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Anno 2 Lez 3 1 - UNITRE Torino...fallito un altro tentativo di complotto, attraverserà il confine e...

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Page 1: Anno 2 Lez 3 1 - UNITRE Torino...fallito un altro tentativo di complotto, attraverserà il confine e si rifugerà a Bruxelles. Nei 12 anni successivi la Regina Madre vagherà di corte

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Già nel 1631, il Cardinale Maurizio era partito di nascosto per Parigi come ostaggio; il Principe

Tommaso vi arriva invece come ambasciatore sabaudo nel 1632.

In quell’anno si acuiscono alla Corte sabauda, in particolare in Tommaso, Maurizio e nelle sorelle

Maria e Caterina, i sentimenti antifrancesi (e quasi fatalmente filospagnoli). La causa principale è

l’umiliante trattato su Pinerolo, ma esiste anche una profonda avversione per Cristina e per il partito

“francese” che essa rappresenta. I risentimenti di tutti sono polarizzati sul Cardinale Richelieu; anche

Cristina si associa in parte ai cognati, per l’inimicizia personale provata verso il Cardinale Ministro.

Tommaso di Carignano, ambasciatore a Parigi ha spesso contatti con Luigi XIII e Richelieu; egli ne

deriva una sfavorevole impressione sulla natura del gioco della diplomazia francese nei confronti del

duca di Savoia (“menzognere promesse” scrive al Duca) e capisce come sia necessario “sottrarsi ai

subdoli negozi del cardinale”. Richelieu promette infatti acquisti territoriali nel Milanese, il

riconoscimento del titolo regio, la protezione reale … ma promette solo.

Tommaso è dell’idea che sia necessario porre un freno all'invadente ambizione della Corte di Parigi,

appoggiandosi alla Casa d’Asburgo per bilanciare la pericolosa prevalenza francese nel Ducato.

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Il 14 settembre 1632 il talamo ducale è finalmente rallegrato dalla nascita dell’erede al trono: Francesco

Giacinto. Si esaurisce il voto dei Duchi per il quale Cristina aveva fatto erigere la “Real Chiesa” di via

Po dedicata a San Francesco da Paola, santo a cui lei è particolarmente devota. L’iscrizione posta sul

sontuoso altar maggiore a marmi policromi, opera del luganese Tommaso Carlone, ne ricorda ancor

oggi la fede.

È l’unica vera gioia del Duca in quell’anno in cui aveva dovuto subire un trattato tanto umiliante per la

sua Corte…

Dimenticati i lutti che hanno decimato la città e nonostante la disastrosa situazione economica, dopo

due anni di interruzioni riprendono le feste di Corte.

“La Duchessa adorava le feste e continuava a danzare anche in gravidanza. Passava la giornata in

preghiera, poi correva a cambiarsi d’abito per mettersi in costume da ballo”.

Cristina vuole gareggiare nel fasto con la Corte francese, aumenta perciò nei suoi riguardi l’ostilità delle

pie cognate Maria e Caterina.

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Frattanto alla Corte sabauda, ove si impone la forte personalità della Duchessa, si evidenzia nuovamente la

sua aspirazione al “titolo regio”, già da lei manifestata molti anni prima e accantonata per i tristi eventi di

quegli ultimi anni. Lo stesso Carlo Emanuele I aveva usato il titolo onorifico, controverso e non riconosciuto

dalle maggiori potenze, di re di Cipro negli ultimi anni di vita.

I Savoia si considerano re di Cipro per matrimonio contratto nel XV secolo da Ludovico, figlio del Duca di

Savoia omonimo e di Anna di Cipro, con Carlotta di Lusignano (nipote di Anna) erede del trono di Cipro,

come figlia del re Giovanni II di Lusignano. Ludovico e Carlotta avevano ben poco goduto del trono perché

Giacomo, figlio illegittimo del re Giovanni II, aveva usurpato il trono con le armi; Ludovico e Carlotta

avevano dovuto lasciare Cipro e spostarsi in Savoia. (Giacomo aveva poi sposato una gentildonna veneta,

Caterina Cornaro, che, dopo la morte di Giacomo, aveva tenuto la reggenza per l’unico figlio. Rimasta senza

eredi per la morte del figlio, Caterina lasciò il suo regno alla Repubblica di Venezia, nel 1489; il dominio

veneziano durò meno di un secolo, fino alla conquista turca del 1571). Carlotta di Lusignano, che ancora si

considera la legittima sovrana di Cipro, alla sua morte lascia la corona al nipote Carlo I duca di Savoia.

Cristina, che è stimolata nelle aspirazioni regali dal pensiero di avere due sorelle regine: Elisabetta (in

Spagna) ed Enrichetta (in Inghilterra) fa pressione sullo sposo per l’adozione del titolo di Re di Cipro.

Venezia, proprio in quel periodo, prendendo spunto da una bolla Urbano VIII relativa ai titoli da usare le

precedenze dovute gli ambasciatori ”reali”, si è proclamata sovrana di Cipro e ha chiuso il “corno” dogale

per assimilarlo a una corona regia. Vittorio Amedeo I, di rimando, chiude anch’egli la corona ducale e fa

inserire nel 1° quarto del suo gran blasone “pezze di pretesa” relative a Cipro. Pare questa un'innocua

controversia araldica tra Savoia e Venezia, ma per il Ducato sabaudo gli effetti sono deleteri. Da più parti ci

sono mormorazioni e derisioni contro Vittorio Amedeo I che, invece di guardare le reali condizioni del suo

popolo e del suo Stato, pensa a ingrandire i suoi titoli per compiacere la moglie.

Alle diatribe politiche seguono quelle letterarie: padre Monod scrive un libro con spunti polemici per

difendere i diritti regi sabaudi. Questo libro suscita risentimenti nelle altre signorie italiane, come quelle

medicea e genovese, che pretendono di adottare anch’esse la corona regia. Anche Richelieu è contrariato dal

libro e dalla decisione del Duca di Savoia.

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Ma Cristina ha raggiunto il suo obiettivo e la sua vanità è soddisfatta dalla vistosa modifica del blasone,

dal nuovo titolo e l’adozione del vocativo “Altezza reale” invece di “Altezza serenissima”.

L’Arme del Duca Vittorio Amedeo I (1632):

Al primo quarto (armi di pretesa per il regno di Cipro e Gerusalemme) Controinquartato: al primo

d’argento, alla croce potenziata d’oro, accompagnata da quattro crocette dello stesso, che è di

Gerusalemme; al secondo, fasciato d’argento e d’azzurro di otto pezzi al leone rosso, armato, linguato

e coronato d’oro, che è di Lusignano; al terzo d’oro, al leone di rosso, armato e coronato d’argento,

linguato d’azzurro, che è di Armenia; al quarto, d’argento, al leone di rosso colla coda forcuta,

annodata e decussata, che è di Lussemburgo.

Al secondo quarto: (armi di origine) partito e innestato di punta, cioè partito al primo di porpora, al

polledro d’argento rivoltato e sfrenato, che è di Westfalia; al secondo, fasciato d’oro e di nero di otto

pezzi, al crancellino di verde, fiorito di rosso e posto in banda, che è di Sassonia; all’innesto di punta,

d’argento a tre puntali di rosso, collocati a piramide, che è di Angrie.

Al terzo quarto: (armi di dominio) partito: al primo d’argento, seminato di plinti di nero, al leone di

nero, armato e linguato di rosso, che è di Chiablese; al secondo di nero, al leone d’argento, armato e

linguato di rosso, che è di Aosta.

Al quarto quarto: (armi di dominio) partito: al primo di cinque punti d’oro equipollenti a quattro

d’azzurro, che è di Genevese; al secondo d’argento al capo di rosso, che è di Monferrato.

Sul cuore: di rosso, alla croce d’argento, che è di Savoia moderna.

Lo scudo è cimato della corona ducale “chiusa” e sormontato dalla Croce trilobata d’argento di San

Maurizio. Lo scudo è attorniato dal Collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata,

muovente dagli angoli superiori.

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Il 20 giugno 1634 Cristina dà alla luce il suo secondogenito maschio (terzo figlio): Carlo Emanuele, il

futuro Duca Carlo Emanuele II.

Seguiranno poi nel 1635 Margherita Violante e, infine, nel 1636 le due gemelle Adelaide Enrichetta e

Caterina Beatrice che morirà otto mesi dopo.

Il quadro, che ritrae i due piccoli principi, è conservato nella Palazzina di Stupinigi .

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Nel 1630 il cardinale di Richelieu, non nuovo a subire complotti, deve affrontare quello organizzato

dalla regina madre, Maria de’ Medici, che pur lo aveva fatto entrare nel 1624 nel suo Consiglio ed è

sicura di averne fatto un suo strumento. Quando si accorge però che Richelieu ha assunto troppo potere,

che segue una politica estera aggressiva contro la Spagna (in particolare con la spedizione in Italia del

1629) e che resiste ai suoi ordini e a quelli del terzoogenito Gaston (il secondogenito, Nicola Enrico, è

morto a 4 anni), il suo beniamino, Maria decide di annientare “quell’ingrato servitore”.

Con preghiere e lacrime sembra sia riuscita a convincere il figlio, Luigi XIII, a licenziarlo; il sostituto

del Cardinale è già stato trovato nel consigliere di stato Michel de Marillac. Nel corso della discussione

finale, che avviene il 10 novembre 1630 nella camera della Regina al Palazzo del Lussemburgo, giunge

però, inatteso e da una porta secondaria, il Cardinale (avvertito di quanto sta succedendo) spiazzando il

Sovrano e la madre: “scommetto che le loro maestà stanno parlando di me!” dice il Ministro, e Maria

de’ Medici lo riprende duramente. Il Cardinale pare talmente scosso dalla collera regale da arrivare a

inginocchiarsi in lacrime dinnanzi alla regina madre e baciarle i vestiti.

Il Re esce scontento e si reca a Versailles; la Regina madre, convinta di aver trionfato, riceve le

felicitazioni dei cortigiani più devoti (quelli del Partito Devoto che non condivide al politica di

Richelieu).

Richelieu, convinto di essere stato messo alla porta, si accinge a partire per Pontoise, di cui è

governatore.

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La mattina dopo Luigi XIII invia un suo uomo fidato (Saint-Simon, padre del celebre memorialista) a

cercare Richelieu. Quando il Cardinale si presenta nel padiglione da caccia dove il Re lo attende, si

sente dire: “continuate a servirmi come avete fatto fino ad ora, io vi sosterrò contro tutti quelli che

hanno giurato di rovinarvi”.

Maria de’ Medici precipita in quelle ore dall’alto piedistallo del trionfo al deserto che si crea intorno a

lei. È lunedì 11 novembre 1630. In seguito Maria affermerà di aver perduto il potere per aver

dimenticato di chiudere il paletto di una porta di servizio!

Richelieu si libera rapidamente di tutti gli avversari: quelli che conosceva già come nemici e quelli che

si erano felicitati con Maria de’ Medici. La Bastiglia ospita molti nobili e gentiluomini tra cui il

Maresciallo di Bassompierre, amico di Enrico IV, e il Maresciallo di Marillac, che non è nemico di

Richelieu ma solo fratello di Michel de Marillac designato a sostituire il Cardinale. Il Maresciallo è

condotto a Parigi dal Piemonte, dove si trova, e giustiziato. Michel de Marillac è invece confinato per il

resto della sua vita.

Così si conclude la “journée des dupes” (giornata degli inganni). Che ha come perdente più illustre

Maria de’ Medici: sarà confinata nel castello di Compiègne, fuggìrà poi verso nord nel giugno 1631 e,

fallito un altro tentativo di complotto, attraverserà il confine e si rifugerà a Bruxelles. Nei 12 anni

successivi la Regina Madre vagherà di corte in corte, continuando a tramare contro il figlio e il

Cardinale. Ormai quasi in povertà, vivrà (pare) per un certo periodo ad Anversa presso il pittore Pieter

Rubens. Morirà a Colonia nel 1642 sola e dimenticata da tutti.

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Gaston d’Orléans, da sempre in freddi rapporti con il fratello Luigi XIII e in rotta con il Cardinale

Richelieu, partecipa a diverse trame per eliminare lo strapotere del Ministro ed, eventualmente, per

sostituirsi al fratello.

L’Orléans, dopo abboccamenti con la madre Maria de’ Medici, esule a Bruxelles, ed avendo da lei

ricevuto consigli ed esortazioni, prepara del 1632 un’insurrezione armata contro la Corte di Parigi. Ha

coinvolto anche il Duca e Maresciallo Enrico II di Montmorency governatore della Linguadoca, dove

esercita il potere con larghissima autonomia e dove provvederà a organizzare una rivolta.

Il 22 luglio 1632 la provincia di Linguadoca, guidata da Enrico, proclama la secessione dal regno di

Francia. Appoggia la rivolta una parte della piccola nobiltà locale, già da tempo maldisposta contro

Richelieu per la sua politica amministrativa e fiscale, mentre la città di Toulouse resta fedele al Re.

Gaston, a capo di un migliaio di uomini, si è ricongiunto con le forze del Montmorency.

Un’armata reale al comando del Maresciallo Enrico di Schomberg si muove contro le forze ribelli e il

1° settembre 1632, sotto le mura di Castelnaudary (tra Carcassonne e Toulouse) le sconfigge

duramente. Gaston d’Orléans prende la fuga dopo il 1° scontro.

Il Montmorency, rimasto solo e gravemente ferito, è catturato, imprigionato e condannato a morte dal

Parlamento di Toulouse. L’esecuzione ha luogo malgrado le pressanti suppliche mosse al Re da tutta la

nobiltà. Con la sua morte il ramo diretto dei Montmorency si estingue ed i suoi beni sono trasferiti ai

Condé.

Gaston è risparmiato dalla giustizia reale perché “principe di sangue reale” e deve unicamente ritirarsi

a Blois. Successivamente troverà rifugio in Lorena.

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Gaston d’Orléans (1608-1660) nasce a Fontainebleau nel 1608, 3° figlio maschio ( 5° figlio) di Enrico IV e

Maria de’ Medici. Riceve il titolo di Duca d’Anjou (in italiano, di Angiò) come primo pretendente al trono in

caso di morte del Re; questo privilegio gli rimane fino alla nascita del futuro Luigi XIV, nel 1638. È

chiamato Monsieur (in qualità di fratello del Re) poi dal 1643 Grand Monsieur, per distinguerlo dal nipote

Filippo, figlio di Luigi XIII. Colto e raffinato, ma velleitario, incostante e libertino, Gaston passa la vita a

cospirare, prima contro il fratello e Richelieu (preferendo al loro assolutismo una monarchia più

rappresentativa, collegata agli Stati Generali) poi contro Anna d’Austria e Mazzarino. Tutte le sue congiure

hanno esito negativo, e spesso è Gaston stesso a denunciare i suoi complici, che vede poi morire sul patibolo.

Nel 1626 sposa Maria di Borbone, duchessa di Montpensier (1605-1627, detta anche Mademoiselle de

Montpensier, una delle più ricche ereditiere di Francia, e sua lontana cugina). Il matrimonio è celebrato dopo

che Gaston ha partecipato a una congiura (detta "di Chalais") nata per impedire proprio queste nozze volute

da Richelieu e dal Re. Il Re poi lo perdona per questa ribellione e gli concede il ducato d’Orléans. Dal

matrimonio nasce Anna Maria Luisa d'Orléans, duchessa di Montpensier, nota come Grande Mademoiselle,

che avrà un ruolo importante nelle vicende successive del regno e nelle ultime trame del padre.

Nel 1630 partecipa alla fallita rivolta contro Richelieu, ordita da Maria de’ Medici e dal Partito Devoto. Nel

1632 partecipa all'insurrezione armata promossa dal duca di Montmorency, che è sconfitto, catturato e

giustiziato. Gastone lascia la Francia e trova rifugio alla corte del duca Carlo IV di Lorena che, essendo

feudatario ed alleato dell’Imperatore, è in guerra contro la Francia. Vedovo, sposa poi, senza il consenso di

Luigi XIII, la sorella del duca: Margherita di Lorena-Vaudémont (1615-1672); il Parlamento di Parigi, spinto

da Richelieu, non accetta il matrimonio. Richelieu accusa il Duca di Lorena del ratto di Gaston e chiede

l'annullamento alla Chiesa, che rifiuta. Nel 1634, all'invasione francese della Lorena ordinata dal Cardinale,

Carlo IV è costretto ad abdicare in favore del fratello Nicola Francesco ed entra a servizio dell’Impero nella

guerra dei 30 anni. Richelieu, col pretesto di non riconoscere il matrimonio del nuovo Duca di Lorena con

una cugina, tenta di arrestare Nicola Francesco che però fugge in Franca Contea. Così, nell'aprile 1634 la

Lorena è “di fatto” annessa alla Francia, anche se la popolazione è profondamente ostile alla Francia. Anche

Gaston e la moglie fuggono dalla Lorena e si rifugiano a Bruxelles, dove c’è Maria de’ Medici.

Nel 1634 Gaston firma un patto antifrancese con la Spagna che preoccupa assai il Cardinale e Luigi XIII.

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La fase svedese (1630 - 1635) è la terza fase in cui si è soliti dividere la guerra dei 30 anni ed è

caratterizzata dall’entrata nel conflitto della Svezia a fianco dei principi protestanti.

L'editto di Restituzione del marzo 1629 (restituzione ai cattolici dei beni passati in mano ai protestanti)

ha provocato gravi risentimenti nei Principi Elettori tedeschi, sia nel fronte cattolico sia in quello

riformato: tutti i potentati tedeschi temono l’egemonia degli Asburgo.

L'intervento degli Svedesi, giustificato dalla volontà di soccorrere i principi protestanti tedeschi nella

lotta contro la fazione cattolica, ha un duplice obiettivo: prevenire una possibile restaurazione del

cattolicesimo nel regno di Svezia (il primo Stato europeo ad aderire alla riforma luterana nel 1527) e

ottenere una maggiore influenza economica sugli stati tedeschi affacciati sul Mar Baltico.

L'impresa svedese è fortemente sovvenzionata dal cardinale Richelieu (con il Trattato di Bärwalde) e

dagli Olandesi, cosa che permetterà a Gustavo Adolfo di affrontare ingenti spese belliche durante tutto

il corso della guerra.

La Francia cerca anche di creare un fronte anti-asburgico nella Germania meridionale, firmando

segretamente con la Baviera il Trattato di Fontainbleau (1631), ma tale tentativo è annullato dal

successivo attacco portato dagli Svedesi alla Baviera stessa.

Nella Dieta di Ratisbona, che si è tenuta nell'agosto 1630, le trame di Corte ed i Principi hanno forzato

l'Imperatore a congedare Wallenstein e a diminuire le truppe imperiali e della Lega; hanno portato

inoltre a rifiutare l'elezione del figlio di Ferdinando II come Re dei Romani (in pratica l'erede

dell'Imperatore). Questi eventi indeboliscono la forza della parte cattolica.

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Il 6 luglio 1630, Gustavo Adolfo, re di Svezia, sbarca con le sue truppe in Pomerania; inizia poi

l'occupazione prima di Stettino, quindi del Meclemburgo. Nel frattempo Tilly guida l'esercito della

Lega Cattolica contro l'unico alleato della Svezia in Germania, la città di Magdeburgo, e il 20 maggio

1631 la prende e la sottopone a un sanguinario saccheggio (24.000 morti tra uomini, donne e bambini).

Tilly tenta poi di assaltare il campo svedese di Werben, ma fallisce nell'impresa.

È proprio l'eco dell'eccidio di Magdeburgo a convincere le protestanti Pomerania e Brandeburgo a

unirsi alla causa di Gustavo Adolfo. Anche l'incerto Giovanni Giorgio di Sassonia si convince ad

aderire alla causa svedese quando Tilly, giudicando ostile il suo atteggiamento, sferra un attacco

preventivo alla Sassonia.

Le forze cattoliche e protestanti si scontrarono il 17 settembre 1631 a nord di Lipsia nella battaglia di

Breitenfeld, vero spartiacque della campagna svedese: i 26.000 uomini di Gustavo II (per la maggior

parte mercenari tedeschi) e i 18.000 sassoni di Giovanni Giorgio (nello scontro ci sono però molti

disertori) ottengono una schiacciante vittoria sui 30.000 uomini del conte di Tilly. In seguito a questa

vittoria non solo le forze protestanti possono dilagare in terra tedesca ma si ritrovarono rinforzate

militarmente da 12.400 prigionieri che passarono dalla parte svedese e dal fatto che numerosi stati

imperiali, vista la disfatta cattolica, si schierano al fianco della Svezia.

Lasciata la Sassonia, gli Svedesi, forti pure dei rinforzi scozzesi (circa 30.000 uomini) marciano verso

la Franconia e la Turingia, per le valli del Reno e del Meno fino a Francoforte; in novembre,

Francoforte sul Meno è posta sotto assedio, poi gli Svedesi pongono i quartieri invernali nell'elettorato

di Magonza, dove è eretto un grande campo fortificato, denominato Gustavusburg.

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Nel 1632, Gustavo Adolfo scende in Baviera e il 15 aprile sconfigge nuovamente il Tilly, che è ferito a

morte, nella battaglia di Rain. Monaco è occupata il 17 maggio e Massimiliano I di Baviera è costretto a

rifugiarsi a Salisburgo, sotto protezione imperiale.

In seguito a questa serie di sconfitte e alla morte di Tilly, l'Imperatore Ferdinando II richiama in servizio

il Wallenstein; il nuovo esercito si dirige in Boemia, liberando Praga dall'occupazione sassone e

ricacciando Giovanni Giorgio.

Gustavo Adolfo decide poi di portarsi a Norimberga, dove erige un campo fortificato.

Questa manovra si rivela controproducente per gli Svedesi: Wallenstein in luglio pone il campo di

Norimberga sotto assedio; una volta consumate le scarse risorse della regione, l'esercito svedese è

falcidiato dalla fame e dalle epidemie, perdendo una buona parte dei propri uomini; un tentativo da

parte di Gustavo Adolfo di spezzare l'accerchiamento assaltando la posizione dell'Alte Veste si risolve

in un sanguinoso fallimento.

Anche le truppe imperiali soffrono per la scarsità di rifornimenti: dopo avere preso Lipsia il 1º

novembre, Wallenstein, convinto di aver sbaragliato le schiere svedesi, ritiene che la campagna possa

considerarsi conclusa e comincia a smobilitare le proprie forze.

Di questo errore approfittano gli Svedesi, che riescono ad attaccare gli imperiali divisi; la battaglia di

Lützen, svoltasi tra due eserciti di pari entità, si risolve in uno stallo sanguinoso in seguito a cui

Wallenstein abbandona il campo (e per questo all'epoca è stata considerata una vittoria svedese, anche

se non può considerarsi una grande vittoria di Wallenstein).

Ma Gustavo Adolfo è morto durante la battaglia, colpito per ben tre volte mentre guida una carica di

cavalleria. Al trono svedese sale la figlia Cristina, di soli sei anni, mentre la guida politica della guerra è

assunta dal valido cancelliere Axel Oxenstierna.

La morte del re di Svezia mette i protestanti tedeschi in difficoltà e costringe Richelieu a intensificare

l’azione diplomatica verso di loro

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Il principale sostenitore diplomatico della coalizione protestante contro l’Impero, il re Gustavo Adolfo

di Svezia, muore nella battaglia di Lützen il 16 novembre 1632.

Il Re è colpito per tre volte mentre guida una carica di cavalleria.

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Senza la guida e il prestigio di Gustavo Adolfo vi è uno sbandamento iniziale tra le truppe svedesi e

mercenarie: alcune si ammutinano e chiedono assicurazioni sul pagamento del soldo. La formidabile

compagine dell’esercito svedese rimane comunque minacciosa nella Germania meridionale.

La conseguenza è una sosta nelle operazioni, per il lutto al Re; l’indugio, anche se non lungo, è la

salvezza dell’Impero.

La maggioranza dei Principi tedeschi è favorevole alla chiusura del conflitto, ma la prosecuzione della

guerra è spinta da Richelieu, dal 1° ministro spagnolo Gaspare di Guzman conte di Olivares e dal

cancelliere svedese Axel Oxenstierna.

Oxenstierna, assunta la reggenza in nome della regina Cristina di soli sei anni, ricompatta il fronte

protestante indebolito da massicci ammutinamenti e defezioni, stringendo con Renania, Svevia e

Franconia la Lega di Heilbronn (23 aprile 1633); ciò avviene grazie alla determinante mediazione e agli

aiuti economici della Francia, che però in quel momento si trovava in difficoltà interne. L'intento di

Oxenstierna è quello di assicurarsi, una volta terminata la guerra, il controllo diretto delle terre imperiali

conquistate. La mancata adesione di Sassonia e Brandeburgo pregiudicano l'efficacia della lega e la

confinano nella Germania sud-occidentale, lontana dai veri interessi svedesi.

Alla lega non aderisce l’elettore palatino Giorgio Guglielmo duca di Brandeburgo, che invano aveva

reclamato per sé il ducato di Pomerania, in mano svedese.

Sui campi di battaglia l'eredità operativa di Gustavo Adolfo è raccolta dal principe Bernardo di

Sassonia-Weimar (nel seguito indicato per brevità come Bernardo di Weimar, o semplicemente

Weimer) al servizio di Gustavo Adolfo sin dai tempi del suo arrivo in Pomerania.

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Nel 1633, nonostante la perdita di Gustavo Adolfo, gli Svedesi e i loro alleati riportarono molti successi

sui vari fronti di guerra.

Nel giugno-luglio è assediata e presa la fortezza di Hameln in Bassa Sassonia, da truppe tedesche e

svedesi congiunte.

Nell’agosto-settembre gli Svedesi assediano e prendono Osnabrück, in Bassa Sassonia, ai confini con la

Renania,.

Il generale svedese Gustaf-Karlsson Horn, che guida l’armata svedese con Bernardo di Weimar,

nell’estate 1633 saccheggia l’Alto Palatinato, prende Neumarck, insegue gli Imperiali in Svevia e

assedia Costanza.

Anche la Slesia è invasa in tre direzioni da eserciti confederati, cade Breslavia.

Bernardo di Weimar occupa la Baviera prendendo Neuburg (sul Danubio) e Ratisbona, con grande

apprensione dell’Imperatore Ferdinando II che vede avvicinarsi l’armata protestante ai confini

dell’Austria.

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Il governatore di Milano, duca di Feria, appronta una spedizione armata per soccorrere gli eserciti

imperiali, assoldando soldati dal napoletano da affiancare ai Tercios Viejos de Lombardia (decimati

dalla recente epidemia di peste).

L’armata, attraverso la Valtellina e il passo dello Stelvio raggiunge Costanza che è liberata dall’assedio

svedese (ottobre 1633). Agli Spagnoli e Italiani si uniscono gli Imperiali guidati da Johann Aldringen.

Wallenstein protesta invano per l’intervento del duca di Feria nel suo teatro di operazioni.

La spedizione del Feria prosegue lungo il Reno, in Alsazia, occupando numerose piazze; Basilea gli

concede viveri e libero passaggio. La marcia prosegue fino a Colmar (in Alsazia) dove si ha uno scontro

con i Confederati tedeschi e con gli Svedesi di Horn, che poi si ritirano.

Gustav Horn, lasciata Colmar, si unisce a Bernardo di Weimar che minaccia la Baviera. Massimiliano I,

duca di Baviera, chiede aiuto a Spagnoli e Imperiali.

Il duca di Feria, lascia anche lui Colmar, giunge presso Monaco, dove il duca di Baviera ha preparato

gli alloggiamenti.

Le truppe italo-spagnole, dopo 4 mesi di marce, sono stanche e decimate dal tifo, anche il duca di Feria

si ammala, lascia il comando e muore a Monaco l’11 gennaio 1634.

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In campo imperiale, Wallenstein è intervenuto a fine estate 1633 in Slesia (oggi territorio polacco ai

confini con Germania e Repubblica Ceca) contro i Confederati protestanti trincerati presso

Munsterberg.

Costretti a uscire dalle fortificazioni i confederati cercano battaglia, ma Wallenstein la rifiuta e offre

loro una tregua e la possibilità di chiudere il conflitto, dichiarandosi pronto a far accettare all'Imperatore

un eventuale accordo. Sono aperte trattative (anche con l'aiuto dell'ambasciatore francese Feuquieres, a

Dresda) che però non portano a risultati.

Scaduta la tregua, Wallenstein inizia senza troppa convinzione un'offensiva verso la Lusazia e la

Sassonia, riuscendo ad ottenere qualche risultato.

Frattanto Bernardo di Weimar e le sue truppe protestanti, passano il Danubio, invadono la Baviera e

prendono Ratisbona (14 nov. 1633). Massimiliano I di Wittelsbach, duca di Baviera, con pochi uomini,

chiede aiuto all'Imperatore che sollecita invano Wallenstein a intervenire, mentre Bernardo di Weimar

consolida le conquiste senza avanzare ulteriormente in Baviera né contro la ormai vicina Austria.

In campo cattolico cresce la diffidenza nei confronti di Wallenstein, in parte giustificata dalle trattative

non autorizzate da lui intavolate con i Protestanti, in parte alimentata da gelosie e invidie di palazzo.

Questo porta il 18 febbraio 1634 Ferdinando II a revocare il comando a Wallenstain, a ordinare (febbr.

1634) ai suoi migliori generali, Ottavio Piccolomini e Matthias von Gallas, di abbandonarlo e ad

arrestarlo.

Probabilmente all'oscuro dell'Imperatore, invece, si muove una congiura del generale irlandese Walter

Butler e dei colonnelli scozzesi Walter Leslie e John Gordon, che nella notte del 25 febbraio 1634

uccide a tradimento Wallenstein, nel castello di Eger (oggi Cherb) per mano di Walter Devereux.

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Morto Wallenstein, il comando delle operazioni militari imperiali nell’aprile 1634 passa a Ferdinando

d'Asburgo, re di Ungheria e Boemia, figlio dell’imperatore Ferdinando II e futuro imperatore, affiancato

dal generale trentino Matthias Gallas.

Ferdinando si adopera subito per rafforzare l'armata asburgica ricongiungendola alle truppe spagnole in

arrivo dall'Italia settentrionale, al comando di suo cognato, il Cardinale Infante Ferdinando.

Il Cardinale-Infante Ferdinando d'Asburgo, noto anche come Fernando o Ferdinando d'Austria (1609 -

1641) fratello minore del re di Spagna Filippo IV (il termine "Infante" indica un figlio del Re di

Spagna). È stato Cardinale e arcivescovo di Toledo. Nel 1630 la zia Isabella Clara, governatrice dei

Paesi Bassi spagnoli, lo nomina suo successore. Alla morte della zia, avvenuta il 29 sett. 1633, il

Cardinale Infante sbarca a Genova e va a Milano, dove appronta un esercito con il quale si dirige verso i

Paesi Bassi, dove assume il ruolo di Governatore e comandante dell'esercito spagnolo nella guerra dei

30 anni. Si dimostra un abile uomo politico, di qualità ben superiori a quelle del fratello maggiore

Filippo IV di Spagna.

L'esercito imperiale continua a dimostrarsi indisciplinato, sopravvivendo con scorrerie sul territorio,

secondo il metodo di Wallenstein. In questo si distinguono negativamente le truppe del feldmaresciallo

Baltasar Marradas, che darà vita al termine marauder (scorridore).

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L’esercito del Cardinale Infante parte a fine giugno 1634 e segue la stessa via che ha fatto l’anno prima

il Duca di Feria (Valtellina, Stelvio, Bolzano, Innsbruck) e giunge a Monaco il 24 agosto

ricongiungendosi ai resti del contingente spagnolo del duca di Feria.

Intanto il generale svedese Horn ha posto l’assedio alla fortezza di Überlingenm sul lago di Costanza,

che controlla la via d’accesso degli Spagnoli, ma deve desistere dopo quattro settimane. Si unisce allora

a Bernardo di Weimar (Augusta, 12 agosto 1634); insieme avanzano con un grosso esercito contro

quello di Ferdinando d’Asburgo e Matthias Gallas.

Ferdinando d’Asburgo occupa Ratisbona, prende il ponte sul del Danubio di Donauwört (16 agosto) e

va ad assediare Nördlingen.

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Gustav Horn e Bernardo di Weimar (che comandano l’esercito sassone/svedese a giorni alterni)

raggiungono gli Imperiali a Nördlingen (Svevia) ma non li attaccano in attesa di rinforzi, che sono però

fermati dal gen. imperiale Ottavio Piccolomini. Anche l’esercito spagnolo lascia Monaco e, attraversato

il fiume Lech presso Rain, giunge a Nördlingen (2 settembre).

I cannoni spagnoli ed imperiali iniziano a bombardare Nördlingen, difesa da una guarnigione svedese; è

aperta una breccia ma l’assalto è respinto. Weimar, stimando in difetto le forze spagnole, attacca

l’esercito imperiale e spagnolo ma è duramente sconfitto presso Nördlingen (il 6 settembre 1634). La

battaglia è violentissima e termina con la completa disfatta degli Svedesi e Protestanti che hanno 6000

caduti e 1000 prigionieri, tra i quali lo stesso generale Horn.

Il giorno dopo la città si arrende: il Cardinale Infante e Ferdinando d'Asburgo vi entrano solennemente e

partecipano ad un "Te Deum“ di ringraziamento. La grande vittoria imperiale di Nördlingen suscita

grande impressione: Urbano VIII fa esporre le bandiere conquistate in battaglia in San Pietro e assiste al

“Te Deum” nella chiesa tedesca dell’Anima.

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Dopo la vittoria di Nördlingen, gli Imperiali e gli Spagnoli raccolgono subito altri frutti: il Cardinale

Infante e il gen. Piccolomini, scendendo il Reno e occupando diverse città, raggiungono Bruxelles nel

novembre 1634.

Ferdinando d’Asburgo invade la Franconia ed il Württemberg: prende molte città, tra le quali

Heilbronn, Stoccarda e Norimberga.

I resti dell'esercito confederato e svedese in rotta si ricongiungono con Oxenstierna a Francoforte. Gli

Svedesi devono così sgomberare tutti i territori occupati dalle Alpi al Meno.

Già dopo la battaglia di Nördlingen, crollato il mito dell’invincibilità svedese, si sono poste le basi per

una trattativa di riconciliazione tra i diversi Principi Protestanti e l'Imperatore.

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Le trattative tra schieramento protestante e parte imperiale sono avviate nel novembre 1634, con i

preliminari di Pirna e sono portate a termine con la Pace di Praga (30 maggio 1635).

Con questo trattato di pace si stabilisce:

- la revoca dell'Editto di Restituzione del 1629 per 40 anni;

- il ripristino dei termini della Pace di Augusta del 1555 (limitatamente ad alcuni territori protestanti)

- il divieto per i principi tedeschi di formare alleanze interne o esterne all'impero

- l'unificazione degli eserciti tedeschi nell'Esercito del Sacro Romano impero (ma Giovanni Giorgio I di

Sassonia e Massimiliano I di Baviera manterranno il comando delle loro forze)

- l'amnistia generale per gran parte degli avversari imperiali (con l'eccezione di alcune personalità

protestanti di rilievo)

- diverse concessioni territoriali e finanziarie a Sassonia, Brandeburgo e Baviera (i cui principi ricevono

il titolo di elettore palatino).

Questo accordo è aspramente criticato da tutti i fronti:

- i Protestanti lamentano la mancata libertà religiosa per gli stati sotto il diretto controllo asburgico;

- i Cattolici criticano la mancata restituzione dei beni ecclesiastici occupati dai protestanti alla Chiesa.

Gli Svedesi soffrono per il mancato riconoscimento del possesso della Pomerania (concessa al

Brandeburgo) e lo scioglimento della lega di Heilbronn.

I Francesi sono soprattutto dispiaciuti del mancato ridimensionamento del potere asburgico in Europa.

Sono perciò poste le premesse per l'ultima e lunga fase della Guerra dei trent'anni.

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La guerra dei 30 anni inizia mentre nella maggior parte dell'Europa sono in uso armi e tattiche militari

tradizionali di tipo spagnolo, poco diverse da quelle adottate nel '500. Fulcro di tali tattiche è la

formazione detta "Tercio", un fitto gruppo di picchieri disposto in un quadrato e circondato da

moschettieri di supporto, per totale teorico di 3000 uomini. Nel Tercio, il ruolo più importante era

affidato ai picchieri, che hanno un ruolo sia difensivo sia offensivo, avanzando a picche spianate,

mentre i moschettieri hanno un compito subordinato, anche per la bassa cadenza con cui possono tirare.

Partendo da questa situazione, si distingue nettamente per le tattiche adottate l'esercito svedese che

opera nella Guerra dei 30 Anni. Le riforme militari attuate da Gustavo Adolfo, ispirate a quelle olandesi

di Maurizio di Nassau nella loro decennale lotta contro la Spagna, riguardano sia le tre armi

singolarmente (fanteria, cavalleria, artiglieria) sia il coordinamento dei vari componenti l'armata.

• La fanteria svedese vede la predominanza dei moschettieri sui picchieri, in un rapporto di circa 2:1, e

l'adozione di una formazione lineare su più file (in genere sei), che consente di massimizzare la potenza

di fuoco dei moschettieri; questi ultimi sono addestrati a ricaricare il più rapidamente possibile, e a

sparare per salve controllate, una fila per volta mentre le altre file ricaricano.

• La cavalleria, che per la presenza dei picchieri dall'inizio del '500 ha perso importanza sul campo di

battaglia, abbandona la poco efficace tattica del "Caracollo" (galoppare sin vicino al nemico, sparare e

allontanarsi) e passa a una tattica più incisiva di carica all'arma bianca, in special modo con la sciabola.

• L'artiglieria, finora relativamente secondaria, viene notevolmente sviluppata, con un sostanziale

alleggerimento dei pezzi, la cui maneggevolezza ne permette ora lo spostamento sul campo, prima quasi

impossibile; inoltre sono introdotti cannoni reggimentali per appoggiare le formazioni di fanteria e

viene data molta importanza alla rapidità nel caricamento.

Tali innovazioni si rivelano decisive per l'esito del conflitto, e sono via via adottate dai vari contendenti.

Nelle battaglie che vedono scontrarsi eserciti che adottano le due diverse dottrine (come a Breitenfeld o

a Rocroi) prevale sempre la tattica svedese.

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L’unità di combattimento che contraddistingue l’esercito spagnolo dalla metà del '500 secolo alla prima

metà del '600 secolo è, come si è già detto, il “Tercio” (Terzo in Italiano), composto teoricamente da

3000 soldati, e che mescola picchieri, archibugieri e moschettieri.

I Picchieri erano armati di lunghe lance, fino a 5 metri, gli archibugieri ed i moschettieri di armi da

fuoco. La funzione dei picchieri è quella sia di difendere, in particolare dalle cariche di cavalleria, le

altre due componenti durante i processi di ricarica, assai lunghi e laboriosi, sia di fungere da forza di

sfondamento durante gli scontri di massa, come nell’antichità facevano le falangi macedoni.

Il Tercio è conosciuto anche come il “Quadrato Spagnolo”, per la specifica forma della sua formazione,

composta da un solido quadrato di picche centrali, con agli angoli quattro quadrati composti da

archibugieri e fronteggiato dalla formazione in linea dei moschettieri.

Il quadrato centrale è costituito da picchieri, detti “Corsaletos”, (Corsaletti) perché indossano, o

dovrebbero indossare, una corazza sul petto. In realtà la dotazione reale dei fanti si distacca spesso dalla

teoria: raramente gli effettivi di un Tercio raggiungono le 3000 unità, spesso si attestano su 1500

uomini.

La decadenza del Tercio inizierà alla fine della guerra dei trent’anni, quando il peso dei moschettieri “in

linea”, supererà quello dei picchieri. Successivamente il diffondersi delle baionette (a partire dalla

seconda metà del '600) renderà la distinzione picchieri/moschettieri superata. Il canto del cigno del

Tercio sarà alla battaglia di Rocroi, nel 1643.

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Dopo la metà del ‘600 l’archibugio è sempre più sostituito dal moschetto. Più lungo e pesante, e più

difficile da maneggiare, il moschetto ha però il vantaggio di tirare una palla più pesante e a maggiore

distanza. Il moschetto, come l’archibugio, funziona per mezzo di una miccia accesa che, premendo il

grilletto, viene accostata alla polvere da sparo per far partire il colpo. È un’arma lenta, poco efficiente,

inutilizzabile con il cattivo tempo e così pesante che il moschettiere doveva spesso portarsi dietro una

forcella da piantare nel terreno su cui appoggiare la canna. Ma è un'arma vincente e modifica totalmente

i reparti di fanteria. A poco a poco diminuiscono i picchieri e aumentano i moschettieri.

La crescente importanza dei moschettieri induce qualche comandante, ad esempio Maurizio di Nassau,

ad addestrare con manovre precise i suoi moschettieri in modo da farli sparare in gruppo, anziché

singolarmente. Si comincia ad addestrarli secondo un piano scientifico, facendo in modo che quelli

della prima fila sparino tutti insieme, poi arretrino con ordine in ultima file per procedere alla lenta

operazione di ricarica, mentre spara la seconda fila, poi la terza e così via. Si combatte prima su dieci

file, poi si passa a un numero di file inferiori.

L’arrivo della baionetta nella seconda metà del '600 risolverà molti problemi, consentendo al moschetto

e poi al fucile di diventare anche un’arma bianca d’assalto e utile nel corpo a corpo. Il "fucile", con

accensione a pietra focaia, arriverà progressivamente sui campi di battaglia solo nella seconda metà del

'600.

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La logistica degli eserciti impegnati nel conflitto resta sempre molto problematica. Non esistono

all'epoca treni di rifornimento come quelli che saranno impiegati nel '700. Se questo rende possibile per

gli eserciti effettuare spostamenti più rapidi, in quanto non esiste la necessità di trainare lenti carriaggi,

il materiale per il sostentamento delle truppe è spesso ridotto ai minimi termini.

La tipica politica adottata nella guerra è l'utilizzo sistematico delle risorse del territorio. Questa

spoliazione di intere regioni ha conseguenze molto gravi sulle popolazioni, ed è inserita in un sistema

più generale, per cui i comandanti degli eserciti traggono lauti profitti dai saccheggi. Emblematico di

questa abitudine è stato il comandante imperiale Wallenstein: al comando di un esercito da lui stesso

arruolato, egli trae enormi profitti che gli consentono di equipaggiare il suo esercito in maniera

relativamente uniforme e di aumentare di molto le truppe al suo comando.

Il problema dei rifornimenti incide spesso sulle operazioni militari, costringendo gli eserciti a spostarsi a

causa dell'esaurimento delle risorse locali; inoltre si assiste a casi in cui intere armate sono decimate a

causa del forzato passaggio o stazionamento in zone già esaurite.

Con il proseguire della guerra il problema logistico si fa sempre più stringente, per l'aumento del

numero di uomini in campo. Molto problematico si rivela il pagamento delle truppe, che ricevono il

salario con grande ritardo, fatto che provoca numerosi ammutinamenti, soprattutto nell'esercito svedese.

Una conseguenza secondaria della necessità di pagare ed equipaggiare un grande numero di truppe è

l'avvento della standardizzazione nelle uniformi e nell'armamento, per aumentare la velocità di

produzione e diminuire i costi.

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Nel corso della guerra, i villaggi sono prede particolarmente vulnerabili per gli eserciti. Quelli che

riescono a sopravvivere, come il piccolo villaggio di Drais nei pressi di Magonza, dovranno talvolta

impiegare quasi un secolo per recuperare la situazione prebellica. Si stima che le sole armate svedesi

siano state responsabili della distruzione di circa 2.000 castelli, 18.000 villaggi e 1.500 città in

Germania: un terzo di tutte le città tedesche.

Da zona a zona si registrano tuttavia notevoli differenze, che rispecchiano la frequenza degli scontri e

del passaggio degli eserciti nella regione; le più colpite sono la Pomerania, il Meclemburgo, il

Brandeburgo e il Württemberg, mentre le regioni nord-occidentali sono in gran parte risparmiate. Il

Württemberg perde i tre quarti della sua popolazione durante la guerra. Nel territorio di Brandeburgo, le

perdite sono pari a circa la metà della popolazione, mentre in alcune zone si stima che i due terzi degli

abitanti siano morti. Complessivamente, negli stati tedeschi, la popolazione maschile si riduce di quasi

la metà. Nelle terre ceche, la popolazione diminuisce di un terzo a causa delle battaglie, delle malattie,

della malnutrizione, e come conseguenza dell'espulsione dei protestanti residenti.

La causa principale del calo demografico non è tanto legata direttamente a eventi bellici, che

contribuiscono in maniera relativamente bassa, ma alla mancanza di vettovaglie e al ripetuto diffondersi

di epidemie; il passaggio delle truppe, in gran parte eserciti di mercenari che traggono sostentamento

dal saccheggio sistematico dei luoghi che attraversano, genera una carenza di viveri che indebolisce gli

abitanti, rendendoli facile preda di malattie infettive la cui diffusione è favorita dai flussi di profughi e

dal concentramento degli sfollati nelle città.

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Facciamo un passo indietro e andiamo a vedere cosa succede in Italia nel 1633.

I successi ottenuti nella guerra in Italia vi hanno rafforzato la presenza francese e indebolito quella

spagnola. Gli Spagnoli si vedono tolta quella supremazia nella penisola che possedevano da oltre un

secolo. Smessi i consueti modi imperiosi, la Corte di Madrid manda ambasciatori presso i Principi

italiani per riconquistarne il consenso e promuovere un'alleanza al fine di ricacciare i francesi oltre le

Alpi. La Francia a sua volta manda ambasciatori con lusinghe e proposte in senso opposto. Inoltre la

Francia, mentre proibisce al duca di Savoia il rafforzamento di Montmélian, provvede di nuove

fortificazioni Pinerolo e Casale.

Le manovre degli ambasciatori dei due Paesi hanno diviso le Corti italiane. A Roma si formano due

fazioni, e gli stessi nipoti del Papa Urbano VIII si dividono il campo: uno per la Spagna e l’altro per la

Francia.

A Mantova, al duca Carlo I di Nevers, morti i suoi due figli, resta solo la nuora Maria (figlia di

Margherita di Savoia): per togliere dall’incertezza la successione, Carlo I si propone addirittura di

sposarla, ma il Papa non gli concede la dispensa. Gli Spagnoli, a loro volta, pensano a un matrimonio di

Maria con Ferdinando, il Cardinale Infante, che sta transitando dall’Italia per andare nelle Fiandre. In

questo senso si attiva la madre di Maria, favorevole alla Spagna, ma i Francesi, appena saputo dei

negoziati allontanano Margherita, che si ritira nel Modenese; poi sarà Pavia e in Spagna, e infine

viceregina del Portogallo.

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Vittorio Amedeo I si è mantenuto neutrale in questi negoziati, e non sa quale delle due potenze

appoggiare: da una parte vede la baldanza della Francia (che non gli ha concesso nulla) dall’altra la

superba debolezza della Spagna (che mostra solo diffidenza e animosità).

All’interno della Corte sabauda vi sono divisioni: Cristina spinge per l’alleanza con la Francia, Maurizio

e Tommaso, ora governatore della Savoia, spingono verso la Spagna. Tommaso fa osservare al Duca

che, dopo la battaglia di Lutzen e la morte di Gustavo Adolfo, Spagna e Impero si sarebbero gettate

contro la Francia, che sarebbe stata costretta a ridurre le sue pressioni sul Piemonte e la Savoia.

Vittorio Amedeo I si sforza però di mantenere un buon rapporto con entrambe le potenze: auspica che il

cardinal Maurizio possa assumere in Roma il protettorato dell’Impero (oltre a quello della Francia) tiene

buoni rapporti con i generali imperiali, e si reca a Nizza ad incontrare il Cardinale Infante Ferdinando,

per testimoniargli la sua amicizia verso casa di Spagna. Dà una prova di questa amicizia rimettendosi

alle sue decisioni per le sue controversie con Genova.

Il Cardinale Infante, che ha avuto lo stesso mandato da parte della Repubblica di Genova, nel marzo

1634 emette la sua sentenza: conferma sostanzialmente “in toto” quanto deciso precedentemente a

Madrid, sia per il perdono ai pochi ribelli e prigionieri, sia per l’indennizzo che Genova deve al Duca.

Ma il dibattito e le discordie sui due punti proseguono. Vittorio Amedeo pensa di rilanciare con la

Francia l’idea di portare guerra a Genova, secondo gli accordi segreti di Cherasco. Invece la Francia si

avvicina a Genova, inserendosi come mediatrice nella questione.

Anche l’Imperatore si intromette ed alla fine il Duca accetta il lodo del Cardinale Infante. Dopo ulteriori

divergenze si arriva finalmente all’intesa, dopo sette anni di guerra e rivalità.

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Il principe Tommaso decide di passare al servizio della Spagna, come già la sorella Margherita: detesta

l'insolenza francese ed è spinto dalla sposa Maria, che odia Richelieu. A ciò si sommano le incomprensioni

con l’altera Cristina, che hanno generato in Tommaso e consorte disgusti e gelosie. A fine gennaio 1634

Tommaso, che si trova in Savoia come Governatore, inizia (attraverso il suo ministro Costa) trattative

segrete con gli Spagnoli nella vicina Franca Contea e nelle Fiandre. Costa fa più viaggi e prepara il terreno,

senza però arrivare a un vero accordo, quando un puntiglio di cerimoniale spinge Tommaso al passo.

Il conte di Chabò, marchese di S. Maurizio, è nominato a inizio 1634 ambasciatore a Parigi, al posto del

conte di Druent. La Corte di Francia, nel dare la prima e l'ultima udienza a un ambasciatore è solita porre in

parata il reggimento delle Guardie. Il Druent ottiene questo onore nella sua ultima udienza, e lo chiede

anche per il nuovo ambasciatore, senza ottenerlo. Il Chabò, non volendo stare in carica senza onori, chiede

di essere inviato in Inghilterra. Il Duca pensa allora di inviare come ambasciatore il fratello Tommaso. Ciò

spinge Tommaso verso la Spagna; scrive una lettera al Duca mettendolo in guardia dai maneggi di

Richelieu: certo lo avrebbe tenuto in ostaggio a Parigi in cambio della Savoia e del disarmo di Montmélian.

Gli suggerisce anche di non inimicarsi Austria e Spagna, che potranno essere di aiuto in caso di aggressione

francese. A fine marzo si decide: prima manda Maria e i figli a Milano, con un seguito di oltre 100 persone.

Il viaggio (dalla Savoia attraverso la Svizzera, evitando gli Stati Sabaudi) risulta gravoso: Maria è in

gravidanza e poco dopo l’arrivo dà alla luce il figlio Ferdinando. Poi Tommaso, nell’aprile 1634, attraverso

la Svizzera, va a Besançon, in Franca Contea. Infine, con il Duca di Lorena, giunge Bruxelles il 14 aprile.

Da Thonon scrive due lettere: al Duca e a Maurizio. Nella prima si prende tutta la responsabilità della

decisione, per allontanare dal Duca i sospetti e le rappresaglie della Francia: scrive che la sua decisione è

motivata dalla poca considerazione per il rango della moglie, dalla riduzione dei suoi appannaggi di

Principe e dalle ridotte paghe ai membri della sua corte. Nella lettera a Maurizio evidenzia i veri

intendimenti: «Io so, che non mancherà gente che biasimerà questa mia risoluzione: però quando si

ricorderà dei trattamenti che io ho ricevuti, che qui non posso sperare alcun avanzo pe‘ miei figliuoli, che

mi si procura un viaggio così scabroso forse solo per levarmi da qui, e che insomma la mia intenzione, non

ostante tutte queste cose, non è altro che di procurare a S. A. e a' suoi Stati qualche appoggio contro quelli

che li minacciano ad ogni ora, e metteranno in esecuzione se non saranno impediti … ».

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Così avviene la partenza del principe Tommaso per le Fiandre, della quale si dice che sia stata

lungamente concertata con la Spagna, ottenendo il grado di Capitano generale. Certo è che la Spagna gli

ha più volte offerto non solo il comando di un esercito ma anche quello sul mare, già tenuto da suo

fratello Emanuele Filiberto. Ma è certo che quando egli lascia la Savoia non ha ancora ricevuto alcun

incarico ufficiale: infatti il reggente dei Paesi Bassi non ha ricevuto disposizioni in proposito perché è in

attesa dell’arrivo del nuovo Vicerè, il Cardinale Infante.

La fuga di Tommaso a Bruxelles e il suo pronunciamento antifrancese indeboliscono Richelieu presso

la Corte, tenuto conto che si aggiungono alla fuga di Maria de’ Medici e di suo figlio Gaston d’Orléans.

Tommaso, svaniti i primi imbarazzi, scrive al Duca esprimendo le intime cause della sua risoluzione,

cioè il desiderio di salvare gli Stati dall'oppressione francese e confessa di aver incolpato i ministri

ducali più del dovuto per stornare da lui i sospetti della Francia. Conclude dichiarando di essere pronto

a immolare per gli interessi di Casa Savoia il suo sangue e quello dei suoi figli.

Più diffusamente espone le cause della sua decisione in un documento fatto circolare per le Corti; in

esso si sostiene che i Francesi hanno più volte ingannato Casa Savoia: le hanno tolto Pinerolo senza

osservare le promesse, chiedono giornalmente piazze e territori, disprezzano le azioni diplomatiche

sabaude, pubblicano libri accampanti pretese francesi sulla Savoia, fortificano Pinerolo mentre

proibiscono al Duca di fortificare Torino e Montmélian; infine mirano a ridurre il Duca nella condizione

in cui hanno ridotto il Duca di Lorena, spogliato dei suoi territori e fatto servo prima di dichiararlo

nemico. Prosegue scrivendo che verso i Francesi non occorre cortesia ma forza, non schiettezza ma

dissimulazione, senza abbandonarsi ai loro disegni perversi. Perciò dichiara che non si pente della sua

risoluzione, osservando come il re di Francia, difensore del Cardinale, sia in non buona salute e come la

Regina Madre, Gaston e buona parte della nobiltà francese sia avversa a Richelieu, giunto secondo

Tommaso all’epilogo della sua carriera.

Il documento è diramato ed enfatizzato nelle varie Corti, in particolare dalla Repubblica di Venezia e

dalla Spagna che puntano a un dissidio tra Francia e il Ducato di Savoia. Così Vittorio Amedeo si trova,

da un giorno all’altro, in una situazione delicata ed imbarazzante nei confronti della Francia.

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Un nuovo fatto viene ad aggravare la situazione: Gaston d’Orléans, uomo dal carattere assai

influenzabile e sempre rifugiato a Bruxelles, è oggetto di continui tentativi di riconciliazione da parte di

Parigi: si teme che Gaston continui a perseverare nel suo atteggiamento di ostilità verso il Cardinale e

verso il fratello Luigi XIII, con grave danno per gli interessi francesi.

Infatti il 12 maggio 1634 è sottoscritto a Bruxelles un patto d’alleanza tra Gaston e la Spagna che

dovrebbe riunire sotto il comando spagnolo tutte le forze dissidenti di Francia. Questa alleanza è

ritenuta da Parigi frutto di una laboriosa opera di convincimento del principe Tommaso sul Duca

d’Orléans.

Dal mese di maggio Tommaso è considerato a Parigi un nemico della Francia, ed è disposto che come

tale debba essere trattato, così come sarebbe stato considerato nemico della Francia chiunque gli avesse

dato appoggio.

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Anche se il modo in cui Tommaso ha abbandonato la Savoia smentisce ogni preparazione del suo gesto

e il coinvolgimento da parte del Duca, né può far pensare a un cambio di alleanze di quest'ultimo, si

teme un'invasione francese della Savoia, quasi sguarnita di truppe. Anche se è evidente che Vittorio

Amedeo non ha alcun interesse a rompere le relazioni con il potente vicino francese, è necessaria, per

calmare le acque, la relazione che il Particelli d’Hémery, plenipotenziario francese a Torino e

notoriamente ostile alla Corte sabauda, scrive in quella occasione. Egli dichiara infatti che “la partenza

arbitraria di Tommaso avvenne senza la partecipazione del Duca. Essa fu una decisione del Presidente

Costa alla quale il governatore (Tommaso) e la principessa di Carignano (Maria di Borbone-Soissons)

sua moglie, aderirono per l’avversione che provavano verso Madame (Cristina) e verso il principale

ministro del Duca”.

Nel giro di pochi mesi, con la partenza di Margherita per la Spagna e quella di Tommaso per le Fiandre,

si sono acuiti i conflitti interni prodotti dal carattere e dalla politica di Cristina.

La condanna da parte francese del principe di Carignano influisce sullo stato d’animo di Vittorio

Amedeo I: se da un lato giudica con risentimento l’azione del fratello, aggravata dall’indisciplina

dinastica e dall’abbandono della carica di Governatore della Savoia, dall’altra non è dispiaciuto dalla

sfida lanciata da Tommaso contro l’alterigia di Richelieu.

Il Duca si preoccupa di rafforzare le difese della Savoia, potenziando Montmélian. Nomina poi il

fratello naturale, don Felice, Governatore della Savoia. Anche Torino è rafforzata. Nello stesso tempo

fa svolgere un’azione diplomatica dall’ambasciatore St. Maurice, volta a rassicurare il Richelieu.

Poi Vittorio Amedeo ordina la sospensione dell’appannaggio al fratello e fa sequestrare la dote della

Principessa di Carignano: scelte dolorose dettate dalla ragion di stato. A ulteriore garanzia offre in

ostaggio l’altro fratello, il Cardinale Maurizio: è la seconda volta in tre anni che Maurizio deve prestarsi

a questa umiliante condizione.

Richelieu, nell’intento di legare a sé lo Stato sabaudo, non accetta e vuole che Maurizio si rechi a Roma

presentandosi alla S. Sede come “Comprotettore della Corona di Francia”. Manovra astuta per

allontanare Maurizio dal Ducato e legarlo alla Francia.

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A fine 1634, mentre sta riaprendosi il teatro di guerra nelle Fiandre con l’intervento diretto francese,

Spagna e Francia continuano le loro azioni diplomatiche in Italia per conquistarsi l’alleanza delle varie

corti. La Francia ha inviato il mar. di Créqui a Roma, Venezia e altre Corti, senza però ottenere risultati

soddisfacenti. La Francia propone una lega difensiva tra i Principi italiani sotto la sua protezione:

Venezia si sottrae, il duca di Savoia richiede che anche gli Stati italici spagnoli facciano parte della

lega: in pratica un cortese rifiuto.

Vittorio Amedeo propone invece una lega difensiva tra i soli stati italiani; per non insospettire Francia e

Spagna pensa di mascherarla come lega per una impresa contro gli Stati barbareschi che continuano ad

infestare le coste italiane. Venezia, anche per le recenti controversie col Duca di Savoia, non accetta; a

Vittorio Amedeo resta la speranza di concluderla con il Papa e con il Granduca di Toscana. Ma la lega

alla fine non si fa, anche per le lunghe tergiversazioni del Papa.

Frattanto Vittorio Amedeo I deve superare altri possibili elementi di rottura con la Francia. Il Duca ha

accolto onorevolmente il maresciallo di Toiras, intrepido difensore di Casale, che Richelieu ha mandato

in esilio per essere imparentato con alcuni suoi avversari e forse per gelosia della reputazione militare. il

Duca ha inoltre concesso il passaggio per Savoia e Piemonte al Duca di Lorena, profugo dal proprio

Stato; alle rimostranze dell’ambasciatore francese, fa rispondere da Cristina, spiegando che non si può

rifiutare il passo ad un Principe solo e senz’armi.

Negli ultimi mesi del 1634 si moltiplicano le pressioni francesi sul Duca per un’alleanza politica e

militare in vista del prossimo conflitto della Francia contro gli Asburgo. Buon strumento di questa

azione è Giulio Mazzarino, che in quell’anno è stato nominato Nunzio papale straordinario presso la

Corte francese.

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Dopo la disfatta svedese a Nördlingen del 9 settembre 1634 a opera dell’Impero e della Spagna,

Richelieu deve fa fronte alla grave situazione creatasi con il crollo degli alleati svedesi e dell’Unione

protestante.

Ai primi di ottobre, Richelieu e Luigi XIII ottengono un grosso successo: il volubile Gaston d’Orléans,

nonostante il recente patto sottoscritto con la Spagna, si lascia persuadere a tornare in Francia; il suo

viaggio avviene in piena segretezza all’insaputa degli Spagnoli.

Poi Richelieu sfrutta la situazione di debolezza degli Svedesi: con un trattato firmato a Parigi il 1°

novembre 1634, la Svezia consegna alla Francia l’Alsazia ed i territori già conquistati sulla riva destra

del Reno, da Breisach fino a Costanza.

Nel mese di dicembre, un grosso corpo francese, senza dichiarazione di guerra, investe le truppe

bavaresi impegnate nell’assedio di Heildelberg e le scaccia. Ha così inizio il periodo detto “francese”

della Guerra dei 30 anni.

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Prima di proseguire il discorso su cosa sta accadendo il Piemonte, vediamo rapidamente cosa sta

succedendo in Europa.

La Francia, con il trattato di Compiègne del 28 aprile 1635 stringe un’alleanza militare con Svedesi e

Olandesi.

Con la citata Pace di Praga (30 maggio 1635) la Francia vede però sfuggire la partecipazione al conflitto

dei Paesi germanici protestanti. A Praga, l’Elettore di Sassonia (Giovanni Giorgio I, uno degli sconfitti

a Nördlingen) ha concluso la pace con l’Imperatore: le sue truppe si schierano con gli Austriaci; alla

rafforzata compagine tedesca si sono aggiunti poi l’Elettore di Brandeburgo (Giorgio Guglielmo di

Hohenzollern, cognato di Gustavo Adolfo) il Principe d’Assia-Darmstadt (Giorgio II) e gli altri Stati

della lega di Heilbronn. Solo il Principe d’Assia-Kassel (Guglielmo V) è rimasto favorevole alla Svezia.

Il precedente 19 maggio 1635 un araldo francese ha recato a Bruxelles (secondo le forme antiche) la

dichiarazione ufficiale di guerra alla Spagna, giustificata dall'attacco che gli Spagnoli hanno sferrato

contro l'Elettore di Treviri (Philipp Christoph von Sötern, arcivescovo di Treviri) sotto protezione

francese fin dal 1632, fornendo così alla Francia un casus belli.

I Paesi Bassi spagnoli stanno per essere investiti da sud-ovest dalle armate francesi e da nord-est dalle

truppe del Principe Federico Enrico d’Orange.

Il principe Tommaso, con le sue truppe, si è già mosso e ha conquistato le città di Philippsburg e

Treviri.

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Il 4 novembre 1634 il Principe Tommaso incontra a Bruxelles il Cardinale Infante, colà giunto dopo la

battaglia di Nördlingen, scendendo il Reno e conquistando diverse città con l’aiuto del generale

imperiale Piccolomini.

Il Cardinale Infante lo accoglie con benevolenza e gli affida l’incarico di reclutare un esercito di 20000

uomini e 6000 cavalli da preparare per l’imminente guerra; gli consegna inoltre un’ingente somma in

denaro (700000 scudi d’oro).

Alla Principessa di Carignano è proposto di andare in Borgogna, lasciando due figli a Milano. Lei però,

non volendo abbandonare alcun figlio, ottiene di andare a Madrid con tutta la prole, alla Corte di Filippo

IV, dove è accolta benevolmente.

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Il 19 maggio 1635 la Francia dichiara guerra alla Spagna. Il pretesto è l’attacco spagnolo guidato dal

Principe Tommaso che ha occupato Philippsburg (23-24 genn. 1635) Treviri (26 marzo 1635) e fatto

prigioniero Filippo Cristoforo von Sötern arcivescovo di Treviri (26 III 1635), che aveva chiesto

protezione alla Francia.

Un esercito francese, guidato dai mar. Urbain de Maillé-Brezé (1597-1650) e Gaspard III de Coligny-

Châtillon (1584-1646) si avvia da Mézieres verso il Lussemburgo e le Fiandre spagnole per unirsi agli

Olandesi del principe Federico Enrico d’Orange. I due generali, di pari grado per non essere soggetti

l’uno all’altro, marciano su due colonne separate.

Il Principe Tommaso, con un esercito ben inferiore, pensa di incunearsi tra le due armate e attaccare il

maresciallo Brezé presso il villaggio di Les Avins a sud di Huy (territorio Vallone, presso Liegi).

Accorre il mar. Châtillon e Tommaso, premuto da forze doppie rispetto alle sue, è sconfitto con perdite

gravissime (20 maggio 1635).

Fra parecchie migliaia di corpi sono rinvenuti quelli di due suoi paggi, a testimoniare ch'egli ha

combattuto strenuamente nella battaglia. Si teme che il Principe sia prigioniero o ferito ma egli rassicura

la moglie che si trovava a Madrid.

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Châtillon e Brezè, col favore della vittoria, si collegano al Principe d’Orange a Meerssen (poco a sud di

Maastricht) il 29 maggio; poi prendono e saccheggiano crudelmente Tienen (in francese Tirlemont, nel

Brabante). Il disegno è quello di puntare su Bruxelles. Forze imperiali provenienti dalla vicina

Germania e guidate dai gen. Piccolomini, Galasso e dal duca di Lorena hanno però iniziato a contrastare

i movimenti dei Franco-Olandesi, che intanto hanno assediato Lovanio (12 giugno) difesa dagli

Spagnoli del Cardinale Infante e Tommaso di Savoia. Sopraggiunge però Piccolomini con un esercito

imperiale e li costringe a ritirarsi verso la Mosa (4 luglio). L’offensiva imperiale continua con la presa

di Diest (12 luglio) quindi con la presa della fortezza di Schenk (sul Reno, vicina a Kleve, 27 luglio) da

parte degli Spagnoli (Cardinale Infante e Tommaso) e Imperiali (Piccolomini).

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L’offensiva prosegue anche a sud e, nell’autunno, il Cardinale Infante fa incursioni nell’Artois, mentre

Tommaso va verso l’Hainaut, bruciando villaggi in Piccardia e ai confini dello Champagne, con grande

apprensione della Corte francese che ha mandato Bernardo di Weimar, da poco era passato dall’esercito

svedese a quello francese, a difendere la Lorena. Intanto gli Olandesi iniziano un duro assedio per

riprendere la strategica fortezza di Schenk sul Reno, proprio ai loro confini.

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In Italia, Richelieu opera con la solita abilità per attrarre dalla parte francese i vari Principi; si è già

assicurato l’adesione del Duca di Modena, Francesco I (nipote di Vittorio Amedeo in quanto figlio di

Isabella di Savoia, sorella di VAI) del duca di Mantova (che ha già una guarnigione francese in Casale)

e di quello di Parma, Odoardo Farnese. Gli occorre ancora ottenere l’adesione della Repubblica di

Venezia e del Duca di Savoia. Con Venezia, dato il carattere di estrema prudenza della sua diplomazia,

non riesce a definire un accordo; con il Duca di Savoia Richelieu mette in atto ogni accorgimento per

costringerlo all'alleanza militare.

Per mesi Vittorio Amedeo è sottoposto a una forte pressione diplomatica, anche con promesse di

territori nel Monferrato, nell’Alessandrino e nel Novarese. Il Duca, come abbiamo detto, preferirebbe

una lega difensiva tra gli Stati italiani, ma non riesce a concretizzare il disegno.

L’ambasciatore francese a Torino, Bellièvre, svolge dal marzo 1635 una difficile azione di persuasione

verso il Duca, timoroso di un nuovo tranello di Richelieu. L’azione è ancora più difficile con il severo

consigliere di Vittorio Amedeo, padre Pietro Monod. Cristina, presente ai colloqui, cerca di favorire le

intese con i francesi.

Va aggiunto che in quell’anno è iniziata una fitta corrispondenza epistolare tra Vittorio Amedeo I e il

fratello Tommaso a Bruxelles: i recenti successi imperiali dopo Nördlingen sono gli elementi su cui

Tommaso fa leva per convincere il Duca sull’opportunità di accostarsi alle corone asburgiche.

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Spinto da Tommaso, Vittorio Amedeo avvia a inizio 1635 trattative con la Spagna, attraverso il governatore

di Milano; ma la Spagna si dimostra poco credibile al di là delle solite promesse. Anzi le truppe spagnole

fanno incursioni sul territorio sabaudo: occupano il marchesato di Novello (presso Alba) e mettono un

presidio a Crevalcuore (nel principato di Masserano, feudo dalla S. Sede).

Intanto la Francia, avvicina un esercito al Ducato, aumenta il presidio di Pinerolo e chiede al Duca di

dichiararsi: amico o nemico. Invano il Duca cerca di tenersi neutrale, come altri Principi italiani, sotto la

protezione del Papa e dell’Inghilterra; infine si risolve a firmare con la Francia il Trattato di Rivoli (11

luglio 1635) che comprende una parte pubblica, un articolo segreto e due convenzioni particolari.

La parte pubblica stabilisce una lega difensiva/offensiva di tre anni tra Francia, duca di Savoia e altri

Principi italiani che vi vogliano aderire: l'obiettivo è la conquista del Ducato di Milano. Il comando militare

è del re di Francia, e in sua assenza del duca di Savoia. Un generale francese lo assisterà e sostituirà in caso

di impedimento. Nell’articolo segreto si dice che la Francia compenserà il Duca di Savoia nel caso che si

arrivi alla pace senza avergli procurato i vantaggi stabiliti nell’accordo segreto di Cherasco (sopra Genova)

o altri equivalenti. Nelle due convenzioni particolari si stipula: che la Francia, compensando i Gonzaga con

Cremona, cederà al duca di Savoia il resto del Monferrato, la parte della Lombardia a destra del Ticino e del

Lago Maggiore, e tutto l'Alessandrino. In cambio il Duca cederà alla Francia le valli del Po e del Pellice

sino a Revello e Cavour, e altri diritti su Genova e Pinerolo. Una volta conquistato e spartito il ducato di

Milano, il Duca riceverà il titolo regale dal re di Francia e cederà la corona di Cipro a Venezia.

Richelieu e Luigi XIII sono soddisfatti del Trattato che stacca Vittorio Amedeo dalla Spagna. Gli Spagnoli

fanno un estremo tentativo di bloccare il trattato, ma il maresciallo Créqui è già in Piemonte per conquistare

Valenza Po. La scelta del maresciallo che dovrà affiancare Vittorio Amedeo è di Richelieu: sa che il Créqui

è inviso ai Savoia e a Cristina. (Ricordiamo che il Créqui nel 1630 ha cercato di catturare a Rivoli Vittorio

Amedeo e il padre, e ha poi preso Pinerolo. Nel 1598 il giovane Créqui, genero del Lesdiguières, è stato

catturato dal Duca nello scontro di Epièrre e imprigionato a Torino. Inoltre nel 1599 Créqui ha ucciso in

duello Filippino di Savoia, figlio naturale di Emanuele Filiberto testa di Ferro.

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All’atto dello scoppio della guerra contro il ducato di Milano Vittorio Amedeo, mette in campo un

grosso contingente. La Francia dovrebbe inviare notevoli forze, come pure i duchi di Parma e Mantova

e Modena: in totale circa 30000 uomini. In Lombardia gli Spagnoli hanno a disposizione forze

equivalenti, anche con l’aiuto di contingenti dal Napoletano e dall’Impero.

Il duca Henry de Rohan, già famoso condottiero francese ugonotto, ha condotto, con un’abilissima

marcia attraverso i territori elvetici, una considerevole forza fino al territorio dei Grigioni: attraversati i

passi delle Alpi Retiche ha occupato i punti chiave della Valtellina, sbarrando il passaggio ai soccorsi

imperiali verso il Milanese. Il duca di Rohan dovrebbe poi operare insieme con il duca di Savoia: il

primo minacciando da nord il ducato di Milano, il secondo spingendosi oltre il Sesia ed il Ticino e

puntando direttamente verso Milano. Il piano è stato ben organizzato e i comandanti sono provetti, ma

le molte deficienze imputabili alla Francia e ai suoi alleati faranno naufragare il progetto di arrivare

rapidamente a Milano

Le operazioni dovrebbero iniziare solo dopo che tutte le forze si sono riunite in Piemonte, ma i Francesi

non mantengono i patti e inviano meno uomini, il duca di Mantova e Parma forniscono un corpo molto

scarso. Infine il duca di Modena, Francesco d’Este, si sottrae ben presto all’impegno: dietro alla

promessa spagnola di ricevere Correggio, confinante col suo Ducato: abbandona la coalizione e si

schiera a fianco degli Asburgo.

La decisione del duca Francesco d’Este influirà, come vedremo, anche sulle scelte del Cardinale

Maurizio, che è zio di quel Duca. Egli nel recarsi a Roma in qualità di “Comprotettore del Regno di

Francia” si è fermato a Modena per consultarsi con il nipote.

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Le premesse della lega offensiva voluta dalla Francia sono deludenti: Vittorio Amedeo vorrebbe

iniziare le azioni offensive solo nella primavera del 1636, ma la Francia ha premura e insiste, attraverso

l’ambasciatore d’Hémery, affinché il Duca inizi subito le operazioni. Vittorio Amedeo discute nel

Consiglio di guerra due progetti d’invasione del Milanese: assalire Novara e puntare su Milano,

chiudendo gli Spagnoli tra le sue forze e quelle del duca di Rohan, proveniente dalla Valtellina

(progetto preferito dal Duca); oppure attaccare Valenza e poi unirsi alle forze del Farnese, provenienti

da Parma, per bloccare agli Spagnoli l’importante via di Genova (progetto di Créqui).

Nulla è ancora stato deciso quando il Créqui e il duca di Parma, con un colpo di testa, tentano un attacco

a Valenza. L’attacco fallisce e il Créqui non riesce nemmeno a impedire che truppe nemiche e

rifornimenti entrino nella piazza investita. Vittorio Amedeo I è sdegnato per l’azione insubordinata del

Maresciallo, tanto che l’ambasciatore Particelli d’Hémery teme il ritiro del Savoia dall’alleanza. È

giunto in quei giorni a Torino, proveniente da Roma dove Richelieu l’ha confinato; il mar. Toiras,

celebre difensore di Casale e amico di Vittorio Amedeo I e di Cristina. Il Toiras riesce a convincere il

Duca a proseguire le operazioni e a riconciliarsi con il Créqui.

Vittorio Amedeo va in suo soccorso, porta l'esercito su Valenza e occupa il ponte sul Po, bloccando i

rifornimenti spagnoli dalla Lomellina. L’assedio della città riprende ma gli Spagnoli si difendono con

accanimento tale da far pensare che una grossa armata stia arrivando in soccorso dalla Lomellina. Così

infatti è, e il Duca è costretto a lasciare l'assedio. Le prime schiere spagnole sono arrivate a Frascarolo e

i Collegati muovono contro ad esse, con Créqui in avanguardia, il duca di Savoia in mezzo, e quel di

Parma in retroguardia. Subito Vittorio Amedeo investe l’ala nemica e la mette in fuga (gli è passata una

cannonata tra le gambe del cavallo!). Vorrebbe proseguire, ma si accorge che il Créqui si sta ritirando,

lasciandolo scoperto, ed è costretto a seguirne l’esempio. I Francesi sono costretti a ritirarsi

precipitosamente dall’assedio lasciando armi e munizioni al nemico. Il Duca chiede a Richelieu la

sostituzione del Créqui, ma il Cardinale non accetta.

Vittorio Amedeo vuole concludere la campagna del 1635 con un’azione positiva: pur essendo

novembre, supera il Po, invade la Lomellina e attacca Breme, punto strategico alla confluenza di Sesia e

Po: la prende e la fortifica, senza che il Leganes, nuovo governatore di Milano, possa intervenire.

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L’alleanza offensiva voluta da Richelieu ha portato nel 1635 a effetti molto scarsi. Si è già detto del

voltafaccia del duca di Modena Francesco I d’Este.

Vediamo ora come finisce la partecipazione del duca di Parma Odoardo Farnese all'alleanza. Già

durante l’assedio di Valenza è giunto al campo un incaricato di Urbano VIII per persuadere il duca di

Parma a ritirarsi dall’alleanza.

Poco dopo, temendo un’invasione spagnola dei suoi territori, il Farnese decide di riportare parte delle

sue truppe nel suo Ducato. Giovane, borioso e volubile, pretende una scorta di 1000 cavalieri sabaudi

per garantirsi un rientro sicuro. Ma una volta giunto, non vuole che i soldati sabaudi rimangano sul suo

territorio, adducendo una penuria di viveri e foraggio. Spinge perciò il march. Guido Villa, a capo della

cavalleria sabauda, a sconfinare nel Modenese; ma essendo il duca di Modena passato alla Spagna,

quella è zona nemica.

Questo provoca forte reazione del duca di Modena che, aiutato dagli Spagnoli, entra nel Parmense,

mentre il marchese Villa riesce, grazie alla sua abilità ed esperienza, a sottrarre i suoi squadroni al

nemico e a rientrare nel campo alleato.

(Guido Villa, marchese di Cigliano, di una nobile famiglia ferrarese, è uno dei grandi generali al

servizio della Francia e poi del duca di Savoia. Morirà nell’assedio di Cremona nel 1648. E’ sepolto a

Ferrara).

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All'inizio del 1636, mentre Vittorio Amedeo si prepara a puntare verso Milano, il duca di Parma

annuncia che ritirerà dalla spedizione tutte le sue truppe, per poter cacciare gli Spagnoli dal suo Ducato.

Chiede inoltre che un grosso contingente alleato vada in suo aiuto. Dopo lunghe discussioni è

accontentato, sotto la condizione che il mar. Toiras lo affianchi, per evitare che faccia errori; ma l’altero

e arrogante duca di Parma non accetta il Toiras, e parte offeso verso Parigi per farsi le ragioni. Lo stesso

giorno della sua partenza gli Spagnoli entrano in Parma.

A metà marzo il duca di Parma rientra da Parigi, sostenendo che alla Corte gli hanno dato ragione e

sollecita il Créqui e il duca di Savoia perché, abbandonato l’attacco a Milano adoperino le forze comuni

per rimetterlo a capo del suo Stato. Lo schieramento delle forze spagnole impedisce però una facile

mossa verso Piacenza per la liberazione del Parmense. È necessaria tutta l'abilità e l'autorità di Vittorio

Amedeo per rimandare questa operazione e proseguire nell'offensiva verso Milano. Lungo la via conta

di riunirsi con le forze del Rohan che sta scendendo dalla Valtellina.

Intanto gli Spagnoli iniziano una duplice manovra, dal Parmense e dalla Lombardia, verso la zona di

Novara, per colpire il centro dello schieramento franco-sabaudo.

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Vittorio Amedeo I porta le forze sue e dei suoi alleati verso il Ticino e conquista Oleggio.

A Fontaneto d’Agogna (località poco a ovest di Oleggio, dove si trova una fortezza spagnola) il

maresciallo di Toiras, che opera con la retroguardia della colonna e sta dirigendo il tiro dell'artiglieria, è

colpito al cuore da una palla di moschetto (14 giugno). È un grave lutto per il duca di Savoia che perde

uno dei suoi migliori generali.

Le forze del Créqui da Oleggio raggiungono e superano il Ticino (con traghetti e su un ponte di barche

provvisorio) mentre quelle sabaude per il momento non lo attraversano. I Francesi si attestano al

villaggio di Tornavento (oggi appena a sud dell'area aeroportuale di Malpensa). Da nord avanzano le

forze del Rohan: la congiunzione sembra imminente, con grande confusione e paura in Milano che

sembra dover essere presto assalita dalle forze franco-piemontesi (che in realtà stanno pianificando si

spostarsi prudentemente più verso nord, lungo le due sponde del Ticino verso Arona e Angera per

bloccare possibili aiuti da nord agli spagnoli).

Nel frattempo la marcia del Rohan è però fermata a Lecco dagli Spagnoli, e il duca di Parma, che si era

in precedenza unito alla spedizione, l'abbandona senza prendere alcun accordo e si dirige con le sue

truppe verso Piacenza, minacciata dagli Spagnoli.

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Il grosso dell’esercito spagnolo, al comando del marchese di Leganés, governatore di Milano, si è

mosso dallo Scrivia e sta risalendo lungo il Ticino, costringendo VA a retrocedere rapidamente verso

sud.

I Francesi del Créqui sono attaccati dall'esercito spagnolo la mattina del 22 giugno, e ha inizio una dura

battaglia a Tornavento; dopo qualche tempo i Francesi, in inferiorità numerica, stanno per ripiegare.

Vittorio Amedeo riesce però a passare il Ticino con le sue truppe, sul ponte di barche velocemente

completato, e arriva sul campo di battaglia, rovesciando la situazione.

La battaglia dura per ben 15 ore, con perdite gravissime e quasi pari da entrambe le parti; alla fine gli

Spagnoli si ritirano e i Franco-Sabaudi restano padroni del campo di battaglia.

I Franco-Sabaudi perdono quasi 3000 uomini tra morti e feriti, gli Spagnoli un poco meno.

Il successo tattico di Tornavento potrebbe essere sfruttato a fondo nei giorni successivi, e potrebbe

diventare risolutivo se fossero a disposizione forze sufficienti a incalzare gli Spagnoli. Purtroppo le

forze del duca di Rohan sono bloccate a Lecco dagli Spagnoli, quelle del duca di Parma non sono più

presenti con gli alleati, e quelle sabaude sono falcidiate dalle febbri infettive. Vittorio Amedeo deve

così constatare che i frutti della battaglia sono stati nel complesso modesti.

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In Francia molti considerano la vittoria di Tornavento come la rivincita della celebre sconfitta di Pavia

(1525) nella quale Francesco I è caduto prigioniero in mano degli spagnoli. I Savoiardi sono orgogliosi

che la loro azione, svolta nel momento decisivo, abbia determinato il successo.

Gli Spagnoli osservano invece che l'avanzata franco-sabauda è stata in sostanza fermata, e perciò

considerano quella di Tornavento una mezza vittoria.

(Ogni anno nella località di Tornavento di tiene una rievocazione storica il costume della battaglia).

Il resto dell’anno sarà speso, dall’una e dall’altra parte, in puntate di poco costrutto.

Il duca di Parma, dopo un viaggio avventuroso attraverso l’Appennino, ha raggiunto la piazzaforte di

Piacenza e la difende dall’assedio spagnolo. Non riceve però alcun aiuto dalle forze alleate, che peraltro

ha abbandonato. L’anno dopo il duca di Parma, consigliato dal papa Urbano VIII e con le sue terre

invase dagli Spagnoli, passerà all'alleanza con la Spagna.

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Il marchese Jean Caylar d'Anduze de Saint-Bonnet, signore di Toiras (1585-1636) è stato un valoroso

generale e maresciallo francese. Sebbene protestante, egli resta sempre fedele al re di Francia,

distinguendosi per le sue qualità di stratega e per il suo coraggio.

Toiras si distingue con l’armata reale nelle guerre di religione negli anni '20 del ‘600, in particolare

nell'isola di Ré, dove nel 1627 sconfigge gli inglesi del duca di Buckingham, costringendolo a fare

ritorno in patria.

Nel 1629 scende in Italia con l’armata reale di Luigi XIII e Richelieu, prende Susa e poi difende

strenuamente Casale, assediata dagli Spagnoli.

È a capo della delegazione francese a Cherasco e firma i patti per la cessione di Pinerolo ai Francesi

(con la pace di Torino 1632). In queste circostanze è molto apprezzato dal duca V. Amedeo I e dalla

duchessa Cristina e diviene loro amico.

È nominato sul campo maresciallo di Francia. Caduto in disgrazia presso Richelieu per essere

imparentato con suoi avversari politici, è trasferito come ambasciatore a Roma. Torna a Torino dopo lo

smacco del Créqui a Valenza e fa opera di riconciliazione tra il Duca e l'indisciplinato generale

francese, convincendo il Duca ad andargli in aiuto.

Rientrato nei ranghi dell'esercito, nella primavera del 1636 prende parte all’offensiva verso il Milanese

ma cade colpito da un colpo di moschetto a Fontaneto d'Agogna, il 14 giugno 1636, mentre a capo delle

truppe sabaude tenta di assediare la fortezza spagnola di quella città.

Dopo funerali solenni a Torino, viene inumato nella Chiesa del Monte dei Cappuccini.

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Il Cardinale Maurizio, che si trova a Roma in qualità di “Comprotettore di Francia” presso la Corte

papale, si dichiara improvvisamente in favore della Spagna (1636).

L’iniziativa del fratello è un duro colpo per Vittorio Amedeo, aggravato anche dall’apprendere che il

gesto di Maurizio è stato in parte determinato da una remunerazione offerta dalla Spagna più ricca di

quella che il Cardinale di Savoia sta ricevendo da Parigi.

A prescindere dal meschino movente finanziario, la decisione di Maurizio di schierarsi con la Spagna è

in realtà la logica conseguenza del “pronunciamento” antifrancese del fratello Tommaso nel 1634.

Ora Vittorio Amedeo vede tutti i suoi fratelli legati agli Asburgo: dalla sorella Margherita, Viceregina

in Portogallo, a Tommaso, comandante nelle Fiandre, a Maurizio, rappresentante in Roma della Corte di

Madrid. Anche le sorelle Maria e Caterina, che vivevano a Torino, sono decisamente filo-spagnole,

anche per l’avversione personale che nutrono verso la cognata Cristina.

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