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Date post: 16-Oct-2020
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Racconti di fantascienza, appassionanti e coinvolgenti 5 Ritorno futuro al IL PIACERE DI LEGGERE MOSTRI E ALIENI: NOI O LORO? P. Levi L’intervista p. 82 C. Simak L’aggeggio p. 84 UN FUTURO DI GIUSTIZIA... O NO? I. Calvino Tutte persone gentili p. 91 F. Leiber Un secchio d’aria p. 93 L. Brackett I negri verdi p. 105 R. Sheckley Il cosmo si ribella p. 118 Antologia 3
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Racconti di fantascienza, appassionanti e coinvolgenti

5Ritornofuturoal

IL PIACERE DI LEggERE

MOSTRI E ALIENI: NOI O LORO?

P. Levi L’intervista p. 82

C. Simak L’aggeggio p. 84

UN FUTURO DI gIUSTIZIA... O NO?

I. Calvino Tutte persone gentili p. 91

F. Leiber Un secchio d’aria p. 93

L. Brackett I negri verdi p. 105

R. Sheckley Il cosmo si ribella p. 118

Antologia 3

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

Era ancora buio fitto e piovigginava. Elio rientrava dal turno di notte, ed era stanco e assonnato; scese dal tram e si avviò

verso casa, prima per una via dal fondo dissestato, poi per un viottolo privo d’illuminazione. Nell’oscurità udì una voce che gli chiese. – Permette un’intervista?Era una voce leggermente metallica, priva d’inflessioni dialetta-li; stranamente, gli parve che provenisse dal basso, presso i suoi piedi. Si fermò, un po’ sorpreso, e rispose di sì, ma che aveva fretta di rientrare.– Ho fretta anch’io non si preoccupi – rispose la voce. – In due minuti abbiamo finito. Mi dica: quanti sono gli abitanti della Terra?– Su per giù sette miliardi. Ma perché lo chiede proprio a me?– Per puro caso, mi creda. Non ho avuto il modo di fare scelte. Senta, per favore: come digerite?Elio era seccato. – Cosa vuol dire, come digerite? C’è chi digeri-sce bene e chi male. Ma chi è lei? Non vorrà mica vendermi delle medicine a quest’ora, e qui al buio in mezzo alla strada?– No, è solo per una statistica – disse la voce, impassibile. – Ven-go da una stella qui vicino, dobbiamo compilare un annuario sui pianeti abitati della Galassia, e ci occorrono alcuni dati compa-rativi.– E… come mai lei parla così bene l’italiano?– Parlo anche diverse altre lin-gue. Sa, le trasmissioni delle vo-stre Tv non si fermano alla iono-sfera, ma proseguono nello spa-zio. Ci mettono undici anni abbon-danti, ma arrivano fino a noi ab-bastanza distinte. Io, per esempio, ho imparato così la vostra lingua. Trovo interessanti i vostri sketch pubblicitari: sono molto istruttivi, e credo di essermi reso conto di

Un’intervista ben strana, quella che una voce non meglio identificata fa a Elio. L’alieno vuole conoscere meglio le abitudini dei terrestri. Scopri tu da che cosa ha tratto le sue conoscenze!

Primo LeviL’intervista

mostri e alieni: noi o loro?5. Ritorno al futuro

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come mangiate e di quello che mangiate, ma nessuno di noi ha idea di come digerite. Perciò la prego di rispondere alla mia do-manda.– Be’, sa, io ho sempre digerito bene e non saprei darle molti det-tagli. Abbiamo un… un sacco che si chiama stomaco, con degli acidi dentro, e poi un tubo; si mangia, passano due o tre ore, e il mangiare si scioglie, insomma diventa carne e sangue.– … carne e sangue – ripeté la voce, come se prendesse appunti. Elio notò che quella voce era proprio come quelle che si sentono in Tv: chiara ma insipida e snervata.– Perché passate tanto tempo a lavarvi e a lavare gli oggetti in-torno a voi?Elio, con un certo imbarazzo, spiegò che non ci si lava che per qualche minuto al giorno, che ci si lava per non essere sporchi, e che se si sta sporchi c’è il rischio di prendere qualche malattia.– Già, era una delle nostre ipotesi. Vi lavate per non morire. Come morite? A quanti anni? Muoiono tutti?Anche qui la risposta di Elio fu un po’ confusa. Disse che non c’erano regole, si moriva sia giovani sia vecchi, pochi arrivavano ai cento anni.– Capito. Vivono a lungo quelli che usano lenzuola bianche e dànno la cera ai pavimenti. – Elio cercò di rettificare, ma l’inter-vistatore aveva fretta, e continuò: – Come vi riproducete?Sempre più imbarazzato, Elio si invischiò in una imbrogliata esposizione sull’uomo e sulla donna, sui cromosomi (su cui ap-punto era stato informato pochi giorni prima dalla Tv), sull’ere-dità, sulla gravidanza e sul parto, ma lo straniero lo interruppe: voleva sapere a quanti anni incomincia a svilupparsi il vestito. Mentre Elio, ormai spazientito, gli stava spiegando che il vesti-to non cresce addosso, ma si compera, si accorse che stava spun-tando l’alba, e nella luce incerta vide che la voce proveniva da una specie di pozzanghera ai suoi piedi; o meglio, non proprio una pozzanghera, ma come una grossa chiazza di marmellata bruna.Anche lo straniero si doveva esser accorto che era passato parec-chio tempo. La voce disse: – Mille grazie, scusi per il disturbo. – Subito dopo la chiazza si contrasse e si allungò verso l’alto, come se tentasse di staccarsi dal suolo. Parve a Elio che non ci riuscis-se, e si udì ancora la voce che diceva: – Per favore, lei che è così gentile, potrebbe accendere un cerino? Se non ho un po’ di aria ionizzata intorno delle volte non mi riesce di decollare.Elio accese un cerino, e la chiazza, come se succhiata da un’aspi-rapolvere, salì e si perse nel cielo fumoso del mattino.

P. Levi, L’ultimo Natale di guerra, Einaudi

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

Clifford SimakL’aggeggioUn ragazzo semplice e povero, costretto a subire continue ingiustizie, ma all’occorrenza capace di donare la sua cosa più preziosa, non trova difficoltà a comunicare con i misteriosi abitanti di un disco venuto dal cielo: la sua bontà di cuore glielo consente.

Trovò l’aggeggio in un filare di more, mentre cercava le muc-che. L’oscurità stava scendendo dall’alta muraglia di pioppi,

e non riuscì a distinguerlo troppo bene ma non poteva sprecare molto tempo a guardarlo, perché zio Eb si era arrabbiato moltis-simo per le mucche che mancavano. Se avesse impiegato troppo tempo a trovarle, probabilmente zio Eb l’avrebbe picchiato ancora e lui ne aveva gia prese abbastanza, per quel giorno. Doveva già restare senza cena perché aveva dimenticato di andare alla fonte a prendere un secchio di acqua fresca. E zia Em lo aveva perse-guitato tutto il giorno perché non era capace di togliere bene le erbacce dall’orto. – Non ho mai visto un fannullone come te, in vita mia – gli stril-lava, poi diceva che lui avrebbe dovuto essere riconoscente per-ché lei e zio Eb lo avevano preso salvandolo dall’orfanotrofio, ma no, lui non era riconoscente, e procurava tutti i fastidi che pote-va ed era pigro e lei non sapeva proprio che cosa sarebbe diven-tato. Trovò le due mucche nell’angolo del pascolo, vicino al boschetto dei noci e le condusse a casa, seguendole a passi pesanti; anco-ra una volta pensò di scappare, ma sapeva che non l’avrebbe fat-

mostri e alieni: noi o loro?5. Ritorno al futuro

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1.  fossetto di scolo: canaletto in cui defluiscono i liquami della stalla.

to, perché non sapeva dove andare. Però, si disse, qualsiasi altro posto sarebbe stato meglio che restare lì con zia Em e zio Eb, che in realtà non erano affatto i suoi zii, ma soltanto una coppia che l’aveva preso in casa. Zio Eb stava finendo di mungere quando lui entrò nella stalla, spingendosi davanti le mucche, e zio Eb era ancora arrabbiato perché gli erano scappate quando aveva riportato le altre. – Ecco – disse zio Eb – così sono stato costretto a mungere an-che la tua parte, e tutto perché non hai contato le mucche, come io ti dico sempre di fare per essere sicuro che ci siano tutte. Per punizione, finisci tu di mungere. Così Johnny prese lo sgabello a tre gambe e un secchio e munse le mucche, e le più giovani sono difficili da mungere, e ombrose, e quella rossa sparò un calcio e buttò Johnny nel fossetto di sco-lo1, rovesciando il latte che era nel secchio. Quando zio Eb lo vide, prese la cinghia che era appesa dietro la porta e picchiò Johnny per insegnargli a stare più attento e per fargli capire che il latte significava denaro, e poi lo fece finire di mungere. Poi andarono in casa; zio Eb continuò a brontolare che i ragazzi erano più fastidi che altro, e zia Em venne loro incontro sulla por-ta per dire a Johnny di lavarsi per bene i piedi prima di andare a letto, perché non voleva che le sporcasse le belle lenzuola pulite. – Zia Em – disse Johnny – ho una fame spaventosa. – Neanche un boccone – disse lei, con le labbra cupe nella luce della cucina. – Forse, se avrai un po’ fame, non continuerai a di-menticare tutto. – Solo una fetta di pane – disse Johnny. – Senza burro né altro. Solo una fetta di pane. – Giovanotto – disse zio Eb – hai sentito tua zia? Lavati i piedi e fila subito a letto… – E lavateli bene – disse zia Em. Così si lavò i piedi e andò a letto e ricordò ciò che aveva visto nel filare di more e ricordò, anche, che non ne aveva parlato perché non ne aveva avuto la possibilità, con zio Eb e zia Em che lo tor-mentavano sempre…E poi decise che non avrebbe detto loro che cosa aveva trovato, perché se glielo avesse detto glielo avrebbero portato via, come facevano sempre con tutto quello che lui aveva. E se non glielo portavano via, glielo rovinavano, così lui non ci trovava più la minima soddisfazione. La sola cosa che fosse veramente sua era il vecchio temperino con la punta della lama spezzata. Non c’era nulla al mondo che lui desiderasse di più che un altro temperino per rimpiazzare il suo, ma sapeva che non poteva chiederlo.

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Mentre se ne stava lì disteso sul letto, guardando le stelle oltre la finestra, cominciò a chiedersi che cosa poteva essere ciò che ave-va visto nel filare di more e non riuscì a ricordarlo bene perché non l’aveva visto chiaramente e non aveva avuto il tempo di fer-marsi a guardare. Ma era una cosa strana e più ci pensava, più desiderava di dargli un’occhiata. Domani, penso, lo guarderò bene. Non appena ne avrò la possi-bilità, domani. E poi capì che non ne avrebbe avuto la possibili-tà, l’indomani, perché, dopo i lavori mattutini, zia Em lo avreb-be mandato a togliere le erbacce dal giardino e l’avrebbe tenuto d’occhio e lui non avrebbe avuto la possibilità di squagliarsela. Rimase sveglio e ci pensò ancora e fu chiaro come il sole che, se voleva dare un’occhiata a quell’aggeggio, doveva andare quella notte stessa.A giudicare dal russare, zio Eb e zia Em stavano dormendo, così scese dal letto, si infilò la camicia e i calzoni e scese furtivamen-te le scale, evitando con cura i gradini che scricchiolavano. In cucina montò su una sedia per arrivare alla scatola dei fiammi-feri sopra il forno della vecchia stufa a legna. Prese una mancia-ta di fiammiferi, poi ci ripensò e li rimise nella scatola, tranne una mezza dozzina, perché temeva che zia Em se ne accorgesse, se lui ne avesse presi troppi. Fuori, l’erba era umida e fredda di rugiada, si arrotolò i calzoni per non bagnarseli e si avviò attraverso il pascolo. Finalmente arrivò al filare di more e rimase lì a chiedersi in che modo poteva attraversare il filare al buio senza strapparsi gli abiti e senza riempirsi di spine i piedi nudi. Si fermò e si chie-se se ciò che aveva veduto era ancora lì, e all’improvviso seppe che c’era, perché ne sentì provenire una sensazione di amicizia, come se quella cosa gli dicesse che era ancora lì e che lui non do-veva avere paura. Tese le mani e cercò di scostare i cespugli per poter passare, per vedere che cosa era. Se avesse potuto avvicinarsi, pensò, avrebbe acceso i fiammiferi che aveva in tasca e avrebbe potuto guarda-re meglio. – Fermati – disse la sensazione amichevole, e a quella parola si fermò, anche se non era sicuro di averla sentita. – Non guardarci così da vicino – disse la sensazione di amici-zia, e Johnny ne fu un po’ sconvolto, perché non aveva guardato niente… non troppo da vicino, cioè.

– Va bene – disse. – Non vi guarderò. – E si chiese se era una

specie di gioco, come quando giocava a nascondersi, a scuola.

– Tu hai paura – disse la cosa. – Non devi aver paura di noi.

E Johnny spiegò che non aveva paura di loro, qualsiasi cosa fos-

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2.  ventina di piedi: circa 6 metri. Un piede, misura anglo­sas so ne, corrisponde a 30,4 centimetri.

sero, perché erano molto amichevoli, ma aveva paura di ciò che poteva accadere se zio Eb e zia Em si fossero accorti che lui era uscito di nascosto. Così gli fecero molte domande su zio Eb e su zia Em. Lui cercò di spiegare come stavano veramente le cose, ma era sicuro che non capivano affatto. Alla fine, educatamente per non offenderli, disse che doveva an-darsene; e poiché si era trattenuto molto più a lungo di quanto aveva inteso fare, tornò a casa correndo. Entrò in casa, tornò a letto e tutto andò bene, ma la mattina dopo zia Em gli trovò in tasca i fiammiferi e gli fece la predica sul pericolo di incendiare la stalla. Per dare maggior forza alla lezione, usò la bacchetta sulle sue gambe, e per quanto lui cer-casse di comportarsi da uomo, lei lo picchiava così forte che Jo-hnny saltò su e giù, gridando. Lavorò per tutto il giorno a togliere le erbacce nell’orto e poco prima che si facesse buio andò a cercare le mucche. Non doveva deviare dal suo percorso per passare davanti al fila-re di more, perché le mucche erano da quella parte, ma sapeva abbastanza bene che, se non c’erano, lui sarebbe andato comun-que lì; perché per tutto il giorno aveva ricordato l’amicizia che vi aveva trovato. Questa volta c’era ancora la luce del giorno che sfumava nel-la notte e poté vedere che la cosa, qualsiasi cosa fosse, non era viva, era soltanto un pezzo di metallo, come due piatti uniti in-sieme, con un orlo nel mezzo proprio come vi sarebbe stato un orlo, se avesse messo insieme due piatti. Sembrava un vecchio pezzo di metallo che fosse lì da molto tem-po, e vedeva che era bucherellato, come diventa un macchinario se rimane esposto alle intemperie. Si era aperto un passaggio nei cespugli di more e aveva arato il suolo per una ventina di piedi2 e, guardando nella direzione da cui era venuto, Johnny poté vedere dove aveva urtato e spezzato la cima di un alto pioppo.L’aggeggio gli parlò, senza parole, come aveva fatto la notte pre-cedente, con amicizia e solidarietà, sebbene Johnny non cono-scesse quell’ultima parola, poiché non l’aveva mai trovata nei suoi libri di scuola. – Dove siete? – chiese Johnny. – Proprio qui – dissero. – Lì dentro? – chiese Johnny.– Qui dentro – dissero. Allora non posso vedervi – disse Johnny. – Non posso vedere at-traverso il metallo. – Non può vedere attraverso il metallo – disse uno di loro.

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3.  quando la stella è tramontata: «quando è notte» (si riferiscono, infatti, al Sole).

– Non può vedere quando la stella è tramontata3 – disse l’altro. – Allora non ci può vedere – dissero tutti e due. – Potreste uscire – disse Johnny. – Non possiamo uscire – dissero. – Moriremmo, se uscissimo. – Allora non potrò mai vedervi. – Non potrai mai vederci, Johnny. Lui rimase lì fermo, e si sentiva terribilmente solo perché non avrebbe mai potuto vedere quei suoi amici.– Non comprendiamo chi sei – dissero. – Dicci chi sei. E poiché erano così gentili e così amichevoli, disse loro chi era e che era orfano e che era stato preso da zio Eb e da zia Em, che in realtà non erano i suoi zii. Non disse come lo trattavano zio Eb e zia Em, non disse che lo picchiavano e lo rimproveravano e lo mandavano a letto senza cena; ma come le cose che disse, anche quello era lì, perché loro lo sentissero, e adesso c’era più dell’amicizia, più della solidarie-tà. Adesso c’era compassione e qualcosa che era il loro equivalen-te dell’amore materno. – È piccolo – dissero, parlando tra loro. Si tesero verso di lui e sembrò che lo prendessero fra le braccia, e lo stringessero a loro e Johnny cadde in ginocchio senza saperlo e tese le braccia verso le cose che erano lì tra gli arbusti spezza-ti, come se ci fosse qualcosa che poteva stringere, cui poteva ag-grapparsi, un conforto che gli era sempre mancato e che aveva sempre desiderato e che ora aveva trovato, finalmente. Il suo cuo-re gridò ciò che lui non sapeva dire, la supplica che non avrebbe superato le sue labbra, e loro gli risposero. – No, non ti lasceremo, Johnny. Non possiamo lasciarti, Johnny.– Lo promettete? – chiese Johnny. Le loro voci erano un po’ tristi. – Non è necessario che promettiamo, Johnny. La nostra macchi-na è rotta e noi non possiamo ripararla. Uno di noi sta morendo, e l’altro morirà presto. Johnny rimase lì inginocchiato, mentre quelle parole penetrava-no in lui, mentre quella certezza penetrava in lui, e gli parve in-sopportabile che, dopo aver trovato due amici, quelli stessero per morire. – Johnny – gli dissero. – Sì – disse Johnny, cercando di non piangere. – Vuoi fare un baratto con noi? – Un baratto? – Per noi è un modo di dimostrare amicizia. Tu ci dai qualcosa e noi ti diamo qualcosa. – Ma – disse Johnny. – Ma io non ho…

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4.  collottola: nuca, parte superiore del collo.

Poi ricordò di avere qualcosa. Aveva il temperino. Non era molto, aveva la lama spezzata, ma era tutto ciò che aveva. – Va benissimo – dissero. – Va benissimo. Deponilo al suolo, vici-no alla macchina. Si tolse il coltello dalla tasca e lo posò contro la macchina e men-tre guardava accadde qualcosa, ma accadde così rapidamente che lui non poté vedere come successe, comunque il coltello era scomparso e lì c’era qualcosa d’altro. – Grazie, Johnny – dissero. – È stato bello da parte tua fare que-sto baratto con noi. Tese la mano e prese la cosa che gli avevano dato, e anche nel buio scintillava di un fuoco nascosto. La rigirò nel palmo del-la mano e vide che era una specie di gemma sfaccettata, e che il chiarore proveniva dall’interno, bruciante di molti differenti co-lori. Solo quando vide quanta luce ne usciva comprese che era rima-sto lì a lungo e che era ormai buio e quando se ne avvide balzò in piedi e corse senza neppure salutare. Era ormai troppo buio per cercare le mucche e si augurò che si fossero dirette da sole verso casa e sperò di poterle raggiunge-re, di poterle portare nella stalla. Avrebbe detto a zio Eb che ave-va faticato a radunarle. Avrebbe detto a zio Eb che le due muc-che più giovani erano uscite dallo steccato e lui aveva dovuto ri-condurle indietro. Avrebbe detto a zio Eb… gli avrebbe detto… gli avrebbe detto…Respirava singhiozzando, per la corsa, e il cuore gli batteva così forte da scuoterlo e la paura l’incalzava… la paura della cosa spa-ventosa che lui aveva fatto, quella cosa imperdonabile, dopo tut-te le altre, dopo che non era andato alla fonte a prendere l’acqua, dopo che si era messo in tasca i fiammiferi. Non trovò le muc-che che rientravano da sole: le trovò nella stalla, e capì che era-no già state munte e capì che era rimasto fuori molto più a lun-go di quanto avesse immaginato, e che la situazione era dunque anche peggiore… Si diresse verso casa, tremando di paura. C’era una luce, in cuci-na, e lui sapeva che lo stavano aspettando. Entrò in cucina e loro erano seduti a tavola, davanti a lui, aspet-tandolo, con la luce della lampada sulle facce, e le loro facce era-no così dure che sembravano di pietra scolpita. Zio Eb si alzò, torreggiando verso il soffitto, e si vedevano i mu-scoli gonfiarsi sulle braccia, con le maniche arrotolate fino al gomito. Fece per afferrare Johnny e Johnny si scansò, ma la mano gli si chiuse sulla collottola4 e le dita gli si strinsero attorno alla gola, e lo sollevarono e lo scossero con un furore silenzioso.

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– Ti insegnerò io – disse zio Eb, tra i denti serrati. – Ti insegne-rò io. Ti insegnerò io… Qualcosa cadde sul pavimento e rotolò verso l’angolo, lasciando una scia di fuoco mentre rotolava. Zio Eb smise di scrollare Johnny e rimase lì, tenendolo per un istante, poi lo lasciò ricadere sul pavimento. – Quella cosa ti è caduta dalla tasca – disse zio Eb. – Che cos’è? Johnny indietreggiò, scrollando la testa. Non avrebbe detto che cos’era. Non l’avrebbe detto mai! Qualsia-si cosa potesse fargli zio Eb, non l’avrebbe mai detto. Neppure se l’avesse ucciso. Zio Eb si accostò furtivamente alla gemma, si chinò in fretta e la raccolse. La riportò alla tavola, ve la fece cadere e si piegò a guardarla, socchiudendo gli occhi davanti alla sua luce. Zia Em si sporse sulla sedia per guardarla.– Che razza di roba… – disse. Rimasero chini per un momento a fissare la gemma, con gli oc-chi accesi e lucenti, i corpi tesi, il respiro raschiante nel silenzio. Il mondo avrebbe potuto finire in quel momento e loro non se ne sarebbero accorti. Poi si raddrizzarono e si voltarono a guardare Johnny, disto-gliendo gli occhi dalla gemma come se non li interessasse più, come se avesse avuto un compito da svolgere e lo avesse svolto e avesse perduto ogni importanza. C’era qualcosa che non andava in loro… no, non qualcosa che non andava, ma qualcosa di di-verso. – Devi essere affamato – disse zia Em a Johnny. – Ti scalderò la cena. Ti piacerebbero le uova? Johnny deglutì, annuì. Zio Eb sedette, senza badare affatto alla gemma. – Sai – disse – ho visto un coltello a serramanico, in città, l’altro giorno. Proprio come vuoi tu… Johnny lo sentiva appena. Se ne stava là, ritto, ascoltando l’amicizia e l’amore che cantava-no in tutta la casa.

C. Simak, in Il futuro dietro l’angolo, Mursia

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

Tutte persone gentili Italo CalvinoIl tema della sovrappopolazione condotto con un tono leggero, distaccato, come in una realtà che sta al limite del sogno. Ma siamo sicuri che la città del racconto non esista già, da qualche parte?

Ogni anno nei miei viaggi faccio sosta a Procopia e prendo alloggio nella stessa stanza della stessa locanda. Fin dalla

prima volta mi sono soffermato a contemplare il paesaggio che si vede spostando la tendina della finestra: un fosso, un ponte, un muretto, un albero di sorbo, un campo di pannocchie, un ro-veto con le more, un pollaio, un dosso di collina giallo, una nu-vola bianca, un pezzo di cielo azzurro a forma di trapezio. Sono sicuro che la prima volta non si vedeva nessuno; è stato solo l’an-no dopo che, a un movimento tra le foglie, ho potuto distinguere una faccia tonda e piatta che rosicchiava una pannocchia. Dopo un anno erano in tre sul muretto, e al mio ritorno ce ne vidi sei, seduti in fila, con le mani sui ginocchi e qualche frutto in un piatto. Ogni anno, appena entrato nella stanza, alzavo la tendi-na e contavo alcune facce in più: sedici, compresi quelli giù nel fosso; ventinove, di cui otto appollaiati sul sorbo; quarantasette senza contare quelli nel pollaio. Si somigliano, sembrano gentili, hanno lentiggini sulle guance, sorridono, qualcuno con la bocca sporca di more. Presto vidi tutto il ponte pieno di tipi dalla faccia

un futuro di giustizia… o no?5. Ritorno al futuro

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tonda, accoccolati perché non avevano più posto per muoversi; sgranocchiavano le pannocchie, poi rodevano i torsoli. Così, un anno dopo l’altro ho visto sparire il fosso, l’albero, il ro-veto, nascosti da siepi di sorrisi tranquilli, tra le guance tonde che si muovono masticando foglie. Non si ha idea, in uno spa-zio ristretto come quel campicello di granoturco, quanta gente ci può stare, specie se messi seduti con le braccia intorno ai gi-nocchi, fermi. Devono essercene molti di più di quanto sembra: il dosso della collina l’ho visto coprirsi d’una folla sempre più fitta; ma da quando quelli sul ponte hanno preso l’abitudine di stare a cavalcioni l’uno sulle spalle dell’altro non riesco più a spingere lo sguardo tanto in là.Quest’anno, infine, ad alzare la tendina, la finestra inquadra solo una distesa di facce: da un angolo all’altro, a tutti i livelli e a tutte le distanze, si vedono questi visi tondi, fermi, piatti piatti, con un accenno di sorriso, e in mezzo molte mani, che si tengo-no alle spalle di quelli che stanno davanti. Anche il cielo è spari-to. Tanto vale che mi allontani dalla finestra. Non che i movimenti mi siano facili. Nella mia stanza siamo al-loggiati in ventisei: per spostare i piedi devo disturbare quelli che stanno accoccolati sul pavimento, mi faccio largo tra i gi-nocchi di quelli seduti sul cassettone e i gomiti di quelli che fan-no il turno per appoggiarsi al letto: tutte persone gentili, per for-tuna.

I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

Fritz LeiberUn secchio d’aria

1.  coltre: strato di una qualche materia – in questo caso di aria ghiacciata – che forma una copertura, un rivestimento.

Una città senza vita, avvolta nel gelo e nel silenzio di una notte senza fine.Un piccolo nucleo familiare, forse l’unico sopravvissuto al cataclisma che ha per sempre privato la Terra della luce del Sole…

Pa’ mi aveva mandato fuori a prendere un secchio d’aria di scorta. Avevo appena finito di riempirlo, e dalle mie dita era

già sfuggito quasi tutto il calore, quando… vidi una cosa!Sul momento pensai che fosse una ragazza. Sì, una faccia di bel-la ragazza che splendeva nel buio, e mi fissava dal quinto piano della casa di fronte. Nelle case qui attorno, il quinto piano resta subito al di sopra della bianca coltre1 di aria ghiacciata spessa quattro piani. Non avevo mai visto una ragazza in vita mia, sal-vo nelle vecchie riviste (Sis è appena una bambina e Ma’ è piut-tosto sofferente e malandata) e mi venne un accidente tale che lasciai cadere il secchio. A chi non sarebbe venuto, sapendo che sulla Terra erano morti tutti salvo Pa’, Ma’, Sis e me?Con tutto questo non avevo nessuna ragione di meravigliarmi tanto. Tutti noi vediamo delle cose, di tanto in tanto. Ma’ deve vederne di bruttissime, a giudicare da come sbarra gli occhi fis-sando il vuoto e urla, urla e si rannicchia contro le coperte appe-se attorno al Nido. Pa’ dice che è più che naturale se, di tanto in tanto, abbiamo di queste visioni.

5. Ritorno al futuro un futuro di giustizia… o no?

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Dopo che ebbi raccolto il secchio, e potei guardare di nuovo l’appartamento di fron-te, mi feci un’idea di quello che Ma’ doveva provare in quei momenti: mi accorsi, infat-ti, che non si trattava di una ragazza, ma soltanto di una luce: una piccola luce che si spostava continuamente da una finestra all’altra, proprio come se una stella cattiva fosse scesa giù dal cielo senz’aria a cercar di scoprire perché mai la Terra si fosse al-lontanata dal Sole, e magari a dar la caccia a qualcosa da tormentare o da atterrire, ora che la Terra non aveva più la protezione del Sole.Quel pensiero, ve l’assicuro, mi fece accap-ponare la pelle. Stavo là, tutto tremante; per poco non mi si congelavano i piedi, e nell’in-terno del casco si stava formando una crosta di ghiaccio così solida che, se anche la luce fosse uscita da una delle finestre per venire a prendermi, non me ne sarei accorto. Final-mente, ebbi il buon senso di rientrare.Ben presto mi trovai a ripercorrere il soli-to cammino tra la trentina di coperte, tappeti e grandi fogli di plastica che Pa’ è riuscito ad appendere e fissare tutt’attorno al Nido, per impedire la fuga dell’aria. La paura cominciava a pas-sare. Sentivo già il ticchettìo degli orologi del Nido e capivo che stavo ritornando dove c’era aria, perché all’esterno, nel vuoto, i rumori naturalmente non si sentono. Ma la mia mente era anco-ra confusa e sconvolta, mentre mi facevo strada attraverso le ul-time coperte – quelle che Pa’ aveva foderato con fogli di allumi-nio per trattenere il calore – ed entravo nel Nido.Lasciate che vi parli del Nido. È basso e intimo, c’è giusto lo spa-zio per noi quattro e per la nostra roba. Il pavimento è ricoperto da folti tappeti di lana. Tre lati sono formati da coperte, e le altre coperte che fanno da soffitto sfiorano la testa di Pa’. Lui dice che il Nido si trova dentro una stanza molto più grande, ma io non ho mai visto le pareti vere, né il soffitto.Contro una delle coperte-pareti c’è un grosso scaffale, con uten-sili, libri e altra roba, e in cima allo scaffale un’intera fila di oro-logi. Pa’ tiene molto a quegli orologi, guai se non li carica! Dice che non dobbiamo mai dimenticare il tempo che passa, e che sen-za Sole né Luna si farebbe presto a non sapere più che ora è.La quarta parete ha coperte dappertutto salvo che intorno al ca-minetto, nel quale arde un fuoco che non deve mai spegnersi.

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2.  molecole:sono le parti più piccole di una sostanza, costituite da aggregazioni di atomi.

Dev’esserci sempre uno di noi a guardia del fuoco. Alcuni degli orologi sono sveglie, e possiamo servirci di quelle per ricordar-ci quand’è il nostro turno. Nei primi tempi c’era solo Ma’ a fare i turni con Pa’ – cerco di pensare a questo, quando lei diventa pro-prio intrattabile – ma ora ci sono anch’io per dare una mano, e anche la mia sorellina.È Pa’, però, il guardiano principale del fuoco. Se penso a lui, pen-so sempre così: un uomo alto che siede a gambe incrociate da-vanti al fuoco, a fissare la fiamma con faccia seria e ansiosa, e che di tanto in tanto prende un pezzo di carbone dal grosso mucchio accanto al focolare e lo posa con cura sulla brace. Pa’ racconta che una volta, nei tempi proprio antichissimi, c’erano le custodi del fuoco – vestali, le chiama lui – sebbene, allora, ci fos-se aria dappertutto e perfino un Sole, e quindi del fuoco si potes-se anche fare a meno.Era seduto proprio in quel modo, quando rientrai, ma natural-mente si affrettò ad alzarsi per togliermi il secchio di mano e darmi una lavata di capo perché ero rimasto fuori troppo tem-po: gli era bastata un’occhiata per accorgersi che avevo il casco incrostato di ghiaccio. Ma’ immediatamente si scosse e si unì a lui per dargli man forte. Pa’ spiega che, per lei, tutte le scu-se sono buone pur di scaricare un poco i nervi, e anche quella volta si affrettò a farla smettere. Sis, per non essere da meno, mandò anche lei un paio di strilli senza senso.Pa’ maneggiava il secchio proteggendosi le mani con un pezzo di panno ben ripiegato. Ora che il secchio era nell’interno del Nido, si poteva veramente constatare fino a che punto era freddo. Sem-brava succhiar via il calore da ogni cosa. Perfino le fiamme si ri-trassero contraendosi quando Pa’ lo posò accanto al fuoco.Eppure, quella sostanza d’un bianco-azzurro luccicante è quella che ci mantiene in vita. Si scioglie lentamente, evapora e così fa-cendo rinfresca il Nido e alimenta il fuoco. Le coperte servono a impedire che la sostanza si disperda troppo in fretta. Pa’ vorreb-be sigillare tutte le fessure, ma non si può: l’edificio è troppo mal-concio a causa dei terremoti, e poi bisogna lasciare aperta la cap-pa del camino, perché vada fuori il fumo. La cappa, nell’interno, ha un dispositivo speciale che Pa’ chiama farfalla, che impedisce all’aria di scappar via troppo in fretta dall’apertura. A volte Pa’, scherzando, dice che gli piacerebbe essere una farfalla per volare su per il tubo e vedere un po’ come fa, quel coso, a funzionare an-cora dopo tanti anni.Dice che l’aria è fatta di tante minuscole molecole2, che volano via in un lampo, se non c’è qualcosa che le trattiene. Dobbiamo stare sempre ben attenti che l’aria non diminuisca troppo. Pa’ ne tiene sempre una buona quantità di riserva, dietro i primi stra-

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3.  squagliare:sciogliere, liquefare.

4.  si condensò:divenne densa, compatta.

5.  Pa’ dice… puro: normalmente l’uomo respira sulla Terra ossigeno non allo stato puro, ma mescolato ad altri gas presenti nell’aria, come l’azoto e l’anidride carbonica, che il narratore ha citato in precedenza; se respirato allo stato puro, l’ossigeno provoca una sensazione di euforia. Per questo Pa’ dice che loro vivono meglio degli antichi re, perché possono godere dell’ebbrezza provocata dall’ossigeno puro.

6.  elio… buffissima: l’elio è un gas, presente nell’atmosfe ra, che può essere ridotto anche allo stato liquido; poco più avanti il narratore spiegherà perché ritiene buffo l’elio liquido.

ti di coperte, insieme con il carbone di scorta, le lattine di roba da mangiare, le bottigliette di vitamine e altre cose, come i sec-chi di neve da squagliare3 per ottenere l’acqua. Non vi dico che faticaccia sia procurarci la neve: ci tocca scendere fino al piano terreno, e, attraverso una porta, uscire all’esterno. Ora vi spiego: quando la Terra si raffreddò, tutta l’acqua che c’era nell’aria si condensò4 per prima, formando dappertutto uno strato alto cir-ca tre metri; poi, sopra di quello caddero i cristalli di aria gelata, formando un altro strato quasi tutto bianco per uno spessore di almeno una ventina di metri.Naturalmente, non tutte le particelle dell’aria si condensarono e presero a fioccare contemporaneamente.La prima a depositarsi fu l’anidride carbonica: quando si scava per prendere l’acqua, bisogna stare attenti a non scavare troppo in basso per evitare di prender su anche l’anidride, altrimenti si rischia di addormentarsi, magari per sempre, e di lasciar spe-gnere il fuoco. Sopra l’anidride c’è l’azoto, che non serve pratica-mente a niente, sebbene sia lo strato più alto di tutti. In cima a quello, e comodo da raccogliere, per nostra fortuna, c’è l’ossige-no che serve a tenerci in vita. È di un azzurro pallido, e quindi è facile distinguerlo dall’azoto. L’ossigeno si congela a una tem-peratura più bassa di quella dell’azoto, ecco perché si depositò per ultimo.Pa’ dice che viviamo meglio di come vivevano i re, respirando os-sigeno puro5, noi, però, ci siamo abituati e quindi non ci faccia-mo caso.Finalmente, proprio in cima in cima, c’è una grande chiazza di elio liquido, che è una sostanza buffissima6.Tutti questi gas formano degli strati esattamente separati tra loro. Come la zuppa inglese, dice Pa’ ridendo; io, però, non l’ho mai mangiata.Scoppiavo dalla voglia di raccontare quello che avevo visto, e non appena mi fui liberato del casco, mentre ancora stavo sguscian-do fuori dalla tuta, cominciai a parlare. All’istante Ma’ si inner-vosì, cominciò a fissare i passaggi d’ingresso tra le coperte, e a torcersi le mani: quella dove le mancano tre dita a causa del con-gelamento all’interno di quella sana, come fa sempre. Capivo che Pa’ ce l’aveva con me per averle messo paura, e che avrebbe volu-to abbreviare l’argomento; d’altra parte, capivo anche che si ren-deva conto della serietà di quanto dicevo.– E tu, sei rimasto a osservare quella luce per un certo tempo? – volle sapere quand’ebbi finito.Non avevo fatto parola della mia prima impressione, e cioè che si trattasse di una faccia di ragazza. Non so perché, mi vergogna-vo a dirlo.

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7.  fuoco fatuo: fiammella di brevissima durata, prodotta dall’ac cen sione spontanea di gas esalati da sostanze organiche nel momento in cui, uscendo dal terreno, vengono a contatto con l’ossigeno.

8.  viscosa: vischiosa, attaccaticcia.

9.  saetta: fulmine.

10.  guglia: punta con cui terminano alcune costruzioni.

11.  aggrottata: corrugata per concen trazione o preoccu­pa zione.

12.  vettovaglie: l’insieme di generi alimentari necessari al sosten ta mento di un certo gruppo di persone.

– Il tempo necessario perché si spostasse lungo cinque finestre e si portasse al piano superiore.– E sei sicuro che non fosse un fuoco fatuo7, o un liquido in mo-vimento, o la luce di una stella riflessa da un ghiacciolo? Sei ben sicuro che non fosse nulla del genere?Intendiamoci, quelle spiegazioni non se le stava certo inventan-do. Accadono cose strane in un mondo tanto gelato quanto più non potrebbe esserlo e proprio quando crederesti che la materia sia completamente stecchita, la vedi animarsi in modo nuovo e stranissimo. Prendiamo l’elio liquido, per esempio: all’improvvi-so vedi una sostanza viscosa8 che avanza strisciando verso il Nido, come un animale in cerca di tepore? È l’elio, che si è mes-so in moto. Ricordo che una volta, quand’ero piccolo, una saetta9 che chissà da dove veniva – nemmeno Pa’ riuscì mai a spiegarse-lo – cadde su una guglia10 poco distante, e continuò a correre su e giù per settimane, fino a che non si spense del tutto.– Non assomigliava a nessuno dei fenomeni che ho visto fino-ra – assicurai.Rimase un momento a riflettere, con la fronte aggrottata11. Poi dichiarò:– Ora torneremo fuori insieme, così me la farai vedere.Ma’ fece un putiferio perché non voleva essere lasciata sola e Sis le diede man forte, naturalmente; ma Pa’ le zittì, tutt’e due. Ci accingemmo a infilarci dentro le tute-da-esterno: la mia era sta-ta messa a scaldare vicino al fuoco. Le ha confezionate Pa’. Han-no un casco di plastica a tre strati, ricavato da vecchi baratto-li trasparenti di rispettabili proporzioni. È un casco di fortuna, ma serve egregiamente a conservare l’aria e il calore. Sostitui-sce l’atmosfera del Nido, per un po’, cioè quel tanto che basta per andare a far rifornimento d’acqua, di vettovaglie12, di carbone e via dicendo.Ma’ ricominciò a piagnucolare:– L’ho sempre sentito, io, che là fuori c’era qualcosa in agguato. Sono anni che lo so: qualcosa che fa parte del freddo, che odia tutto ciò che è calore, e che per questo vuol distruggere il Nido. Ci osservava, durante tutto questo tempo, e adesso ha stabilito di aggredirci. Prenderà te e dopo verrà a cercare me. Non andare, Harry!Pa’ era pronto, gli mancava solo il casco. S’inginocchiò accan-to al camino, allungò una mano sotto la cappa e scosse la lun-ga asta di ferro che serve a scrostare il ghiaccio e impedirgli di ostruire la canna fumaria. Una volta alla settimana, Pa’ sale sul tetto per assicurarsi che tutto sia in ordine. Quella è la nostra spedizione più dura e Pa’ non permette che ci vada io: posso solo accompagnarlo.

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13.  siamo stati… Plutone: l’orbita è la traiettoria descritta da un astro attorno a un altro; in questo caso si tratta della traiettoria di Plutone attorno al Sole; il protagonista ci spiega che l’improvviso passaggio di una stella spenta ha sconvolto la normale orbita della Terra, scagliandola al di là di Plutone, che tra i pianeti del sistema solare è il più distante dal Sole: ecco le ragioni degli sconvolgenti cambiamenti climatici che sono stati descritti.

– Sis – ordinò Pa’, senza scomporsi – vieni a sorvegliare il fuoco. E tieni d’occhio anche l’aria, mi raccomando. Se vedi che comin-cia a calare, o se ti sembra che bolla troppo adagio, prendine un altro secchio da dietro la coperta. Ma attenta alle mani, capito? Usa lo straccio, quando tiri su il secchio.Sis smise di aiutare Ma’ a frignare, si avvicinò e fece come le era stato detto. Ma’ si calmò quasi subito, sebbene i suoi occhi fos-sero ancora atterriti mentre osservava Pa’ che si assestava il ca-sco e si muniva di un secchio. Noialtri due uscimmo, lasciando-le sole.Pa’ fece strada, e io mi attaccai alla sua cintura. È strano, lo so: eppure, se esco da solo non ho paura, ma se vado con Pa’ non posso fare a meno di aggrapparmi a lui. Sarà l’abitudine, imma-gino, e del resto non posso negare che in quel momento un po’ di fifa l’avevo.Mettetevi nei nostri panni, per favore. Sappiamo che, all’ester-no, non è rimasto in vita più niente. Diversi anni fa, Pa’ sentì svanire le ultime voci che arrivavano via radio, e vide morire alcuni degli ultimi sopravvissuti, forse meno fortunati o meno ben protetti di noi. Perciò, se davvero qualcosa si aggirava là fuori, non poteva trattarsi di una persona umana, e tantomeno amica.Per di più, c’è uno stato d’animo particolare, collegato al fatto che è sempre notte, notte gelida. Pa’ dice che questo senso di an-goscia, di inquietudine, esisteva fin dai tempi più remoti, solo che allora il Sole, sorgendo ogni mattina, riusciva a scacciar-lo. Devo accontentarmi della sua parola, naturalmente, perché il Sole, per me, non è mai stato altro che una grossa stella. Io, vedete, non ero ancora nato quando l’astro spento ci strappò al Sole; da allora siamo stati trascinati al di là dell’orbita del piane-ta Plutone13 – così afferma Pa’ – e continuiamo a essere traspor-tati sempre più lontano.Pa’ accostò il suo casco al mio, in modo che potessimo intender-ci più facilmente, e mi pregò di indicargli le finestre. Ma, al mo-mento, nessuna luce si muoveva all’interno del fabbricato, e nem-meno altrove. Con mia grande sorpresa, Pa’ non andò in collera con me, accusandomi di essere un visionario. Continuò a guar-darsi intorno per un pezzo, anche dopo che aveva riempito il sec-chio, e un istante prima di rientrare tornò a voltarsi di scatto, quasi volesse cogliere di sorpresa una presenza in agguato.Anch’io avvertivo qualcosa, del resto. L’antica pace era finita per sempre. Qualcosa si annidava là fuori, e ci spiava, aspettando, preparandosi all’azione.Una volta rientrati, Pa’ raccomandò, accostando il suo casco al mio:

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14.  trastullan doci: divertendoci con giochi e passatempi.

– Se ti capita di vedere ancora qualcosa del genere, non dire niente a Ma’ e a Sis, capito? La mamma è molto nervosa, da un po’ di tempo in qua, e dobbiamo fare in modo che si senta tran-quilla il più possibile. C’è stato un tempo, e precisamente quan-do stava per nascere tua sorella, in cui io ero deciso a darmi per vinto e ad aspettare la morte, ma tua madre mi diede il coraggio di resistere. E un’altra volta, mentre io ero ammalato, mantenne il fuoco acceso da sola, per una settimana intera. E in più, cura-va me e badava a voi due. Ricordi quel gioco che facciamo ogni tanto nel Nido, quando ci sediamo ai quattro angoli e ci lan-ciamo la palla l’uno con l’altro? Be’, vedi, il coraggio è appunto come una palla. Una persona può reggerlo fino a un certo pun-to, poi deve passarlo a qualcun altro. Quando viene lanciato a te, devi afferrarlo e tenerlo ben stretto… e sperare che ci sia qual-cun altro cui rilanciarlo, quando ti sarai stancato di mostrarti coraggioso.A parlarmi in quel modo mi faceva sentire adulto e buono; que-sto non bastava, però, a cancellare dalla mia mente quella pre-senza all’esterno… né il fatto che anche Pa’ prendesse la cosa tanto sul serio.È difficile, in casi del genere, nascondere i propri sentimenti. Quando rientrammo nel Nido e ci sfilammo le tute e i caschi, Pa’ rise dei nostri timori, spiegò che non c’era assolutamente niente e mi canzonò per le mie fantasie, ma le sue parole suonavano fal-se. Non riuscì a convincere Ma’ e Sis proprio come non convince-va me. Per un buon minuto, parve come se tutti e quattro stessi-mo trastullandoci14 con la palla-coraggio. Bisognava fare qual-cosa, e prima ancora di rendermi conto di quanto stavo per dire, mi udii pregare Pa’ di raccontarci dei tempi andati, e di come si erano svolte le cose.A lui non dispiace, ogni tanto, ripetere quel racconto, e Sis e io siamo ben contenti di starlo a sentire. Pa’ afferrò al volo la mia proposta: ci sistemammo tutti davanti al fuoco, in semicerchio. Ma’ mise alcune scatolette a scaldare, per la cena, e Pa’ cominciò. Prima di iniziare il racconto, però, mi accorsi che, senza averne l’aria, aveva preso un martello dallo scaffale, e l’aveva posato ac-canto a sé.Era la solita vecchia storia di sempre – credo che potrei recitar-la a memoria perfino nel sonno, almeno per sommi capi – ma Pa’ ci aggiunge ogni volta un particolare o due, e si sforza di movi-mentare la narrazione.Ci raccontò come la Terra avesse sempre girato attorno al Sole, sempre calda e stabile, e come la gente che la popolava non pen-sasse ad altro che a far denaro, a far la guerra, a divertirsi, a di-ventare potente e a farsi dei torti o dei favori, quando tutto a un

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15.  fosche:cupe, pes simistiche.

16.  fiori di ghiaccio: cristalli formati dal ghiaccio, che possono ricordare un fiore.

tratto ecco che piomba dallo spazio quell’astro morto, quella stel-la spenta, e viene a sconvolgere ogni cosa.Sapete, trovo difficile immedesimarmi nel modo di pensare di quella gente, proprio come non mi riesce di credere che fosse-ro in tanti. E poi, quell’orribile guerra che si preparavano a fare! Vivevano in un tale stato di paura, che molti di loro erano arri-vati al punto di desiderare che scoppiasse, per non pensarci più.A volte penso che Pa’ esageri, e dipinga i fatti a tinte troppo fo-sche15. Ogni tanto si arrabbia con noi, e non è escluso che, a quel tempo, fosse arrabbiato contro i suoi numerosissimi simili. D’altra parte, alcune delle cose che ho letto nelle antiche riviste sono davvero pazzesche, quindi può darsi che abbia ragione lui.Ce ne stavamo tutti assolutamente immobili. Perfino il fuoco arde-va silenzioso. Si udiva solo la voce di mio padre, e il ticchettìo de-gli orologi.D’un tratto, dietro le coperte, mi parve di avvertire un lieve fru-scio. Mi sentii accapponare la pelle da capo a piedi.Pa’ stava descrivendo i primi anni di vita del Nido, ed era arriva-to al punto in cui si mette a filosofare.– E così – stava dicendo – a questo punto domandai a me stesso: a che scopo tirare avanti per altri pochi anni? Perché prolunga-re un’esistenza disperata, fatta di dure fatiche, di gelo e di soli-tudine? La razza umana è condannata. La Terra è condannata. Perché non darsi per vinti? Così domandavo a me stesso… e a un tratto trovai la risposta.Di nuovo udii il rumore, stavolta più forte, come una specie di pas-so strascicato, sempre più vicino. Mi sentivo mancare il respiro.– La vita è sempre stata così – stava dicendo Pa’. – Lavorar sodo e lottare contro il freddo. La Terra è sempre stata un posto soli-tario, a milioni di chilometri dal pianeta più vicino. Per quanto a lungo fosse potuta durare la razza umana, la fine sarebbe ve-nuta ugualmente, una volta o l’altra. Ma tutto questo non conta. Quello che conta è che la vita è preziosa. Ha una consistenza me-ravigliosa, come una pelliccia folta, o come i petali dei fiori (voi ragazzi non sapete che cosa sia un fiore, però avete visto i fiori di ghiaccio16) o come le fiamme, sempre uguali eppure sempre diverse. È lei, la vita, a far sì che qualsiasi cosa valga la pena di essere affrontata. E questo vale per l’ultimo uomo come per il primo.I passi continuavano a strisciare, sempre più vicini. Mi sembrava che una delle coperte si agitasse, mostrando un lieve rigonfio.– E in quel momento – continuò Pa’, e ormai ero certo che anche lui aveva udito quei passi, e parlava forte nella speranza che noi non li sentissimo – in quel momento giurai a me stesso che avrei continuato come se avessimo tutta l’eternità davanti a noi. Avrei

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17.  brandire: impugnare.

18.  Los Alamos: città degli Stati Uniti, nel New Mexico, centro di ricerche nucleari.

19.  uranio… plutonio: minerali radioattivi impiegati per la produzione di energia atomica, anche a scopi militari.

20.  città pressurizzata: città in cui l’aria e la sua pressione vengono prodotte artifi cial mente.

21.  con compartimenti stagni: locali isolati e chiusi a qualunque contatto.

avuto dei figli e avrei insegnato loro tutto quello che sapevo. Li avrei messi in grado di leggere. Avrei fatto progetti per il futuro, tentato di ingrandire e rendere più sicuro il Nido. Avrei fatto tut-to il possibile perché ogni cosa restasse bella e viva. E avrei ali-mentato il mio senso di meraviglia perfino nei confronti del gelo, del buio e delle stelle lontane.Poi la coperta si mosse realmente e si sollevò e una luce vivida brillò in mezzo a quei drappi. Pa’ tacque bruscamente e i suoi oc-chi corsero all’apertura che si allargava sempre più mentre la sua mano brancolava fino a toccare e brandire17 il martello po-sato lì accanto.Attraverso la tenda scostata la bella ragazza entrò. Rimase a fis-sarci in modo strano, e in mano reggeva qualcosa di vividamen-te luminoso. Altre due facce scrutavano da sopra le spalle di lei: facce d’uomini, bianche e con gli occhi sbarrati.Bene, il mio cuore saltò di sicuro quattro o cinque battiti prima che mi rendessi conto che la donna indossava una tuta e un casco come quelli fatti in casa da mio padre, solo più complicati, e che anche gli uomini erano vestiti così… Inoltre, notai, la cosa lumi-nosa che teneva in mano era semplicemente una specie di torcia.Ripiegandosi piano piano su se stessa, Ma’ svenne.Il silenzio durò il tempo sufficiente perché io deglutissi un paio di volte, dopo di che cominciarono a parlare tutti insieme, facen-do una confusione del diavolo.Erano persone come noi, capite? Non eravamo affatto gli uni-ci superstiti: l’avevamo soltanto creduto, per ragioni abbastanza comprensibili. Quelle tre persone erano riuscite a sopravvivere come noi, e con loro diversi altri. E quando venimmo a sapere in che modo erano riusciti a cavarsela, Pa’ mandò un urlo di gioia addirittura assordante.Erano di Los Alamos18 e ricavavano il calore e la corrente dall’energia atomica. Grazie all’uranio e al plutonio19 destinati alle bombe, avevano di che andare avanti per migliaia d’anni. Avevano una vera e propria città pressurizzata20 con comparti-menti stagni21 e via dicendo. Riuscivano perfino a produrre la luce elettrica che gli permetteva di allevare piante e animali. (Al che, Pa’ mandò un secondo «urrah» di gioia, svegliando la mam-ma dal suo svenimento).Ma se noi eravamo sbalorditi, doppiamente sbalorditi erano loro.Uno degli uomini continuava a ripetere:– Ma è impossibile, vi dico. Non si può mantenere aerato un lo-cale senza i compartimenti stagni. È semplicemente assurdo!Questo dopo che si era tolto il casco, e stava respirando tranquil-lamente la nostra aria. Nel frattempo, la bella ragazza continua-va a fissarci come se fossimo dei santi, ripetendoci che avevamo

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22.  propel len te: combustibile usato per dare propulsione, cioè spinta, a razzi o missili.

23.  ionosfera: strato superiore dell’atmo sfera terrestre collocato tra i 60 e i 500 chilometri di altezza.

24.  curvatura terrestre: le onde radio, senza più atmosfera e ionosfera, procedono in linea retta e non possono raggiungere (a causa della forma sferica della Terra) chi si trova oltre la linea dell’orizzonte.

25.  si profondevano in lodi sperticate: si lasciavano andare a lodi e complimenti eccessivi, esagerati.

compiuto qualcosa di strabiliante, e all’im-provviso la voce le mancò e scoppiò in lacri-me.Stavano facendo un viaggio di perlustra-zione alla ricerca di sopravvissuti, ma non si sarebbero mai aspettati di trovarne in un posto del genere. A Los Alamos aveva-no navi spaziali e propellente22 a volontà. Quanto all’ossigeno liquido, non doveva-no fare altro che uscire all’esterno e lavora-re di badile sullo strato superiore della col-tre d’aria condensata. Così, una volta avvia-te per benino le cose a Los Alamos, impresa che aveva richiesto qualche anno, avevano deciso di fare qualche spedizione nelle loca-lità dove poteva essere più probabile trovare dei superstiti. Inutile tentare di lanciare ap-pelli con la radio, naturalmente, mancando l’atmosfera e la ionosfera23 necessarie a tra-sportarli attorno alla curvatura terrestre24. Ecco perché la radio a un certo punto aveva taciuto del tutto.Bene, avevano trovato altre colonie ad Ar-gonne e a Brookhaven, e in luoghi molto più lontani come Har-well e Tanna Tuva. Ed erano venuti anche a dare un’occhiata alla nostra città, sebbene fossero convinti di non trovare assoluta-mente niente. Ma erano in possesso di un apparecchio in grado di captare anche le più deboli onde di calore, e questo aveva indi-cato loro che quaggiù c’era qualcosa di caldo, per cui erano atter-rati per indagare. Naturalmente non li avevamo sentiti atterrare, dato che non c’era l’aria a trasportare i rumori, e loro avevano do-vuto frugare attorno un bel po’, prima di scovarci. La direzione indicata dai loro strumenti era lievemente inesatta, quindi aveva-no sprecato diverso tempo a cercarci nel palazzo di fronte.Ormai i cinque adulti parlavano tutti insieme, facendo confusio-ne per cento. Pa’ stava spiegando agli uomini come aveva tenu-to vivo il fuoco, come era riuscito a scrostare il ghiaccio dal co-mignolo, eccetera. Ma’ si era rianimata in modo straordinario e stava mostrando alla ragazza tutti i suoi arnesi per cucinare e per cucire; s’informava perfino di come vestissero le signore a Los Alamos. I nuovi arrivati si meravigliavano di tutto e si pro-fondevano in lodi sperticate25. Capivo benissimo, da come arric-ciavano il naso, che trovavano il Nido un tantino puzzolente, ma naturalmente si guardavano bene dal dirlo e non si stancavano mai di fare domande.

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26.   svenevo lezze: pensieri e comporta menti troppo languidi e sdolcinati.

27.  pionieri: coloro che vanno alla ricerca di nuove terre e nuove vie.

E anzi, a tal punto erano arrivate le chiacchiere e la confusio-ne che Pa’ si dimenticò di tutto, e solo quando cominciammo a sentirci tutti un po’ storditi si ricordò di controllare e scoprì che il secchio dell’aria era praticamente vuoto. Subito si precipitò a prenderne un altro da dietro le coperte, dopo di che le risate e le chiacchiere ricominciarono più assordanti che mai. I nostri visi-tatori erano perfino un po’ ubriachi: non erano abituati a respi-rare tutto quell’ossigeno.Cosa strana, però, io non avevo quasi aperto bocca e Sis non si staccava un momento dalla sottana di Ma’ e nascondeva la fac-cia appena qualcuno la guardava. Anch’io mi sentivo turbato e a disagio, perfino dalla presenza della ragazza. Quando l’avevo vi-sta all’esterno, m’era passata per la mente ogni sorta di svenevo-lezze26, mentre ora mi sentivo soltanto imbarazzato e intimidito, benché lei facesse il possibile per mostrarsi cordiale con me.Quasi desideravo, in cuor mio, che la piantassero di affollare il Nido, e ci lasciassero soli, per poter raccogliere in pace le nostre idee.E quando i nuovi arrivati cominciarono a parlare di quando sa-remmo stati tutti a Los Alamos, come se il nostro trasferimen-to laggiù fosse un fatto già scontato in partenza, mi accorsi che anche Pa’ e Ma’ provavano qualcosa di simile a quel che provavo io. Pa’, tutt’a un tratto, s’era fatto taciturno, e Ma’ continuava a ripetere alla nostra ospite:– Ma io non saprei come comportarmi, laggiù, e poi non ho nien-te da mettermi.Da principio quegli estranei ci guardavano perplessi, ma un po’ alla volta finirono per comprenderci. Anche Ma’, come Pa’, ripete-va continuamente:– Non sembra giusto lasciare che questo fuoco si spenga.Bene, i visitatori se ne sono andati, ma torneranno. Per ora non è stato deciso niente sul da farsi. Forse il Nido verrà mantenuto come «scuola di sopravvivenza»; così, almeno, si è espresso uno di quei tre. O forse ci uniremo ai pionieri27 che andranno a tentar di fondare una nuova colonia nel Congo.Naturalmente, da quando gli stranieri se ne sono andati, io non ho fatto che pensare a Los Alamos e a tutte quelle altre immen-se colonie. Confesso che ho una voglia matta di andarle a vedere con i miei occhi.E se volete il mio parere, giurerei che anche Pa’ muore dalla vo-glia di vederle. Mi sono accorto che osservava Ma’ e Sis diventa-re sempre più allegre e animate, e si faceva via via più pensoso.– È diverso, ora che sappiamo che anche altri sono vivi – ha spie-gato, rivolto a me. – Tua madre non è più così avvilita, e nemme-no io, per la verità, ora che la responsabilità di mandare avanti la

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razza umana, diciamo così, non poggia più tutta sulle mie spalle. Un uomo ha paura di un peso simile.Ho guardato, attorno a me, le pareti di coperte, e il fuoco, e i sec-chi d’aria che borbottano, e Ma’ e Sis addormentate al tepore del-la fiamma che ci rischiara con la sua luce tremolante.– Non sarà facile abbandonare il Nido – ho osservato, con uno strano desiderio di piangere. – È così piccolo e riparato, con noi quattro soli e nessun altro. Mi fa paura l’idea di trovarmi in po-sti grandi, in mezzo a tanta gente.Lui ha assentito in silenzio, e ha messo un altro pezzo di carbo-ne sul fuoco. Poi ha guardato il mucchietto di braci, improvvisa-mente ha sorriso e ha aggiunto un paio di manciate di carbone, proprio come se fosse il compleanno di uno di noi o Natale.– È una paura che ti passerà in fretta – ha detto. – Il guaio, vedi, è che il mondo stava diventando sempre più piccolo, finché ci ri-mase solamente il Nido. Ma ora sarà bello ricominciare a costru-ire un mondo sempre più grande, proprio com’era all’inizio.Credo che abbia ragione. Credete che quella bella ragazza sarà disposta ad aspettare che diventi grande anch’io? Ho provato a domandarglielo, e lei mi ha ringraziato con un bel sorriso; poi mi ha spiegato che ha una figlia press’a poco della mia età, e che in quelle città atomiche ci sono moltissimi ragazzi. Ma ci pensate?

F. Leiber, L’ombra del 2000, Mondadori

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

Leigh BrackettI negri verdiÈ fantascienza pensare che in futuro nessuno odierà un altro essere vivente soltanto per il diverso colore della pelle?Questo racconto ci conferma come spesso, nella fantascienza, la spettacolarità delle invenzioni fantastiche sia una veste esteriore in cui calare una visione realistica dei problemi che l’uomo attuale non ha ancora superato.

1.  saturo: colmo.

Nella vallata pioveva ininterrottamente da trentasei ore. Il terreno era saturo1. Ogni piega dei fianchi scoscesi delle

colline versava un torrente fangoso, che si scavava il letto per scendere a valle e gettarsi nel fiume. E il fiume, non più lento e pigro, rumoreggiava avventandosi come un nuovo Mississippi contro gli argini, allagando di giallo i campi, i frutteti, le stra-de di campagna e quelle della città di Grand Falls, dove la gente aveva abbandonato le case per cercare salvezza in zone più alte. Piante sradicate e tronchi d’albero urtavano contro i vecchi edifi-ci in legno della strada principale. Nell’atrio del Grand Falls Ho-tel, i portacenere di ottone galleggiavano rasente al soffitto, ri-suonando in modo lugubre tutte le volte che si toccavano.In alto, sulla cima delle montagne che chiudevano la valle a sud-est e a nord-ovest, due piccoli meccanismi, nascosti da mano esperta, ronzavano impercettibilmente, senza interruzione. Si chiamavano «miniseminatori», e non erano stati costruiti dagli abitanti della Terra. La loro carica si sarebbe esaurita entro un paio di giorni, ma per il momento erano efficienti, e lanciavano contro il cielo fasci di particelle che generavano nuvole nell’atti-mo stesso in cui superavano la cresta delle montagne.

5. Ritorno al futuro un futuro di giustizia… o no?

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2.  tecnica di controllo meteorologico: tecnica per il controllo del tempo atmosferico.

3.  civiltà galattica: civiltà che accomuna coloro che provengono da una determinata galassia, cioè da un sistema formato da un immenso raggrup pamento di stelle con i loro pianeti.

4.  cosmopolita: detto di chi ha viaggiato molto e considera una patria il mondo intero; qui per estensione significa proveniente da ogni angolo dell’universo.

Nella vallata continuava a piovere.Quella era la prima grande missione affidata interamente alla sua responsabilità, senza altri superiori diretti tranne quelli del Centro Galattico: e questi erano molto, molto lontani. Flin non era del tutto sicuro di poter portare a termine il suo incarico.Diminuì la velocità dell’ingombrante veicolo terrestre e cercò di spiegare a Ruvi quello che provava.– Ma guardati intorno… Come è possibile trasformare questo caos in un mondo civile?Lei girò la testa di scatto, come le era abituale.– Hai paura, Flin?– Temo di sì.Si vergognava ad ammetterlo, soprattutto perché non erano la difficoltà e l’importanza del lavoro a intimidirlo, quanto il piane-ta stesso.Su Mantaka, il suo pianeta di origine, aveva studiato tecnica di controllo meteorologico2, una delle loro prime conquiste scienti-fiche. Poi aveva fatto pratica e compiuto ricerche su cinque mon-di diversi, due dei quali abbastanza primitivi. Ma non era mai stato su un pianeta totalmente staccato dalla civiltà galattica3 come quello.Gli Osservatori Periferici avevano avuto i primi contatti con i lontani sistemi soltanto una ventina d’anni prima, ancora trop-po presto perché i nativi fossero già abituati alla presenza degli stranieri. Anche nei grandi centri urbani, uno straniero come lui difficilmente poteva camminare per strada senza attirare at-tenzione e commenti, molti dei quali non certo cortesi. Giungen-do dai mondi della Federazione, abitati da gente cosmopolita4, Flin trovava difficile adattarsi alla nuova situazione.Ma il Centro Galattico era entusiasta di questi mondi oltre confi-ne, perché alcuni avevano raggiunto un grado di civiltà sorpren-dentemente alto, nonostante il loro completo isolamento. Il Cen-tro aveva deciso quindi di mandare istruttori e tecnici, ed era per questo che Flin, molto prima del previsto, era stato incarica-to di guidare una squadra di quattro esperti di controllo meteo-rologico.Era stata un’occasione meravigliosa, con splendide prospettive per il futuro. L’aumento dello stipendio gli aveva poi permesso di prendere Ruvi in moglie molto prima di quanto avesse mai osa-to sperare.Ma non aveva previsto la solitudine, la costante incertezza delle relazioni, e la mancanza di tutti gli immensi appoggi che poteva avere sui mondi della Federazione.Faceva caldo.Sdraiata nell’angolo del grande sedile imbottito, con gli occhi

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5.  acre: pungente.

socchiusi e la faccia graziosa coper-ta di sudore, Ruvi aveva l’aria triste e sconsolata.– Pensavo a casa nostra – disse a un tratto – e al denaro…– Sono cose cui bisogna pensare.I boschi sfilavano ai lati, pieni di ombre profonde. Si sentivano lo stormire delle foglie e l’acre5 odore della polvere. Flin e Ruvi passarono davanti a specie di «stazioni» per la produzione del cibo secondo sistemi ormai scomparsi da secoli dai mon-di della Federazione: il terreno veni-va in parte coltivato, in parte lascia-to a pascolo, e i lavori erano diretti da un solo uomo e dalla sua fami-glia. Attraversarono anche piccole città dai nomi bizzarri dove la gen-te li guardava sbalordita, e i bambini li indicavano gridando: «I negri verdi! Guardate, i negri verdi!».Flin studiò le case. Erano diverse una dall’altra, e completamen-te dissimili da quelle del suo mondo, anche se basate tutte sullo stesso principio. Cercò di immaginare quale fosse la vita in una di quelle città, in una di quelle case di legno, di pietra, o di mat-toni, decorate in modo curioso e con i tetti a punta. Forse Sher-bondy non aveva torto. Quelli della Federazione avrebbero dovu-to tentare di abituarsi alla vita quotidiana del pianeta, e di fami-liarizzarsi con ciò che la gente pensava e sentiva, per poter far parte del mondo che li circondava; un mondo che entro qualche decennio sarebbe cambiato radicalmente.Alcuni mutamenti erano già in corso. Quando erano arrivate le astronavi degli Osservatori, il pianeta, che i nativi chiamava-no Terra, cominciava a muovere i primi incerti passi nello spa-zio. Con i tecnici della Federazione, e con le loro teorie, questo processo era stato accelerato enormemente. Da sette o otto anni, le prime astronavi con pilota, costruite sulla Terra, erano state affidate a personale addestrato dai tecnici della Federazione, e compivano limitati servizi nello spazio. Gruppi simili a quello di Flin eseguivano ricerche non solo per attuare il controllo meteo-rologico, ma anche per l’unificazione totale e, soprattutto, la pa-cificazione… l’importantissima cosa che avrebbe permesso alla Terra di entrare a far parte della Federazione.Tutte cose, però, che non erano ancora sentite dalla popolazione locale come importanti necessità.

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6.  che mostrava la corda: molto consumato.

7.  rancido: andato a male.

8.  decadenza: declino, perdita della vitalità.

– Sono stanca e affamata – disse Ruvi. – Fermiamoci.– Alla prima città con ristorante.Ai lati della strada cominciarono a vedersi cartelli pubblicitari.– Guarda, è un albergo – disse Ruvi indicando. – Prima di cena voglio fare un bagno freddo!Flin guardò, perplesso, l’albergo.– Mi domando se avranno camere con bagno…Il loro entusiasmo si era improvvisamente raffreddato.– Per dormirci una notte, può andar bene – disse Ruvi. – La prossima città deve essere molto lontana, e qui non credo che sia possibile trovare qualcosa di meglio.Flin accostò, borbottando, al marciapiede, e si fermò.Ci fu un rumore di sedie smosse nell’attimo in cui gli uomini seduti sotto il portico si alzarono per accostarsi. Flin scese e girò intorno alla macchina. Sorrise a quelli che si erano avvici-nati, ma tutti si limitarono a soffiare boccate di fumo, scrutan-do lui, la vettura, le insegne del governo, e Ruvi.Flin si voltò per aprire la portiera. Da sopra il tetto del veico-lo vide diverse persone che stavano attraversando la strada. Un gran numero di ragazzini, spuntati chissà da dove, si erano rac-colti intorno alla macchina come uno sciame d’insetti, con gli oc-chi scintillanti di eccitazione.Aiutò Ruvi a scendere. La luce che usciva dalla porta d’ingres-so dell’albergo illuminò la tunica gialla e i capelli d’argento del-la ragazza.Dalla piccola folla si alzò la voce stridula di un uomo.– Verdi come l’erba, mio Dio!Ci fu uno scoppio di risa, e qualcuno fischiò.Flin si sentì fremere, ma non disse una sola parola, né si girò a guardare quelli che si erano assiepati lì attorno. Prese Ruvi sot-to braccio ed entrò nell’albergo.Avanzarono su un tappeto logoro tra pesanti poltrone ricoperte di pelle consunta e velluto che mostrava la corda6. Due o tre ven-tilatori giravano lentamente, appesi al soffitto, senza riuscire a smuovere l’aria calda né a disturbare le farfalle entrate per svo-lazzare attorno alle lampade. Si sentiva un odore che Flin non riusciva a identificare: di polvere, di tabacco rancido7, e di qual-cos’altro… di età, forse, e di decadenza8.Dietro un grande banco di legno, un uomo con i capelli grigi si era alzato appoggiando le mani sul piano liscio e li guardava avanzare.Gli uomini della strada entrarono nell’atrio, accalcandosi per passare per primi. Sembravano guidati da un tipo con la faccia rossa, che portava un amuleto appeso a una catena d’oro dondo-lante sulla pancia voluminosa.

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9.  con malcelata insolenza: con arroganza e maledu ca zione evidenti, non ben nascoste.

Flin e Ruvi si fermarono davanti al banco. Ancora una volta Flin sorrise.– Buona sera – disse.L’uomo dai capelli grigi osservò quelli che erano entrati, ag-giungendo il loro puzzo di sudore agli odori che già stagnavano all’interno dell’edificio. Avevano smesso di vociare, quasi in atte-sa. I ventilatori appesi al soffitto ronzavano leggermente.L’uomo dai capelli grigi tossicchiò per schiarire la voce. Poi sor-rise, ma non in segno di amicizia.– Se volete una stanza – disse a voce alta, quasi che parlasse con quelli fermi in fondo alla sala – non vi posso accontentare… Mi dispiace, ma siamo al completo.– Al completo? – ripeté Flin.– Al completo – prese il grosso libro aperto sul banco e lo chiuse con una specie di gesto cerimoniale. – Voi mi capite, vero? Non vi rifiuto la camera. Il fatto è che non ne abbiamo di disponibili.Guardò ancora una volta gli uomini raccolti vicino alla porta, e nella sala si sentì il rumore di risa soffocate.– Ma… – disse Ruvi in tono di protesta.Flin le strinse il braccio, e Ruvi tacque. Lui era diventato rosso di collera. Sapeva benissimo che l’uomo dai capelli grigi stava mentendo, e che la menzogna era stata sollecitata, e adesso era approvata, dagli altri. Non capiva perché, ma lo sapeva. E sapeva che sarebbe stato inutile discutere. Così cercò di parlare nel tono più gentile.– Capisco. Forse potete indicarci qualche albergo dove…– Non ne conosco – disse l’altro, scuotendo la testa. – Proprio non ne conosco…– Vi ringrazio –. Prese Ruvi sottobraccio e riattraversò l’atrio.La folla era aumentata. Flin pensò che mezza popolazione di Grand Falls doveva essersi radunata attorno all’albergo. Il grup-po di poco prima, triplicato, bloccava la porta. Qualcuno si spo-stò per lasciar passare Ruvi e Flin, ma lo fecero con malcelata insolenza9 scrutando la donna, tanto da costringerla a cammi-nare a testa bassa.Flin avanzò lentamente, costringendosi a non far loro caso e a non mostrare paura. Ma la loro vicinanza, il puzzo di sudore e la minaccia muta che non riusciva a comprendere gli tesero doloro-samente i nervi.Varcò la soglia, sfiorando una ragazza. E la ragazza fece un bal-zo indietro, fingendo di avere una grande paura. C’era un grup-po di altri giovani con lei, e tutti cominciarono a fingersi terro-rizzati. La folla si era fatta rumorosa. Si vedevano anche molte donne. Flin aspettò pazientemente che la gente si spostasse e ri-uscì ad avanzare verso la macchina, un passo alla volta. Sulla

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10.  roccaforti: fortezze, luoghi fortificati. Gli abitanti della città persistono nella loro mentalità razzista e si sentono assediati da un mondo che evolve verso la tolleranza.

11.  l’integra zione: la convivenza pacifica di razze diverse, resa possibile dalla compren sione e dall’ac­cettazione delle diverse culture.

sua testa intanto si intrecciavano i commenti.– … non sono mica umani!– Ehi, verdino, non date da mangiare alle donne sul vostro pia-neta? Guardate com’è magra…– Come fanno ad avere capelli del genere?– … quando li ho visti alla tivù ho detto a Jack: Jack, se mi do-vesse capitare di vederli per strada…– Ehi, verdino, è vero che le vostre donne depongono le uova?Risate. Frasi di scherno. E qualcosa di più profondo… Qualcosa di più cattivo… Qualcosa che Flin non riusciva a capire.Raggiunse la macchina e fece salire Ruvi.– Stai calma. Fra poco ce ne andiamo – le disse nella loro lin-gua, chiudendo la portiera.– Mamma mia! Come fanno ad avere macchine più grandi delle nostre?– Il governo li paga profumatamente! Ci devono insegnare tutto quello che ancora non sappiamo!– Fai presto! – mormorò Ruvi.[…]Un uomo si rivolse a Flin:– Per anni, sullo schermo della mia televisione, ho visto facce verdi come la vostra, ne ho viste di rosse, di blu, di gialle… di tutti i colori dell’arcobaleno, e vorrei sapere una cosa. Avete mai visto degli esseri bianchi nello spazio?– Già! – dissero molte voci, e quasi tutti fecero un cenno di ap-provazione.Anche il giudice Shaw fece un cenno affermativo.– Vedo che avete posto la domanda che tutti volevano fare, Sam.– Volevo dire – continuò Sam – che questa è una città di bianchi. Oggi, in altre città possiamo trovare bianchi e neri che convivo-no come se fossero della stessa razza. Qui però la situazione è di-versa, qui e in altri centri abitati che possono venire definiti roc-caforti10. E non abbiamo mai infranto nessuna legge, né rifiu-tato l’integrazione11, sia inteso. È capitato soltanto che per una ragione o per l’altra la gente di colore che viveva nei dintorni ha deciso di andare da qualche altra parte.Dalla folla si levò un mormorìo di conferma.– Così non c’è stato bisogno dell’integrazione. Da vent’anni non abbiamo più problemi di colore, e non vogliamo averne!La folla approvò con entusiasmo.– Quello che vorremmo farvi capire – disse Shaw con la sua voce autoritaria – quello che vorremmo far arrivare alle orecchie di tutti gli interessati, è che noi desideriamo vivere la nostra vita e governare le nostre città come più ci piace. Questa nostra vec-chia Terra è già bella così com’è, e non abbiamo mai avuto bi-

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sogno che degli stranieri venissero a dirci quello che dobbiamo fare. Quindi, non ci possiamo mostrare amici, capite? Non sia-mo irragionevoli, e siamo disposti ad ascoltare, per poi formarci un’idea nostra. Comunque, a voi conviene capire alla svelta che qualunque cosa si dica o si faccia nelle grandi città, noi non ac-cetteremo mai di venire istruiti da un branco di gente di colore. E non ha la minima importanza di che maledetto colore siano. Se…Ruvi lanciò un grido.Flin si girò di scatto. Alcuni giovani che puzzavano d’alcol si erano avvicinati alla macchina e stavano chini all’altezza del fi-nestrino. Ridevano, poi uno di loro disse:– Che cosa succede? Io stavo soltanto…– Flin, ti prego!Poteva vedere Ruvi da sopra le schiene curve dei giovani; si era spostata al centro dell’auto, il più lontano possibile da loro. Altre facce ghignavano, al finestrino opposto.– Ora l’hai fatta spaventare, Jed. Non ti vergogni?Flin fece due passi verso la macchina, scostando violentemente l’uomo che si trovava sul suo cammino. Non vide chi era: vede-va soltanto la faccia terrorizzata di Ruvi e le schiene dei giovani.– Via di lì! – gridò.Le risa cessarono. I teppisti si rialzarono lentamente.– Ho sentito parlare qualcuno? – domandò uno di loro.– Avete sentito me – disse Flin. – Toglietevi di lì.Quelli si girarono, e la folla rimase a guardare in silenzio. I gio-vani erano alti, e avevano mani enormi. Le bocche leggermente socchiuse mostravano i denti bianchi. Sorrisero e guardarono Flin con occhi crudeli.– Non mi piace il vostro tono – disse quello che era stato chia-mato Jed.– E a me non importa un accidente!– Sopporti una risposta del genere, Jed? – gridò qualcuno. – Da un negro, anche se è verde?Ci fu uno scoppio di risa. Jed sorrise e spostò il peso del corpo in avanti, sulle ginocchia piegate.– Stavo solo cercando di parlare amichevolmente con la vostra donna – disse. – Non dovreste fare obiezioni!Alzò una mano e sferrò un colpo a dita rigide contro il petto di Flin.Flin fece un passo indietro. Tutto pareva muoversi con estre-ma lentezza, in uno strano vuoto gelido, che in quel momento conteneva soltanto lui e Jed. Era conscio di una nuova, terri-bile sensazione, qualcosa che non aveva mai provato prima di allora. Avanzò, con decisione, ma senza fretta. Piedi e mani fe-

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cero quattro movimenti. Li aveva ripetuti infinite volte, in pa-lestra, durante gli incontri amichevoli di lotta, ma non li ave-va mai compiuti in quel modo, con tutta la sua forza, con odio, con il desiderio di fare del male. Guardò il sangue che usciva dal naso di Jed. E guardò il giovane che cadeva a terra, pre-mendosi il ventre con le mani.Fuori del vuoto senza tempo in cui si trovava, Flin percepì altri movimenti e rumori. Dapprima lentamente, poi con grande rapi-dità, tutto divenne chiaro. Il giudice Shaw si era messo di fronte a Flin. Altri aiutavano Jed a sollevarsi da terra. Un uomo pan-ciuto, con un distintivo appuntato alla camicia, stava agitando le braccia per allontanare la gente dalla macchina, amici di Jed compresi. Si sentiva un vociare di persone impaurite, e Shaw che gridava in tono autoritario, rivolto alla folla:– Calmatevi, tutti quanti. Non vogliamo disordini.Poi il giudice girò la testa, rivolgendosi a Flin. – Vi consiglio di andarvene il più presto possibile.Flin girò intorno alla macchina, dalla parte dove il poliziotto aveva allontanato la gente. Si mise al posto di guida e avviò il motore. La folla si fece avanti, quasi che volesse cercare di fer-marlo a dispetto di Shaw e del poliziotto. Di scatto, Flin sporse la testa dal finestrino e cominciò a gridare:– Sì, ci sono degli esseri bianchi tra noi, uno ogni diecimila. Non pensiamo che sia una cosa anormale, e li trattiamo come esseri simili a noi! Non vi potete nascondere all’universo. E finirete con l’essere sommersi dai colori… da tutti i colori dell’arcobaleno!In quel momento capì che era proprio quello il loro timore.Innestò la marcia e partì di scatto. Tutti si tolsero rapidamente dalla strada. Si levarono delle grida, e alcuni sassi colpirono il tetto e i fianchi della macchina. Poi la carreggiata fu sgombra, e Flin spinse a fondo l’acceleratore. Le luci si diradarono e poi scomparvero. La città si perse, lontano, alle loro spalle.Flin rallentò la corsa. Ruvi sedeva rannicchiata e si teneva le mani sulla faccia, ma non stava piangendo. Le mise una mano sulla spalla: tremava. Come lui. Si sentiva demoralizzato, ma cer-cò di dare alla sua voce un tono calmo e rassicurante.– È tutto passato. Siamo soli.Rispose un singhiozzo… o una parola. Non riuscì a comprende-re. Poi Ruvi si sollevò a sedere e posò le mani incrociate sulle gi-nocchia. Continuarono il viaggio in silenzio. L’aria si era fatta più fresca, ma era ancora densa di umidità, viscida come la neb-bia che aderisce alla pelle. Non c’erano stelle. Lontano, sulla loro destra, si vedevano i lampi di un temporale e si sentiva il bronto-lìo dei tuoni.[…]

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Davanti a loro, un’auto avanzava lentamente. E Flin la raggiunse.Marciava al centro della strada. Flin aspettò che il guidatore si spostasse per farlo passare, ma l’altro continuò a bloccargli il passo. Suonò il clacson: con discrezione in un primo momento, poi con forza. La macchina continuò a rimanere al centro della strada. Poi rallentò la marcia, tanto da costringere Flin a una frenata.– Cosa stanno facendo? – domandò Ruvi. – Perché non ci lascia-no passare?Flin scosse la testa.– Non lo so.Cominciò ad aver paura.Si spostò sulla sinistra, portando le ruote sulla banchina latera-le. Suonò di nuovo e spinse l’acceleratore fino in fondo.L’altro guidatore sterzò all’improvviso, e i paraurti delle due macchine si urtarono con violenza. Flin riuscì a mantenere il controllo del veicolo; le gocce di sudore sembravano aghi roventi che gli perforassero la pelle. Schiacciò il pedale del freno.L’auto di fronte si allontanò di qualche metro, e Flin sterzò di scatto per portarsi sulla banchina dall’altra parte della strada.Per un breve istante pensò che ce l’avrebbe fatta. Ma l’altra mac-china si affiancò velocemente e cominciò a spingere di lato, come un uomo che voglia scostarne un altro a colpi di spalla. Buche e sassi fecero traballare violentemente la macchina di Flin; mentre questi cercava di mantenere il controllo della vettura, dal fine-strino gli giunsero le grida di alcuni uomini:– Vagli addosso a quel bastardo! Mandagli il sedere fuori stra-da! È l’unico modo per…Di fronte a lui comparve una pianta. Il raggio dei fari la illumi-nò improvvisamente, tronco, corteccia, nodi, rami e foglie… Flin sterzò con rabbia, e la luce dei fari disegnò un ampio semicer-chio su una distanza di erba e di frumento. La macchina sob-balzò nella corsa sul terreno accidentato, e finì con uno schianto sul greto di un torrente.Poi ci fu un silenzio sbigottito e disperato.Flin si voltò a guardare. L’auto inseguitrice si era fermata sul ciglio della strada. Alcuni uomini stavano smontando. Ne contò cinque. E immaginò chi potevano essere.Aprì la portiera dalla parte di Ruvi e spinse la ragazza per co-stringerla a scendere.– Dobbiamo fuggire – disse, sorpreso dal tono tranquillo della propria voce.Ruvi scese e Flin la seguì nell’acqua che giungeva alle caviglie. L’aiutò a risalire la riva del torrente, poi la prese per mano e co-minciò a correre.

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12.  muta: gruppo, branco.

Non si guardò più indietro. Non ne aveva bisogno. Gli uomini si chiamavano tra loro, e schiamazzavano come una muta12 di cani.Un lampo illuminò il cielo, e Flin vide alcuni alberi. La luce si spense e fu seguita dal cupo rimbombo del tuono. Gli alberi scomparvero, ma Flin prese a correre nella loro direzione. L’er-ba e il grano gli si attorcigliavano attorno alle gambe, e Ruvi aveva quasi completamente perso le forze.Quando ebbero raggiunto il boschetto, lasciò la mano della ra-gazza.– Continua a correre! Nasconditi da qualche parte e non far ru-more, qualunque cosa accada…– No. Non voglio lasciarti…La spinse via con forza.– Va’!I giovani avevano raggiunto il limite del bosco dove Flin e Ruvi si erano riparati. Erano muniti di lampade. I raggi di luce co-minciarono a frugare tra le piante.– Vedi qualcosa?– Non ancora.– Chi ha la bottiglia? Ho la gola secca.– Vedi qualcosa?– Non possono essere andati molto lontano.Respiri affannosi, passi che risuonavano sul terreno.– Lo saprò, accidenti! Dopo aver messo a posto quel bastardo vo-glio scoprire…– Cosa, Jed?– Se depongono le uova!Scoppio di risa.– Chi ha quella maledetta bottiglia?– Ehi, girate la lampada da questa parte. Ho sentito qualcosa muoversi!– Eccoli!Flin si mise tra loro e Ruvi. Un raggio di luce gli colpì la faccia, e lui non riuscì a vederli con chiarezza. Ma distingueva la voce di quello che gli altri chiamavano Jed.– Ehi, verde, sei venuto per insegnarci le cose che sai… non è di-gnitoso non ricambiare! Siamo venuti a darti una lezione.– Lasciate andare mia moglie – disse Flin. – Non vi ha fatto niente.– Tua moglie? – esclamò Jed. – E come facciamo a sapere che è tua moglie? Siete sposati con le leggi di questo pianeta?– Ci siamo sposati secondo le nostre leggi…– Avete sentito, ragazzi? Le vostre leggi non ci riguardano mi-nimamente, quindi per noi non siete marito e moglie. Comunque lei deve restare: fa parte della lezione.

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13.  pugno di ferro: arma costituita da quattro anelli di metallo, uniti fra loro, in cui si infilano le dita allo scopo di rendere più devastante l’effetto del pugno.

14.  oltraggio: offesa molto grave.

Jed rise. E anche gli altri risero.Flin parlò nella sua lingua.– Corri – disse a Ruvi, e si lanciò verso l’uomo che teneva la lam-pada.Uno dei giovani emerse dall’ombra e lo colpì alla nuca con qual-cosa di duro. Un ramo, forse, o una sbarra di metallo. Flin cad-de, intontito dal dolore. Sentì Ruvi gridare. Avrebbe voluto rac-comandarle ancora di scappare, ma gli mancò la voce. Sentì un rumore di passi in corsa e altre grida. Cercò di sollevarsi, ma un calcio lo fece ricadere e un pugno di ferro13 gli colpì la mascella.Jed si chinò su di lui e lo scosse.– Sollevalo, Mike. Voglio essere certo che capisca. Mi senti, ver-de? Lezione Numero Uno. I negri devono sempre restare dalla loro parte della strada.Lo lasciarono cadere di nuovo. Sentì la bocca piena di sangue.– Ruvi…– Maledizione, Mike, tienilo su! Lezione Numero Due. Quando un bianco vuole una negra, lei non deve fare storie, capisci? È un onore. Deve sentirsi felice e lusingata. Capisci?Altro sangue, altro dolore.– Ruvi, Ruvi!– Lezione Numero Tre. Questa è da ricordare e da scrivere dap-pertutto, perché negri, rossi, blu, verdi, o porpora la possano im-parare. Non devi mai alzare la mano su un uomo bianco! Mai. Per nessun motivo.– Ruvi… –. Non riusciva a sentire la sua voce.– Mi capisci? Per nessun motivo!– Dagli un’altra lezione, Jed. Una lezione che non possa dimen-ticare.Oscurità, notte, tuoni, fulmini, sangue, silenzio, distanza… una voce che si perdeva lontana…– Ruvi…Ci fu grande scalpore, e l’opinione pubblica insorse, indignata. I giornali di tutto il mondo riportarono la notizia. Il Presidente fece delle dichiarazioni. Il Governatore dello Stato presentò scu-se ufficiali e promise formalmente che sarebbero state compiute indagini per scoprire gli autori dell’oltraggio14.Grand Falls cercò di proteggersi.Non vennero trovati testimoni, e i giovani che avevano causato l’incidente in città non furono identificati. Il giudice Shaw assi-curò di non averli mai visti prima di allora. Così disse anche il poliziotto. La violenza poi era avvenuta in piena campagna, nel-la completa oscurità. Flin non ricordava il numero di targa della macchina e non aveva potuto vedere con chiarezza le facce degli uomini che li avevano aggrediti. Poteva essere stato chiunque.

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15.  trattamento psichiatrico: insieme di cure messe in atto per prevenire o contrastare una malattia mentale.

16.  contamina e degrada: infetta e umilia.

17.  irrazionali: prive del sostegno della ragione.

Il nome «Jed» in se stesso non aveva nessun significato. C’erano diversi Jed in città, ma nessuno di loro era la persona ricercata. Il vero colpevole non venne mai trovato. Ma anche se lo avessero scoperto, Flin avrebbe potuto soltanto affermare che era l’uomo con il quale aveva litigato davanti all’albergo.Così non vennero trovati colpevoli, né vennero inflitte punizioni.Non appena i medici gli dissero che poteva viaggiare, Flin in-formò il suo gruppo che sarebbe tornato sul suo pianeta. Il Cen-tro Galattico era già stato avvisato. Avrebbero mandato qualcu-no a sostituirlo. Naturalmente erano indignati per quanto era accaduto, e avevano pensato di prendere una serie di misure necessarie, ma, dato che la Terra non faceva parte della Fede-razione e non era soggetta alle leggi galattiche, e che il futuro del pianeta era molto più importante dell’affronto subìto da un singolo individuo, con tutta probabilità non avrebbero preso seri provvedimenti. Flin riconobbe che avevano ragione.Sherbondy, l’incaricato terrestre dei contatti con il governo loca-le, andò a trovarlo.– Mi sento responsabile – disse. – Sono stato io a consigliarvi quel viaggio…– Prima o poi sarebbe accaduto ugualmente. A noi o a qual-cun altro. Il vostro mondo deve compiere ancora parecchio cammino…– Vorrei che vi fermaste – disse Sherbondy, sconsolato. – Vorrei provarvi che non siamo dei bruti!– Non avete bisogno di provarlo. Ora siamo noi nei guai… Ruvi e io.Sherbondy lo guardò perplesso.– Non siamo più esseri civili – spiegò Flin. – Forse un giorno ri-usciremo a esserlo ancora. Lo spero. Questa è una delle ragioni per cui desideriamo tornare sul nostro pianeta: vogliamo sotto-porci a un trattamento psichiatrico15, che sulla Terra non pos-siamo ricevere. Ruvi ne ha bisogno in modo particolare.Scosse la testa e prese a camminare avanti e indietro per la stanza.– Un atto del genere… gente del genere… contamina e degra-da16 ogni cosa. Ora sono soggetto a sensazioni irrazionali17: ho paura del buio, delle piante e dei luoghi appartati… Ma, peggio ancora, ho paura della vostra gente! Non posso uscire da questa stanza senza provare la sensazione di entrare in un mondo di bestie selvatiche.Sherbondy sospirò.– Non posso darvi torto. È un peccato! Avreste potuto vivere feli-ci tra noi, e fare parecchie cose buone…– Sì.

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– Vi dico arrivederci – disse Sherbondy alzandosi. Porse la mano. – Spero che vorrete stringermi la mano.Flin esitò un attimo. Poi strinse la mano che l’altro gli porgeva.– Capite il motivo per cui dobbiamo andarcene?– Sì –. Raggiunse la porta, poi si girò, con rabbia. – Quei male-detti bastardi! È incredibile che oggi… Be’, arrivederci, Flin. E buona fortuna.Uscì.Flin aiutò Ruvi a chiudere gli ultimi bagagli. Poi controllò gli apparecchi portati per le dimostrazioni e che sarebbero rimasti lì per l’esperto che doveva prendere il suo posto.– Devo fare ancora una cosa, prima di partire – disse alla fine, calmo. – Non preoccuparti, non tarderò molto.Lei lo guardò, stupita, ma non fece domande. Flin se ne andò in macchina.Durante il viaggio parlò rabbiosamente con qualcuno che non era presente.– Volevi darmi una lezione – disse – e ci sei riuscito! Ora ti mo-strerò che cosa ho imparato.Ecco il vero male fatto a lui e a Ruvi! Quello fisico era passato in fretta. L’altro era molto più difficile da sradicare… Il senso di in-giustizia, la collera, l’odio verso le persone che avevano la faccia bianca.Aveva imparato a odiare.Un giorno, così sperava, sarebbe riuscito a liberarsi da quel sen-timento mostruoso e a tornare come prima. Ma adesso era trop-po presto. Ancora troppo presto.Con i due piccoli «miniseminatori» carichi in tasca, continuò la sua corsa verso Grand Falls…

L. Brackett, in «Urania», Mondadori

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Il pIacere dI leggere

Antologia 3

Il cosmo si ribella Robert Sheckley

1.  Appena… andato: Rivera e un capo­cantiere al quale Morrison, il direttore dei lavori che si svolgono sul pianeta, ha ordinato di far imbarcare tutti gli uomini sulle astronavi per sfuggire al disastro imminente.

2.  Lerner: un assistente di Morrison.

I rapporti fra l’uomo e la natura costituiscono il tema di questo racconto. Di fronte a uno sfruttamento devastatore delle risorse naturali, quando l’equilibrio degli elementi viene sconvolto, la «ribellione» contro l’uomo appare inevitabile, anzi, essa non è altro che la conseguenza facilmente prevedibile.

Appena Rivera se ne fu andato1 si accostò alla radio e comin-ciò a chiamare i suoi avamposti per farli rientrare al campo

base. Aveva la sensazione che stesse per accadere qualcosa, e il torna-do che scoppiò mezz’ora dopo non lo colse completamente di sor-presa. Riuscì a far salire la maggior parte dei suoi uomini nelle astronavi prima che la città di tende fosse spazzata via.Lerner2 entrò nel quartier generale provvisorio che Morrison aveva installato nella propria nave, accanto alla cabina-radio. – Che cosa succede? – chiese. – Glielo dico subito – rispose Morrison – una catena di vulcani spenti e in eruzione a dieci miglia da qui, e il nostro osservato-rio meteorologico annuncia l’arrivo di un’ondata gigantesca che sommergerà metà di questo continente. Qui non dovremmo ave-re terremoti, ma immagino abbia sentito anche lei le prime scos-se. E questo è solo il principio…– Ma che cos’e? – gridò Lerner. – Che cosa succede? Perché? – È in contatto con la Terra? – chiese Morrison all’operatore. – Tento ancora. Rivera entrò di corsa.

5. Ritorno al futuro un futuro di giustizia… o no?

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– Ancora due squadre e siamo a posto – annunciò. Quando saranno tutti a bordo mi avverta.– Che cosa sta succedendo? – urlò Lerner. – Sento qualcosa – disse l’operatore radio. – Forse sono loro… – Morrison – urlò Lerner. – Mi vuol spiegare? – Io non so spiegarlo – disse Morrison. – È una cosa troppo gros-sa per me.Ma Dengue3 avrebbe saputo. Morrison chiuse gli occhi e immaginò Dengue, in piedi davanti a lui, che raccontava una delle sue storie: «Sentite la storia del mollusco sapiente e del pianeta. C’era un mollusco che, persuaso d’essere nato “sapiens” e repu-tandosi quindi superiore a tutto, si credette in dovere di cambia-re completamente la natura del mondo dov’era nato: distruggen-do senza pietà gli altri animali e le piante, appesantendo la Terra di enormi città, nascondendo l’erba sotto distese d’asfalto e di ce-mento, inquinando il mare e avvelenando persino l’aria. Dopodichè, o perché fosse soddisfatto del risultato, o – più proba-bilmente – perché il proprio pianeta gli sembrasse ormai inabita-bile, partì all’attacco di altri mondi. E lì, continuando a moltipli-carsi senza freno, ricominciò coi suoi soliti sistemi a “domare la natura”. Ora, la natura è vecchia, è lenta, è paziente; ma alla fine, inevita-bilmente, si stancò del presuntuoso mollusco e delle sue imprese. E così venne il giorno in cui un grande pianeta, sentendosi pun-gere la pelle, s’irritò contro il mollusco e lo respinse, lo scrollò via, lo sputò fuori. Quel giorno, il mollusco sapiente comprese con meraviglia di aver vissuto la sua breve vita all’ombra tollerante di forze a lui del tutto ignote; e cominciò anche a capire – ma forse troppo tar-di – che la sua sopravvivenza o la sua estinzione non avevano per l’Universo la minima importanza…». – Che significa tutto questo? – chiese Lerner. – Credo che il pianeta non ci voglia più – disse Morrison. – Cre-do che ne abbia abbastanza. – La Terra! – gridò l’operatore. – Ci parli lei, Morrison. – Shotwell!4 Senta, non possiamo restare – disse Morrison nel ricevitore. – Sto facendo imbarcare i miei uomini finché siamo in tempo. Non posso spiegarle, ora. Non so neppure se riuscire-mo… – Il pianeta non può essere usato in nessun modo? – Niente da fare. Spero che questo non comprometta la posizio-ne della ditta… – Al diavolo la posizione della ditta – gridò Shotwell. – Il fatto è che… lei non sa cosa sta succedendo qui, Morrison. Si ricorda

3.  Dengue: l’osservatore della spedizione, perito precipitando con il suo veicolo in una palude.

4.  Shotwell: il direttore dell’impresa per cui lavora Morrison.

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5.  Gobi:il deserto asiatico del Gobi.

del nostro cantiere nel Gobi5? Una rovina completa, un disastro. E non siamo i soli. Non so, non capisco più niente. Mi scusi, ma da quando l’Australia è sprofondata… – Cosa? – Sì, sprofondata, inghiottita, le dico. E ora i terremoti stanno ri-cominciando da questa parte. È il caos, Morrison, non sappiamo più cosa fare… – Ma Marte? Venere? I pianeti di Alpha Centauri? – È lo stesso dappertutto. Ma non può essere finita, vero, Morri-son? Voglio dire, l’umanità… – Pronto! Pronto! – gridò Morrison. – Che è successo? – chiese. – Hanno interrotto – disse l’operatore. – Tenterò di nuovo. – Lascia perdere – disse Morrison. In quel momento Rivera piombò nella cabina. – Tutti gli uomini sono imbarcati – disse. – I portelli sono chiu-si. Siamo tutti pronti per partire, signor Morrison. Guardavano lui.Morrison si abbandonò nella poltrona e sorrise stancamente. – Siamo pronti – disse. – Ma per andare dove?

R. Sheckley, in Il secondo libro della fantascienza, Einaudi


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