comma, secondo inciso, e s’inserisce nella circolarità degli artt. 91, 92, 96, che sintetizza la figura dell’abuso del processo117.

113 Corte cost. 31.5.2012, n. 138. 114 Cass. pen., sez. VI, 11.2.2011, n. 5300, rv. 249475. 115 Cass. 30.7.2010, n. 17902, in Foro it, 2011, I, 3134. 116 Corte cost. 31.5.2012, n. 138, cit. 117 P. PORRECA, La riforma dell’art. 96 c.p.c. e la disciplina delle spese processuali nella l. 69 del 2009, in Giur. merito, 2009, 1842.

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Dopo la riforma del 2009, l’art. 37 d.l. 6.7.2011, n. 98 convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 15.7.2011, n. 111, ha imposto ai capi degli uffici giudiziari la redazione di programmi annuali per la gestione dei procedimenti civili, amministrativi e tributari pendenti, nello specifico obiettivo di “riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell'anno in corso”. L’art. 1-ter d.l. 13.8.2011, n. 138, come introdotto dalla legge di conversione 14.9.2011, n. 148, intervenendo sull’art. 81-bis disp. att. c.p.c., che era stato introdotto dall’art. 52 della legge n. 69/09. precisa (ammesso che ce ne fosse bisogno) che il calendario del processo civile avviene “nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo”; aggiunge un secondo comma, con previsione della possibile rilevanza disciplinare del mancato rispetto del calendario. L’art. 13 d.lgs. 4.3.2010, n. 28, attuando la delega in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, contenuta nell’art. 60 della legge n. 69/09, e riprendendo la metodica dell’art. 91, primo comma, c.p.c., rispetto al quale, però, l’intento sanzionatorio appare più deciso, esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa avanzata dal mediatore. Il giudice, inoltre, condanna la medesima parte vittoriosa al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma corrispondente al contributo unificato dovuto. Se il provvedimento definitorio non corrisponde alla proposta, può comunque escludersi la ripetizione delle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto. Ancora in tema di mediazione, l’art. 2, comma 35-sexies, d.l. n. 138/11, cit., aggiungendo un periodo all’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, sanziona la parte che, senza giustificato motivo, si rifiuta di partecipare al tentativo di conciliazione. Il giudice potrà condannarla al pagamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. Come si vede, l’intento è di rendere stringente il procedimento di mediazione al fine deflativo delle controversie giudiziarie, introducendo, ora in modo certo e coerente, misure sanzionatorie a favore delle casse statali. L’ideologia sanzionatoria caratterizza inconfondibilmente l’art. 27 della legge 12.11.2011, n. 183 (legge di stabilità), che introduce pene pecuniarie al fine dell’accelerazione del giudizio d’appello, punendo l’istanza di inibitoria inammissibile o manifestamente infondata (art. 283, secondo comma, c.p.c.), anche con specifica previsione nel processo del lavoro (art. 431, settimo comma, c.p.c.). Un cenno va riservato alla problematica della diretta sanzionabilità dell’avvocato, anche al di fuori della sfera disciplinare, ove la lite temeraria sia attribuibile alle scelte o alle strategie del difensore. Le sentenze sopra richiamate, relative alla responsabilità aggravata, hanno ritenuto, quale pronuncia accessoria alla condanna ex

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art. 96 c.p.c., di denunciare il comportamento dell’avvocato sleale all’organo disciplinare. La sanzione pecuniaria diretta, ad opera del giudice, nei confronti del difensore, è estranea alla nostra tradizione giuridica, a differenza di altri ordinamenti, come sopra si è rilevato, onde appare improponibile l’introduzione di misure incisive e deterrenti, capaci di dare un contenuto al generico richiamo all’art. 88 c.p.c. Non si è mancato di teorizzare una responsabilità dell'avvocato per le spese, giustificata alla sola stregua dell'art. 88 c.p.c. (e senza esplorare le potenzialità di un richiamo all'art. 94 c.p.c. a carico di “coloro che rappresentano e assistono la parte in giudizio”), valorizzando il principio di causalità nella regolamentazione delle spese, con superamento del tradizionale e stereotipato criterio oggettivo della soccombenza, ad affermare “un modello unico ed omogeneo di responsabilità processuale”, nel quale far rientrare accanto a quella della parte, anche la responsabilità del difensore e di tutti i soggetti che a vario titolo sono chiamati a gestire il processo118. Uno spunto di novità, nella direzione indicata, emerge dal d.m. 20.7.2012, n. 140, che in attuazione del d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. in l. 24.3.2012 n. 27, abrogando il sistema ordinistico, detta i nuovi parametri per la determinazione del compenso per le libere prestazioni professionali. Nel caso di responsabilità processuale ai sensi dell’art. 96 (o comunque in caso di inammissibilità, improponibilità, improcedibilità della domanda) il compenso dovuto all’avvocato del soccombente è ridotto, di regola, del 50% rispetto a quello liquidabile in applicazione dei nuovi parametri (art. 10); inoltre, in linea generale, costituisce elemento di valutazione negativa (e dunque induce alla diminuzione dei valori medi previsti per i vari scaglioni di valore delle cause) l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli (art. 4, comma 6). 13. Case management e poteri del giudice. Gli interventi frammentari che caratterizzano la reazione legislativa all’abuso del processo, che di sistematico hanno una generica ideologia di miglioramento delle condizioni di efficienza e rapidità del processo, sembrano obliterare altre conseguenze dell’evento abusivo, legate alle chances di effettiva giustizia sostanziale, e in particolare al veritiero accertamento dei fatti di causa119. Anche l’introduzione, da ultimo, di sanzioni pecuniarie, che pure ha la sembianza ideologica di sanzione dell’ordinamento a comportamenti illeciti, o almeno non corretti, appare eccezionale, ed è dettata dall’esigenza di porre rimedio ad una situazione che in quel momento è apparsa impellente, limitatamente ad una singola fase del processo. Vengono introdotte misure funzionali al processo d’appello, quali la possibile trattazione monocratica e la decisione immediata, nell’intento di economizzare le risorse e abbreviare i tempi, e in tale ottica si concepiscono sanzioni pecuniarie per istanze di sospensione inammissibili o infondate.

118 F. CORDOPATRI, Un principio in crisi, cit., 282. 119 A. DONDI, Abuso, cit., 10.

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Il modo di procedere del legislatore è settoriale e a sprazzi, nel contesto di misure finanziarie di contenimento della spesa pubblica o di miglioramento della competitività, quando non con decretazione d’urgenza, apparentemente senza un disegno d’ispirazione globale120. La nozione di abuso come fenomeno da sanzionare pone la questione dell’attribuzione al giudice di poteri di sanzione e della configurazione del giudice come soggetto tecnico del processo al quale l’attività di reazione all’abuso venga seriamente demandata121. Al tramonto dell’ideologia ottocentesca in cui il giudice era semplice arbitro chiamato ad assicurare la correttezza dello competizione individuale delle parti, s’impone una nuova figura di giudice cui va assicurato un ruolo attivo, parallelamente all’affermazione della giurisdizione come potere fondamentale dello Stato, finalizzata all’attuazione del diritto sostanziale. L’ideologia pubblicistica del processo caratterizza tutti gli ordinamenti di civil law variando però l’intensità e l’ampiezza con cui il giudice può svolgere la sua funzione di direzione. Nel processo italiano il giudice ha i poteri direttivi del processo, che varie norme gli attribuiscono, in via generale (artt. 175 e 127 c.p.c.) e nelle specifiche attività (ad es. artt. 183, 187, 188, 202, 245, ecc.). Prevale però una concezione formalistica del procedimento, in funzione della quale si tende a disciplinare in maniera dettagliata tutti i passaggi, riducendo proporzionalmente l’ambito della possibile discrezionalità del giudice122, che è un burocrate funzionario123, assoggettato a regole stringenti funzionali ad assicurarne la terzietà. Ad una norma intitolata “direzione del procedimento” (art. 175 c.p.c.) si tende a riconoscere la funzione di orientamento interpretativo, quando non di simbolo enfatico, non essendo altro, i poteri del giudice, che quelli che le singole specifiche norme gli attribuiscono124. E’ invalsa in Italia “la cultura della diffidenza nei confronti di chi è portatore di potere pubblico, così che l’esercizio del potere deve essere necessariamente limitato da un reticolo, spesso asfissiante di disposizioni regolamentari”, mentre nei paesi anglosassoni prevale la cultura della necessaria fiducia in chi esercita il potere pubblico, in vista non tanto del rispetto delle regole, quanto della correttezza del risultato125. Ci si occupa delle sequenze processuali con regole formalistiche quasi ossessive, e si lascia in ombra la vera finalità del processo, che è quella dell’accertamento della verità dei fatti, cui applicare il diritto. La direzione del 120 M. TARUFFO, Cultura e processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 74 evidenzia “l’incapacità di risolvere il problema fondamentale costituito dalla durata eccessiva e intollerabile del processo civile. I rimedi… si sono rivelati del tutto inutili… perché non hanno chiari gli scopi che il processo civile dovrebbe perseguire”. 121 A. DONDI, Abuso, cit., 8; L.P. COMOGLIO, Abuso, cit., 321. 122 M. TARUFFO, Cultura, cit., 75. 123 M. TARUFFO, Cultura, cit., 74. 124 C. MANDRIOLI, Diritto processuale, cit., 66. 125 G. VERDE, Il processo, cit., 506.

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processo trova poi un limite nel principio generale dell’art. 111 Cost., che fissa una riserva di legge in materia processuale, in modo da far ritenere che solo l’elaborazione di regole specifiche può garantire l’attuazione del giusto processo, in primo luogo l’imparzialità del giudice. Questo spiega la reazione scettica della dottrina al nuovo trend giurisprudenziale, di interpretazioni atte al superamento di regole processuali in nome del principio di ragionevole durata. Anche nei sistemi di common law, tradizionalmente articolati come adversary sistems, in cui il corso delle cause civili era impostato dagli avvocati, con l’intervento del giudice, fondamentalmente, solo nella fase del dibattimento (trial), esigenze funzionali, di contenimento dei tempi e delle spese, hanno da tempo affermato l’esigenza del case management. La necessità che il percorso processuale sia finalizzato a una decisione, che realizzi la tutela del diritto invocato, impone che al giudice siano dati incisivi poteri per determinare la scansione del processo, e non trovarsi lui stesso trascinato dal processo secondo le esigenze particolari delle parti. Vi è anche la necessità di adattare la disciplina procedimentale alle peculiarità del caso concreto, per non comprimere le esigenze di difesa delle parti e consentire il giusto grado di attenzione da parte del servizio giustizia126. Il case management, anche nell’adattamento dei paesi di civil law, è concepito come sistema per rendere più snello l’incedere del processo, e a tal fine attribuisce al giudice un ruolo attivo, consentendogli un adattamento dell’iter processuale alle peculiarità del caso singolo, e non stancamente affidandosi al modello precostituito dalle norme processuali. Tale personalizzazione del processo fa costruire un modello incentrato sulla cooperazione costante tra le parti e il giudice, “in un trattamento individualizzato del caso singolo all’interno di una rete di regole flessibili che esaltano lo strumento contrattuale”127. Il “calendario del processo”, innovazione della legge n. 69/09 (l’art. 52 ha introdotto l’art. 81-bis disp. att. c.p.c.), va salutato con soddisfazione, se non altro come prospettiva di certezza nei tempi di definizione di ogni causa. Esso articola un case management all’italiana, giacché ha unicamente il valore di una scansione temporale delle attività istruttorie (dichiaratamente “tenuto conto della natura, dell’urgenza e della complessità della causa”), senza peraltro scalfire minimamente la rigidità delle regole processuali. La trattazione della causa è localizzata nel tempo dalla previsione di termini legali perentori, quindi vi è spazio, per una calendarizzazione, solo per il compimento dell’attività istruttoria fino alla decisione della causa. L’adattamento alle possibili esigenze processuali delle controversie è fatto in astratto, attraverso la teorizzazione di tre modelli (rito ordinario, rito del lavoro, rito sommario), come unificati dal d.lgs. 1.9.2011, n. 150, la cui scelta, però, non è operata dal giudice in rapporto alle esigenze della singola controversia, ma, in alternativa al processo di 126 M. DE CRISTOFARO, Case management e riforma del processo civile, tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, in Riv. dir. proc., 2010, 283 127 M. DE CRISTOFARO, Case management, cit., 302.

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cognizione, dalla natura della controversia (cause in materia di lavoro e di locazione e anche le cause cui il d.lgs. n. 150/11 applica il rito sommario), o dalla scelta dell’attore (nella previsione codicistica di cui agli artt. 702-bis e 702-ter, a meno che il giudice non ritenga la necessità di un’istruttoria non sommaria). Non si può sottacere che l’introduzione del processo sommario di cognizione ha aperto la strada verso un utilizzo meno rigido delle scansioni temporali che caratterizzano il processo nel suo divenire e nel suo estrinsecarsi, quale serie concatenata di atti volta al raggiungimento del provvedimento finale. Il giudice si preoccupa del contraddittorio, e per il resto procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto. La regola resta quella del giudice come neutro spettatore della competizione delle parti di cui deve preoccuparsi di un uso corretto e possibilmente sollecito degli strumenti processuali, ritenendosi da più parti che le garanzie del contraddittorio, della parità delle parti, della terzietà del giudice, ostino a rafforzamento dei poteri del giudice, particolarmente con l’accrescimento delle iniziative d’ufficio, al fine della ricerca della verità. La scelta, però, della parziale deroga al principio dispositivo, è rimessa alla parte. In altre ipotesi il processo conosce modelli alternativi, specialmente nelle cause che involgono contenuti socialmente ritenuti meritevoli di trattamento speciale: le controversie in materia di lavoro, di locazione, di matrimonio e famiglia, in cui il giudice è chiamato ad assicurare una tutela differenziata a particolari categorie di diritti e interessi128. Nel processo ordinario, la fondamentale impostazione dispositiva preclude al giudice di supplire alle difficoltà determinate da manovre abusive nel processo, di soccorrere la parte che risulti da esse danneggiata, attraverso l’adozione di iniziative officiose guidate da istanze sostanziali di giustizia. L’ordinamento attribuisce alle parti gli oneri e le conseguenti responsabilità per la determinazione dell’oggetto della decisione e per l’allegazione dei fatti rilevanti, per le attività di acquisizione ed assunzione delle prove: il ruolo attivo del giudice è dunque, nella ricerca della verità, puramente supplementare e secondario, limitandosi a casi eccezionali, stabiliti dalla legge, il potere di assumere d’ufficio alcuni mezzi di prova129, integrando in modo imparziale il contributo offerto dalle parti nella ricerca della verità dei fatti. Resta la discrezionalità del giudice nel prudente apprezzamento delle risultanze probatorie. In tale ottica il comportamento delle parti può assumere valore di “argomento di prova”, non solo riguardo alle risposte fornite all’interrogatorio libero

128 L.P. COMOGLIO, Etica, cit., 188. 129 Si ricordano l’art. 117 c.p.c. sull’interrogatorio libero delle parti; gli artt. 118 e 258 sull’ordine di ispezione; l’art. 261 su riproduzioni, copie ed esperimenti; l’art. 262 sull’audizione di testi nel corso di ispezioni; l’art. 2711 c.c. sull’esibizione di libri e scritture contabili; l’art. 213 c.p.c. sulla richiesta di informazioni alla p.a.; gli artt. 2736 n. 2 c.c. e gli artt. 240-241 sul deferimento del giuramento suppletorio; l’art. 257 sull’assunzione dei testi di riferimento e di testi già ascoltati; l’art. 281 sulla riassunzione di mezzi di prova davanti al collegio.

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ed al rifiuto a consentire alle ispezioni, ma, in generale, dal loro contegno processuale: in tale quadro ben può darsi rilevanza all’attività del difensore impostata a fini dilatori, non già come sanzione ad un comportamento non conforme al dovere di lealtà e probità, ma come rilevatore delle ragioni di merito fatte valere in causa (ad es., nella genericità della ricostruzione dei fatti, nella ipertrofia degli scritti difensivi che tradisca povertà di argomenti)130. Il case management secondo l’ordinamento processuale è potere organizzativo e direttivo in senso tecnico-processuale, volto ad assicurare la regolarità del contraddittorio e la parità delle parti, nella posizione d’imparzialità che solo il rigoroso rispetto delle regole processuali può assicurare. L’innovazione del calendario del processo, nella già rilevata ottica acceleratoria e semplificativa della legge n. 69/09, attribuisce al giudice una funziona manageriale minima, come timing dell’attività di istruzione probatoria, priva di una apparato sanzionatorio che garantirebbe effettività a tal genere di management endoprocessuale131. Per il vero, la serietà del sistema è stata affidata alla previsione di sanzioni disciplinari, da ultimo introdotte dalla legge n. 148/11, di conversione del d.l. n. 138/11, cui possono essere assoggettati il giudice, il difensore, il consulente tecnico per il mancato rispetto del calendario. In più, il mancato rispetto dei termini “può esser considerato ai fini della valutazione di professionalità e della nomina o conferma agli uffici direttivi e semidirettivi”. E’ indubbio che al di là delle difficoltà applicative delle sanzioni, e della disomogeneità delle normative disciplinari (anche applicative) relative alle categorie dei protagonisti del processo, la norma ha inteso responsabilizzare i soggetti al rispetto dei calendari132. La vera novità del sistema introdotto è quella della sanzione a carico del giudice che non rispetti il calendario, anche alla luce della restrizione della possibilità di proroghe (solo per gravi motivi sopravvenuti). La sanzionabilità del comportamento dilatorio del difensore poteva trovare già un deterrente negli artt. 5-6 del Codice deontologico forense, ricollegabile al dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità (art. 88 c.p.c.: con conseguente denunciabilità agli organi di disciplina da parte del giudice).

130 Prima della codificazione del principio di non contestazione, con la modifica dell’art. 115, primo comma, c.p.c., si era affermato che una generica contestazione, pur non comportando una ammissione, da parte del convenuto, della sussistenza dei fatti affermati dall'attore, poteva integrare violazione del dovere di lealtà processuale, sanzionabile ai sensi degli artt. 88 e 92 c.p.c., e comunque essere discrezionalmente valutata, attenendo al contegno della parte nel processo, come semplice argomento di prova, ai sensi del secondo comma dell'art. 116 c.p.c. (Cass. 1.9.2000, n. 11495, rv. 539931); sull’onere, in virtù del principio dispositivo delle prove, di restituire il fascicolo di parte, e della conseguente pronuncia del giudice sulla base delle risultanze istruttorie ritualmente acquisite e degli atti riscontrabili nel fascicolo dell'altra parte ed in quello di ufficio: Cass. 26.4.2010, n. 9917, rv. 612726. 131 A. DONDI, Abuso, cit., 9. 132 M.F. GHIRGA, Le novità sul calendario del processo: le sanzioni previste per il suo mancato rispetto, Riv. dir. proc., 2012, 179.

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Il nuovo intervento conferma l’impressione, già manifestata, di un orientamento legislativo di diffidenza verso il giudice, già rilevato a proposito della legge Pinto. Riguardo agli abusi delle parti, che agli effetti delle ricadute sui tempi del processo, le stringenti previsioni del calendario dovrebbero rendere meno frequenti, il giudice continua a non disporre di sanzioni dirette e incisive riguardo a condotte abusive dei difensori, che pure sono additate come le principali cause dell’allungamento dei tempi processuali, per le quali di conseguenza sarebbe necessario, a detta di molti, un sistema repressivo da parte del giudice133, come del resto prevedono altri ordinamenti, di common law e di civil law134. La volontà del legislatore non sembra orientata a potenziare il ruolo attivo del giudice, e tanto meno dotarlo di poteri sanzionatori, se è vero che ha preferito connotare l’unica vera “norma aperta” che consente la repressione dell’abuso del processo, l’art. 96, terzo comma, c.p.c., come misura risarcitoria, o, al massimo, come pena privata. Tanto meno può ritenersi che il suo ruolo muti riguardo al possibile approfondimento officioso di questioni insorte nel corso del processo, ai poteri istruttori, o alla segnalazione alle parti, al di là delle questioni rilevabili d’ufficio, della necessità di modificare le proprie allegazioni ove ravvisi delle lacune nell’attività difensiva finalizzata alla tutela dei diritti135. Altre norme, come già l’art. 91, primo comma, seconda parte, permettono di intervenire, in tema di regolamentazione delle spese di causa, derogando in parte al principio della soccombenza in nome della causalità, mentre la condanna al pagamento di sanzioni pecuniarie è prevista, in un numero di ipotesi che al momento è assolutamente limitato, per violazioni specifiche. A parte il rigetto del ricorso per ricusazione del giudice (art. 54 c.p.c.)136, gli interventi legislativi che specificamente si pongono l’obiettivo dell’abbreviazione dei tempi del processo, l’hanno prevista solo come incentivo indiretto alla conciliazione (art. 13 d.lgs. n. 28/10, quale conseguenza del rifiuto della proposta di mediazione, per un ammontare corrispondente al contributo unificato; art. 8, comma 5, per il rifiuto di partecipazione al tentativo di conciliazione). Nell’ultimo intervento legislativo (legge n. 183/11), che, come detto, ha riguardato il giudizio di appello, si sono previste pene pecuniarie per l’abuso nella richiesta della sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado; in una riforma di ben più ampio respiro (anche se raccolta in un solo articolo), concernente la scansione dei tempi del processo (aggiunta del secondo comma all’art. 81-bis c.p.c. per effetto 133 V. ANSANELLI, Abuso, cit., 6; A. DONDI, Abuso, cit., 11; M. TARUFFO, Elementi, cit., 456; L.P. COMOGLIO, Abuso, cit. 353-4. 134 Per una sintesi di modelli sanzionatori per attività “abusive” dei difensori: A. DONDI, Spunti, cit., 70-1. 135 DE CRISTOFARO, Case management, cit.,, 283. 136 Le altre ipotesi di pene pecuniarie irrogabili dal giudice, sono previste dal codice, quando non siano a carico di soggetti estranei al processo (artt. 118, terzo comma; 255, primo comma), in ipotesi del tutto marginali (artt. 162, primo e secondo comma,; 220, secondo comma; 226, primo comma; 408; 815, quarto comma).

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dell’allegato della legge n. 148/11, di conversione del d.l. n. 138/11), intervenuta solo due mesi prima, il richiamo alla sola responsabilità disciplinare (anche del giudice), è sintomo eloquente che non è la sanzione pecuniaria la via scelta dal legislatore per la repressione dell’abuso del processo. 14. Il calendario del processo. Appare chiara la scelta del legislatore di prevenire l’abuso attraverso una previsione concertata dei tempi del processo, in una scansione stringente delle attività, cui le parti, attraverso la preventiva consultazione da parte del giudice, s’impegnano. Nel sistema francese, in cui però non sono di massima previste preclusioni alle possibilità di allegazioni di merito e istruttorie delle parti nel corso del giudizio, il calendario è l’oggetto di un vero e proprio contratto, che ha il significato di una condivisione di responsabilità tra il giudice e le parti, attraverso il quale il primo rinuncia a una sua prerogativa manageriale, e le seconde sono chiamate al perseguimento dell’obiettivo di miglior funzionamento del sistema giustizia137. Il calendario francese, inoltre, prevede termini relativi allo scambio di memorie difensive, per la chiusura dell’istruttoria, per la discussione e decisione della causa, ma non scandisce il compimento delle attività propriamente istruttorie, la cui peculiarità renderebbe superflua la loro collocazione temporale ex ante. Il calendario regolato dall’art. 81-bis c.p.c., invece, ha proprio il compito di fissare nel tempo gli adempimenti istruttori, provvedendo sulle richieste delle parti, fino all’udienza di cui all’art. 189, primo comma, c.p.c. Il sistema delineato dal legislatore presenta due fondamentali inconvenienti. In primo luogo, lo svolgimento dell’istruttoria, pur dopo la fissazione del thema probandum, comporta imprevisti, determinati dalla non infrequente mancata comparizione dei testi pur ritualmente intimati, per l’audizione dei quali il giudice potrà ben disporre l’accompagnamento coattivo e l’irrogazione di sanzione pecuniaria, con il risultato, però, di dover fissare una nuova udienza, e far saltare il programma predisposto, anche a detrimento dell’organizzazione complessiva del ruolo del magistrato, che, ovviamente, prevede nella stessa udienza, la fissazione di attività istruttorie relative ad altre cause. Tale ultima circostanza, del resto, è ben evidenziata dalla giurisprudenza applicativa della legge Pinto, in precedenza richiamata, in cui il termine di ragionevole durata viene commisurato in maniera globale, non tenendosi conto delle distanze, pur considerevoli, tra le udienze. E’ notorio che i ruoli dei magistrati sono ormai endemicamente sovradimensionati rispetto alla realtà processuale in cui operava il legislatore del ’42, e che l’entità dei rinvii è in sistematica violazione del termine di gg. 15 previsto dall’art. 81, secondo comma, c.p.c. Il momento in cui deve intervenire la calendarizzazione, che è quello in cui il giudice provvede sulle richieste istruttorie – e per questo assimilabile al compimento

137 M.F. GHIRGA, Le novità, cit., 173.

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dell’attività di cui all’art. 183, settimo comma, c.p.c. – cade dunque a valle della trattazione del processo e, nella maggioranza dei casi, all’esito dello scambio delle memorie in cui si esplica l’appendice scritta alla trattazione: ciò comporta che se la causa è matura per la decisione, ex art. 187 c.p.c., non vi sarà spazio per la calendarizzazione, provvedendo il giudice a invitare le parti alla precisazione delle conclusioni. Ove debba provvedere per l’ammissione delle prove, esigenze di economia processuale avevano ingenerato la prassi di una riserva assunta dal giudice istruttore alla scadenza della attività difensive, con ordinanza resa fuori udienza. Sembra ora necessario invece operare una puntualizzazione dell’oggetto della lite e delle esigenze istruttorie, in una specifica udienza, in cui le parti devono essere necessariamente sentite ai fini della calendarizzazione: la previsione di apposita udienza all’uopo, del resto, viene a soddisfare un’esigenza, da varie parti evidenziata, di una non completa esauribilità delle attività difensive preliminari nel contesto della scansione dell’art. 183, sesto comma, c.p.c., per l’eventualità che una parte, nell’indicare la prova contraria in materia contrattuale, deduca una prova testimoniale contraria indiretta (dunque con la formulazione di capitoli autonomi), dal che la necessità di eccezione di inammissibilità della controparte ex art. 2721 c.c., ed ulteriore provvedimento del giudice, che necessariamente deve precedere l’udienza di assunzione di cui all’art. 188 c.p.c.. E’ intuitivo che la consultazione delle parti non possa farsi contestualmente alle deduzioni istruttorie, presupponendo la calendarizzazione l’avvenuta adozione di un provvedimento ammissivo delle prove. Da qui l’esigenza di un’udienza sulle decisioni istruttorie e sul conseguente programma di assunzione. La localizzazione del momento in cui è formulabile il calendario, suscita le maggiori perplessità in ordine a un’effettiva idoneità del calendario processuale a contenere i tempi, e, più specificamente, della reale intenzione del legislatore di prevenire tattiche dilatorie delle parti consentendo al giudice di adottare, all’interno del processo, incisive contromisure. 15. Prima del calendario. Si è già detto che la calendarizzazione avviene a valle della trattazione della causa. La promozione della causa in sé, nel doppio profilo dell’oggetto della tutela invocata, che delle modalità di redazione degli atti introduttivi, rappresenta la principale specie di abuso processuale, per la quale non sembrano esservi altri rimedi che quelli a posteriori della regolamentazione delle spese, per le liti temerarie (art. 96, primo e secondo comma, c.p.c.), ma anche per le liti promosse, pur senza l’intento di danneggiare la controparte, ma comunque idonee, per l’ingombro che esse vengano a creare nel sistema complessivo di amministrazione della giustizia, ad allungare i tempi di durata delle cause (art. 96, terzo comma, c.p.c.). La localizzazione temporale delle situazioni di “abusabilità” nella fase introduttiva del processo, è del resto sottolineata dalla dottrina che per prima ha elaborato la

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nozione di abuso processuale, anche sulla scorta di altri ordinamenti138 e ricorrendo alla terminologia anglosassone, il contesto è quello della fase di pre-trial, in un’ampia accezione di fase preparatoria alla decisione. Non sembra dubitabile che l’obbligo di lealtà e probità sancito dall’art. 88 c.p.c., dalla cui violazione può trovarsi il presupposto per un’ipotetica sanzionabilità, valga anche per gli atti introduttivi della causa, tanto più che se ne possono trovare riscontri nell’art. 6 del Codice deontologico che vieta di proporre azioni e assumere iniziative in giudizio con mala fede o colpa grave, e nell’art. 49 dello stesso che vieta l’adozione di iniziative plurime e onerose atte ad aggravare la situazione debitoria di un soggetto, se ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita. Ciò ha indotto a ritenere che l’abuso possa annidarsi negli atti introduttivi qualora strutturati con modalità e nel perseguimento di finalità all’evidenza contrarie ai canoni di lealtà e correttezza “anche in ragione dell’assoluta mancanza di specificità, reticenza o falsità delle allegazioni fattuali”139. Non sembra avere efficacia deterrente o deflativa, all’insorgere di controversie frivolus (nell’accezione statunitense, come prive di spessore giuridico), l’auspicata intensificazione del controllo sull’interesse ad agire commisurato alla meritevolezza dell’azione, che sembra preludere ad un criterio di selezione che evoca parametri di politica giudiziaria estranei al tecnicismo delle norme processuali. E’ un criterio, questo, che sembra presiedere alla introduzione di filtri per il ricorso per cassazione (art. 360-bis c.p.c.), con la giustificazione di premiare la funzione nomofilattica della Suprema Corte, ma non enfatizzabile davanti al giudice di merito. E’ intuitivo, dunque, che alla proposizione della causa temeraria, il giudice non abbia gli strumenti per non dar corso alla causa, giacché alle eventuali nullità dell’atto introduttivo per carenze inerenti alla editio actionis può porsi rimedio invitando alla rinnovazione della citazione o all’integrazione dell’atto. Lo stesso dicasi in riferimento alle difese espletate da parte convenuta, ove nelle stesse sia ravvisabile una resistenza in malafede o con colpa grave. Le possibili conseguenze saranno quelle punitivo-risarcitorie di cui all’art. 96 c.p.c., secondo la logica della soccombenza. L’invito a rinnovare la citazione o a integrare l’esposizione dei fatti, pur inducendo a sanare ipotesi di nullità, comporta un’autonoma forma di abuso, che si riflette sui tempi processuali, dovendo il giudice fissare un termine perentorio per gli adempimenti. Sul punto si è rilevato che la lettura dell’art. 164, quarto comma, c.p.c., porta a ritenere che una qualsiasi forma di circostanzazione dei fatti è sufficiente a scongiurare la nullità della citazione, il limite della corretta redazione essendo, per converso, l’assenza totale di qualsiasi circostanzazione. La conseguenza può essere quella del differimento ad una fase processuale ulteriore rispetto a quella introduttiva la definizione dell’oggetto della controversia, con spostamento ad essa, in

138 A. DONDI, Abuso, cit., 5. 139 V. ANSANELLI, Abuso, cit., 7.

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contrapposizione estrema, delle effettive attività di difesa, in assenza di una non adeguata preparazione della causa140. A differenza di altri ordinamenti, il problema dello standard di specificità e circostanzazione fattuale degli atti continua ad essere trascurato141, e nella blanda tolleranza riguardo alle manchevolezze, la fase della trattazione, descritta dall’art. 183, quarto comma, c.p.c., da momento di completamento del thema decidendum, diviene vero luogo di definizione dell’oggetto della causa, rendendo logicamente necessaria e indefettibile l’ulteriore fase dell’appendice scritta alla trattazione, di cui al sesto comma. La concessione dei relativi termini è una prassi non derogabile, e nella sua indefettibilità ha portato anche a trascurare l’eventualità, che il giudice dovrebbe porre all’attenzione delle parti che si accingano alla richiesta, della possibilità di una loro solo parziale invocazione, quando ad esempio, le difese siano già sufficientemente chiare in ordine all’oggetto, e si rimanga da espletare la fase propriamente istruttoria. Il sistema della trattazione scritta è già di per sé in contrasto con il principio di ragionevole durata, giacché, oltre all’indefettibilità della prassi, incoraggia a strategie processuali in divenire, secondo le reazioni avversarie, a partire dall’incompletezza degli atti introduttivi. E’ una metodica che aveva trovato coronamento nel prototipo del “processo societario”, con la previsione di atti considerati ex professo non completi ma destinati a completarsi e perfezionarsi nella trattazione scritta tra le parti142. Possono riscontrarsi prerogative di abuso anche in atti introduttivi, per contro, sovrabbondanti: atti introduttivi (e comparse di risposte) sovradimensionati rispetto alle esigenze difensive delle parti tradiscono spesso, oltre che una scarsa chiarezza argomentativa, una povertà di argomenti rilevanti al fine di dimostrare la fondatezza della pretesa143. Per tale tipologia, che costringe il giudice ad una spesso non agevole opera di sfrondatura delle superfetazioni, la stessa fase di trattazione si dimostrerà necessaria per un processo inverso a quello prima rilevato, ovvero verso una progressiva concentrazione degli argomenti difensivi. Un atteggiamento di censura dell’ordinamento riguardo alla sovrabbondanza delle difese può ricavarsi indirettamente dall’art. 92, primo comma, c.p.c., che permette di escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, che siano ritenute “eccessive e superflue”. Un orientamento del sistema verso lo spiegamento degli argomenti difensivi in modo sobrio proviene dal codice del processo amministrativo, che all’art. 3, comma 2, dispone che “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”, e all’art. 73, comma 2, che “nell’udienza le parti possono discutere sinteticamente”. Ed 140 A. DONDI, Abuso, cit., 7. 141 A. DONDI, Etica dell’avvocatura, strategie difensive, conflitti d’interesse e abuso nel processo civile, in Studi in onore di Vittorio Colesanti, Napoli, 2009, 551. 142 V. ANSANELLI, Abuso, cit., 5. 143 A. DONDI, Etica, cit., 348.

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è sorprendente che il legislatore del 2009, nel mentre semplifica le modalità di redazione della sentenza, riducendola alla concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto (art. 132 c.p.c. come riformulato dall’art. 45 l.n. 69/09), non interferisce sui criteri di redazione degli atti difensivi. Analogamente, in altri ordinamenti è apparso che la fase in cui maggiormente possono annidarsi abusi processuali è proprio quella degli atti preparatori: la fase del discovery, inizialmente ispirata all’adversary system of litigation, in senso puro, ha trovato negli ultimi anni profondi correttivi, attraverso l’imposizione di un controllo del giudice sull’esplicarsi del discovery. Attività tipiche di abuse of discovery, nel tentativo di ottenere risultati diversi da quelli di disclosure (cioè informazione chiarificatrice circa questioni oggetto della controversia), rammentano il fenomeno della sovrabbondanza, cui sopra si è fatto cenno in relazione alla prassi constatabile presso i nostri Tribunali, attraverso richieste di informazioni generiche e prive di utilità diretta per la controversia, a scopo genericamente dilatorio, ed il corrispondente sistema di risposte con una serie di obiezioni infinite, o fornendo una massa di documenti inutili. Tornando al nostro ordinamento, il tentativo di sviare la difesa della controparte, oltre che l’attenzione del giudice, appare – se non sanzionabile agli effetti dell’art. 88 c.p.c.144 – almeno apprezzabile alla stregua dell’art. 96, terzo comma, ove dal complesso dell’attività difensiva appaia che l’intento della parte è stato inconfondibilmente dilatorio. Le strategie di sviamento inducono ineluttabilmente a trattare il preteso obbligo di verità degli atti processuali, che, ponendosi alla stregua dei doveri di probità dei difensori, e della possibile rilevanza disciplinare, interessano la tematica dell’abuso nei possibili riflessi sulla ragionevole durata. Posto che l’ordinamento processuale, al di là del generico richiamo all’obbligo di lealtà e probità non pone, a differenza di altri ordinamenti (come quello tedesco), un obbligo di completezza e verità nella redazione degli atti processuali, il proposito di sancire tale obbligo si è affacciato storicamente in varie occasioni, fin dalla redazione dei progetti preliminari del codice di rito145. La finalità degli atti menzogneri o reticenti, a rallentare il corso del processo, rendendo necessaria un’attività istruttoria spesso defatigante e l’incidenza degli effetti sulla durata del processo, è universalmente riconosciuta146. Di recente, il d.d.l. del 2007 (AS 1524), decaduto, ma i cui punti salienti sono stati poi ripresi nella riforma del 2009, proponeva di aggiungere all’art. 88 c.p.c. un terzo comma, per cui le parti avrebbero dovuto “chiarire le circostanze di fatto in modo leale e veritiero”. Che tale disposizione fosse contenuta nell’ambito di interventi diretti alla “razionalizzazione e accelerazione del processo civile” dimostra che nella valutazione del legislatore la questione non 144 Esclude sia sanzionabile agli effetti dell’art. 88 c.p.c. la redazione degli scritti difensivi: G. SCARSELLI, Lealtà, cit., 98 ss. 145 Sul dibattito in sede di codificazione, G. SCARSELLI, Lealtà, cit., 109 ss. 146 V. ANSANELLI, Abuso, cit., 4; A. DONDI, Abuso, cit., 10.

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presenta solo valenza deontologica (insita nel proposto collocamento della norma), ma funzionale all’efficiente svilupparsi del processo. E’ appena il caso di notare che un dovere di verità è previsto nell’art. 14 del Codice deontologico, che tuttavia, non accompagnato a livello di tecnica processuale, da un obbligo di accuratezza nell’informazione, risulta sostanzialmente privo di contenuto concreto147. La “bocciatura” di un ingresso dell’obbligo di verità nel tessuto codicistico del processo, premia la visione di chi ha sempre ritenuto che la violazione al presunto obbligo della verità non può comportare infrazione al dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.148. Lo stesso dovere sancito dall’art. 14 del Codice deontologico dovrebbe sistematicamente essere ristretto a ipotesi eccezionali e tassative, ovvero quando l’ordinamento abbia attribuito piena credibilità alla dichiarazione processuale della parte, quando la parte chieda al giudice un provvedimento inaudita altera parte, quando il venir meno del dovere potrebbe configurare un’ipotesi di dolo revocatorio149. In sostanza, “il piano in cui si situa la verità non coincide punto con quello su cui si situa la lealtà, la prima attenendo al contenuto e la seconda riguardando la forma”150. Se da un lato la possibile rilevanza disciplinare dell’obbligo di verità, con la graduazione minore del dovere di completezza, esula dagli obiettivi del presente lavoro, dall’altro è il caso di soffermarsi sull’inquadrabilità delle relative violazioni nel quadro stringente delle proiezioni soggettive del giusto processo, cui si è fatto cenno, e della loro rilevanza sulla durata del processo. Le impostazioni reticenti degli atti difensivi, gli ostruzionismi alle affermazioni di controparte, di cui si smentisce, coscientemente, la veridicità, con la necessità di esperire attività istruttorie inutili, non possono non essere apprezzate sotto il profilo del volontario perseguimento dell’allungamento dei tempi del processo, onde allontanare al massimo una decisione che si sa (o si teme) sfavorevole. Per terminare la gamma dei possibili abusi in sede di trattazione della causa, posto che il giudice è vincolato alla richiesta delle parti (anche una sola) alla concessione dell’appendice scritta della trattazione, anche questo può rivelarsi espediente dilatorio, specie ove sia una sola parte ad avanzarne richiesta, e il giudice si accorga poi di poter definire la causa su presupposti di giudizio di per sé già delineati negli atti introduttivi, o anche sufficientemente chiariti alla prima udienza. 16. Una sintesi dei rimedi contro l’abuso dilatorio. Gli artifici dilatori che siano posti in essere, particolarmente nella fase di trattazione della causa, possono essere solo indirettamente sanzionati a posteriori nella regolamentazione delle spese. 147 V. ANSANELLI, Abuso, cit., 7. 148 G. SCARSELLI, Lealtà, cit., 114-5. 149 G. SCARSELLI, Lealtà, cit., 123. 150 F. CORDOPATRI, Nota a margine di un libro recente e di un recente disegno di legge, in Riv. dir. proc., 2008, 1341.

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Le misure concepite dal legislatore ai fini dell’accelerazione processuale si pongono sul piano funzionale, favorendo in primo luogo soluzioni alternative al processo a fini deflativi e di concentrazione delle risorse processuali di un minor numero di cause, con ricadute benefiche in termini di durata. Riguardo agli interventi più direttamente incidenti sul processo, si è mirato alla semplificazione di determinati atti e attività della procedura e si è introdotto un rito processuale sommario in cui è valorizzato il ruolo direttivo del giudice, e riguardo alla tempistica, si è concepito un calendario delle attività fondato sull’assunzione di responsabilità delle parti al rispetto di tempi che, al minimo, dovrebbero dare certezze in ordine alla durata (e alla definizione) delle cause. Manca un apparato sanzionatorio degli abusi: le sanzioni pecuniarie si riducono a poche eccezionali ipotesi, che introdotte negli ultimissimi provvedimenti, è ancora presto per preconizzare un trend legislativo su una nuova via sanzionatoria agli abusi processuali. Il legislatore diffida del giudice repressore degli abusi dilatori, che mostra di voler soltanto prevenire. La stessa novità della condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, è costruita secondo lo schema risarcitorio, pur se dissimula intenti sanzionatori. Il giudice, responsabile della direzione del procedimento, è manager in senso solo formale, come programmatore dei tempi processuali in collaborazione delle parti, e per il resto, strettamente vincolato all’esercizio delle attività difensive delle parti, di cui assicura il contraddittorio e la parità, mentre il perseguimento degli obiettivi di ragionevole durata, pur parte integrante dei principi del giusto processo, appare ora canalizzato nella formazione e nel rispetto del calendario del processo. La possibile via giudiziaria alla ragionevole durata, attraverso un’interpretazione degli istituti processuali in chiave funzionale, ispirata al principio di economia processuale, è seriamente contestata. I possibili esiti sulla decisione nel merito sono riconducibili alla blanda rilevanza del contegno della parte, complessivamente considerato. Le conseguenze in materia di spese sono concepite in primo luogo come incentivi indiretti alla conciliazione e alla mediazione (art. 91, primo comma, seconda parte, c.p.c., e 13 d.lgs. n. 28/10). La condanna alle spese in eccezionale deroga al principio della soccombenza è indefettibilmente collegata alla violazione del dovere di cui all’art. 88 c.p.c. (art. 92, primo comma, seconda parte, c.p.c.). Il dovere di lealtà e probità dei difensori, invece, non è ragione determinante per l’affermazione della responsabilità aggravata dell’art. 96 c.p.c., che riguarda l’animus con cui la parte soccombente si è accinta ad agire o a resistere in un processo, anche se dietro alla proposizione di liti temerarie o alla pretestuosa resistenza in giudizio, è apprezzabile una violazione al dovere di cui all’art. 88 c.p.c. L’intento legislativo che sta alla base dell’introduzione del terzo comma dell’art. 96 è di costituire un deterrente a condotte processuali mirate all’allungamento dei tempi, per questo può dirsi che la norma reprime l’abuso dilatorio, che è indipendente dall’abuso sostanziale dei primi due commi, e può con esso cumularsi, anche riguardo alle conseguenze risarcitorie, ma può essere valutato, indipendentemente

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dalla richiesta della parte danneggiata dalla lite temeraria e/o dilatoria, per il rilievo pubblicistico che l’allungamento dei tempi processuali assume, che giustifica l’iniziativa officiosa del giudice. L’estrema genericità di formulazione della norma è in ostacolo all’identificazione dei fatti censurabili. Potrebbe dirsi che si è in presenza di una “sanzione senza precetto”. Il collegamento “in ogni caso” sembra ampliare la gamma dei comportamenti, anche se la mancata indicazione dei presupposti, spinge a valorizzare l’interpretazione teleologica in funzione della ragionevole durata, e così a reprimere comportamenti processuali, con l’ausilio dei riferimenti a canoni etici, dei quali si trova solo generica indicazione nell’art. 88 c.p.c. La figura tradizionale della lite temeraria non si trova in alcun rapporto con il dovere di lealtà e probità, di cui all'art. 88 c.p.c., che riguarda il comportamento nel corso del processo di tutte le parti e dei loro difensori, indipendentemente dal fatto che abbiano ragione o torto. Il fatto illecito cui si riferisce il terzo comma dell'art. 96 c.p.c., non trova il limite descrittivo del primo e secondo comma, potendo esser esteso, in sede di ricognizione dell’andamento processuale che si conclude, a tutte le esplicazioni dei poteri processuali all’interno della causa, che in quanto contrari al dovere di correttezza, abbiano cagionato un effetto dilatorio. Mentre i primi due commi dell’art. 96 sanzionato propriamente l’”abuso del processo”, mediante l’iniziativa che ha determinato l’insorgere (ed il persistere) della causa, il terzo comma appare poter sanzionare anche abusi endo-processuali. L’abuso del processo deve sempre essere volontario, e se, quanto alla struttura dell’illecito, deve sempre ricondursi ad una violazione dei doveri di cui all’art. 88 c.p.c., al pari di questo deve esser compiuto consapevolmente: vanno dunque escluse dal novero dei comportamenti scorretti, le mere omissioni151. Non v’è ragione di ritenere che l’abuso dilatorio debba essere assistito da intensità qualificata dell’elemento soggettivo: il dolo specifico di arrecare danno o la colpa grave consistente nella sconsiderata leggerezza di agire o resistere il giudizio, sono compatibili con una scelta meditata che si pone all’inizio della lite con riferimento alla posizione dell’antagonista in causa, nella sfera del quale sono destinati a prodursi gli effetti della scelta litigiosa. Né può dirsi che il terzo comma venga attratto nell’orbita della qualificazione soggettiva del primo comma, ché anzi, il secondo comma è invece caratterizzato dall’agire senza la normale prudenza, e l’esordio della norma in commento “in ogni caso” con riferimento alle due precedenti fattispecie, sembra avallare la rilevanza della nuova fattispecie di abuso, quale che sia l’atteggiarsi della volontà dell’agente. Va aggiunto che nel regolare la conseguenza risarcitorio-sanzionatoria del nuovo tipo di abuso, le regole di condotta sono mutuate dall’art. 88 c.p.c. nella particolare valenza di cui esso si arricchisce alla luce della responsabilizzazione che compete alle parti in virtù dei principi del giusto processo, che, come già osservato, non vanno

151 G. SCARSELLI, Lealtà, cit., 98.

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intesi solo in termini oggettivi, ma impongono doveri comportamentali ispirati al rispetto dei diritti delle parti nel processo, e al bene comune connesso all’uso solidale delle risorse investite all’ordinamento. La misura del risarcimento-sanzione, rimessa al libero apprezzamento del giudice, va al di là della logica reintegratoria adottata dalla giurisprudenza sulla legge Pinto, per assumere, se si è in presenza di sanzione, efficacia punitiva e di deterrente. Il collegamento necessitato alla soccombenza sembra consentire il riferimento alle spese liquidate per la lite, nella sistematica dell’art. 92, primo comma, la cui misura è da modulare in riferimento alla gravità dell’abuso (e all’intensità della colpevolezza), agli effetti dilatori, alle ricadute nell’organizzazione del ruolo del magistrato, e dell’ufficio di cui fa parte, in un range che può ragionevolmente contenersi nel doppio dei massimi tariffari, che l’abrogato art. 385 c.p.c. (e di cui la norma in commento ha preso il posto) adottava per il giudizio di cassazione.


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