Date post: | 10-Feb-2018 |
Category: |
Documents |
Upload: | truongtram |
View: | 216 times |
Download: | 0 times |
1
Dipartimento di IMPRESA E MANAGEMENT Cattedra di STORIA DELL’IMPRESA E DELL’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE
ANGELO COSTA, CONFINDUSTRIA E LA RICOSTRUZIONE ITALIANA DEL SECONDO DOPOGUERRA
RELATORE PROF. VALERIO CATRONOVO
CANDIDATO ANGELO SINAPI MATR. 180571
ANNO ACCADEMICO 2015 2016
2
Indice
Introduzione p. 3
Capitolo 1: La Ricostruzione
1.1 La ricostruzione del’economia mondiale dopo il 1945 p. 7
1.2 L’Italia alla fine della guerra e la transizione alla
democrazia
p. 12
1.3 La ricostruzione economica italiana p. 17
Capitolo 2: La Confindustria dalla nascita alla fine
della seconda guerra mondiale
2.1 Origini e strategie di Confindustria nel primo
decennio di vita
p. 23
2.2 L’associazione nel ventennio del regime fascista p. 27
2.3 La ricostituzione della Confindustria dopo la seconda
guerra mondiale
p. 32
Capitolo 3: La prima presidenza Costa (1945-1955)
3.1 L’identità di Angelo Costa p. 36
3.2 Il ruolo di Costa negli anni della ricostruzione p. 40
3.3 Le sfide degli anni 50 p. 46
Bibliografia p. 53
3
Introduzione
Questa tesi si prefigge di chiarire l’azione e il ruolo della Confindustria in
quel periodo denso e complesso che prende il nome di Ricostruzione. Si rende
necessario, a tal fine, analizzare il percorso politico ed economico intrapreso
dal nostro paese, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, inquadrandolo
nello scenario europeo e mondiale. Se l’Italia riesce in breve tempo a risalire la
china infatti lo si deve, in buona parte, agli aiuti americani e all’avvio del
processo di integrazione europea che avrà un suo primo vero punto d’approdo
nel Mec del 1957.
L’oggetto dell’elaborato è in particolare il ruolo assunto in questa fase
storica dalla Confederazione generale dell’industria italiana e dal suo
presidente Angelo Costa. Analizzando il ruolo di questa organizzazione nella
vita economica italiana nel periodo considerato, è emersa la necessità di
ripercorrerne la storia, fin dalla nascita nel 1910, per evidenziarne gli scopi
prefissati, attraverso gli statuti emanati, il crescente peso rappresentativo, in
riferimento alle sempre più numerose associazioni territoriali e di categoria
aderenti, ma soprattutto l’influenza, se non la partecipazione, nella vita politica
del nostro paese. Tale impostazione prosegue con difficoltà anche nel
ventennio fascista, in cui la Cgii riesce, almeno fino agli anni 30, a mantenere
la sua autonomia organizzativa, con una serie di accordi, e ad orientare le scelte
industriali del duce.
Con l’entrata in guerra tutto ciò viene meno e, addirittura, con la caduta del
fascismo bisognerà ricostituire la Confederazione, nel Regno del Sud, e
ricongiungersi, dopo la Liberazione, alla “Delegazione dell’Alta Italia”.
L’uomo scelto come presidente della ricostituita Confindustria è Angelo Costa,
un imprenditore genovese non compromesso con il fascismo, che riesce a
conquistare la classe industriale con il vessillo della libertà d’iniziativa e della
forte opposizione a qualsiasi ingerenza dello Stato nell’economia, ma anche
grazie alle sue capacità di mediazione tra i vari interessi in campo. Analizzando
attentamente i suoi scritti e i suoi discorsi emerge un liberismo di vecchio
stampo intriso di una forte componente cattolica, in particolare nei rapporti con
4
le maestranze, che Costa propone sempre con una elevata statura culturale ma
soprattutto morale. L’azione e il ruolo della Confindustria nella Ricostruzione
italiana non possono essere dunque scissi da quelli del suo presidente Costa, in
carica dal 1945 al 1955,1 capace di esprimersi sempre in termini chiari su ogni
questione affrontata e deciso a superare, se fermamente convinto della propria
posizione, opposizioni interne (interessi particolari di alcuni industriali) ed
esterne all’organizzazione (personaggi politici o organizzazioni sindacali).
Quando nel 1955 lascerà la presidenza, accusato per la sua linea di rigorosa
estraneità della Confindustria alle vicende politiche interne ai partiti di
maggioranza, gli verrà tributato,da parte di tutto il mondo industriale, di aver
difeso a spada tratta le ragioni stesse dell’esistenza dell’iniziativa privata e,
così facendo, di aver salvato l’industria italiana.
L’elaborato si sviluppa in tre capitoli, ognuno dei quali suddiviso in tre
paragrafi.
Il primo capitolo (“La Ricostruzione”) offre, attraverso il primo paragrafo,
una panoramica sulla situazione dell’economia mondiale alla fine del conflitto
e sul nuovo “ordine” di indirizzo liberale che si va costituendo sotto l’egida
degli Stati Uniti, con particolare attenzione agli accordi di Bretton Woods e al
GATT. Si passa poi ad un focus sull’Europa occidentale, prima beneficiaria del
Piano Marshall e poi protagonista di un processo di integrazione economica
con risultati estremamente positivi. Le fonti utilizzate sono state, per tali
argomenti, Storia economica del mondo di Cameron Neal e L’economia
mondiale tra crisi e benessere (1945-1980) di Van der Wee.
Il secondo paragrafo si concentra sugli eventi storico-politici in Italia nel
periodo tra il 25 luglio del 1943 e il 18 aprile del 1948, cercando di presentare
e delineare le principali forze politiche che si contendono il campo in tale
frangente. Tutto ciò principalmente grazie a Storia d’Italia dal dopoguerra ad
oggi di Paul Ginsborg.
Il terzo paragrafo parte dall’analisi della situazione economica italiana
all’indomani del conflitto mettendone in luce i numerosi problemi e si
conclude con i due provvedimenti del 1950 per il rilancio del Sud, la riforma
agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Le fonti utilizzate per tale paragrafo
1 Sarà nuovamente presidente della Confindustria dal 1966 al 1970 ma tale periodo non è
oggetto di trattazione.
5
sono state: Storia economica d’Italia di Valerio Catronovo, Lo sviluppo
dell’economia italiana di Augusto Graziani e Dalla periferia al centro di Vera
Zamagni.
Il secondo capitolo tratta la storia della Confindustria dalla nascita, nel
1910, alla sua ricostituzione alla fine del conflitto. I testi utilizzati sono stati
principalmente due, Cent’anni di Confindustria di Oreste Bazzicchi, ma
soprattutto Cento anni di imprese di Valerio Castronovo, senza tralasciare gli
Statuti confindustriali.
Nel primo paragrafo si approfondiscono gli obiettivi e le strategie della
neonata Confederazione, specificandone gli scopi e gli organi, nel periodo tra
1910 e il 1922, in cui l’importanza e l’influenza degli industriali cresce sempre
più.
Nel secondo paragrafo si esaminano le vicende della Confindustria nel
ventennio fascista, dunque i rapporti sempre più difficili con il regime, dagli
accordi siglati ai provvedimenti governativi con restrizioni sempre più forti
all’autonomia confederale, fino ad un totale assoggettamento con l’entrata in
guerra.
Nel terzo paragrafo ci si concentra sulla ricostituzione della Confederazione,
con particolare riguardo al lavoro svolto da Friggeri e al nuovo Statuto del
1944, definitivamente modificato nel 1950, con conseguenti considerazioni
sulla rinata struttura.
Il terzo capitolo è dedicato alla prima presidenza Angelo Costa (1945-1955).
Tra le fonti utilizzate, oltre le due precedenti, figurano: Scritti e discorsi di
Angelo Costa, La Confindustria dalla ricostruzione al miracolo economico:
Angelo Costa (1945-1970) di Eleonora Belloni, Angelo Costa, un ritratto a più
dimensioni di Vera Zamagni e Francesca Fauri.
Il primo paragrafo tratteggia la storia ma soprattutto il pensiero
dell’armatore genovese, in cui liberismo e morale cattolica si fondono per dar
vita ad una particolare visione del ruolo dell’imprenditore all’interno della
società. Il concetto più ricorrente è dunque la libertà, unica ancora di salvezza
per classe industriale, chiamata ad essere “classe dirigente”.
Con il secondo paragrafo si entra nel vivo dell’azione di Costa, e quindi
della Confindustria, nelle questioni economiche, politiche e sindacali del primo
dopoguerra, ed a quelle già trattate nel paragrafo 1.3 se ne aggiungono altre
6
come l’ipotesi, non astratta, di una politica di piano da parte del governo e la
scissione sindacale.
Il terzo paragrafo è incentrato sulle sfide degli anni 50, nello specifico il
rilancio del Mezzogiorno e i processi di liberalizzazione degli scambi e di
integrazione economica europea, su cui Costa mostra sempre di aver sempre le
idee chiare.
7
Capitolo 1
La ricostruzione
1.1. La ricostruzione dell’economia mondiale dopo il 1945
Alla fine del conflitto l’Europa giaceva prostrata e pressoché paralizzata.
Tutti i paesi riportarono danni in modo diretto o indiretto e nessuno sfuggì alle
penurie provocate dalla guerra: vincitori e vinti erano accomunati dalla loro
povertà e le necessità più urgenti erano gli aiuti di emergenza e la
ricostruzione. Gli aiuti alla popolazione civile in beni di prima necessità,
provenienti in gran parte dagli Stati Uniti, furono forniti sia dagli eserciti
alleati, durante la loro avanzata attraverso l’Europa occidentale, nell’inverno e
nella primavera del 1944-45, sia, a conflitto appena concluso, dall’UNRRA
(Unite Nations Relief and Rehabilitation Administration). I livelli di
produzione erano tornati ampiamente al di sotto dei valori pre-bellici e ad
aggravare ancor più la situazione era l’enorme quantità di carta moneta in
circolazione soprattutto per le potenze sconfitte , che dovevano coniare carta
moneta per finanziare i costi di occupazione e le riparazioni di guerra, mentre
aumentava la loro scarsità di beni. In condizioni simili a quelle descritte
versava il Giappone, altro grande sconfitto.
Ad uscire dalla guerra più forti che mai furono gli Stati Uniti e, misura
minore, il Canada, gli altri Paesi del Commonwealth e l’America Latina:
sfuggite ai danni diretti della guerra, le loro industrie e la loro agricoltura
trassero vantaggio dalla forte domanda bellica, che permise un pieno uso della
capacità produttiva, la modernizzazione tecnologica e l’espansione.2
In particolare gli Stati Uniti, emersi come potenza dominante nel mondo e
consapevoli delle conseguenti responsabilità, elaborarono, già durante il
conflitto, un sistema universale per un nuovo assetto mondiale basato sui
principi tradizionali liberali.3
Dal punto di vista politico l’obiettivo primario era la creazione delle
2 Cameron, Neal, Storia economica del mondo, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 582.
3 Van Der Wee, L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980), Hoepli, Milano, 1989,
p. 290.
8
Nazioni Unite, le cui basi erano state gettate con la Carta Atlantica sottoscritta
nel 41’ da Roosevelt e Churchill e si concretizzarono definitivamente con la
Conferenza di Yalta nel febbraio 45’; dal punto di vista economico, il nuovo
assetto mondiale prevedeva disposizioni per creare un ordine nel commercio e
nelle finanze. 4
Il sistema finanziario e monetario fu creato con gli accordi di Bretton Woods
( luglio 44’) in cui i 44 paesi rappresentati optarono per un’economia aperta e
per liberi scambi multilaterali basati su cambi fissi e sulla convertibilità
“indiretta” delle valute nazionali in oro, attraverso la parità in rapporto con il
dollaro, determinando così il “dollar-standard”. Fondamentali ai fini della
stabilità del sistema erano il Fondo Monetario Internazionale, al quale era
attribuita la responsabilità di gestire il sistema dei tassi di cambio tra le varie
monete mondiali ed inoltre di finanziare, grazie alle riserve in oro e valute
internazionali originate da contributi obbligatori degli Stati membri, eventuali
squilibri a breve termine nelle bilance dei pagamenti, e la Banca Mondiale,
chiamata a concedere prestiti a lungo termine per la ricostruzione delle
economie devastate dalla guerra e, in seguito, per lo sviluppo delle nazioni più
povere.
Sul versante della ricostruzione del commercio mondiale, i negoziati sulla
ridefinizione delle barriere tariffarie vennero organizzati in concomitanza con
la fine della guerra. Alla fine del 1946 si svolsero a Ginevra, sotto l’egida del
Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, negoziati che coinvolsero
23 paesi e che produssero 123 accordi commerciali bilaterali, incluse
significative riduzioni tariffarie: tali risultati vennero riuniti con alcune parti
dei precedenti negoziati sulla Carta dell’Avana sancendo l’Accordo Generale
sulle Tariffe e sul Commercio (GATT), firmato nell’ottobre del 1947.
Il GATT era imperniato fondamentalmente su una lista di concessioni
tariffarie reciprocamente accordate dalle parti, una serie di regole procedurali
per le future riunioni e lamentele e un codice di comportamento in materia di
politica commerciale internazionale basato sul principio di azione non-
discriminatoria (con la conseguente estensioni a tutti i paesi partecipanti della
clausola della “nazione più favorita”) e sul principio di reciprocità nelle
4 Ivi, pag 291.
9
concessioni.5
Intanto la ricostruzione europea, proprio nel 1947, registrò uno stallo per
un’acuta carenza di dollari necessari per rimborsare i debiti di guerra e
finanziare le importazioni, dagli Stati Uniti, di generi alimentari, prodotti
industriali, energia e soprattutto beni capitali per ricreare le infrastrutture e
l’industria in Europa. Le cause di tale impasse furono: il crollo delle
esportazioni e delle riserve valutarie, l’ inflazione negli Stati Uniti, che fece
aumentare i prezzi delle importazioni, e, come colpo finale, la perdita totale del
raccolto europeo del 1947, che acuì la richiesta di grano americano.
Dunque erano urgenti misure per rilanciare l’economia in Europa. Gli Stati
Uniti, inizialmente, sperarono di risolvere le difficoltà economiche europee
concedendo prestiti temporanei a breve termine, i quali assunsero proporzioni
tali che la situazione divenne senza speranza. Inoltre, delineatosi in modo
chiaro il quadro della “Guerra Fredda”, l’America riteneva che, se la ripresa in
Europa non fosse partita entro breve termine, l’Unione Sovietica si sarebbe
avvantaggiata del malessere sociale che ne sarebbe scaturito per ampliare la
propria egemonia sull’intero continente.6
Il segretario di Stato George Marshall, il 5 giugno 1947, espose la nuova
politica economica americana e propose un piano di aiuti su vasta scala ai paesi
del Vecchio Continente: la ripresa economica europea divenne parte integrante
della strategia politica americana.
Il piano Marshall fu approvato nella primavera del 1948 dal Congresso
americano, sotto forti pressioni dell’amministrazione Truman, con il nome di
European Recovery Act (ERP) e affidato alla gestione dell’ European
cooperation administration (Eca); nel Vecchio Continente fu la Organizzazione
europea per la cooperazione economica (Oece), ex Ccee, responsabile della
distribuzione degli aiuti americani.
Il piano consisteva in un massiccio programma di emergenza della durata di
quattro anni concentrato su pochi obiettivi strategici: modernizzazione delle
infrastrutture, aumenti drastici della produzione totale, una distribuzione più
equilibrata dell’industria pesante per eliminare l’intensa concentrazione nella
zona della Rurh, razionalizzazione della produzione agricola e, infine,
5 Ivi, pag 292. 6 Ivi, pp. 294-295.
10
creazione di meccanismi per assicurare la stabilità monetaria e finanziaria. Per
far ciò era necessario sospendere, per quattro anni, i principi del mercato
liberale e il sistema dei prestiti a breve termine coprendo il deficit presente e
futuro della bilancia dei pagamenti europei con prestiti a lungo termine, per
circa 3 miliardi di dollari, della Banca Mondiale e con un “regalo” americano
pari a 17 miliardi di dollari.7
I risultati furono ottimi: l’indice del PNL in Europa occidentale (1938=100)
passò da 87 nel 1948 a 102 nel 1950 (a prezzi costanti) e le esportazioni dei
paesi occidentali raggiunsero il livello di 123 nel 1950 (1938=100): i livelli di
anteguerra erano stati raggiunti e superati.8
Fondamentale per la riuscita del programma fu il ruolo guida assunto
dall’Oece che segnò un importante passo avanti nel cammino verso
l’integrazione economica europea iniziato già nel 1921 con il BLEU, una vera
e propria unione economica tra Belgio e Lussemburgo, ai quali si aggiunsero
nel 1944 i Paesi Bassi dando vita al Benelux, un’ unione doganale operativa
dal 1948.
Nel giugno 1950 i paesi dell’Oece, dietro spinta degli Stati Uniti,
inaugurarono l’Unione europea dei pagamenti (Uep), funzionale al libero
commercio multilaterale tra i paesi aderenti: si tenevano accurate registrazioni
di tutti gli scambi avvenuti tra questi e alla fine di ogni mese “si tiravano le
somme” e si operavano le compensazioni (i disavanzi erano pagati in oro o in
dollari). Tale sistema, in vigore fino al 1958, comportò l’ aumento delle
esportazioni reciproche e una minore dipendenza dall’ oltreoceano.9
Parallelamente alla ricostruzione dell’economia mondiale si avviò, per la
prima volta in maniera strutturale e significativa, un processo di effettiva
collaborazione delle economie dell’Europa occidentale attraverso la nascita
della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), creata il 18 aprile
del 1951 con il Trattato di Parigi firmato da Francia, Germania Federale, Italia
e dai paesi del Benelux.
L’ideatore fu il ministro degli Esteri francese Schuman spinto da
motivazioni principalmente politiche. Da un lato era necessario, infatti,
normalizzare le relazioni franco-tedesche incrinate dopo che la Francia, con i
7 Ibidem. 8 W.W. Rostow, World Economy, p.231. 9 Cameron, Neal, Op. cit., p. 591.
11
paesi del Benelux avevano richiesto e ottenuto, con la creazione nel marzo del
1948 di un’Autorità Internazionale, un controllo sullo sviluppo dell’industria
pesante tedesca e la garanzia di forniture di carbone alle loro industrie di base
dell’area della Rurh; dall’altra era importante completare il processo di
integrazione della Germania Federale in Europa occidentale come Stato
sovrano.10
Sul versante economico, l’acciaio e il carbone erano il cuore dell’industria
moderna ed era fondamentale in Europa sviluppare i settori pesanti per poter
competere con Stati Uniti e Unione Sovietica.11
Nell’ambito della nascente Comunità, la cui supervisione fu affidata ad un
organo sovranazionale (l’Alta Autorità), furono eliminati tutti i dazi a
esportazioni ed importazioni, tutte le restrizioni quantitative e i sussidi o altre
misure discriminatorie nei settori del carbone e acciaio.
Il successo della CECA se fu ridotto in termini economici, perché la
progressiva sostituzione del carbone con altre fonti di energia presentò alla
Comunità un problema strutturale di base, fu straordinario in termini di
cooperazione, tanto che gli stessi sei paesi, con i Trattati di Roma del 25 marzo
1957, diedero vita alla Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM)
e, ben più importante, la Comunità economica europea (Cee), o Mercato
Comune Europeo (Mec).
In merito a quest’ultimo si prevedeva la graduale eliminazione dei dazi
sulle importazioni ed esportazioni entro 12-15 anni e delle limitazioni
quantitative su tutti gli scambi, il libero movimento dei lavoratori e dei capitali,
l’armonizzazione delle politiche economiche, il divieto di pratiche commerciali
discriminatorie e l’eliminazione di sovvenzioni statali (salvo quelle per aree
depresse).12
Il commercio tra i paesi membri quadruplicò dal 1958, anno in cui fu
operativo, e il 1969 mentre i dazi erano già stati completamente aboliti nel
1968.13
Gli altri paesi del blocco occidentale (Gran Bretagna, paesi Scandinavi,
Svizzera, Austria e Portogallo), non parteciparono ai trattati di Roma
10 Van Der Wee, Op. cit., pp. 299-300. 11 Cameron, Neal, Op. cit., p. 617. 12 Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi, Torino, 2013, p. 300. 13 Cameron, Neal, Op. cit., p. 619.
12
costituendo l’European Free Trade Association (EFTA), un’unione doganale
solo per i prodotti industriali e istituzionalmente più debole della Cee; solo
nagli anni 70’ tali paesi entreranno gradualmente nel Mec.
In conclusione per avere una visione economica totale del quarto di secolo
successivo alla seconda guerra mondiale, la produzione industriale nel mondo
dal 1948 al 1971 crebbe annualmente del 5,6% e nel complesso dei Paesi
industrializzati (Oece,Stati Uniti, Canada e Giappone) il tasso di crescita medio
del PNL per unità di lavoro, dal 1950 al 1973, fu di circa 4,5% annuo: per tale
motivo molti parlano di “miracolo economico”. Non da meno fu la crescita
dell’Urss e del blocco orientale, basata su un modello di economia pianificata
che comunque innalzò il PNL , fino alla fine degli anni 60, con una media di
oltre il 5%.14
1.2 L’Italia alla fine della guerra e la transizione alla
democrazia
Prima di addentrarsi nella ricostruzione economica del nostro Paese, è
necessario tracciare il percorso di ricostruzione politica i cui punti di partenza e
di arrivo possono essere considerati rispettivamente il 25 luglio del 1943, la
caduta del fascismo, e il 18 aprile 1948, le prime elezioni repubblicane.
Dopo la caduta di Mussolini, il Re Vittorio Emanuele affidò il governo al
Maresciallo Badoglio che l’8 settembre proclamò l’armistizio con gli Alleati. Il
giorno dopo a Roma si formò il Comitato di liberazione nazionale (Cln),
un’organizzazione costituita da movimenti di diversa estrazione ideologica e
culturale (liberali, democristiani, democratici-progressisti, azionisti, socialisti,
comunisti) accomunati dalla forte opposizione al fascismo e all’ occupazione
nazista nel Nord Italia. Sarà il Cln a coordinare l’azione della Resistenza.
Il 22 aprile 1944 i rappresentanti dei partiti del Cln, eccetto quelli del
Partito d’Azione, diedero vita al governo Badoglio II, seguendo così il
suggerimento di Togliatti, ma dopo la liberazione di Roma lo stesso Cln
costrinse Umberto, succeduto al padre Vittorio Emanuele ritiratosi, a porre
14 A.Maddison, Performance in Europe.
13
Bonomi al posto di Badoglio come primo ministro (18 giugno 44’).15
Nonostante le preoccupazioni di Churchill,16 Bonomi riavviò
l’amministrazione centrale senza cambiarne il carattere e senza epurarne il
personale: tutto ciò quasi senza protesta dai partiti di sinistra, da una parte
concentrati sulla questione istituzionale, ovvero sui meccanismi della futura
scelta tra monarchia e repubblica e dall’altra, azionisti e socialisti, dilaniati da
divisioni interne.17
Intanto, nel Nord Italia, la Resistenza cresceva, in termini di numeri e di
capacità di combattimento, ma bisognava risolvere due grandi problemi, uno di
natura contingente, il terribile inverno del ‘44-45, e un altro di natura politica, i
rapporti tra Resistenza e alleati. Ad entrambi si trovò una soluzione con i
Protocolli di Roma.
Gli Alleati non riconobbero ufficialmente il Clnai (il Cln per l’alta Italia) ma
garantirono sussidi e massima assistenza alla Resistenza. D’altra parte furono
numerose le concessioni accordate dai dirigenti di quest’ultima: obbedienza
indiscussa, al momento della liberazione, al comandante in capo alleato e
trasmissione al Governo Militare Alleato di “tutta l’autorità e i poteri di
governo locale precedentemente assunti”; smobilitazione immediata delle unità
partigiane e consegna di tutte le armi agli Alleati; assunzione del comando
militare del settentrione da parte del generale Cadorna.18
I negoziati tra Alleati e Resistenza coincisero con una crisi di governo che
divise e indebolì ulteriormente i partiti di sinistra. Il 7 dicembre del ’44 vide la
luce un secondo governo Bonomi, senza azionisti e socialisti, che rimase in
carica fino alla liberazione.
Dunque, nella primavera del ’45, mentre il Terzo Reich veniva circondato a
oriente dai russi e a occidente dagli anglo-americani, la liberazione dell’Italia
settentrionale divenne finalmente realtà ed entro il 1° maggio il nemico era
stato espulso, grazie all’offensiva finale alleata e alle insurrezioni popolari in
numerose città. Gli Alleati dunque portarono a termine i Protocolli di Roma e,
15 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 2006, pp. 65-66. 16 Ellwood, Italy 1943-1945 cit., p. 96. Churchill non perdonò al generale N. Mason-
Macfarlane, capo della Commissione Alleata di Controllo in Italia, d’aver permesso questo
mutamento di governo, e lo fece rimpiazzare dal capitano americano Ellery Stone, più tardi
ammiraglio. 17 Ginsborg, Op. cit., p. 67. 18 Il testo completo dell’accordo è pubblicato in H. L. Coles e A. K. Weiberg, Civil Affairs:
Soldiers Become Governors, Washington (D.C.) 1964, pp. 541-42.
14
per evitare proteste di massa, disposero garanzie economiche per la classe
operaia quali il veto a qualsiasi licenziamento e un regolare salario anche agli
operai ora disoccupati.19
Il 21 giugno 1945 Parri, azionista e capo della Resistenza, divenne capo di
un governo sostenuto dai sei partiti antifascisti, e tra questi spiccavano per
importanza la Dc e il Pci perché ad essi sempre più guardavano
rispettivamente la classe imprenditoriale e la classe operaia.
Superati i primi timori di una “rivoluzione rossa”, la classe imprenditoriale,
nonostante le accezioni più conservatrici o più progressiste, era compatta su
due concetti. In primis sulla necessità di riconquistare la libertà di azione
severamente compromessa dalla ritrovata autonomia del movimento operaio; in
secundis su un sostanziale rifiuto di qualsiasi pianificazione statale. Lo
strumento politico a cui guardava non era tanto il partito liberale, ancorato al
liberalismo del primo decennio del secolo e dunque rimasto un partito di
èlite,20 ma sempre più la Dc, la cui essenza politica era nell’interclassismo,
prerequisito di ogni moderno partito conservatore.
Il partito di De Gasperi poteva infatti contare sulla maggioranza dei ceti
medi, sia urbani che rurali, profondamente ostile al comunismo e al socialismo,
in quanto dottrine che avrebbero comportato la perdita della loro individualità e
il livellamento verso il basso della scala sociale.
Nonostante i contrasti interni, i punti fermi del programma di De Gasperi -
la morale cattolica, la democrazia rappresentativa, l’anticomunismo, l’adesione
al sistema capitalistico e una particolare attenzione ai ceti medi e alla famiglia-
fornirono al partito la sua robusta coesione.21
Per quanto riguarda la classe operaia, le cui condizioni di vita erano di certo
peggiorate anche e soprattutto per la forte inflazione, non era diffusa a livello
nazionale una coscienza rivoluzionaria ma diffusi erano un desiderio di
ricostruzione e l’attesa di profonde riforme economiche e sociali che mutassero
i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Lo sbocco politico a tali aspirazioni era
offerto ovviamente dal Pci che, accantonata la rivoluzione, considerava
possibile condurre in porto le agognate riforme proseguendo l’alleanza con il
19 Ellwood, Op. cit., p. 228. 20 Per approfondimento si veda S. Setta, Croce, il liberalismo e l’Italia postfascista, Roma,
1979. 21 Per l’intera riflessione sulla classe imprenditoriale e sulla Dc: Ginsborg, Op. cit., pp. 93-100.
15
Psi e la Dc. Ma se nel periodo 43-45 le avevano rinviate in nome dell’unità
nazionale e della liberazione, nei successivi tre anni l’errore del Pci fu quello di
fare del terreno politico e dell’alleanza con la Dc lo strumento pressoché
esclusivo per realizzare le riforme. Infatti numerose furono le concessioni
accordate alla Dc, in nome dell’alleanza, e l’arma più potente delle sinistre,
l’attivismo della classe operaia, risultò inutilizzato nelle principali battaglie
politiche del periodo.22
Il Pci registrò minori successi nell’attrarre settori intermedi della società
italiana anche perché dovette fronteggiare un dilemma cruciale che li avrebbe
perseguitati nei successivi decenni: annacquare il contenuto socialista del loro
programma e attirare così il consenso nella classe media oppure rifiutare ogni
compromesso, col rischio però di un isolamento della classe operaia e di una
disfatta della strategia delle alleanze.
L’altra forza principale della sinistra, il Psi, era incapace di stabilire una sua
autonomia politica dal Pci e soprattutto era animato da un forte dibattito interno
in cui le varie correnti del partito, la più importante di certo quella
socialdemocratica di Saragat, consumavano le loro energie perdendo di vista i
problemi reali.23
L’altro strumento del movimento operaio era la Cgil, con a capo De Vittorio,
ma le decisioni venivano prese in organi dirigenti in cui Dc,Pci e Psi avevano
uguale rappresentanza e mancò dunque la necessaria autonomia dai partiti
politici per poter attivamente difendere gli interessi operai.24
Fatto sta che il governo Parri durò poco sia per l’inadeguatezza dello primo
ministro sia per la spaccatura del suo partito, il PdA; la sinistra, con la
maggioranza numerica, appoggiò De Gasperi nella formazione di un nuovo
governo (composto dagli stessi sei partiti) insediatosi il 12 dicembre del ’45.
De Gasperi riuscì a ottenere il rinvio delle elezioni politiche, il referendum
per risolvere la questione istituzionale e soprattutto la limitazione
dell’Assemblea alla sola stesura della Costituzione.25
22 Per approfondimento si veda V. Foa, Introduzione a Levi, Rugafiori e Vento, Il triangolo
industriale, e sempre di V. Foa, La ricostruzione capitalistica. 23 Per approfondimento si vedano le memorie di G.Arfè ne la Prefazione a F. Taddei, Il
socialismo italiano del dopoguerra: correnti ideologiche e scelte politiche (1943-47),
Milano 1984, p.18. 24 Per l’intera riflessione sulla classe operaia, sulla sinistra e sulla CGIL: Ginsborg, Op. cit.,
pp. 103-114. 25 Ginsborg, Op. cit., pp. 117-119. In tali pagine si approfondiscono anche le ragioni di tali
16
Il 2 giugno del 1946 tutti gli italiani poterono liberamente votare sia per la
questione istituzionale sia per la Assemblea Costituente. I risultati del
referendum segnarono la vittoria della Repubblica (54,2% dei voti) con una
importante spaccatura tra Nord, repubblicano, e Sud, monarchico; l’elezione
dell’Assemblea Costituente permise di avere una prima chiara indicazione
della forza dei tre principali partiti (Dc 35,2%; Psi 20,7%; Pci 19%).
Nei diciotto mesi successivi l’Assemblea si dedicò alla stesura della
Costituzione della Repubblica definendo una forma di Stato e di governo
conformi ai tradizionali canoni della democrazia rappresentativa e
organizzando il regime parlamentare secondo il principio bicamerale.
Dal luglio del 46 alle prime elezioni politiche dell’aprile del 48, seguirono
altri tre governi con a capo De Gasperi in cui la presenza del Pci e del Psi
diminuì fino ad scomparire nel De Gasperi IV formato il 31 maggio del 47 dai
liberali, dai socialdemocratici e dai repubblicani, oltre che dai democristiani.
Si era ormai in pieno clima pre-elettorale che vedeva la netta
contrapposizione tra la Dc e il Fronte Democratico Popolare, costituito da Psi e
Pci.
Se De Gasperi “aveva dalla sua parte” la politica monetaria vincente di
Einaudi e soprattutto gli aiuti americani che avrebbero permesso all’Italia di
ripartire26, il Fronte Popolare aveva poco da offrire considerando che l’Unione
Sovietica, come già ricordato, era vista con paura e sospetto da gran parte del
ceto medio, soprattutto dopo il colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia del
febbraio del ’48.
I risultati di queste elezioni furono due: la vittoria schiacciante della Dc, col
48,5% contro il 31% del Fronte, e a sinistra la conferma dell’egemonia
comunista.27
La formula “centrista”, adottata già dal De Gasperi IV, continuò fino al 1958
quando con l’appoggio esterno dei socialisti al governo si diede vita alla prima
esperienza di centro- sinistra formalizzata con l’ingresso organico degli stessi
nella compagine governativa del 1962.
mosse dello statista trentino.
26 Le misure di Einaudi e l’importanza del Piano Marshall in Italia saranno trattate nel
prossimo paragrafo. 27 Ginsborg, Op. cit., pp. 156-157.
17
1.3 La ricostruzione economica italiana
All’indomani della seconda guerra mondiale, il paese si trovava ad
affrontare problemi di estrema gravità, sia sotto il profilo immediato, sia da un
punto di vista di più lungo periodo. Problemi immediati erano quelli dei danni
della guerra, dell’inflazione galoppante, e della strozzatura della bilancia dei
pagamenti; i problemi di lungo periodo riguardavano l’ammodernamento
produttivo, la povertà del Mezzogiorno e la conseguente disoccupazione
strutturale.28
I danni della guerra erano stati vistosi nelle grandi città, nella rete stradale e
ferroviaria ma fortunatamente i danni inferti all’apparato produttivo erano
meno gravi del previsto. Esclusi il siderurgico, il meccanico e il mercantile, in
condizioni quasi disastrose, gli altri settori avevano perduto non più del 4-5%
della capacità produttiva.29
L’inflazione esplose irrefrenabile nell’Italia liberata: l’indice dei prezzi
all’ingrosso, su base 1938=100, nel 1944 era pari a 858, nel 1945 a 2060,
salendo fino a 5169 nel 1947.30 Di certo la politica monetaria delle forze
militari contribuì a tale degenerazione sia con l’immissione cospicua di moneta
cartacea da parte delle autorità militari alleate (le “amlire”), utilizzata per
pagamento degli stipendi ai militari e per l’acquisto di beni e servizi nei
territori occupati, sia con la fissazione del cambio fra lira e dollaro in ragione
di 100 lire per dollaro, sottintendendo una svalutazione di oltre cinque volte
rispetto al cambio pre-bellico, fissato a 19 lire per dollaro.31
In merito alla bilancia dei pagamenti bisognava uscire da un circolo vizioso
poiché per pagare le importazioni era necessario sviluppare le esportazioni, ma
ciò richiedeva la ricostruzione e l’ammodernamento degli impianti. Ma gli aiuti
esteri, almeno fino al 1949, vennero per lo più destinati a rafforzare le riserve
valutarie.
Tra i problemi di lungo periodo indubbiamente spiccavano quelli della
struttura produttiva: ogni settore richiedeva una ristrutturazione profonda.
L’agricoltura pativa i danni dell’autarchia fascista, che aveva esasperato la
produzione cerealicola a scapito degli allevamenti zootecnici, e la forte
28 Augusto Graziani: Lo sviluppo dell’economia italiana, Bottingheri, Torino, 2000, p.18. 29 Ivi, pp. 18-19. 30 Ivi, p. 19. 31 Ivi, p.32.
18
concentrazione della proprietà terriera; l’industria restava ancora basata su
settori scarsamente dinamici e tecnologicamente arretrati come tessile,
alimentare e edilizia. Avevano ancora dimensione limitata invece la siderurgia,
l’industria automobilistica e chimica, destinati a diventare i settori portanti
negli anni successivi.32
Le conseguenze di questa inadeguata struttura produttiva si manifestavano
in una disoccupazione strutturale e nella povertà del Sud33 (un’inchiesta
parlamentare del 1951 classificò oltre il 50% delle famiglie meridionali come
misere).34
Il primo “banco di prova” del nuovo governo di unità nazionale fu il cambio
della moneta, soluzione abbandonata per la forte opposizione dei liberali.35
Con il 1946 cominciò la politica di liberalizzazione progressiva e di
abolizione graduale dei controlli, a cominciare dal controllo del corso dei
cambi. Per il contenimento dell’inflazione si scelse di contenere la spesa
pubblica per dirottare i flussi di liquidità verso il settore privato, consentendo
l’espansione incontrollata del credito bancario.36
Nella stessa direzione continuò il governo De Gasperi II, in connubio con la
Banca d’Italia.
Il 1947 fu l’anno della svolta economica, a cui si accompagnò la fine del
tripartito (DC-PSI-PC) e la “cacciata delle sinistre” perfezionata con il De
Gasperi IV. Lo statista triestino, recatosi a gennaio negli Stati Uniti ottenne un
prestito di 100 milioni di dollari e soprattutto l’ammissione dell’Italia agli
organismi istituiti a Bretton Woods (FMI e BM). Tutto ciò consentì di far
sicuro affidamento sul piano di aiuti finanziari emanato dal segretario di Stato
Marshall.37
Ma il vero scoglio era l’inflazione che dopo una stasi nella prima metà del
1946, aveva ripreso l’impennata per diversi motivi: la generosa politica di
finanziamenti praticata dalle banche; la diffusa conversione delle disponibilità
monetarie eccedenti all’accaparramento di scorte in merci e valute estere;
32 Ivi, pp. 20-21. 33 Ivi, p. 20. 34 L’inchiesta parlamentare sulla miseria e sui mezzi per combatterla fu deliberata dalla Camera
dei Deputati il 12 ottobre 1951. 35 Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi, Torino, 2013, p. 270. 36 Graziani, Op. cit. pag 34 e Castronovo, Op.cit., p. 279. 37 Catronovo, Op. cit., p. 281.
19
l’esito negativo del prestito pubblico “della ricostruzione” che registrò
massicce iniezioni degli istituti di credito e scarsa partecipazione dei
risparmiatori privati; le richieste salariali della classe operaia stremata dal
continuo rincaro della vita.38
A debellare l’inflazione fu Einaudi, chiamato dalla Banca d’Italia al
dicastero del Bilancio da De Gasperi nel suo quarto governo. Le sue misure
furono tanto drastiche quanto lineari: abolizione dei “prezzi politici”; aumento
delle imposte sui capitali, sui redditi e sui consumi; contenimento del credito
bancario e controllo quantitativo della circolazione monetaria. Perno centrale di
questa complessa manovra fu un consistente aumento delle riserve obbligatorie
delle banche presso l’Istituto di emissione, unitamente all’elevazione del tasso
di sconto.
Il successo della manovra di Einaudi per il salvataggio della lira fu
riconosciuto da tutti, ma le conseguenze della stretta creditizia e della caduta
globale della domanda furono pesanti sia in termini economici, con il regresso
della produzione industriale e l’aumento della disoccupazione, sia in termini
sociali.39
Fondamentali furono gli aiuti americani, nell’ambito dell’Erp, che fornirono
nuovo ossigeno per gli investimenti impedendo all’economia italiana di
arenarsi tra le secche della recessione.
Tra il 1948 e il 1952 l’Italia beneficiò di stanziamenti pari a 1470 milioni di
dollari sotto forma sia di fornitura gratuita di macchinari e materie prime sia di
prestiti a tassi ridotti per l’acquisto di impianti. Non tutti gli aiuti destinati a
finanziare gli investimenti e le opere pubbliche vennero inizialmente utilizzati
a tale scopo ma in buona parte destinati all’aumento delle riserve valutarie.
Furono da più parti mosse critiche al modo in cui il governo impiegò gli
aiuti americani e le più dure furono quelle espresse nel rapporto del Country
Study, presentato al Congresso americano nel febbraio 1949. Si avversava la
manovra deflazionista e dunque i rubinetti del credito bancario e degli
investimenti pubblici chiusi (o quasi), cioè l’esatto contrario di quanto l’Erp
proponeva per rialzare la produzione e l’occupazione.40 Le obiezioni sollevate
38 Catronovo, Op.cit., pp. 279-280. 39 Castronovo, Op.cit., p.282; Graziani, Op.cit., pp. 42-43; V. Zamagni, Dalla periferia al
centro, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 414. 40 Castronovo, Op.cit., pp. 284-286; Graziani, Op.cit., p. 36; Zamagni, Op.cit., pp. 422-423.
20
da Washington lasciarono il segno e dalla seconda metà del 1949 l’accumulo di
riserve venne rallentato per lasciar posto ad una politica monetaria meno
restrittiva,41 anche grazie alla stabilizzazione della lira ad un cambio, di 625
lire per un dollaro, destinato a restare in vigore fino al 1971.42
Misure più efficaci erano necessarie in particolare per il settore agricolo, il
cui peso era ancora forte nell’economia italiana (occupava il 44% della forza
lavoro nel 1951), e ovviamente per il Mezzogiorno dove, in alcune zone, la
disoccupazione aveva raggiunto anche soglie del 50%.
In tale contesto le lotte contadine, inasprite dalla cronica eccedenza di
manodopera rurale, dai nodi irrisolti del latifondo e dalla libertà sindacale
appena recuperata, ottennero la Cassa per la formazione della piccola proprietà
contadina, nel 1948, ma soprattutto la riforma agraria del 1950.43
Attraverso tre spezzoni distinti approvati tra il maggio e il dicembre del
1950 la riforma “Segni” si tradusse nell’esproprio e nella distribuzione di
760mila ettari di terra (localizzati per il 60% al Sud) a 130mila assegnatari
quasi tutti capifamiglia contadini, sulla base di pagamenti rateali in trenta
annualità. Ma le dimensioni sia dei “poderi” unitari (pari in media a 6-8 ettari)
sia delle “quote”, ossia dei frammenti minori integrativi di altre piccole
porzioni di terra già possedute, risultarono troppo esigue per garantire un
reddito apprezzabile, se non là dove già esisteva un certo patrimonio di
infrastrutture, opere irrigue o dove i terreni erano più fertili.
Se da una parte quindi fu estirpata la piaga del latifondo e delle più odiose
forme di sfruttamento delle masse bracciantili, dall’altra non furono toccati
molti fondi appartenenti a medi proprietari del “ceto civile” altrettanto
assenteisti quanto i grandi proprietari terrieri. Nonostante i costi sostenuti dalle
finanze pubbliche per l’esproprio e le successive spese di trasformazione (pari
a ad una cifra da sei a otto volte il valore iniziale della terra), la riforma non
giunse ad assicurare un effettivo e generale sviluppo della produttività e dei
redditi nelle campagne del Sud. 44
Unitamente alla riforma agraria fu varato un piano straordinario d’intervento
pubblico mediante la creazione, nell’agosto del 1950, della Cassa per il
41 Castronovo, Op.cit., pp. 287. 42 Graziani, Op.cit., p. 42. 43 Zamagni, Op.cit., p. 425. 44 Castronovo, Op.cit., p. 291.
21
Mezzogiorno che nei primi anni 50 intervenne a favore dell’agricoltura e delle
infrastrutture civili (strade, ponti, opere idrauliche, scuole e ospedali),
favorendo con queste il progresso sociale e civile, e solo in un secondo
momento dello sviluppo industriale.
Il complesso sistema di agevolazioni e incentivi, incentrati principalmente
su riduzioni di costo, ebbe però un effetto assai debole sulle decisioni di
investimento dei produttori meridionali. Di fatto, grazie all’azione pubblica
intrapresa in tali anni, aumentarono i livelli di reddito e di consumo ma la
mancata industrializzazione autoctona portò sempre più il Sud ad essere un
ampio mercato interno per le imprese del Nord: entro il 1959 il Mezzogiorno
giungerà ad assorbire, in virtù dell’aumento della capacità di spesa, il 70%
delle “esportazioni” nette dell’Italia nord-occidentale.45
45 Castronovo, Op.cit., p. 291.
22
Capitolo 2
La Confindustria dalla nascita alla fine della seconda guerra
mondiale
2.1 Origini e strategie di Confindustria nel primo decennio di vita
Fu nelle aree del Nord, e precisamente in Piemonte, Lombardia e Liguria,
che l’industrializzazione procedette speditamente negli ultimi anni dell’800 fu
dunque in tali zone, dove la crescita organizzativa e conflittuale del movimento
operaio si faceva sempre più solida, che cominciarono a diffondersi forme di
organizzazione e di rappresentanza degli interessi degli imprenditori
industriali.46
Il primo archetipo di associazione imprenditoriale fu la Società Promotrice
dell’Industria Italiana, fondata a Torino nell’aprile del 1868, a cui seguirono
numerose organizzazioni di categoria, come l’Associazione Laniera Italiana a
Biella (1877), l’Associazione Serica Italiana a Milano (1877), ma è solo nei
primi anni del nuovo secolo che si costituirono le prime associazioni territoriali
intercategoriali.47
Tra le tante fu la Lega industriale di Torino, fondata nel 1906, a realizzare il
primo embrione di un organismo rappresentativo dell’industria su scala
nazionale, grazie al prestigio del suo presidente Louis Bonnefon Craponne,
imprenditore tessile, e alla forte tenacia del suo segretario generale Gino
Olivetti, specializzato in macchine da scrivere. 48
Il 5 maggio del 1910 vide così la luce nella capitale subalpina la
Confederazione italiana dell’industria (Cidi), che annoverava 1200 aziende, per
un totale di 160.000 dipendenti. Nonostante le associazioni padronali coinvolte
fossero solo undici sulle quarantotto esistenti a quel tempo nel Nord-ovest,
erano rappresentati tutti i settori industriali, fatta eccezione per quello
idroelettrico.
46 Bazzicchi, Cent’anni di Confindustria (1910-2010), Libreriauniversitaria.it, Limena, 2009,
p. 11. 47 Ivi, p. 12. 48 Castronovo, Cento anni di imprese, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 20-22.
23
Gli scopi della Cidi furono fissati nell’art. 3 dello statuto:
“La Confederazione non tocca l’autonomia delle singole Associazioni, ha
carattere apolitico, e si propone:
a) Di promuovere l’unione delle associazioni padronali esistenti in Italia e
la fondazione di nuove associazioni ove queste non esistano, allo scopo
di tutelare e difendere con tutti i mezzi opportuni gli interessi collettivi
dell’industria e degli industriali;
b) di propugnare il rispetto e la libertà di lavoro;
c) di favorire la buona intesa con gli operai.”
Per il conseguimento di questi scopi, erano stati istituiti un Consiglio
generale, composto da quindici membri ed eletto dalle associazioni
confederate, e un Comitato direttivo, formato da quattro membri eletti dal
Consiglio generale, con a capo un presidente, eletto annualmente dal Consiglio
generale. Quanto al patrimonio, esso consisteva in un fondo alimentato ogni
anno dalle quote che gli imprenditori versavano alle loro rispettive
associazioni.49
Alla guida della neonata Confederazione si stabilirono Craponne e Olivetti,
rispettivamente presidente e segretario generale.
Il primo anno di vita vide l’impegno soprattutto nello studio di riforme
riguardanti la legislazione del lavoro e in particolare infortuni, lavoro
femminile e minorile, riposo settimanale, Consiglio superiore del lavoro. 50
Ribadito più volte il carattere “apolitico” della Confederazione dinanzi alla
ventilata ipotesi di un “partito degli industriali” era però necessario colmare un
vuoto di rappresentanza politica: nei primi mesi del 1911 si costituì un
“Gruppo parlamentare industriale” con l’adesione di una cinquantina di
deputati e nove senatori. Ancora una volta fondamentale era stata la spinta di
Olivetti nella convinzione che non sarebbero stati più unicamente “i curiali, i
professori e i pubblici funzionari” a decidere ma anche “gli elementi produttivi
della Nazione”.51
L’industria italiana stava compiendo grandi passi in avanti e le pressioni
della Cidi sul governo Giolitti aumentarono e dall’anno seguente furono
49 Vedi Statuto del 1950. Tutti gli Statuti sono liberamente consultabili sul sito ufficiale della
Confindustria: www.confindustria.it. 50 Bazzicchi, Op. cit., p. 18. 51 Catronovo, Op. cit., pp. 35-36.
24
finalizzate all’ottenimento di misure efficaci a presidio del “prodotto
nazionale” e alla dissuasione da qualsiasi proposito di aumento delle imposte.52
Ma tra l’aprile e l’autunno del 1913 in tutti i settori si registrarono aspre lotte e
duri scontri sindacali che sfociarono, pur con modalità e motivazioni diverse,
in scioperi e serrate. A farne le spese fu principalmente Craponne che, accusato
di eccessiva intransigenza nei confronti delle agitazioni operaie, fu
“congedato” dalla presidenza a tempo illimitato e supplito prima da
Bartolomeo Loleo e poi da Ferdinando Bocca.53
Il bilancio dell’esperienza dei primi tre anni d’attività della Confederazione
non poteva che essere positivo, non tanto perché le associazioni federate erano
divenute nel frattempo una ventina (per un totale di quasi 1.900 imprese e più
di 210.000 dipendenti) ma soprattutto perché l’importanza dell’industria, quale
pilastro dell’economia italiana, era pienamente riconosciuta.54
Con lo scoppio della guerra in Europa, nell’agosto del 1914, la migliore
soluzione sotto il profilo economico sembrò la neutralità, che avrebbe
permesso di incrementare le nostre esportazioni verso i paesi belligeranti,55 ma
ben presto risultò chiaro che bisognava decidere da che parte stare.
All’interno della Cidi erano rimasti in pochi a preferire il mantenimento
della neutralità; gli altri si erano già dati da fare per non rimanere spiazzati al
momento dell’ingresso in guerra.56
Con l’ingresso italiano nel conflitto il 24 maggio 1915, il ruolo della
Confederazione passò in secondo piano rispetto ai Comitati di Mobilitazione
Industriale, creati per pianificare e gestire lo sforzo produttivo del Paese.57
A fine guerra apparve chiaro che il sistema industriale aveva assunto
dimensioni e caratteristiche tali che la Cidi d’un tempo non avrebbe potuto più
esserne l’espressione e la rappresentanza all’esterno, anche per le fratture che si
erano intanto prodotte tra i principali gruppi e nell’ambito stesso di alcune
associazioni di categoria, a causa sia di forti contrasti d’interesse sia di certi
irriducibili antagonismi personali.58
52 Ivi, p. 38. 53 Castronovo, Op. cit., pp. 41-45; Bazzicchi, Op. cit., pp. 22-23. 54 Castronovo, Op. cit., p. 55. 55 Ivi, p.57. 56 Ivi, p.62. 57 Bazzicchi, Op. cit., p.22. 58 Castronovo, Op.cit., p.65.
25
A farsi carico di un nuovo sodalizio fu Dante Ferraris, già consigliere della
Cidi e presidente dell’Assonime59, che l’8 aprile divenne presidente della
neonata Confederazione generale dell’Industria italiana, con sede a Roma, a cui
aderirono cinquanta associazioni, tra territoriali e di categoria, in
rappresentanza di 6.000 aziende industriali, anche del Sud.
A suo avviso, la Confindustria avrebbe dovuto innanzitutto tutelare la
produzione e gli interessi nazionali, in nome di una categoria economica e
sociale a cui egli attribuiva il merito di “aver condotto il Paese alla vittoria” e
che perciò avrebbe dovuto acquisire un ruolo di forte caratura e di maggiore
responsabilità nella vita pubblica.60
Tali considerazioni si riflessero indubbiamente sullo Statuto definitivo del
1920:
“La Confederazione si propone:
a) di promuovere e tutelare in ogni campo gli interessi generali della
industria nazionale;
b) di promuovere lo sviluppo dell’organizzazione associativa delle forze
industriali e di coordinarne le iniziative e le attività.”
Allo stesso modo della Cidi, i pilastri della Confindustria erano la “sezione
economica”, cioè il gruppo delle associazioni nazionali di categoria, con
compiti di studio e soluzione di problemi di carattere tecnico-economico, e la
“sezione sindacale”, cioè il gruppo delle associazioni territoriali, il cui campo
d’azione erano i rapporti fra i singoli settori d’attività e quelli fra aziende e
maestranze. Gli organi confederali erano, invece, l’assemblea generale delle
associazioni aderenti, la giunta esecutiva, il presidente e quattro vicepresidenti.
Come segretario generale fu confermato Olivetti.
Ciò che dunque differenziava in modo significativo il nuovo sodalizio da
quello precedente era la mancanza, nello Statuto, di qualunque riferimento alla
”apoliticità”.
Il primo segno di questo cambio di rotta avvenne nel luglio 1919, quando il
primo ministro Nitti chiamò Ferraris ad assumere l’incarico di ministro
dell’Industria. In un periodo di forti polemiche sui sovrapprofitti accumulati in
guerra da alcuni grandi gruppi con le commesse statali, tale evento rappresentò
59 Associazione società anonime italiane. 60 Ivi, p.69.
26
indubbiamente una rivincita degli industriali considerando che tale dicastero
comprendeva anche il commercio e il lavoro.61
Con l’aggravarsi della situazione finanziaria la Lega industriale torinese
s’era spinta ancora più in là promuovendo, in vista delle elezioni del 16
novembre, la formazione di un “partito liberale economico” e quale suo
capofila proprio Gino Olivetti: i risultati furono alquanto scarsi.62
Nel mentre che si succedevano alla presidenza della Confindustria Pirelli,
Silvestri e Conti si palesava sempre più la mancanza nella classe
imprenditoriale di un accordo, su alcune linee-guida impegnative e plausibili,
necessario per esercitare una funzione direttiva, nell’elaborazione della politica
economica e sociale.63 Infatti unicamente Olivetti era dell’avviso che si
dovessero recidere una volta per tutti i legami che sussistevano con
l’interventismo pubblico e non fare più conto su un regime protezionista,
puntando su una liberalizzazione degli scambi.64
Fatto sta che a tener banco nel in questo periodo fu il clima di duro
confronto sociale che, iniziato nell’autunno del 1919 raggiunse il culmine
nell’agosto del 1920 quando, dopo un infruttuoso tentativo di conciliazione tra
le parti, alla serrata delle fabbriche decisa dagli industriali seguì l’occupazione
delle stesse da parte di quasi mezzo milione di lavoratori.65
Alla fine di settembre le fabbriche vennero sgomberate e gli operai
ottennero un aumento dei salari, le ferie pagate e l’indennità di licenziamento.66
Furono accantonate per l’aggravarsi della recessione economica il progetto di
legge giolittiano sul “controllo sindacale” nelle fabbriche, insieme alle altre
misure governative sulla confisca dei profitti di guerra, sull’inasprimento
fiscale e sulla nominatività dei titoli.67
Per le elezioni del 1921 si ripresentò il “partito liberale economico” ma
l’obiettivo della dirigenza imprenditoriale era di portare il maggior numero di
propri soci e simpatizzanti nelle liste del “Blocco nazionale” (costituito da
liberali, ex combattenti, nazionalisti ma alche alcuni esponenti del movimento
61 Ivi, p.77. 62 Ivi, p.85. 63 Ivi, p. 87. 64 Ivi, p.89. 65 Ivi, pp. 98-108; Bazzicchi, Op. cit., pp. 34-35. 66 Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi, Torino, 2013, p. 167. 67 Ivi, p.168; Castronovo, Cento anni di imprese, p. 119.
27
fascista) per arginare l’avanzata socialista68: ormai l’“apoliticità” era solo un
ricordo.69
Nonostante i primi timori confindustriali70, il nuovo governo del social
riformista Bonomi, in carica fino al febbraio 1922, non solo aveva lasciato
cadere il progetto sul “controllo sindacale” e rinviato le misure giolittiane ma
aveva procurato importanti commesse pubbliche,71 pressato dagli industriali.72
2.2 L’associazione nel ventennio del regime fascista
Di fronte alla forte crisi economica e finanziaria fu Olivetti, patrocinando la
”Alleanza economica parlamentare”, a esporre, con un manifesto steso il 27
giugno del 1922 e rivolto al paese, il programma di governo che stava a cuore
alla Confindustria, alla cui presidenza era intanto succeduto Targetti, In tale
documento si riteneva necessario ridurre le file della burocrazia, rinunciare a
qualsiasi ulteriore spesa in bilancio, eliminare i disavanzi accumulatisi nei
servizi pubblici e abbandonare da parte dello Stato qualsiasi funzione non
strettamente necessaria.73
Per superare la grande debolezza del governo Facta i massimi dirigenti
confindustriali cercarono fino all’ultimo di favorire il ritorno di Giolitti per
evitare l’avvento di Mussolini al potere o comunque una svolta reazionaria.74
L’atteggiamento iniziale della Confindustria nei confronti del governo
Mussolini, insediatosi il 31 ottobre 1922, fu di cautela, poiché si attendevano le
misure ritenute indispensabili sul versante finanziario, ma anche di una certa
diffidenza, in quanto la base del movimento fascista non era affatto ben
disposta nei confronti del mondo imprenditoriale (“un sinedrio di plutocrati”).75
I provvedimenti di ispirazione liberista assunti dal ministro delle Finanze De
68 Castronovo, Cento anni di imprese, p.127. 69 Olivetti aveva detto chiaro e tondo in una riunione della Lega industriale di Torino, svoltasi
il 10 aprile 1921, che era ormai tempo per gli imprenditori di “andare alla Camera”: non più
come “rappresentanti di una classe ma di una Nazione, per far valere le ragioni
dell’industria in quanto coincidenti con gli interessi della collettività”. 70 Castronovo, Cento anni di imprese, p.129. 71 Ivi, pp. 139-140. 72 Ivi, p. 130 (in merito alle pressioni degli industriali sulle pressioni al governo Bonomi). 73 Ivi, p. 158. 74 Ivi, p. 161. 75 Ivi, pp. 164-165.
28
Stefani andavano incontro alle richieste di Confindustria. Tra questi, infatti, si
segnalavano le agevolazioni fiscali per le imprese, l’eliminazione della
nominatività dei titoli, il ritorno ai privati dei servizi telefonici e delle
assicurazioni sulla vita, l’accantonamento delle norme sui profitti di guerra e di
qualsiasi progetto di pubblicizzazione del settore elettrico.
Sul versante delle relazioni industriali, il patto di Palazzo Chigi siglato del
19 dicembre 1923 mise fine ai forti timori di un “corporativismo integrale” con
cui Rossoni, leader del sindacalismo fascista, mirava ad aggregare in un unico
consesso le organizzazioni padronali di categoria e quelle sindacali dei
lavoratori.76 Era salva dunque l’autonomia organizzativa della Confindustria,
presieduta ora da Stefano Benni.
Nel frattempo, per evitare che il Partito fascista provocasse una spaccatura
nel mondo industriale erigendosi ad alfiere delle piccole aziende e
contrapponendole a quelle medio-grandi, il direttivo della Confindustria
costituì, nel maggio 1923, un comitato centrale per la piccola industria creando
una rete di servizi che assistessero a livello locale le imprese minori nelle loro
attività.77
Sul versante politico l’obiettivo politico degli esponenti del mondo
imprenditoriale e economico era di assecondare una “costituzionalizzazione”
del fascismo e approdare ad un regime liberal-conservatore, una volta portato a
termine da Mussolini il ripristino dell’ordine e il restauro delle finanze
pubbliche.78
Le aspettative sulla “normalizzazione” del fascismo vennero totalmente
smentite con l’assassinio di Matteotti del 10 giugno del 1924, in seguito al
quale la Confindustria rinnovò la condanna delle violenze squadristiche e
invocò il ripristino della legalità in un documento presentato al capo del
governo. Ma con il discorso del 3 gennaio del 1925 Mussolini instaurò
definitivamente la dittatura.
Era necessario però il consenso degli industriali al regime e dunque nel
luglio il Duce sostituì alle Finanze De Stefani con Volpi, esponente di rilievo
della finanza e della grande industria ed ex dirigente confederale, e tre mesi
dopo, con il patto di Palazzo Vidoni, riconfermò l’autonomia organizzativa
76 Bazzicchi, Op. cit., p. 37 77 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 167. 78 Castronovo, Storia economica d’Italia, p. 181.
29
della Confindustria, in cambio del riconoscimento ai sindacati fascisti della
rappresentanza esclusiva dei lavoratori.
A tale patto seguì la legge Rocco dell’aprile del 1926, sulla regolazione dei
rapporti di lavoro, il riconoscimento giuridico delle associazioni sindacali come
enti di diritto pubblico, il contratto collettivo di lavoro con efficacia “erga
omnes”, verso tutti gli appartenenti della categoria anche se non iscritti
all’Associazione, l’istituzione della Magistratura del lavoro per la soluzione di
ogni vertenza, il divieto dello sciopero e della serrata.79
Per la Confindustria, che contava ormai oltre 22.000 imprese e società,
questa legge comportò significativi mutamenti strutturali che però non ne
pregiudicarono l’autonomia e la rappresentanza collettiva del sistema
imprenditoriale. Si dovettero abolire le associazioni regionali e di particolari
distretti, miste o di categoria, per dar luogo ad Unioni provinciali, e procedere
alla fusione di ciascuna associazione di carattere sindacale con quella di
carattere economico della stessa categoria nell’ambito di un’unica federazione.
Tuttavia fu possibile mantenere in vita quasi tutte le associazioni territoriali.80
Malgrado i parziali progressi della seconda metà degli anni Venti,81, l’Italia
fu colpita, all’inizio del decennio successivo, dagli effetti della “grande crisi”
statunitense del 1929.82
Al centro del nuovo sistema di regolazione e intervento dello Stato nel
mercato, susseguente la crisi, venne posto dal 1933 l’Iri, l’Istituto per la
Ricostruzione industriale, articolato in due sezioni distinte: la sezione di
finanziamento a breve e a lungo termine per le imprese industriali (compito
precedentemente affidato all'IMI) per affiancare le grandi banche di
investimento; la sezione "smobilizzi industriali" con il compito di acquisire
le azioni di grandi imprese industriali in difficoltà che erano possedute da
banche italiane o da privati.
La conversione due anni dopo all’autarchia dell’intero sistema produttivo fu
il corollario di una politica economica che, dal 1933, aveva segnato una
progressiva estensione dei poteri e delle funzioni dello Stato. Se inizialmente a
determinare questa svolta era stata, in mancanza di concrete alternative,
79 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 203. 80 Si veda il nuovo Statuto del 1926. 81 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 212-213. 82 Castronovo, Storia economica d’Italia, p. 204.
30
l’esigenza di salvare dal collasso i principali istituti di credito e un folto
scaglione di aziende fortemente indebitate e sull’orlo del baratro, e l’Iri in
questo aveva eseguito a pieno il suo mandato; dopo il varo di una politica
autarchica, gli orientamenti del duce preludevano all’avvento di una
pianificazione dirigistica dell’economia.83
Il Regime stava rendendo sempre più prescrittivo e vincolante
l’ordinamento corporativo per le organizzazioni economiche e professionali.
Nel 1933 il capo del governo aveva nominato i “commissari straordinari” che
avrebbero dovuto sovrintendere all’istituzione delle nuove confederazioni
nazionali operanti nell’ambito dell’economia corporativa: per la Confindustria
tale compito fu assegnato, da fine dicembre, ad Alberto Pirelli.
Per la compagine confindustriale, che contava ormai su cinquanta
associazioni nazionali e novantaquattro associazioni territoriali, fu sempre più
improbo esercitare la funzione per cui era stata costituita. Infatti furono
soppresse tutte le associazioni di primo grado in seguito alla revoca del loro
riconoscimento giuridico: così che si sarebbero ridotte a tredici federazioni di
categoria, ognuna delle quali preposta ad accorpare settori affini e di categoria.
Di fatto, esse si sarebbero poi trasformate in altrettanti uffici periferici della
Confederazione. Rimase invece intatto l’assetto centrale della Confindustria,
con una struttura articolata in tre settori (organizzazione e affari generali,
economici, del lavoro) ma venne abolita la carica di segretario generale.84
Con il congedo di Olivetti si esaurì un’intera stagione nella storia della
Confindustria, che era coincisa con il decollo industriale del paese e
l’assunzione da parte del ceto imprenditoriale di un ruolo sempre più rilevante
nella vita pubblica.85
Ma la novità più importante stava nel fatto che al ministero delle
Corporazioni, nelle mani di Mussolini, era riservato il potere di annullare, a suo
insindacabile giudizio, le deliberazioni delle singole federazioni, qualora non vi
avesse provveduto il vertice confederale, nonché di far eseguire indagini e
ispezioni a mezzo degli organi alle sue dipendenze.
Il nuovo presidente Volpi era convinto comunque che lo Stato si sarebbe
limitato a mantenere sotto la gestione pubblica, tramite l’Iri, soltanto alcune
83 Castronovo, Cento anni di imprese, pp. 249-251. 84 Si veda lo Statuto del 1934. 85 Castronovo, Cento anni di imprese, pp. 234-235.
31
imprese strettamente attinenti con la difesa nazionale e che l’autarchia non
avrebbe determinato un processo di “statalizzazione”.86
La politica economica finì però per intrecciarsi sempre più con la politica
estera del regime, che mirava a rimettere in discussione gli equilibri esistenti e
a creare delle aree di influenza da cui fosse possibile trarre adeguate risorse.87
In questo senso fu strategica l’alleanza politica e militare con la Germania
nazista, che (oltre alla convergenza ideologica) poteva rivendicare dalla sua il
fatto di aver aperto il proprio mercato a un crescente flusso delle nostre
esportazioni.88
Allo scoppio della guerra, il primo settembre del 1939, Volpi e altri capitani
d’industria avevano sperato che l’Italia rimanesse fuori dal conflitto
segnalando, per di più, l’impreparazione dell’esercito, la carenza di materie
prime e di combustibile, e l’impossibilità anche per le maggiori imprese di
coprire in poco tempo un fabbisogno di armamenti tale da consentire all’Italia
di passare all’offensiva nel Mediterraneo di presidiare con successo i territori
coloniali. Era necessario un periodo di pace e di raccoglimento, vista pure la
disastrosa situazione delle finanze pubbliche, ed anche gran parte dei gerarchi
fascisti erano concordi.89
Ma il 10 giugno del 1940 fu dichiarata guerra agli Alleati ed è ben noto
come andarono a finire le cose.
Dall’autunno del 1941 la Confindustria si era ridotta per lo più ad applicare,
senza più dissentire, le regolamentazioni e le misure disciplinari stabilite dal
governo, appropriate o meno che fossero e Volpi dovette ammettere che alle
funzioni di tutela e di difesa dei legittimi interessi delle categorie rappresentate
si erano sostituite quelle di denuncia, repressione, costrizione, limitazione e
punizione.90
Alla guida della Confindustria nel 1943 passò Giovanni Balella ma dopo la
caduta del fascismo, gli uffici furono traslocati in gran parte al Nord, insieme a
quasi tutti gli incartamenti dell’archivio.
Da allora, la “Delegazione dell’alta Italia” avrebbe vissuto una grama
esistenza, sotto tre successivi commissari e agli ordini del ministro
86 Ivi, pp. 264-265. 87 Castronovo, Storia economica d’Italia, p.226. 88 Ivi, p. 229. 89 Castronovo, Cento anni di imprese, pp. 269-270. 90 Ivi, p. 272.
32
dell’Economia corporativa Angelo Tarchi. Quanti facevano parte di questo
troncone della Confindustria avevano comunque fatto del loro meglio, a
supporto di varie aziende, per cercare di contrastare l’asportazione di
macchinari in Germania da parte delle autorità tedesche d’occupazione.91
2.3 La ricostituzione della Confindustria dopo la seconda guerra
mondiale
Se nella capitale si erano man mano ricomposte le file della Confederazione,
lo si doveva a un’opera laboriosa quanto accidentata dapprima da Mazzini
(nominato vicecommissario della Confindustria dal governo Badoglio), e poi
due vicecommissari, Fabio Friggeri e Federico Jarach.92
In particolare Fabio Friggeri che convocò il 12 settembre 1944 a Roma
un’assemblea costitutiva in cui vi parteciparono i rappresentanti di diciassette
federazioni nazionali di categoria, di nove associazioni regionali e di
quattordici unioni provinciali, ricostituitesi nelle zone liberate, dopo essere
state sciolte tre mesi prima dal governo militare alleato.
Era stato varato, in tale assise, un nuovo statuto ed eletto un direttivo, con
Friggeri a capo della giunta esecutiva e Jarach alla vicepresidenza: la
Confindustria aveva così ricominciato a funzionare in qualche modo.
Ma solo dall’inizio del 1945 il governo Bonomi aveva riconosciuto
formalmente la nuova Confindustria e inserito i suoi rappresentanti in alcuni
organismi incaricati di coadiuvare l’opera delle autorità pubbliche per
affrontare la situazione d’emergenza e riavviare l’attività produttiva.
Intanto andava prima preservata e poi riaggregata l’industria del Nord e
dunque Friggeri il 14 aprile lanciò un appello agli industriali perché cercassero
di salvare gli impianti dai saccheggi e dalle distruzioni per mano dei tedeschi e,
dopo la Liberazione, si recò personalmente a Milano, Genova e Bologna per
riattivare gli uffici della “Delegazione dell’Alta Italia” e riannodare i rapporti
del “gruppo romano” con i dirigenti delle superstiti associazioni territoriali e di
91 Ivi, p. 275. 92 Ibidem.
33
categoria.93 Per quanto concerne il carattere e gli scopi della ricostituita
Confindustria il nuovo Statuto del 44, che sarebbe stato definitivamente
modificato sei anni dopo, recitava:
“La Confederazione, che ha carattere apolitico, ha per scopo:
a) di tutelare in ogni capo gli interessi generali della industria italiana,
rappresentandola nei confronti di qualsiasi amministrazione o autorità e di
altre organizzazione economiche col rispetto della piena autonomia delle
singole Associazioni di categoria e delle singole Associazioni territoriali;
b) di coordinare le direttive delle predette associazioni stabilendo, con la sola
collaborazione e d’intesa con essa, i criteri e gli indirizzi da seguire sui
problemi di interesse generale per le categorie industriali;
c) di svolgere opera di conciliazione nell’eventualità di contrasti d’interessi fra
le varie categorie;
d) di portare il suo contributo all’opera di ricostruzione dell’industria italiana
mediante lo studio e la risoluzione dei problemi che ad essa si connettono,
tenendo presenti le peculiari condizioni dell’industria a seguito delle
vicende belliche e le altre finalità del risorgimento nazionale”.94
Da segnalare dunque sia il recupero, dal primo Statuto, del carattere di
“apoliticità” sia il contributo alla ricostruzione dell’industria italiana, frutto di
una chiara visione delle difficoltà post-belliche.
Migliorate le condizioni economiche, lo Statuto del 1950, mantenuta l’
“apoliticità”, non avrebbe fatto alcun riferimento alla ricostruzione ma avrebbe
incrementato gli scopi:
“La Confederazione è apolitica ed ha per scopo:
a) lo studio dei problemi di interesse generale per l’industria generale e la
determinazione dei criteri e degli indirizzi da seguire per la loro
risoluzione, in coordinamento con le direttive espresse dalle singole
associazioni aderenti;
b) lo studio dei problemi sindacali e la determinazione dei criteri da adottarsi
per la loro risoluzione dando le direttive e le autorizzazioni alle singole
associazioni aderenti nei csi di trattative sindacali da parte di esse e
restando le associazioni stesse strettamente vincolate a tali direttive;
93 Ivi, p. 276. 94 Statuto del 1944.
34
c) la stipulazione di pattuizioni di carattere generale interessanti l’industria;
nonché, su espressa delega, di contratti collettivi di lavoro riguardanti una
o più categorie;
d) la tutela in ogni campo, con la collaborazione e di concerto con le
associazioni aderenti, degli interessi generali dell’industria nazionale,
rappresentandola nei confronti di qualsiasi autorità, amministrazione ed
ente, nonché delle organizzazioni economiche e sindacali.
La Confederazione ha altresì lo scopo:
e) di contribuire, sempre in collaborazione con le associazioni aderenti, allo
sviluppo dell’industria e dell’economia nazionale con lo studio e la
risoluzione dei problemi relativi, tenute presenti le condizioni contingenti
dell’industria stessa e le alte finalità del risorgimento nazionale;
f) di svolgere opera di conciliazione nei casi di contrasto di interessi tra
categorie industriali o per la conclusione di accordi economici fra le
categorie stesse;
g) di promuovere la costituzione di istituti di assistenza e di istruzione
professionale per il miglioramento della produzione”.95
Sul versante strutturale gli organi statutari, nel 1944, erano l’Assemblea dei
delegati, la Giunta esecutiva, il presidente e il Collegio dei revisori dei conti. In
seguito si aggiunsero il Consiglio generale, emanazione diretta delle
associazioni confederali e il Comitato di presidenza, organo consultivo del
presidente.
Tra le novità statutarie del 1950 importanti furono: la creazione dei comitati
permanenti (per gli affari organizzativi, per gli affari economici e per gli affari
sindacali), quali organismi consultivi intesi ad affiancar l’azione della
presidenza nei tre principali settori di attività (art.18); la costituzione di organi
particolari per la Piccola Industria, articolati in un Comitato nazionale con la
rappresentanza di tutte le componenti territoriali e in una Commissione
centrale, emanazione del Comitato nazionale stesso (artt. 26 e 27).
Se per certi aspetti nella ricostituita Confederazione Generale dell’Industria
Italiana si ritornava sostanzialmente ai criteri dell’epoca prefascista, per altri
versi più che un “gruppo di pressione” generalmente inteso si poteva parlare di
una vera e propria centrale permanente di rappresentanza degli interessi
95 Statuto del 1950.
35
generali dei ceti industriali, che si proponeva come uno dei principali
protagonisti della vita politica ed economica, oltre che sindacale, del Paese.96
L’esistenza di un’organizzazione imprenditoriale centralizzata e al tempo
stesso articolata in un sistema di componenti territoriali e di categoria, dotata di
poteri decisionali, di un nutrito e selezionato apparato di tecnici e di esperti di
relazioni industriali, di contrattualistica, di problematiche del lavoro e di
politica economica, con prevalenti compiti di elaborazione, di studio e di
consultazione, assunse una rilevanza del tutto particolare nel panorama dei
paesi industrializzati dell’Occidente.
Le ragioni di questa peculiarità erano molteplici.
Una di esse risiedeva nella necessità oggettiva per gli imprenditori – più
marcata in Italia che all’estero – di garantirsi perennemente il funzionamento di
relazioni dirette e organiche con le forze politiche e sociali, con il governo, con
la burocrazia statale e con le istituzioni locali.
Un’altra ragione era data dall’invasività dell’intervento dello Stato sui
problemi economici e sociali (controllo sul sistema bancario e creditizio, sulla
politica dei prezzi, sulla produzione industriale, sul sistema delle imprese a
partecipazione statale), nonché su quelli dei rapporti di lavoro (ampia e
particolareggiata legislazione sul lavoro, sull’assistenza e la previdenza, ecc…)
Una terza ragione riguardava la natura della contrattazione sindacale,
fondata su accordi interfederali, validi “erga omnes” e su contratti nazionali di
categoria che definivano dal centro i trattamenti e le norme fondamentali del
rapporto di lavoro. D’altra parte, anche lo stesso movimento sindacale dei
lavoratori per cause alquanto simili era andato organizzandosi in modi e
strutture analoghe.97
Fatto sta che l’assemblea dei delegati, il 10 dicembre del 1945, elesse alla
presidenza Angelo Costa a cui si affiancò, dall’anno successivo, Mario Morelli
che assunse la carica di Segretario Generale (mantenuta fino al 1970).
96 Bazzicchi, Op. cit., p. 52. 97 Ibidem.
36
Capitolo 3
La prima presidenza Angelo Costa (1945-1955)
3.1 L’identità di Angelo Costa
Quando Costa venne eletto alla guida della Confindustria aveva
quarantaquattro anni. E dal 1924, dopo la laurea in Economia e commercio,
lavorava nella ditta fondata a Genova da suo padre, Federico, per il commercio
dell’olio d’oliva con le Americhe, che s’era poi fatta un nome non solo per la
raffinazione di questo prodotto, ma per l’attività armatoriale (intrapresa nel
1936 con una compagnia addetta anche a navi passeggeri) e alcune attività
complementari nel settore metalmeccanico. Angelo, che era adesso a capo
dell’azienda e a cui si doveva quest’ampliamento degli affari, era imparentato
per parte di madre con uno dei più illustri casati genovesi (quello dei De
Ferrari) e, per via del suo matrimonio con Pinuccia Romanengo, con un’altra
famiglia che contava nell’alta borghesia della città. Per il resto era un uomo di
stretta osservanza cattolica, come tutti i suoi familiari, e in ottimi rapporti con
la curia.98
Le ragioni per cui venne scelto a guidare la compagine confindustriale
furono due. In primo luogo, egli non aveva da rendere conto di alcun rapporto
personale col governo fascista (a differenza di molti altri confindustriali) e la
sua azienda non aveva mai tratto alcun diretto beneficio dalla politica del
Regime, non essendo fornitrice dello Stato. In secondo luogo, si sapeva che,
per formazione e per indole, Costa era un uomo di molto buon senso,
equilibrato nei giudizi ma assolutamente fermo nella difesa della libera
iniziativa.99
Alla base del pensiero di Costa vi erano infatti la fede nell’evoluzione
spontanea e di lunga durata della società moderna e una fiducia spiccata nella
libertà, economica e politica, che segue impassibilmente il corso naturale delle
cose, con echi quasi vichiani:100 “Libertà, giustizia e bene comune sono
98 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 280. 99 Ibidem. 100 Zamagni, Fauri, Angelo Costa, un ritratto a più dimensioni, Bologna, Il Mulino, 2007,
37
intimamente legati tra di loro. Se si lede la libertà si lede anche la giustizia e il
bene comune. Si lede la libertà mettendo vincoli all’iniziativa privata,
mettendo limiti alla possibilità di risparmio ed accumulazione della ricchezza.
E’ la mancanza di libertà che crea le eccessive forme di capitalismo, le quali a
loro volta sono causa di maggiori limitazioni di libertà.”101
Dunque una concezione liberistica che per principio respinge l’ingerenza
pubblica come privazione della feconda libertà dell’individuo. L’intervento
statale può però essere molto utile agli sforzi del paese per risollevarsi dalle
distruzioni del conflitto mondiale, soprattutto per la riallocazione degli
occupati in industrie di guerra e per affrontare il problema monetario.102
Mai però- ammonisce Costa- si dovranno accettare come normali gli
interventi statali, che sono esclusivamente “ripieghi imposti da superiori
situazioni di fatto”103.
Bisogna dunque sempre difendere l’iniziativa privata e lasciare
all’imprenditore piena libertà d’azione, perché solo in tal modo potrà favorire,
con la sua opera, il benessere collettivo:
“Fermo restando il dovere e l’interesse dell’imprenditore di servire il bene
comune, sono in grave errore coloro che credono che all’imprenditore si possa
imporre di agire in funzione sociale. Si potrà cercare di creare le migliori
condizioni di ambiente perché questo avvenga, si potranno mettere limiti di
carattere generale per limitare possibili abusi, ma all’imprenditore dovrà
essere lasciata la massima libertà possibile perché proprio attraverso la libertà
l’imprenditore può nel miglior modo servire il bene comune”.104
Ma, se da una parte si batte per la piena libertà dell’imprenditore, il suo
profondo cattolicesimo lo porta a valorizzare il fattore umano nell’ambiente
produttivo. “L’imprenditore deve procurarsi la stima dei lavoratori non
soltanto come capo intelligente, capace e laborioso, ma come uomo”.105 Ecco
l’intuizione della funzione sociale dell’imprenditore e della sua triplice
responsabilità, verso i terzi contraenti, verso i soci e verso la comunità. Il capo
dell’impresa non favorisce solo il benessere economico ma anche la
p.135. 101 A. Costa, Scritti e discorsi, Milano, Franco Angeli, 1980-84 vol. I, p. 72. 102 Zamagni, Fauri, Op. cit., p. 129. 103 A. Costa, Scritti e discorsi, vol. I, p. 53. 104 A. Costa, Scritti e discorsi, vol. II, p. 558. 105 Ivi, p. 143.
38
valorizzazione individuale, elevando gli animi degli operai con un’opera di
educazione cristiana improntata alla formazione dei caratteri e realizzabile
mediante il meccanismo della competizione, che spinge al continuo
miglioramento. Ragion per cui l’operaio non è guardato come una semplice
unità produttiva, bensì come una persona a cui, in quanto tale, non va negato
l’amore. 106
La peculiarità del pensiero di Costa è dunque proprio questa: la originale
sintesi fra liberismo e cattolicesimo, sempre fortemente presente in ogni sua
riflessione. Peculiarità che gli valse continui scontri con illustri politici,
industriali e sindacalisti dell’epoca. Ciononostante, nessuno di loro mise mai in
dubbio lo spessore morale e culturale del presidente della Confindustria.107
Per quanto riguarda l’industria italiana, nel discorso d’investitura, espresse
con la solita chiarezza i suoi propositi: “Il principio fondamentale nel quale
vedo la salvezza dell’industria italiana è quello della libertà”. Per poi
sostenere: “se i nostri benefici dipendono dal nostro lavoro, dalla nostra
capacità, dal rischio che corrono i nostri capitali, abbiamo il diritto di
difenderli a viso aperto di fronte a chiunque e di affermare che tali benefici
sono nostri e non ci debbono essere tolti”. Ma con la fermezza e
l’irremovibilità che lo avrebbero sempre contraddistinto, aveva chiarito che:
“se questi benefici ci provengono dai prezzi fissati dallo Stato per gli acquisti e
per le vendite, hanno ragione le masse lavoratrici di dire che devono
parteciparvi”. E ancora: “Vi sono motivi di contrasto tra una linea liberista e
quella di industrie cresciute in chiave assistita e protezionistica, e qui la scelta
di campo deve essere netta. Sono certo che queste mie dichiarazioni potranno
non riuscire gradite a qualche industriale. Non me ne preoccupo perché
ritengo che rispondano agli interessi della quasi totalità degli industriali
italiani”. Di certo la sua figura, non appartenente alle dinastie imprenditoriali
più blasonate, risultava una garanzia di cittadinanza per molte piccole e medie
aziende: “Noi chiediamo -aveva detto- che si creino le condizioni d’ambiente
perché chi è in basso salga e chi è in alto e non è capace di starci cada”.108
Ma è la relazione del 6 dicembre 1949 all’assemblea confederale che può
considerarsi una sorta di manifesto della classe industriale, di codice normativo
106 A. Costa, Etica e impresa, Erga, Genova, 2001, pp. 141-142. 107 Zamagni, Fauri, Op. cit., p. 150. 108 A. Costa, Scritti e discorsi , Vol. I, pp. 147-148.
39
e valoriale.
In quest’occasione esordì difendendo gli industriali dalle troppe critiche e
lezioni di morale: “Troppo spesso si vogliono dare ai nostri industriali lezioni
di morale; ce ne provengono da tutte le parti e su ogni argomento. Noi non
abbiamo certo la presunzione di essere perfetti e neanche di essere prossimi
alla perfezione, ma purtroppo le lezioni che, anche in buona fede, ci si
vorrebbero dare sono generalmente così prive di base economica e spesso
anche di morale che danno generalmente il potere di credere di essere nel
giusto”.
Non lesinò però una paternale ai suoi colleghi perché agissero
coerentemente con i loro diritti e i loro doveri: “Noi dobbiamo essere migliori
giudici di noi stessi giudicandoci con severità proporzionata ai gravi compiti
che ci incombono, senza cercare di nascondere a noi stessi i nostri difetti”. Ma
il senso dell’intera relazione stava in queste parole: “Noi industriali, più di ogni
altra categoria, abbiamo il diritto di essere classe dirigente del Paese, ma di
questo diritto dobbiamo essere degni. Rappresentare la classe dirigente non
significa sovrapporsi agli altri per imporre il proprio pensiero e far prevalere
il proprio interesse, ma significa contribuire più di tutti al bene sociale,
significa dare con maggiore generosità se stessi agli altri”.
Aveva concluso la sua arringa con un “atto di fede” e, insieme con un
ulteriore monito: “Noi industriali, che teniamo il nostro posto, in forza delle
nostre capacità di lavoro, selezionati più dai fatti che dagli uomini, che
dovremmo rappresentare la classe più rapidamente rinnovatasi, abbiamo
maggiori possibilità di operare nell’interesse di tutti e soltanto a questo titolo
noi possiamo aspirare ad essere vera classe dirigente senza la pretesa di
considerarci superiori a nessuno, consci più delle nostre maggiori
responsabilità che dei nostri diritti”. 109
109 Castronovo, Cento anni di imprese, pp. 326-327; per l’intera relazione si veda ASC, Serie
11: “Assemblea dei delegati delle associazioni aderenti a Confindustria”, f. 7 “Assemblea dei
delegati 6 dicembre 1949”.
40
3.2 Il ruolo di Costa negli anni della ricostruzione
La prima battaglia che Costa si trovò ad affrontare fu quella contro la
politica di piano, paventata nel primo governo De Gasperi e divenuta concreta
possibilità nel secondo governo del leader democristiano, quando il nuovo
ministro dell’Industria, il socialista Rodolfo Morandi, elaborò nel luglio 1946
un piano generale di produzione confidando anche sull’apporto dei consigli di
gestione.
A giudicare dai rapporti di forza politici esistenti in quel momento e dalla
ventata di massimalismo ideologico che dalla sinistra contagiava gran parte
degli ambienti culturali, quella ingaggiata da Costa per la difesa a tutto campo
dell’iniziativa privata, quale perno della rinascita economica, sembrava una
battaglia persa in partenza. D’altronde, tutto dipendeva dallo Stato: il
reperimento e la distribuzione delle materie prime, la ripartizione degli ancora
esigui aiuti americani, la disponibilità di mezzi finanziari adeguati, la
riattivazione dei trasporti e la determinazione dei prezzi di molti beni e servizi.
Ed oltre alla “scomoda”permanenza dei consigli di gestione in alcuni grossi
complessi industriali, bisognava considerare la debolezza, per vari motivi, della
grande industria lombarda e torinese su cui la Confindustria non poteva fare
affidamento. 110Con il terzo governo De Gasperi, in cui non configuravano i
liberali, unico vero punto di riferimento confindustriale, sembrò che non ci
fosse più alcun ostacolo alla politica di piano.
Oltretutto, sul fronte sindacale, la Confindustria non poteva più contare sulla
“tregua salariale” siglata nell’ottobre 1946 con la Cgil, che (sotto la guida di
Giuseppe di Vittorio) comprendeva unitariamente tutte le varie componenti
sindacali; né l’intesa sulla “scala mobile” del dicembre 1945, rimasta in vigore
per soli sei mesi, era poi servita a bloccare l’aumento dei costi del lavoro.
Sarebbe stato invece necessario uno sblocco totale dei licenziamenti per
alleggerire le imprese del carico di una manodopera eccessivamente esuberante
che esse avevano dovuto accollarsi dopo la fine della guerra, per evitare il
dilagare della disoccupazione e l’esplosione di pericolosi conflitti sociali.111
E a proposito del blocco dei licenziamenti Costa affermò:
110 Castronovo, Cento anni di imprese, pp. 286-287. 111 Ivi, p. 292.
41
“Si dice che […] vada a vantaggio dei lavoratori. Non vi è nulla di meno
esatto. Il blocco […] crea un situazione tale per la quale nessuno più si sente
di assumere personale nuovo, […] rende praticamente impossibile ad un
industriale di aumentare la manodopera quando la produzione si accresce
perché non ha la sicurezza di poter alleggerire il personale quando la
situazione […] diviene sfavorevole”.112
Ma a tener banco, già dalla seconda metà del 1946, era il problema
dell’inflazione e la Confindustria non era rimasta in surplace.
Nella riunione di giunta del 9 luglio 1946 venne stilato un promemoria per
il governo in cui si affermava l’imprescindibilità del risanamento monetario.
Altrimenti, “in una atmosfera di svalutazione, vale a dire di apprensione e di
scoraggiamento, nessuna iniziativa di produzione economica può fiorire.
Manca la base ferma su cui poggiare sani programmi di produzione”. Perciò
occorreva “ancorare la moneta ad un livello relativamente stabile, sia esso più
o meno alto. Quanto più sarà salvato del valore della lira, tanto meno soffrirà
la nostra economia”. Ma ciò senza “sostenere forzatamente un cambio
internazionale in disaccordo con la situazione monetaria ed economica
interna” che avrebbe causato “una svalutazione ancora più disastrosa”.113
Costa confidava nell’opera di Einaudi ed era convinto che, qualora non si
fosse stabilizzata la moneta, e assicurato così un flusso ordinato dei risparmi, la
corsa all’inflazione avrebbe finito per riversare i suoi costi a carico delle
aziende e inoltre lo Stato, per sanare una finanza pubblica dissestata, avrebbe
monopolizzato la raccolta del risparmio: nella riunione del 17 ottobre 1946, la
giunta della Confindustria lanciò dunque un accorato appello a “salvare la
lira”.114
La vera svolta avvenne tra aprile e maggio dell’anno seguente.
Il 13 aprile Costa, sulla scia di Einaudi, espose in un colloquio con De
Gasperi il punto di vista della Confindustria sui provvedimenti da adottare per
superare la crisi in atto. In sostanza, il presidente confindustriale rilevava che
tutti i problemi sul tappeto potevano essere affrontati unicamente in base a un
programma che avesse innanzitutto per obiettivo fondamentale l’arresto
112 Confederazione Generale dell’Industria Italiana, Salvare le industrie per rivalutare i salari,
Roma, Laboratorio Arti Grafiche, 1948. 113 Castronovo, Cento anni di imprese, pp. 295-296. 114 Ibidem.
42
dell’inflazione.
Inoltre, il memorandum trasmesso da Costa a De Gasperi il giorno prima del
colloquio conteneva un vero e proprio piano economico alternativo a quello in
chiave dirigistica tracciato da Morandi: l’affrancamento dell’iniziativa privata
dai vincoli statali, lo stralcio di numerosi lavori pubblici in quanto considerati
inutili, la riduzione della tassa sugli scambi, il congelamento dei salari e lo
sblocco definitivo e totale dei licenziamenti. In calce al documento
confindustriale, Costa aveva apposto un monito che non avrebbe potuto essere
più severo e perentorio: “Si è ancora in tempo ma si è forse all’ultima
possibilità di salvezza”.115
Il 30 aprile De Gasperi, in Consiglio dei ministri, affermò la necessità di
attrarre in una nuova formazione di governo “i rappresentanti di un quarto
partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e della forza
economica”, coinvolgendoli direttamente nell’opera di ricostruzione per “dare
all’Italia un senso di reale maggiore unità” e per rassicurare, allo stesso
tempo, il governo americano in vista dei fondamentali aiuti economici.116
Il 31 maggio si costituì dunque il quarto governo De Gasperi, senza
comunisti e socialisti, con la partecipazione di “tecnici” di area liberale e di
fiducia della Confindustria.
In seguito alla vittoriosa manovra deflattiva di Einaudi (come ministro del
Bilancio),117 sul fronte sindacale fu possibile procedere, alla fine del novembre
1947, alla revisione in discesa del meccanismo della scala mobile e allo
sblocco totale dei licenziamenti, misure care alla Confindustria.118
In vista delle prime elezioni repubblicane del 18 aprile 1948, la compagine
confindustriale aveva garantito concreti appoggi finanziari alla campagna
elettorale della Dc ma non si era stabilita una totale sintonia di vedute, e
tantomeno un’intesa di fondo per il futuro, sul terreno della politica economica
e sociale. Anche perché nell’ambito dello Scudo crociato c’erano autorevoli
esponenti, come quelli facenti capo alla sinistra dossettiana e sindacale, con cui
sarebbe stato difficile venire a patti. Per il momento si trattava solo di una
115 Sul memorandum di Costa a De Gasperi si veda A. Costa, Scritti e discorsi, vol. I, pp. 385-
393. 116 Sul discorso degasperiano al Consiglio dei ministri del 30 aprile si veda E. Sereni, Il
Mezzogiorno all’opposizione, Torino 1948, p.20. 117 Per i dettagli della manovra si veda il paragrafo 1.3. 118 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 308.
43
progressiva convergenza d’intenti, in un tornante politico ed economico
cruciale, fra il direttivo confindustriale e il leader democristiano e il suo
entourage.119
Il successo elettorale, di gran lunga superiore ai pronostici, riportato dalla
Dc affiancata dai partiti laici della coalizione governativa, fu così commentato
nel “Notiziario” della Confindustria: “La grande battaglia elettorale […] si è
conclusa con una magnifica dimostrazione del senso di civiltà e di
compostezza che anima il popolo italiano, e con una palese prova della sua
intelligenza, del suo istinto politico e della sua capacità di discernere e di
giudicare”.
Ma i problemi da affrontare erano ancora molti a partire dall’incerta
situazione sindacale. Se dopo lunghe trattative tra Confindustria e Cgil si era
trovata, per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, un’intesa basata sulla
libera scelta delle aziende in merito alla modalità di retribuzione dei dipendenti
(a economia, a cottimo individuale o collettivo, ecc.), l’attentato a Togliatti del
14 luglio del 1948 diede il via a tumulti e occupazioni delle fabbriche. I
lavoratori cattolici si dissociarono e, su iniziativa dell’Acli, si costituì una
nuova organizzazione sotto la guida di Giulio Pastore, che nel marzo 1950
avrebbe dato vita alla Cisl.
Ora che la Confindustria aveva a che fare non più con uno ma con due o tre
spezzoni sindacali, bisognava vedere cosa sarebbe avvenuto sia per
l’applicazione del contratto dei metalmeccanici sia per gli accordi stipulati nel
frattempo o in via di scadenza riguardanti altre categorie.
Su un punto però Costa era deciso a non ammettere varianti di sorta, di
fronte ai tentativi dei sindacati di agganciare separatamente gli esponenti delle
principali aziende. Ed era la definizione da parte di Confindustria delle linee
direttrici in materia di contrattazione con la controparte per ogni genere di
imprese iscritte alla Confederazione, anche perché lo richiedevano
espressamente le associazioni sindacali, timorose di negativi “effetti a catena”
innescabili dai capofila di ogni singola categoria.120
Una delle conseguenze più significative della scissione sindacale fu il
definitivo tramonto dei consigli di gestione là dove ancora sopravvivevano sia
119 Ivi, p. 311. 120 Ivi, p. 317.
44
pur senza più le prerogative di un tempo. Dinanzi all’indecisione e
all’irrisolutezza del governo fu Valletta, a capo della Fiat, a denunciare
formalmente con effetto immediato, nell’agosto del 1949, l’accordo di tre anni
prima che aveva riconosciuto i consigli di gestione. Da quel momento altre
imprese fecero lo stesso con sollievo e compiacimento della Confindustria.121
Sul versante delle questioni economiche, ci si doveva occupare dell’impiego
degli aiuti e dei prestiti del Piano Marshall. La Confindustria aveva infatti
assicurato fin dall’inizio tutta la propria collaborazione al compimento delle
iniziative previste dall’Erp, istituendo un’apposita commissione incaricata di
coordinare a questo riguardo l’attività degli uffici confederali e di quelli
periferici. Inoltre, era stato dislocato a Parigi un funzionario col compito di
seguire le iniziative dell’Oece; per il resto, si sarebbe fatto affidamento sulla
sezione economica della Confederazione, adibita a elaborare i diversi piani di
settore, coadiuvata sia dalle associazioni di categoria interessate sia dagli uffici
studi dei principali gruppi industriali.122
Per Costa si trattava non solo di far sì che le imprese potessero trarre il
“massimo profitto” dagli aiuti dell’Erp, ma di avvalersi di questi anche per
acquisire una maggior ampiezza di visuali e di orientamenti, in quanto avrebbe
potuto risultare utile per lo sviluppo dell’economia nazionale.123
In quest’ottica il presidente della Confederazione, in una lettera del 27
settembre 1948 a James Zallerbach, capo della missione speciale americana, in
Italia fece presente, in merito all’impiego del Fondo lire124, l’opportunità di
concedere prestiti a piccole e medie imprese senza garanzie reali e senza
eccessive formalità; aveva poi segnalato il timore che alcuni esponenti politici
intendessero amministrare il Fondo “anche per finalità di carattere
regionalistico e di grosse aziende controllate dallo Stato”. In risposta,
Zallerbach diede rassicurazioni su quest’ultimo punto mentre sul primo si
mostrò deciso nel considerare i prestiti del Fondo “alla stessa stregua di
qualsiasi altro tipo di prestito commerciale”.125
Fatto sta che nacque fin da subito una controversia per l’utilizzo del Fondo
121 Ivi, p. 319. 122 Ivi, pp. 320-321. 123 Ibidem. 124 Il Fondo lire consisteva nella somma ricavata dallo Stato dalla vendita ai privati di merci e
attrezzature donate all’Italia. 125 Per la corrispondenza tra Costa e Zallerbach: A. Costa, Scritti e discorsi, vol. I, pp. 533-538.
45
lire tra le varie forze politiche, alimentata dalla critiche americane.126
Personalmente Costa era propenso a un maggiore utilizzo per investimenti
di carattere produttivo del Fondo lire, pur senza misconoscere l’esigenza di
disporre di maggiori riserve valutarie. Non era infatti dell’avviso che ci si
sarebbe dovuti allineare in tutto e per tutto alle direttive americane ed era
convinto che si sarebbe potuto accrescere gli investimenti soltanto se prima si
fosse provveduto ad accumulare un adeguato volume di risparmi disponibili a
tal fine. Bisognava dunque sottrarsi al rischio dell’indebitamento. Questa però
era solo la personale opinione del presidente Costa, ritenuto l’alfiere di una
condotta più cauta a differenza molti altri imprenditori, come Valletta,
favorevoli ad una politica economica più dinamica e propulsiva. 127
Per quanto riguarda le istanze e gli indirizzi di politica economica della
Confindustria, bisognava tener conto dell’esistenza “entro le mura di casa”
delle imprese dell’Iri che avevano come loro precipuo riferimento le autorità di
governo.
Costa, nonostante il suo innato rifiuto all’intervento dello Stato, si era reso
conto dell’impossibilità dell’industria privata di acquisire le aziende rimaste
sotto l’egida dell’Iri e dunque aveva preso a vedere il problema sotto un’altra
angolatura, ossia che bisognasse alleggerire l’Iri “di tutto quello che non
rientrava nella funzione specifica dell’Istituto”.Ciò che contava, per
l’industriale genovese, era che le aziende statali agissero e funzionassero in
base alle stesse regole valide per tutto il sistema, senza “vantaggi artificiosi”:
cosa che, del resto doveva valere anche per certi gruppi privati. 128
Se quindi dalla Confindustria non si era sollevata alcuna sostanziale
obiezione sulla sopravvivenza dell’Iri, soprattutto nel mezzo della recessione
seguita alla manovra deflattiva di Einaudi, Costa manteneva alta la guardia
sull’azione del governo, in particolar modo sulla allocazione degli aiuti del
Piano Marshall e sull’indirizzo assunto nel settore dei lavori pubblici e
nell’erogazione dei sussidi di disoccupazione, come dimostrò l’acceso
confronto con Fanfani.129
Si era diffuso nel vertice confindustriale il convincimento che la
126 Si veda il paragrafo 1.3. 127 Castronovo, Cento anni di imprese, pp. 323-324. 128 Ivi, pp. 329-331. 129 Si veda la lettera di Costa a Fanfani del 23 febbraio 1949 in A. Costa, Scritti e discorsi, vol.
II, pp. 29-38.
46
collaborazione col governo, ancorché offerta “al di sopra e al di fuori di ogni
finalità politica”, continuasse ad essere “sostanzialmente respinta”; a ben
poco perciò valevano, come Costa affermava, “espressioni di stima e
considerazione continuamente ricevute”, se poi le proposte confindustriali,
ritenute da più parti giuste, non venivano messe in pratica.130
In realtà la Democrazia cristiana stava prendendo in largo: nel giugno del
1949 la maggioranza del partito si pronunciò infatti per il “terzo tempo sociale”
come quadrante dell’opera di governo, su sollecitazione della corrente di
sinistra (con a capo il ministro delle finanze Ezio Vanoni). L’ago della bilancia
del governo si stava spostando a sinistra, anche grazie alle posizioni dei
socialdemocratici e dei repubblicani.131
Il 1949 si concluse con il rinnovo del mandato presidenziale di Costa, in una
Confindustria giunta ad annoverare 197 fra associazioni di categoria, territoriali
e regionali.
3.3 Le sfide degli anni 50
Il programma varato dal sesto governo De Gasperi nel 1950 mise in
difficoltà la dirigenza confindustriale.132 Fino a quella data, infatti, la
Confindustria non s’era occupata più di tanto del problema del Mezzogiorno.
L’ultimo intervento di Costa in merito risaliva a metà del 1946 quando, dinanzi
alla Commissione economica del ministero per la Costituente, aveva affermato
che le industrie avrebbero dovuto sorgere là dove risultavano produttive senza
che lo Stato intervenisse “artificialmente a indicare la collocazione degli
insediamenti con la somministrazione di sgravi fiscali”; perciò, a suo giudizio,
“era più economico spostare le persone che spostare le cose”. Ma l’istituzione
della Cassa del Mezzogiorno richiedeva un’analisi più attenta della
questione.133
Costa nutriva molti dubbi su questa nuova forma di interventismo pubblico
130 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 325. 131 Castronovo, Storia economica d’Italia, p. 287. 132 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 333; per le riforme del sesto governo De Gasperi si
veda il paragrafo 2.3. 133 Ibidem.
47
e riteneva che ben scarsi effetti avrebbero sortito gli incentivi pubblici per la
diffusione nel Mezzogiorno di un nucleo consistente di piccole-medie imprese,
qualora non si fossero create, prima di ogni altra cosa, adeguate condizioni
ambientali per attrarre al Sud capitali e investimenti privati.
La Confindustria confidava comunque, per quanto riguardava la politica
meridionalista del governo, anche sul fatto che in fase attuativa avrebbe potuto
intervenire per orientare alcuni provvedimenti in sintonia con determinati
criteri di valutazione sulla loro congruità.
Senonchè sugli obiettivi e le modalità della politica meridionalista, avrebbe
acquisito sempre più peso e udienza la Svimez (l’Agenzia per lo sviluppo del
Mezzogiorno), con a capo Pasquale Saraceno. Inoltre la Dc poteva contare
ormai su propri gruppi di esperti e tecnici, senza dover affidarsi sempre alla
consulenza della Confindustria.134
Però ad attirare, con maggior forza, le attenzioni confederali, nello stesso
anno, fu la questione della liberalizzazione degli scambi, “innescata” dalla
decisione governativa di rivedere le vecchie tariffe doganali pre-belliche.
Sull’argomento, già nel novembre 1949, Costa aveva affermato dinanzi alla
giunta confederale: “Noi non possiamo pensare che l’Italia possa fare da sé,
possa fare l’autarchia, sarebbe un errore gravissimo, moriremmo di fame”.
L’industria italiana, secondo l’armatore genovese, non poteva permettersi di
opporsi alla liberalizzazione, che ormai appariva al più come “una necessità
economica e politica”; si trattava, semmai, di scegliere la strategia d’apertura
commerciale in grado di preservare quanto più possibile il sistema produttivo
italiano dai rischi della concorrenza internazionale, permettendogli, al
contempo, di sfruttarne quanto più possibile i vantaggi. Bisognava –
riprendendo l’efficace espressione di Costa - di “addentellare” la
liberalizzazione alle altre questioni di politica economica e industriale,
“piegandola” alle necessità e agli equilibri del sistema produttivo nazionale.135
In una lettera del 27 ottobre 1951 al ministro dell’Industria Campilli, Costa
chiarì le tre condizioni alle quali la Confindustria avrebbe appoggiato la
liberalizzazione degli scambi:
“1) impegno da parte del governo di sospendere la liberalizzazione nei
134 Ivi, p. 334. 135 E. Belloni, La Confindustria dalla ricostruzione al miracolo economico: Angelo Costa
(1945-1970), Firenze, Nerbini, 2012, p. 109.
48
riguardi di quei prodotti e paesi per i quali i governi praticano prezzi politici
nelle forniture di materie prime; 2) nessuna variazione dei dazi; 3) fornitura
all’industria di dollari per l’acquisto di materie prime presso i mercati che
offrono più a buon mercato”.136
Ma aveva chiarito, per metter fine alle polemiche e alle accuse mosse agli
industriali:
“Siamo favorevoli alla più completa liberalizzazione, ma diciamo che la
liberalizzazione dovrebbe cominciare dalle materie prime di qualunque
provenienza. Siamo d’accordo, nel ridurre al minimo necessario i dazi
doganali, ma domandiamo che si esca dall’equivoco di un regime fiscale che fa
apparire altamente protettivi i nostri dazi doganali, mentre in gran parte non
rappresentano che una surrogatoria di imposte indirette pagate sul prodotto
nazionale e che non gravano o gravano in minor misura sul prodotto
estero”.137
Costa ovviamente era ben consapevole delle accuse d’incoerenza, di
contraddittorietà, “tra riaffermazione di principi ed atti di politica economica
che si suggeriscono”, a cui si esponeva nel momento in cui predicava i principi
del liberismo ma invocava il mantenimento dei dazi e la cautela nelle aperture
commerciali. Perciò si sentiva in dovere di precisare che “la verità in materia
di politica economica molto spesso non è assoluta ma relativa: quello che è
giusto in determinate situazioni di fatto può non essere giusto in altre
situazioni”.
Ciò si traduceva, nel dibattito in corso, nel rimarcare come, pur
riconfermando l’auspicio al “risultato massimo […] rappresentato da un libero
movimento di merci, capitali e persone senza ostacoli e gravami”, non fosse
possibile “scombussolare di colpo economie createsi sulla base di divisioni di
mercati, […], avere un mercato unico per le merci senza avere un mercato
unico di capitali”. Ne conseguiva il richiamo a procedere per gradi, in un
percorso in cui l’abolizione dei dazi doveva rappresentare non il primo, ma
l’ultimo passaggio nel cammino della liberalizzazione.138
Erano necessaria armonia e uniformità nel processo di liberalizzazione non
136A. Costa, Scritti e discorsi,Vol. II, p. 568. 137 ASC, Serie 11: Assemblea generale dei delegati delle associazioni aderenti a Confindustria,
f. 10 Assemblea dei delegati 16 gennaio 1952. 138 Belloni, Op. cit., p.115; per approfondire le parole di Costa si veda: Scritti e discorsi, Vol.
III, p. 260.
49
solo europeo ma mondiale e a tal proposito, nel giugno 1954, Costa si sarebbe
rivolto con toni particolarmente aspri al presidente del Cir139 Ezio Vanoni:
“L’Italia non potrà continuare, anche per ragioni politiche, a mantenere il
livello di liberalizzazione attuale se la liberalizzazione degli altri paesi non
sarà portata a livelli paragonabili al nostro. […] Perciò il governo deve
adoperare tutti i mezzi ed attuare tutti i provvedimenti che valgano ad ottenere
dagli altri paesi una effettiva reciprocità, non escludendo provvedimenti
particolari di difesi nei confronti dei quali meno si è ottenuto. E’ questa l’unica
via per difendere la liberalizzazione”.140
Per quanto concerne l’integrazione economica europea, Costa si era fatto
portavoce della posizione degli industriali privati favorevole a un’integrazione
che può definirsi “concertata”, ossia un’idea della costruzione europea secondo
la quale l’unione economica era da realizzare attraverso la creazione di intese
transnazionali negoziate autonomamente dai produttori, un modello propugnato
in primis dagli industriali privati francesi.141
Il “campo di battaglia”, dal 1950, fu il piano Shuman per la creazione della
comunità carbo-siderurgica. Dopo un periodo iniziale di marcato ottimismo
sulla possibilità di riproporre lo schema dell’ “integrazione concertata”,
l’atteggiamento degli industriali siderurgici privati divenne di apertà ostilità a
partire dall’agosto 1950, quando divenne palese che la nuova comunità si
configurava come un organismo terzo rispetto alle grandi imprese del settore,
dotato di specifici e penetranti poteri di intervento sui mercati, con un evidente
carattere dirigistico.142
La dirigenza industriale, e in particolare Costa, scelse di schierarsi a fianco
dei siderurgici privati, sia pur con prudenza, appellandosi alle autorità di
governo perché tenessero presenti tutti gli elementi di giudizio “che non
possono e non devono essere soltanto prevalentemente politici, ma che
debbono pur richiamarsi a considerazione di ordine economico”.143
Il corso degli eventi contraddisse le speranze di Costa di un riavvicinamento
tra le posizioni governative e quelle degli interessi privati.
139 Comitato interministeriale per la ricostruzione. 140 A. Costa, Lettera del 24 giugno 1954 al presidente del Cir, Vanoni in A.Costa, Scritti e
discorsi, vol. III, p. 631. 141 Zamagni, Fauri, Op. cit., p.94. 142 Ivi, p. 99. 143 Ivi, pp. 100-101.
50
La Confindustria però non prese mai ufficialmente una posizione contraria
al progetto perché era chiaro che l’Italia non avrebbe potuto rimanere fuori
dalla nuova Comunità: si optò per una condotta attendista.144
La nascita della Ceca, nel 1952, sembrò risolversi, almeno nell’immediato,
in una sconfitta per i proprietari della siderurgia privata e per la stessa
Confindustria, in primis Costa, che li appoggiò.
Certamente alcune delle richieste avanzate dagli industriali furono accolte,
in particolare il mantenimento della protezione doganale per un periodo di
tempo sufficientemente lungo da permettere un adattamento soft alla creazione
del mercato comune, ma nel complesso i motivi di scontento erano molti. La
condotta negoziale italiana mirò a tutelare soprattutto le esigenze dell’industria
a partecipazione statale, che ebbe l’ultima parola sull’accettabilità degli aspetti
tecnico-economici del trattato di Parigi. Ma prevalenti erano stati gli obiettivi
politici, in primis quello di rientrare a pieno titolo nel gioco diplomatico.145
Solo l’esperienza concreta fatta nella Ceca avrebbe indotto il padronato a
rivedere le proprie posizioni e ad aderire in modo più entusiasta alla Cee.146
Le elezioni di giugno 1953 riportarono le attenzioni confindustriali
all’agone politico italiano poiché il mancato successo della coalizione centrista,
che non aveva ottenuto il premio di maggioranza, fu dalla Cisl addebitato agli
industriali, rei di aver ostacolato la via delle riforme. Nonostante il piano per le
case ai lavoratori dell’industria, proposto dalla Confindustria per “rialzare il
prestigio della classe industriale”, non si placò l’ondata di critiche e polemiche
nei confronti di questa.147
Ma il solco con la Dc si allargò ancor di più nell’agosto dell’anno
successivo, con il passaggio della segreteria del partito a Fanfani e la morte di
De Gasperi. Se Costa e la Confindustria avevano perso un importante
interlocutore, adesso bisognava fare i conti con lo spostamento a sinistra
dell’asse del partito.
A rendere l’atmosfera più tesa, nello stesso anno, contribuirono il piano
Vanoni per il decennio 1955-1964 che, secondo Costa, puntava principalmente
sull’intervento e sugli investimenti pubblici a scapito dell’iniziativa privata, ma
144 Ivi, pp. 102-107. 145 Ivi, pp. 108-109. 146 Ivi, p. 112. 147 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 349.
51
soprattutto la approvazione in Parlamento di una mozione per il distacco delle
aziende dell’Iri dalla Confindustria e la creazione di un pianeta a sé stante sotto
le direttive e il totale controllo del governo, in funzione di un maggior ruolo
delle autorità pubbliche nelle scelte strategiche del sistema economico.148
L’Iri, di cui si stava riformando lo statuto, sarebbe divenuto dunque il fulcro
del Piano Vanoni e di qui i forti timori confindustriali di un’ulteriore estensione
delle prerogative d’indirizzo e di controllo del governo in campo economico, e
di una preferenza per le imprese a partecipazione statale nell’attribuzione degli
incentivi e degli ordinativi dell’amministrazione pubblica.149
Ed erano parallelamente cresciute, all’interno della Confederazione, le
perplessità nei riguardi della linea di condotta fino ad allora professata da
Costa, apparsa ad alcune associazioni, soprattutto lombarde, troppo morbida o
comunque non sufficientemente vigorosa come avrebbe dovuto essere nei
confronti di quanto stava maturando.
Era giunto dunque il momento di accantonare, per l’Assolombarda, un
indirizzo, come quello sempre sostenuto da Costa, caratterizzato da una
rigorosa estraneità della Confindustria alle vicende politiche interne alla Dc e
agli altri partiti di maggioranza: quindi convergere a tutti gli effetti sulle
posizioni del Partito liberale, tornato nel febbraio 1954 a far parte
dell’esecutivo con il governo di Mario Scelba.
Di conseguenza, si era delineata una frattura all’interno della
Confederazione e Costa ne aveva tratte le debite conclusioni, decidendo di
lasciare la presidenza prima della scadenza del suo mandato.150
Nel suo discorso di commiato dinanzi all’assemblea dei delegati, l’8
febbraio 1855, tentò di tracciare un resoconto della sua esperienza
presidenziale: “Se qualcosa di bene è stato fatto è merito di tutti noi, perché
nessuna organizzazione e nessun presidente possono mai far bene se non sono
corretti dalla collaborazione comprensiva di tutti gli associati. Se qualche
cosa di meno bene è stato fatto e soprattutto se molte cose che sarebbe stato
bene fare non sono state fatte, dobbiamo accettare ciascuno le nostre
responsabilità, e le mie sono certo le maggiori”.151
148 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 349-351. 149 Ivi, p. 351. 150 Ibidem. 151 Il discorso è interamente riportato in A. Costa, Etica e impresa, pp. 138-149.
52
Sostanzialmente positivo appariva il bilancio in campo sindacale, dove
“molto ordine è stato messo e certamente con vantaggio di tutte le parti. L’aver
potuto regolare tutti i rapporti salariali e normativi attraverso la libera
contrattazione, è il massimo successo che la nostra organizzazione e quelle dei
lavoratori possano vantare di aver raggiunto”.
Sul fronte delle relazioni politiche , al contrario, sembravano prevalere le
ombre: Costa sottolineava la poca stima reciproca tra industriali e politici e
auspicava una “maggiore conoscenza reciproca” . E si rammaricava del fatto
che la collaborazione confindustriale, sempre accettata “a parole”, molte volte
non fosse stata accettata “nei fatti” .
Ma l’organizzazione doveva continuare a collaborare col governo senza mai
chiedere eccezioni perché, ammoniva Costa: “Ogni eccezione porta ad altre
eccezioni, fino al punto che l’eccezione diventa la regola; se cominciamo a
chiedere noi eccezioni a nostro favore, non potremo lamentarci se dovremo
subirne altre a nostro danno, e saranno certo maggiori e più numerose.
Difendiamo perciò la libertà anche quando la libertà può sembrare per noi
costosa”.
Questo il testamento di un uomo a cui, negli anni difficili della
ricostruzione, veniva soprattutto tributato, da tutto il mondo industriale, il
merito di aver saputo difendere “le ragioni stesse dell’esistenza dell’iniziativa
privata”. Era nella difesa di tale principio che Costa, “il buono, il mite,
l’umile”, l’uomo della mediazione e del compromesso in tante battaglie, aveva
saputo opporre, in quella decisiva, una resistenza ferrea, “animato da una fede
che non consentiva compromessi su questa questione di principio”. E così
facendo aveva salvato l’industria italiana.152
Al suo successore lasciava una Confederazione indubbiamente più forte, e
riabilitata, rispetto a quella ereditata nell’immediato dopoguerra. Quasi per
singolare ironia della sorte, la lasciava proprio alla vigilia del “miracolo
economico”.153
152 Belloni, Op. cit., p. 221; le parole virgolettate sono riprese da: Il saluto degli industriali al
presidente uscente, in “Notiziario della Confederazione generale dell’industria italiana”, a.
XII, n. 4, 20 febbraio 1955, pp. 314-315. 153 Belloni, Op. cit., p. 221.
53
Bibliografia
Bazzicchi, Cent’anni di Confindustria (1910-2010), Libreriauniversitaria.it,
Limena, 2009.
Belloni E., La Confindustria dalla ricostruzione al miracolo economico:
Angelo Costa (1945-1970), Firenze, Nerbini, 2012.
Cameron R., Neal L., Storia economica del mondo, Il Mulino, Bologna,
2005.
Castronovo V., Cento anni di imprese: storia di Confindustria 1910-2010,
Laterza, Roma-Bari, 2010.
Castronovo V., Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri,
Einaudi, Torino, 2013.
Costa A., Scritti e discorsi, Vol. I e II, Franco Angeli, Milano, 1980.
Costa A., Etica e impresa, Erga, Genova, 2001.
Ellwood D., Italy 1943-1945, Leicester U.P., 1985.
Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 2006.
Graziani A., Lo sviluppo dell’economia italiana, Bottingheri, Torino, 2000.
Rostow W. W., World Economy, University of Texas Press, Austin, 1978.
Van Der Wee H., L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980),
Hoepli, Milano, 1989.
Zamagni V., Dalla periferia al centro, Il Mulino, Bologna, 1993.
Zamagni V., Fauri F., Angelo Costa, un ritratto a più dimensioni, Bologna, Il
Mulino, 2007.
www.confindustria.it