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Appunti Di Diritto Tributario (Trivellin)

Date post: 27-Nov-2015
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Appunti di diritto tributario delle lezioni di prof. Trivellin - Università di giurisprudenza - TREVISO
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Andrea Daminato, Martina Pieretti, Giulia Pontarollo Anno accademico 2011/2012 II semestre Prof. Mauro Trivellin APPUNTI DI DIRITTO TRIBUTARIO PARTE GENERALE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Facoltà di Giurisprudenza Sede di Treviso
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Page 1: Appunti Di Diritto Tributario (Trivellin)

Andrea Daminato, Martina Pieretti, Giulia Pontarollo

Anno accademico 2011/2012

II semestre

Prof. Mauro Trivellin

APPUNTI DI

DIRITTO

TRIBUTARIO PARTE GENERALE

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

Facoltà di Giurisprudenza Sede di Treviso

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1 Considerazioni generali sulla rilevanza del diritto tributario nell’ordinamento

(5/3/2012) Di cosa si occupa il diritto tributario?

Primo aspetto di rilevanza del diritto tributario

Sarebbe una sorta di studio di cardiologia: è il cuore, l’organo centrale che permette allo Stato,

alla collettività, all’ordinamento la sua sopravvivenza.

Lo studio del diritto tributario è studio della disciplina delle entrate pubbliche che stanno alla

base del sostenimento delle pubbliche spese. Quando si studia il diritto tributario, si studia la disciplina delle entrate pubbliche, che sono i tributi, i quali costituiscono la base per il finanziamento delle attività e finalità pubbliche. Le principali tipologie di risorse sono le entrate di carattere tributario; quindi senza le entrate tributarie nessuna finalità pubblica potrebbe essere utilmente perseguita.

In questo momento di tensione finanziaria, la leva attraverso la quale si cerca di risolvere i problemi finanziari, è la leva tributaria�esempio:si notino le manovre fiscali attuate dall’attuale Governo Monti volte a contenere la situazione di tensione finanziaria.

È una materia che costituisce una delle materie più rilevanti del diritto pubblico e può esser collocata tra le discipline di tipo pubblicistico.

Secondo aspetto di rilevanza del diritto tributario

C’è un altro aspetto di rilevanza del diritto tributario: la pretesa tributaria incide sulla posizione di proprietà e libertà del singolo; il tributo è un’ obbligazione di concorso alle pubbliche spese che

intacca la disponibilità e la libertà di un soggetto; l’obbligo di adempiere al debito tributario costituisce un peso significativo rispetto alla disponibilità di ciascuno. Quasi per sei mesi tutto ciò che si guadagna si versa all’Erario…!!!e il resto (gli altri 6 mesi dell’anno…) resta a noi..allora si intuisce come l’incidenza del carico tributario sia un elemento essenziale per quanto riguarda la sfera di libertà di ciascuno.

Per cui si può capire come la variabile fiscale sia un elemento centrale nell’ambito delle singole attività economiche. L’impresa deve fare i conti in maniera primaria con le entrate tributarie e con il debito tributario. Non c’è attività economica per cui l’incidenza tributaria non sia incisiva; essa condiziona in maniera decisiva lo svolgimento delle attività economiche e molte scelte economiche sono determinate dall’incidenza della variabile fiscale.

Ricapitolando: vi sono due aspetti rilevanti del diritto tributario:

1. centralità del tributo nella macchina statale per far fronte alle pubbliche finalità�questo è l’aspetto che più coinvolge la connotazione pubblica del fenomeno tributario.

2. dal punto di vista dei soggetti obbligati:l’aspetto tributario orienta lo svolgimento delle attività economiche e, quindi, la conoscenza dei meccanismi del diritto tributario è importante sul fronte della programmazione e dello sviluppo dell’attività economica.

1.1 Le relazioni tra fiscalità e sviluppo dell’economia

Le interrelazioni tra queste due dimensioni, pubblicistica (centralità del tributo nella macchina statale) e privatistica( influenza della variabile fiscale sullo sviluppo dell’attività economica) sono due universi che si intrecciano in modo molto forte�ciò comporta un’ interrelazione tra le scelte effettuate in ambito politico per la sopravivenza dello stato e, inoltre, comporta conseguenze nelle singole attività economiche.

Fiscalità e sviluppo dell’economia sono due concetti che si legano in maniera strettissima.

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1.1.1 L’evasione fiscale

Per capire come questo legame sia evidente, si presentano due esempi tratti dall’attualità.

Una delle piaghe che incrementano la crisi economica italiana è l’evasione fiscale; essa è un fenomeno complesso, che si può sintetizzare come il comportamento di un soggetto che si

sottrae volontariamente al pagamento del tributo. È un fenomeno di rilevantissima incidenza…in certe aree del Paese si è calcolato che su 100 euro versati al Fisco, 60 euro sono di evasione fiscale. In altre aree l’evasione fiscale scende al 10 %, ma la media si assesta attorno al 40%.

L’esigenza di contrastare questo fenomeno è prioritaria rispetto al primo pilastro, quello relativo alla sopravvivenza dello Stato.

Nel momento in cui si contrasta l’evasione, si deve tener conto delle relazioni che questa politica di contrasto genera sul sistema dell’economia.

Ecco i due esempi tratti dal “Decreto Sviluppo” del governo Monti � Gli strumenti di contrasto all’evasione sono: la tracciabilità dei pagamenti e il cosiddetto “spesometro”

1.1.1.1 La tracciabilità dei pagamenti

È un meccanismo in forza del quale si prevede che tutte le transazioni economiche al di sopra di

una certa soglia (1000 €) siano operate mediante strumenti di pagamento tracciabili,

riconoscibili, come sono gli strumenti di pagamento tramite banca, riconducibili a conti bancari, i quali recano traccia delle documentazioni (carte di credito, bonifici bancari, ma non contanti).

Qual è la ragione per cui non si possono usare contanti per le transazioni al di sopra dei 1000 euro?

La ragione del rafforzamento della tracciabilità è legata ad una duplice esigenza: si vuole rendere più difficile, impegnativa la gestione del denaro contante perchè l’evasione fiscale passa prevalentemente attraverso i contanti. Quando si vuole che un’operazione finanziaria non sia controllabile da nessuno, viene gestita al di fuori della contabilità dell’impresa e del sistema bancario.

Se tutte le transazioni devono esser effettuate mediante strumenti tracciabili, diventa molto più difficile per l’imprenditore gestire il denaro contante perché si trova un blocco. Se si deve acquistare un bene di valore superiore a 1000 euro, i contanti non si possono materialmente spendere. Chi ha disponibilità finanziarie non tracciate fa più fatica a spendere il suo denaro.

C’è un’altra ragione per cui è stata introdotta:per l’esigenza dell’amministrazione finanziaria di ricostruire in maniera precisa la struttura delle operazioni negoziali poste in essere da qualsiasi soggetto. Le transazioni che lasciano traccia permettono di ricostruire la struttura delle operazioni negoziali�ecco, quindi, la possibilità di sottoporre a controllo le operazioni finanziarie da parte dello Stato.

Quindi c’è una stretta connessione tra poteri di controllo e obiettivi di tracciabilità. Sono strumenti funzionali al primo obiettivo delle entrate tributarie; però poi ci sono le ricadute sull’economia�non dobbiamo mai fermarci alla considerazione della prima finalità, ma dobbiamo aver presente la visione del sistema economico nel suo complesso.

Da quando è stata introdotta questa misura, molti contribuenti sono andati in cerca di modalità per aggirare queste regole dirette ad arginare i fenomeni di evasione e gli strumenti che gli operatori si inventano sono sofisticati; si sono verificati casi per cui molti soggetti, dati i limiti derivati dal pagamento, cercano di effettuare operazioni mediante meccanismi di pagamento c.d estero su estero, ovvero al di fuori dell’ordinamento italiano, per esempio carte prepagate su conti

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esteri: ti consegno la carta di credito e tu fai tutti i pagamenti che vuoi perché quella carta sarà rintracciata in Turchia�quindi è un’operazione non controllabile sul sistema italiano. E in questo modo si agevola la ricchezza all’estero.

Questa cosa vuol dire che quando adottiamo strumento di contrasto all’evasione bisogna stare attenti che la misura fiscale non abbia ripercussioni negative sullo sviluppo. E in questo caso specifico il rischio c’è: il contribuente disonesto cercherà di allocare i pagamenti all’estero per evitare che l’operazione sia tracciata e questa allocazione rischia di impoverire il Paese.

1.1.1.2 Lo spesometro

Esso appartiene ad un tipo di istituto tributario che si chiama accertamento sintetico. Lo “spesometro” è un misuratore del tenore di vita; si basa su un concetto semplice, il fatto che se un soggetto ha una certa disponibilità di beni o ricchezze, significa che ha un certo reddito. Se io ho un maggiordomo, un cavallo da corsa e mando i figli ad una scuola privata o faccio viaggi molto costosi, dovrò avere un certo reddito per mantenere questo tenore di vita. Allora lo “spesometro” individua delle spese (una volta c’era il redditometro che individuava le barche di lusso ecc…) ora invece tutte le scelte di vita di un soggetto vengono monitorate. Si individua un costo, si applica un coefficiente e ne deriva un reddito�significa che devi avere un reddito sufficiente ad effettuare quella spesa, per esempio per mantener un’auto di lusso. Questo mette in luce tutte le ipotesi di disarmonia tra dichiarazione tributaria e tenore di vita; sono situazioni di distonia che vengono messe in evidenza.

Questo è uno strumento efficace per contrastare i fenomeni di evasione ed è un meccanismo di contrasto molto opportuno.

Lo strumento dello “spesometro” è efficace perché mette in luce le situazioni più gravi di contrasto, ma è chiaro che queste misure hanno anche degli effetti economici. Se sappiamo che nel momento in cui acquistiamo un’auto di lusso, generiamo una situazione di rischio fiscale perché la nostra dichiarazione non è coerente con la spesa e so che questa operazione è monitorata, cosa faccio? Non compro l’auto di lusso. Dimostra come questa misura fiscale

produce un effetto depressivo sui consumi. Da quando è stato introdotto lo “speso metro”, il settore dell’auto di lusso ha avuto un crollo dell’80%. Allora si può immaginare quanto questa misura possa aver avuto un’incidenza contrastante con gli obiettivi di sviluppo. Determina anche l’allocazione di risorse all’estero, per esempio con l’ utilizzo di società- schermo situate in Europa per l’intestazione di questi beni e ciò significa portare ricchezza fuori.

Da questi due esempi si intuisce come ci sia una stretta connessione tra le scelte che il governo fa sul versante della politica fiscale e lo sviluppo del sistema economico. In questo momento la tensione tra questi due opposti è massima: la leva fiscale è stata usata in maniera pesantissima e anche la leva fiscale ha raggiunto i limiti della sua efficacia, nel senso che oggi una manovra che incide sulla leva fiscale rischia di aver effetti di pregiudizio nello sviluppo del sistema economico e questo è un problema che oggi si deve porre il fiscalista perchè deve avere la consapevolezza di scelta degli strumenti di contrasto e l’interrelazione con le ricadute sul sistema economico nel suo complesso.

1.2 Il rapporto tra evasione e sviluppo del sistema impresa

Il diritto tributario si colloca tra le esigenze di salvaguardia del gettito e sviluppo delle attività economiche del Paese.

Il fenomeno dell’evasione fiscale è un problema molto grave per lo sviluppo del sistema impresa: da una parte le esigenze di acquisizione del gettito portano conseguenze sullo sviluppo

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dell’economia; dall’altra genera effetti sul piano dello sviluppo dell’economia. È in questo complesso di interrelazioni che il fiscalista si innesta.

Il prelievo tributario porta all’Erario una quota delle ricchezze prodotte da un soggetto. L’evasione è un’attività egoistica perché l’evasore sottrae risorse riservandole a fini personali. Ma ciò non dà conto delle conseguenze dell’evasione sullo sviluppo dell’impresa. Ecco perché lo studio del diritto tributario è rilevante: bisogna avere la percezione delle conseguenze dell’evasione nella nostra realtà.

Possiamo intuire che l’impresa che sottrae risorse all’Erario genera un primo effetto di distorsione, una concorrenza distorta. Distorce la concorrenza perché acquisisce in maniera illecita la disponibilità di risorse che dovrebbero esser destinate alle pubbliche spese e che l’imprenditore trattiene per sé. Una impresa che evade sottrae risorse alla collettività e ha maggiori risorse per investimenti in attività più o meno lecite, per cui altera le regole della concorrenza.

L’evasione genera un meccanismo di concorrenza malata, falsata dalla illiceità del fatto evasivo.

C’è un altro problema connesso alla fattispecie di evasione: si può dire che l’evasione crea evasione, cioè tende ad avere effetti di diffusione. È chiaro che se prendiamo un sistema imprenditoriale in cui c’è un imprenditore che pone in essere atti di evasione, ciò si genera nel gioco della concorrenza; questo effetto darà all’imprenditore la capacità di essere più efficiente sul mercato. È chiaro che i concorrenti che si troveranno a dover fare i conti con questi comportamenti irregolari saranno portati a dover adeguare il loro comportamento per cercare di rimanere sul mercato

Esempio: nel Vicentino si è verificato tutto ciò nell’area della concia delle pelli; essa è stata travolta dal fenomeno dell’evasione fiscale secondo questi schemi: c’erano dei soggetti immessi nel mercato delle pelli con violazione dell’IVA; risparmiavano l’iva e immettevano le pelli sul mercato a prezzi più bassi perchè risparmiavano le imposte. Gli altri non erano in grado di fare prezzi più bassi perché rispettavano le regole: allora si dovevano adeguare e questo meccanismo si è diffuso come un virus e quindi l’effetto è quello per cui l’evasione crea evasione e quindi l’alterazione della concorrenza produce delle conseguenze a catena sull’intero sistema imprenditoriale.

Ulteriore passaggio: se questi meccanismi vengono scoperti, vi è il crollo di interi settori�contrasto all’evasione.

Ad un certo momento si scopre il meccanismo frodatorio, l’amministrazione finanziaria si muove con il suo apparato sanzionatorio mettendo in ginocchio interi settori economici perché le imposte evase devono esser pagate e vi è l’ applicazione di sanzioni penali e amministrative: si pensi alle ripercussioni sui posti di lavoro e sull’intero sistema economico.

Questo è accaduto per l’auto, per il settore dei pneumatici e dell’elettronica.

C’è un’altra conseguenza dell’evasione: l’evasione sottrae risorse all’Erario e significa sottrarre risorse per lo sviluppo di risorse essenziali per il consolidamento del nostro sistema imprenditoriale: chi sottrae risorse all’Erario, sottrae risorse a se stesso perché non offre tessuto

per lo sviluppo essenziale del sistema economico, si pensi, per esempio, alla rete infrastrutturale. Se l’evasione diventa endemica, bisogna studiare strumenti di contrasto dell’evasione estremamente rigorosi.

Qual è il problema? Investireste in uno stato qualificabile come Stato di polizia fiscale perché mosso da esigenze di contrasto al fenomeno evasivo costruisce un sistema di regole per il contrasto? No! Si investirebbe in un paese con maggior certezza del diritto e quindi si capisce che siccome non è lo stato che tassa il captale, ma il capitale che sceglie lo stato per farsi tassare (cit. Tremonti) è chiaro che uno stato di

polizia fiscale allontana gli investitori esteri. Allora l’evasione ha un’ulteriore aspetto negativo. I

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meccanismi di contrasto allontanano investimenti stranieri e quindi ciò comporta un impoverimento del Paese.

(6/3/2012)

1.3 Le entrate di diritto tributario

Dobbiamo chiederci cosa si intenda per diritto tributario e cos' è il tributo.

Lo stato e le sue articolazioni hanno bisogno di risorse per l' attuazione degli indirizzi politici. Queste possono essere acquisite da fonti assolutamente diversificate. Ci sono risorse che derivano da attività svolte iure privatorum, in un assetto di regole riconducibili al diritto privato; ed entrate acquisite con strumenti riconducibili all' esercizio di una pubblica autorità, entrate iure imperii.

1.3.1 Entrate derivanti da attività iure privatorum.

Le prime tipologie di entrate sono quelle che lo stato si procura mediante lo svolgimento di attività economiche; vuoi direttamente tramite enti pubblici economici o, indirettamente, tramite società pubbliche, cioè società a parziale o integrale partecipazione pubblica. Un' altra tipologia di entrate rientrante nelle attività di tipo privatistico sono quelle derivanti dallo sfruttamento dei beni del demanio o patrimonio dello stato. Se lo stato impiega i propri beni per realizzare risorse da destinare alle pubbliche finalità, ottiene entrate derivanti da attività di tipo privatistico. Si pensi alle concessioni demaniali sulle spiagge, ai trasferimenti o cessioni ai privati per liquidare beni e ottenere entrate da destinare alle pubbliche utilità.

1.3.2 Entrate derivanti da attività iure imperii.

Altre tipologie di entrate sono riconducibili alla supremazia dello stato. Si pensi alle sanzioni, di vario tipo. Le sanzioni amministrative per esempio, relative alla violazione del codice della strada. Le sanzioni in materia di anti trust, sono irrogate delle sanzioni proporzionate al fatturato, entrate pubbliche caratterizzate dall' obiettivo di contrastare certe violazioni dei privati. In materia penale, la confisca dei beni profitto del reato. Altre figure, ritenute desuete, stanno riemergendo in maniera significativa. Si pensi al prestito forzoso, lo stato impone ai privati a concedergli un prestito. Sarà restituito poi secondo le modalità stabilite dallo stato. Nel momento più buio dell’ attuale crisi si parlava di sterilizzazione dei BOT per i quali si stabiliva un divieto ai privati di chiedere la restituzione degli importi versati nei titoli pubblici; di fatto si trattava di un prestito forzoso.

1.3.2.1 I tributi.

All' interno delle entrate pubbliche iure imperii si collocano i tributi. Come li definiamo? Gli elementi essenziali che corrono alla definizione sono pochi ed essenziali. Il tributo e' un

obbligazione di regola pecuniaria, fondata sulla legge, caratterizzata dall' implicare un

versamento a titolo definitivo e non avente carattere di sanzione. 1 obbligazione pecuniaria, 2 fondata su legge, 3 non avente carattere di sanzione e 4 a titolo definitivo. Il carattere di obbligazione connota il regime del tributo, e' un regime di coattività, il soggetto e' obbligato, è tenuto al versamento.

Questa definizione presenta elementi di tautologia, sono elementi generici. Però nell' ambito del tributo possiamo individuare due tipologie di entrate che presentano elementi caratterizzanti rispetto alla definizione generale. Sono: l' imposta e la tassa.

1.3.2.1.1 Imposta.

Si caratterizza, in più rispetto alla definizione generale, per la connotazione funzionale, per il fine. Attraverso l' imposta si attua in modo specifico il concorso alle pubbliche spese. E' un obbligazione

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pecuniaria a carattere definitivo, non avente carattere di sanzione, mediante la quale si tua il concorso alle pubbliche spese. Il fine e' ripartire tra i consociati il carico alle pubbliche spese.

Esempio: la più rilevante e' l' imposta sul reddito. I soggetti passivi sono tutti i soggetti che producono ricchezza. E' la principale obbligazione su cui si regge il riparto delle pubbliche spese.

1.3.2.1.2 Tassa.

Qui cambiano radicalmente le connotazioni. Non serve all' attuazione del riparto, quindi alla divisione tra i consociati delle spese. Ha una funzione paracommutativa. Vuol dire che la tassa e' caratterizzata dall' esistenza di un rapporto che potremmo definire sinallagmatico tra l' obbligo di pagamento e la prestazione di un servizio pubblico. La tassa si versa perché un servizio pubblico viene erogato. L' imposta invece e' legata alla ripartizione delle spese.

Esempio: la tassa per lo smaltimento dei rifiuti, c.d. TARSU. Il soggetto la paga a fronte di un servizio erogato dall' ente territoriale. Servizio di smaltimento dei rifiuti e del mantenimento dell’ ambiente urbano.

La tassa e' più sfuggente come categoria perché, proprio in quanto si caratterizza per la prestazione di un servizio pubblico, e' confondibile con il prezzo per un servizio. Lo stato può svolgere attività economiche e allora come faccio a distinguere la tassa da un' entrata iure

privatorum? Certezze assolute non esistono. Una delle materie più tormentate nell' ambito tributario e' questo, come si distingue la tassa da un prezzo pubblico?

Per esempio, la TARSU e' una tassa (ora confluita sull' IMU). E’ stata trasformata in tariffa sull' igiene ambientale (TIA) che e' un corrispettivo di diritto privato. La corte costituzionale è intervenuta dicendo che nonostante la volontà del legislatore di trasformare la TARSU in tariffa, quindi corrispettivo di diritto privato, e' rimasta una tassa.

L' elemento caratterizzante per distinguere tassa da corrispettivo, è il requisito della coattività. Questo requisito può stare nella fonte genetica dell' obbligo ( il soggetto e' obbligato al pagamento) oppure nella disciplina di attuazione, quando l' autorità pubblica può muoversi con poteri unilaterali quindi autoritativi al fine di acquisire il dovuto. Quindi in generale deve esserci un elemento di coattività.

Questa e' la macrodistinzione. Ma a cosa serve questa distinzione? Aiuta a comprendere il regime giuridico applicabile alle entrate di diritto tributario. E' un regime giuridico che hanno solo i tributi. La definizione di tributo non e' decisiva al fine di attivare le garanzie costituzionali che sovraintendono all' attuazione delle entrate pubbliche. Per esempio, esiste una norma costituzionale, art 23, che stabilisce una riserva di legge. La norma parla genericamente di prestazione personale e patrimoniale. Qui non c' e' bisogno di capire se siamo di fronte ad un tributo, perché si riferisce anche ad entrate non tributarie.

Però la definizione ci serve per individuare il regime specifico da applicare al tributo.

• Ad esempio le regole che disciplinano il processo quando questo ha ad oggetto tributi di

ogni genere e specie. Ci sono giudici speciali, le commissioni tributarie, le quali conoscono

controversie in materia di tributi di ogni genere e specie. Ecco che sapere se mi trovo

davanti o no ad un tributo e' essenziale per conoscere la giurisdizione.

• Esiste poi una disciplina generale che riguarda che sanzioni in materia tributaria. Il regime

sanzionatorio e' dettato da una legge specifica 472/1997.

• Le regole della riscossione. C' e' una disciplina generale sulla riscossione dei tributi. Si

applica solo alle fattispecie qualificabili come tributo.

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Tutti questi sono aspetti di un regime giuridico di un entrata a carattere tributario. Il problema sorge per alcune fattispecie di confine che evidentemente sono caratterizzate da una logica vicina a quella dei prezzi pubblici. Ma sono ipotesi limitate.

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2 Disciplina costituzionale.

Le norme costituzionali abbracciano anche entrate di carattere non tributario. Sicuramente costituiscono garanzia rispetto alle entrate di carattere tributario, anche se queste norme costituzionali costituiscono statuto anche di entrate ulteriori.

Le due principali norme costituzionali sono l' art 23 e l' art 53 della costituzione. Sono i due pilastri della disciplina dei tributi.

2.1 Art.53

Art. 53

Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

Ciascuna delle parole utilizzate pesa come un macigno. Per comprendere la portata della disposizione bisogna esaminarne la struttura a partire dai termini. Ogni parola ha un suo sviluppo e una sua portata.

• Tutti: il legislatore fa una scelta molto chiara, diversa da quella del legislatore dello statuto Albertino. Qui c' era una diversa espressione, 'i regnicoli', i soggetti obbligati erano individuati sulla base di un rapporto di sudditanza (cioè i sudditi). Il legislatore attuale assoggetta all' obbligo tutti, cittadini e stranieri. Occorre però che su questi ‘tutti’ lo stato italiano possa esercitare una sovranità fiscale. Questa si esercita attraverso determinati criteri di collegamento. Se quel cittadino statunitense ha un criterio che lo connette allo stato italiano allora scatta l' obbligo di contribuzione.

Consideriamo l' imposta sul reddito. Il criterio di collegamento e' diversificato per cittadini e stranieri, meglio, per residenti e non residenti.

I criteri sono due: la residenza, i soggetti residenti in Italia, qualsiasi essi siano, persone fisiche o giuridiche, figure atipiche, commerciali o meno, sono tassati in Italia per tutti i redditi ovunque prodotti. Se il soggetto risiede in Italia ma produce redditi in America, in quanto residente è sottoposto a tassazione in Italia per tutti i redditi, ovunque prodotti. Principio della tassazione del

reddito mondiale.

I non residenti difettano di un collegamento stabile, perciò sono tassati in Italia solo per i redditi prodotti in Italia. Conta il luogo di produzione del reddito.

Ecco perché molte persone spostano la loro residenza in altri paesi europei, il fine e' aggirare il criterio della residenza e il principio della tassazione del reddito mondiale. Moltissimi personaggi trasferiscono la residenza in paesi a fiscalità di favore, in particolare Monaco e Inghilterra. Sono sorte contestazioni molto rilevanti da parte del fisco.

La nozione di residenza, se non e' affidata ad elementi formali (iscrizione all' anagrafe), potrei cancellarmi dall’ anagrafe, iscrivermi al registro degli italiani residenti all' estero (AIRE), ma posso comunque essere considerato residente se in Italia ho il centro principale dei miei interessi, personali o economici che radicano la residenza in Italia. L’ amministrazione fiscale controllava soggetti che si cancellavano dall’ anagrafe ma in Italia avevano degli interessi che determinavano il loro reale domicilio nell’ ambito del territorio italiano e questo faceva scattare i controlli. Uno dei primi casi fu il caso Pavarotti. Altro caso e' il caso Capirossi. Per esempio si fanno i confronti tra l' abitazione posseduta all' estero (magari un appartamento) dove si ha la residenza e quella posseduta in Italia (magari una villa) dove si trova anche la famiglia. La proporzione dimostra che la dimora si trova appunto in Italia. Poi contano anche i rapporti famigliari.

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Possono allora emergere dei dubbi sui raccordi tra tassazione in Italia e negli altri paesi. Un soggetto residente all' etero può essere sottoposto a criteri di collegamento omologhi a quelli esistenti in Italia.

Ad esempio la Francia ha criteri di collegamento omologhi a quelli italiani. Consideriamo un soggetto residente in Francia e che produce reddito in Italia. Il soggetto è tassabile in Francia in base alla disciplina della tassazione del reddito mondiale. L' Italia vede il caso di un non residente (risiede in Francia) che produce reddito nel territorio della repubblica, sarà tassato in base al principio del luogo di tassazione. Sarà tassato due volte sulla stessa ricchezza. E' una distorsione. Rischio di una sovra-tassazione. Ecco che queste ipotesi devono essere risolte. Quali sono gli strumenti? Abbiamo due tipologie di strumenti: bilaterali, come convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. Gli stati si accordano per quali dei due ha il potere di tassare. A seconda dello stato che colpisce la fattispecie il privato struttura la sua attività economica, ecco la grande importanza pratica di queste convenzioni. Ci sono anche mezzi unilaterali, come strumenti posti in essere dallo stato singolo per ridurre gli effetti della doppia imposizione. Per esempio il credito di imposta, serve a ridurre gli effetti della doppia imposizione internazionale, ma in maniera unilaterale. Nei cd paradisi fiscali queste garanzie non si applicano.

Altri paesi utilizzano criteri diversi, gli Stati Uniti il criterio della cittadinanza.

Tutti significa cittadini e stranieri, persone fisiche e giuridiche, sulla base dei criteri di collegamento della residenza e del luogo di produzione. Possono determinarsi sovrapposizioni impositive. Gli strumenti per risolverle sono convenzioni o strumenti unilaterali.

• Sono tenuti: non dice devono, sono obbligati, dice 'sono tenuti'. Questa espressione e' diversa dalle precedenti. Devo denota una imposizione, l' esistenza di una autorità che impone; sono tenuti e' diverso, e' un espressione che connota la dimensione della

responsabilità. Sono tenuto a fare una cosa perché ne avverto la responsabilità, non in quanto subisco una pressione esterna. Questa espressione si connette in maniera strettissima a quella che segue.

• A concorrere: non a pagare. Concorso denota una dimensione di solidarietà. Significa sussistenza di una responsabilità all' attuazione di un obiettivo di solidarietà. Responsabilità e solidarietà si legano in un ottica di partecipazione. Il fenomeno tributario, sulla base della costituzione, si caratterizza per alcune notazioni essenziali. Responsabilità, solidarietà, partecipazione. ‘Sono tenuti a concorrere’ implica la valorizzazione del ruolo di ciascuno. Non sono mero suddito, se sono responsabile sono libero. Si parte dalla libertà della persona si passa attraverso la responsabilità si arriva alla solidarietà in un ottica di partecipazione. Ecco le 4 parole fondamentali.

Nella realtà sono questi i valori posti al centro dell' obbligazione tributaria così come percepita nella realtà? Questa disarmonia tra percezione sociale e il disegno costituzionale e' raffigurato in maniera esemplare dalle parole di Gobeti: 'il cittadino paga bestemmiando lo stato' perché avverte questa dimensione autoritativa, espropriativa. 'Non si accorge che pagando esercita in

realtà una funzione sovrana' perché esprime l' attuazione della propria libertà attraverso la partecipazione e la solidarietà all’ attuazione di un fine comune. Ecco il patto sociale. Ecco la gravità della rottura del patto parasociale. Questa percezione nel nostro paese non c’ è ancora ma sta emergendo. Negli ultimi anni l’ evasore viene considerato un ladro.

(7/3/2012) Nel disegno costituzionale vi è una stretta connessione tra persona, responsabilità, solidarietà e partecipazione.

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2.1.1 La capacità contributiva.

• Secondo la loro capacità contributiva: l’obbligo di concorso alle pubbliche spese avviene in ragione della capacità contributiva di ciascuno. Come avviene la ripartizione tra i consociati del carico delle pubbliche spese? A questo è dedicata l’ultima parte dell’art.53: stabilisce il criterio di riparto.

Il criterio di riparto (criterio in base al quale avviene il riparto del peso delle pubbliche spese tra i consociati) è la capacità contributiva. Per capire il ruolo della capacità contributiva nella ripartizione dei carichi pubblici possiamo pensare al condominio degli edifici: se c’è una spesa comune da sostenere (ex. rifacimento del tetto, sistemazione degli ascensori,…), il sostenimento di questa spesa avviene attraverso una suddivisione del costo/onere tra i condomini. Questa ripartizione tra i condomini avviene attraverso il criterio dei millesimi di proprietà condominiale: i condomini si suddividono il costo sulla base dei millesimi di proprietà. Dal punto di vista concettuale la capacità contributiva corrisponde a questi millesimi di proprietà: è l’indice di riparto in base al quale il carico delle pubbliche spese viene ripartito tra i consociati. La capacità contributiva è l’indice di ripartizione, cioè il criterio in forza del quale il carico delle pubbliche spese è suddiviso tra i consociati: ciascuno è tenuto a concorrere alle spese pubbliche in collegamento con la propria capacità contributiva. Se la capacità contributiva è l’indice di riparto, allora questo indice non può essere alterato perché costituisce il criterio in forza del quale ciascuno è chiamato a concorrere. Se qualcuno dei condomini si sottraesse al proprio obbligo di far fronte alle spese condominiali, cosa accadrebbe? Accadrebbe che essendoci l’esigenza di rifare il tetto, gli altri condomini dovrebbero sobbarcarsi l’intero costo. Questo vorrebbe dire che l’incidenza del costo della spesa graverebbe in misura maggiore sugli altri condomini, i quali non si sottraggono. Se qualcuno si sottrae al pagamento del tributo, il carico delle pubbliche spese graverà in misura proporzionalmente maggiore sugli altri consociati, quelli che non possono o non vogliono sottrarsi. Questo perché le pubbliche spese sono un dato fisso e l’esigenza di farvi fronte è un’esigenza essenziale per l’attuazione degli interessi della collettività. In quest’ottica possiamo leggere il fenomeno dell’evasione fiscale: chi si sottrae al pagamento del tributo non arreca un pregiudizio solo all’erario ma anche agli altri consociati (in quanto pregiudica il diritto all’equo riparto, il diritto al riparto del carico fondato sulla capacità contributiva), in quanto essi subiranno in misura proporzionalmente maggiore il carico delle pubbliche spese. Ecco perché taluno in dottrina parla di diritto pubblico soggettivo all’equa ripartizione del carico delle pubbliche spese, che significa esistenza di un diritto non solo nei confronti dell’erario, ma anche nei confronti degli altri consociati all’equo riparto delle entrate pubbliche. Cosa accadrebbe se l’amministratore del condominio decidesse che soltanto taluni condomini vengono chiamati al sostenimento della spesa? L’onere graverebbe in misura maggiore sui soggetti chiamati al sostenimento della spesa. Cosa accadrebbe se l’amministrazione, o lo stesso legislatore, rinunciasse ad acquisire il tributo dovuto da qualcuno dei consociati? Il carico si ripartirebbe in misura maggiore tra gli altri consociati. Il credito tributario quindi è un credito indisponibile. Esiste una fondamentale indisponibilità, irrinunciabilità del debito tributario, da parte dell’amministrazione e da parte del legislatore (non possono alterare il criterio di riparto con atti di rinuncia). Qualora rinunciassero a questo credito determinerebbero una riduzione del gettito attraverso una alterazione della capacità contributiva e quindi violerebbero il criterio di ripartizione. Il debito tributario è indisponibile e irrinunciabile.

Vi è un problema di possibile rinuncia? Si pensi ai condoni.

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Il condono è uno strumento che periodicamente viene utilizzato con modalità e connotazioni diverse da parte del legislatore tributario e che consente ai contribuenti, previo pagamento di una certa somma, normalmente collegata alle imposte dichiarate, di definire la propria posizione fiscale, in maniera stabile e sicura di fronte all’amministrazione finanziaria. Quindi un soggetto, versando una certa somma, può paralizzare l’azione di controllo dell’amministrazione e definire la sua posizione fiscale. I condoni hanno un effetto di sanatoria: si sanano le pregresse violazioni fiscali. Sembra quindi che il condono implichi una rinuncia dello Stato di quanto ad esso dovuto, e per questo motivo si pone in contrasto con l’art.53 (indice di riparto). Esistono anche gli strumenti para-condonistici: scudo fiscale (previo pagamento di una certa somma permette il rientro in Italia, fisicamente o giuridicamente, di capitali che il soggetto ha a disposizione all’estero e che generalmente sono il frutto di condotte illecite di tipo evasivo). Queste figure pongono dei seri problemi di legittimità costituzionale qualora accettassimo l’idea che la capacità contributiva è l’indice di riparto e come indice di riparto costituisce il criterio in forza del quale il carico delle pubbliche spese deve essere suddiviso tra i consociati. Dal fatto che la capacità contributiva è l’indice di riparto traiamo che: - l’obbligazione tributaria è un’obbligazione di ripartizione (serve a suddividere il carico);

- è un’obbligazione irrinunciabile e indisponibile, sia da parte dello Stato che è pur sempre

vincolato dai principi costituzionali, sia da parte dell’amministrazione che non può

nell’esercizio dei suoi poteri di controllo rinunciare alla pretesa fiscale nei confronti di un

soggetto particolare, pena la violazione dell’indice di riparto.

L’opinione pressoché unanime in dottrina è che i condoni siano incostituzionali. Una parte della dottrina li ritiene possibili in casi eccezionali, per finalità di salvaguardia della stessa esistenza dello Stato (finalità prioritaria rispetto ad altre garanzie costituzionali). Quando si parla di capacità contributiva come indice di riparto, dobbiamo capire cosa si intende per capacità contributiva. Il confidare in strumenti di tipo condonistico incentiva l’evasione fiscale.

Cosa si deve intendere per capacità contributiva? Per dare una risposta possiamo fare riferimento alla storia, allo Statuto albertino. Esso disponeva che tutti erano tenuti a sostenere le pubbliche spese in base ai propri averi. Quando si parla di averi ci riferiamo in linea di massima alla ricchezza di un soggetto, alla disponibilità di ricchezza di un soggetto. Quando parliamo di capacità contributiva cambia la prospettiva. La capacità denota un’attenzione alla dimensione soggettiva, è un’attitudine soggettiva. La capacità non è un dato oggettivo, ognuno ha la propria specifica attitudine. Il legislatore con il termine capacità si riferisce all’attitudine soggettiva a sostenere le pubbliche spese in un ottica solidaristica. In linea di massima quando parliamo di capacità contributiva facciamo riferimento ad una attitudine a far fronte alle pubbliche spese, e quindi a contribuire, caratterizzata da una disponibilità economica del soggetto, ma non da una disponibilità economica considerata in modo avulso dalla dimensione personale, ma una disponibilità economica fortemente connotata in senso soggettivo. La definizione di capacità contributiva è una delle più tormentate nella teoria generale del diritto tributario. Secondo la scuola a cui appartiene il prof. Trivellin si deve ritenere che siccome il fenomeno tributario implica una partecipazione alle pubbliche spese che si sostanzia in un concorso caratterizzato dal materiale esborso di risorse per far fronte alle pubbliche spese, l’indice di riparto dovrebbe essere agganciato a fatti di rilevanza economica. Per questo abbiamo utilizzato

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l’espressione disponibilità economica, ma non è così per tutte le posizioni. Alcuni non ritengono necessario che la capacità contributiva sia un fatto di rilevanza economica, ma secondo la prospettiva di Trivellin dato che il soggetto è chiamato al concorso alle pubbliche spese mediante l’esborso di risorse economiche, occorre che il fatto indice, la capacità, sia un fatto di rilevanza economica. Dalla caratteristica della capacità contributiva di essere un’attitudine soggettiva alla contribuzione, nascono delle precise conseguenze: - ipotesi di un pensionato che vive con 500 € al mese. Ha degli averi. Se fosse chiamato a

concorrere alle pubbliche spese avremmo una distorsione aberrante della solidarietà perché

un soggetto che avrebbe bisogno di solidarietà (fa fatica ad arrivare a fine mese) sarebbe

chiamato ad un supporto solidaristico della collettività.

Questo soggetto quindi ha degli averi ma non ha una capacità, e non può essere chiamato alla contribuzione. Traiamo la conseguenza della tutela del minimo vitale: il legislatore tributario non può chiamare alla contribuzione quei soggetti che hanno soltanto le risorse necessarie, minimali per far fronte alle proprie esigenze essenziali (intangibilità fiscale del minimo

vitale); - Single che guadagna 6000 €/mese. Due coniugi che guadagnano 6000 €/mese con figli.

Gli averi (ricchezza) sono gli stessi, ma la capacità contributiva è diversa perché le risorse della famiglia devono essere innanzitutto dirette all’attuazione degli indirizzi familiari, al mantenimento dei figli, ad offrire ai figli delle opportunità di realizzazione della loro vita. La seconda conseguenza è che il legislatore deve tener conto delle attitudini soggettive alla contribuzione, e quindi deve graduare la contribuzione tenendo conto della capacità altrimenti viola l’art.53 (costruire il prelievo prestando attenzione alla situazione soggettiva). A uguale ricchezza non necessariamente corrisponde uguale capacità contributiva. Concretamente il legislatore adotta strumenti diversi, consentendo l’abbattimento dell’imponibile per tener conti delle spese che il soggetto sostiene per mantenere la famiglia. Lo fa con strumenti di deduzione o di detrazione che consentono di tener conto delle esigenze di ciascuno, adegua il prelievo attraverso strumenti tecnici. Adattamento della tassazione alle

caratteristiche soggettive di chi è chiamato alla contribuzione, è attenzione alla persona. È adeguato quello che fa il legislatore? Ancora molti sono i problemi di attuazione di questa connotazione soggettiva della capacità.

Nell’ambito della disponibilità economica di un soggetto, gli indici presi a base della tassazione possono essere i più diversi: reddito, patrimonio, consumo,… Il fatto economico che può essere posto a base della chiamata alla contribuzione è diverso, ma in linea di massima dovrebbe essere sempre un fatto economico.

2.1.1.1 Attulità della capacità contributiva

Il principio di capacità contributiva ha due corollari. Siccome un soggetto è chiamato a contribuire/far fronte alle pubbliche spese con risorse che trae dalle sue disponibilità, occorre che

la sua capacità contributiva effettiva e attuale. Non virtuale o potenziale. Non è detto che un soggetto sia sempre chiamato a contribuire sulla base di una capacità attuale, si pensi al caso delle leggi tributarie retroattive. Potrebbe essere che una legge tributaria introduca un tributo/tassazione che riguarda fatti economici realizzati nel passato, ad esempio 10 anni fa. Di leggi tributarie retroattive ve ne sono molte, e se ne sono viste molte in passato.

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In linea di principio, una legge tributaria che preveda la tassazione di fatti realizzati nel passato sembra essere in contrasto con quella connotazione propria della capacità contributiva che è data dalla sua attualità. La Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi varie volte, tra cui: sentenza di metà anni ’60, un’altra sentenza di metà anni ’90. La prima sentenza riguardava la tassazione degli incrementi di valore sulle aree fabbricabili. Se un soggetto beneficiava di un incremento di valore di un’area che diveniva fabbricabile, per questo incremento di valore subiva una tassazione. Il legislatore aveva previsto una tassazione retroattiva decennale: se questo incremento di valore si è realizzato 10 anni fa, oggi sei tassato. Non poteva essere una capacità reale, vera se era una capacità passata. La Corte disse che una retroattività di questo tipo (decennale) non assicura il rispetto del principio di attualità della capacità contributiva, quindi la norma è incostituzionale. Seconda sentenza. La Corte è chiamata a pronunciarsi riguardo ad una regola introdotta nel ’91 nell’ambito della disciplina della tassazione del reddito, in particolare una tassazione che

riguardava i redditi diversi. Ipotesi in cui un soggetto conseguisse dei guadagni, delle plusvalenze per effetto di operazioni di esproprio. Può essere che l’indennizzo che danno sia superiore al costo sostenuto. Il legislatore tributario stabiliva una retroattività triennale (tre anni prima dell’entrata in vigore della norma) per le plusvalenze derivanti da espropriazioni. La Corte Cost. salvò la norma: essendo la retroattività limitata a tre anni, è ragionevole ritenere che la ricchezza derivante sia ancora presente nel patrimonio del soggetto, quindi sia ancora attuale. Affidandosi a queste logiche di ragionevolezza vi è il rischio di creare situazioni di disparità: qualcuno può aver conservato la ricchezza, qualcun altro invece può averla immediatamente destinata ai bisogni propri o della famiglia. Ma il criterio temporale non è sufficiente a risolvere la questione della permanenza della capacità contributiva. La Corte non si è limitata a dire che tre anni sono un periodo di tempo ragionevole affinché il soggetto abbia conservato la ricchezza, ha fatto anche un ragionamento basato sulla prevedibilità della imposizione: il contribuente avrebbe potuto prevederla. Si noti che nei redditi diversi le plusvalenze immobiliari sono tassate. Il fatto che si venda un terreno edificabile, o che quel terreno venga espropriato, il fatto non è poi così diverso: si ha sempre un corrispettivo di un trasferimento. In realtà il legislatore non prevedendo la tassabilità delle indennità di esproprio aveva lasciato un buco nella norma, buco che andava colmato. Quindi era prevedibile che il legislatore avrebbe introdotto quella tassazione, e quindi il soggetto avrebbe dovuto conservare la sua ricchezza in vista di una eventuale tassazione. La dottrina criticò molto questa impostazione, evidenziando come venissero richieste al contribuente doti di preveggenza. Inoltre, secondo il prof, l’illogicità di questa tesi si accentua perché la fattispecie di tassazione delle cessioni volontarie dei terreni edificabili sia assimilabile ai trasferimenti coattivi nell’ambito dei procedimenti ablatori di tipo espropriativo. Se già è possibile dubitare della decisione della Corte sul piano della prevedibilità, lo è ancora di più per il fatto che le fattispecie non sono assimilabili e che quindi la tassazione non era per nulla prevedibile.

Così si è rimasti fino al 2000: le norme tributarie retroattive erano ammissibili entro limiti di ragionevolezza, per non violare il principio dell’attualità della capacità contributiva. Nel 2000 come sotto-segretario al Governo (Ministero delle finanze) c’è il prof. Marongiu, professore di Genova che negli anni si era occupato molto della retroattività delle norme tributarie. È il padre dello Statuto dei diritti del contribuente, legge 212/2000 (magna charta dei diritti del soggetto passivo dell’obbligazione tributaria). Nei primi articoli contiene una serie di

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meta-norme (norme sulle norme, cioè le norme sulla produzione normativa). Contiene anche alcune regole sulla retroattività delle norme tributarie. Il legislatore interviene fissando per se stesso delle regole sulla produzione normativa e in particolare sulle norme tributarie retroattive. Lo Statuto stabilisce che le norme tributarie non possono essere retroattive. Stabilisce anche la possibilità in caso eccezionali di adottare norme di interpretazione autentica, che producono effetti nel passato ma solo perché chiariscono l’interpretazione di una precedente norma. Quindi retroattività come principio generale e retroattività soltanto di norme interpretative in casi eccezionali. Il problema è che lo statuto è una norma di legge ordinaria, anche se nel caso specifico è una norma rafforzata (si proclama attuativa della Costituzione e rafforzata), e può quindi essere modificata da norme di pari rango. Dopo l’adozione dello Statuto sono state diverse le norme tributarie retroattive. Per questo motivo c’è chi ha definito lo Statuto come castello nei Pirenei, non ha fondamenta perché è una norma di legge ordinaria.

In realtà lo Statuto ha un valore: quando il legislatore adotta una norma tributaria retroattiva (oggi che c’è lo Statuto) fa una scelta che si pone in contrasto con un principio generale di irretroattività (principio cardine) stabilito in una legge che si proclama attuazione della Costituzione. Fa una scelta in controtendenza. La scelta di introdurre una norma retroattiva si confronta in modo problematico con il principio di ragionevolezza. Lo Statuto rafforza il sindacato di legittimità costituzionale, il controllo della Corte Costituzionale diviene molto più penetrante. Se si vuole derogare il principio dell’irretroattività occorre che quella legge sia fortemente giustificata sul piano della ragionevolezza. Quindi lo Statuto rafforza il sindacato di ragionevolezza della legge retroattiva, dà uno strumento in più alla Corte Cost. per sindacare la legittimità (rafforza il sindacato di costituzionalità sotto il profilo della ragionevolezza).

2.1.1.2 Effettività della capacità contributiva

La capacità contributiva deve essere attuale. Attuale vuol dire anche concreta, cioè effettiva. È possibile sottoporre a tassazione una capacità contributiva teorica, virtuale, potenziale? No. Ma vi sono situazioni in cui vi è un alto rischio di tassazione di una capacità contributiva di questo tipo. Devono esserci quindi regole precise. Queste regole sono:

- finzioni o presunzioni giuridiche;

- forfettizzazioni;

- tassazioni sulla base di valori medio-ordinari;

- sanzioni anomale.

(12/3/2012)

2.1.1.2.1 Le presunzioni

Quando parliamo di presunzioni, tutti noi sappiamo cosa sono; parliamo di prove e la prova per presunzione è strutturata in base ad un meccanismo per cui da un fatto noto si desume un fatto

ignoto attraverso un nesso inferenziale, cioè fatto noto e ignoto stanno tra loro in rapporto inferenziale�cioè,il fatto ignoto sarà rappresentato con l’id quod plerumque accidit, ovvero il fatto ignoto si verifica secondo ciò che normalmente accade.

Le presunzioni possono essere di vario tipo; nel diritto tributario abbiamo delle presunzioni? Quando creano problemi nel rapporto con la capacità contributiva?

Il diritto tributario è una materia in cui la presenza di presunzioni è capillare�vi è una serie di presunzioni molto ampia e questo allo scopo di rendere l’azione di controllo dell’amministrazione finanziaria più agevole, perché l’amministrazione può avvalersi degli strumenti presuntivi.

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Vi sono alcuni esempi di presunzioni:

a) abbiamo parlato di spesometro o redditometro. In presenza di determinati fatti, alcune spese, se ne desume un fatto ignoto, cioè il reddito del soggetto. Allora siccome c’è una capacità di spesa, c’è un’attitudine a contribuire. Il fatto noto sono i fatti di spesa, che l’amministrazione può provare. Il fatto ignoto è il reddito che io deduco dal fatto noto. Il nesso inferenziale, cioè collegamento tra fatto noto e ignoto, è che chi sostiene una certa spesa significa che ha almeno il reddito necessario per sostenerlo, secondo ciò che accade normalmente.

b) Altre presunzioni si trovano nell’ambito dei controlli bancari: l’amministrazione ha la possibilità di farsi esibire la copia di tutti i contatti che il contribuente intrattiene con gli istituti di credito. Con la tracciabilità qualsiasi operazione viene gestita dall’anagrafe tributaria che permette di avere informazioni dirette di tutti i rapporti bancari intrattenuti dal contribuente. Se l’amministrazione vede delle movimentazioni bancarie nei conti tuoi, l’amministrazione presume che queste operazioni siano non contabilizzate. Devi esser tu che dimostri che quelle operazioni non sono riconducibili all’attività di debito fiscale.

c) Altri meccanismi presuntivi ci sono nei metodi di accertamento c.d induttivo; è un metodo totalmente presuntivo che pone al centro la presunzione.

Questi meccanismi presuntivi sono legittimi alla luce del principio di capacità contributiva?

Torniamo allo spesometro o redditometro.

Supponiamo che ci sia un soggetto che manda alla scuola inglese i suoi figli e che spende una retta di 35000 € all’anno. L’amministrazione fa un controllo nei confronti di questo soggetto; presume da questo indice di spesa che abbia un determinato reddito; applica il coefficiente e dato il fatto noto, la spesa, calcolerà il reddito. Se questo meccanismo non consentisse al contribuente di difendersi, che non ha in realtà il reddito che l’amministrazione ha calcolato, accadrebbe che il reddito sarebbe automaticamente tassato. Ma in realtà lui quella spesa non la sostiene perché in realtà sono i nonni ad erogare le somme per il pagamento della retta della scuola,in generale, poterebbe esse un soggetto terzo ad erogare la spesa. Oppure può essere che il contribuente abbia acceso un mutuo a certe condizioni per pagare le rate dell’università per finanziare le rate della scuola. Allora il contribuente deve poter dimostrare, provare, che il reddito non è quello che deriva dalla presunzione. Allora si capisce che se non fosse possibile fornire la prova contraria, il soggetto sarebbe tassato per una capacità contributiva che non esiste perché quella disponibilità proverrebbe da soggetti terzi, la banca, il nonno.

Quindi le presunzioni in materia tributaria in tanto sono legittime, in quanto consentono la

prova contraria, perché solo così il contribuente è in grado di dimostrare qual è la sua capacità

contributiva.

Quindi le presunzioni assolute sono costituzionalmente illegittime, perché siccome il contribuente non potrebbe provare qual è l’effettività della sua ricchezza, la presunzione assoluta darebbe luogo ad una ricchezza non reale. La famiglia sarebbe tassata per una ricchezza che non aveva, perché per lei la sosteneva qualcun altro. La conclusione che traiamo dal principio di capacità contributiva è che non sono ammesse presunzioni che non ammettono prova contraria.

Pensando alle società di comodo, utilizzate per l’intestazione di beni, il legislatore detta una disciplina che potrebbe esser qualificata come di presunzione assoluta e che, in effetti, è

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sospettata di illegittimità�se non puoi fornire la prova contraria, si ha una capacità presunta, fittizia.

Il soggetto, quindi, può dimostrare che la sua ricchezza non è effettiva. Vi è stato un caso di un soggetto che aveva sostenuto una spesa perché aveva una imbarcazione e il soggetto dimostrò che l‘imbarcazione era una lancia della guardia di finanza che aveva comprato ad un’asta con cui l’imbarcazione era stata dismessa.

Problema: è vero che la prova contraria è possibile, ma richiede di essere poggiata su fatti dimostrabili e se il soggetto ha comportamenti non coerenti con l’esigenza di avere fatti dimostrabili, potrebbe generarsi un problema. Il soggetto potrà provare ad opporre che il suo patrimonio si è formato negli anni dimostrando il suo tenore di vita passato, ma non è detto che l’amministrazione si convinca. Questo è un problema generale; si vede un prelievo, per es. di 4 anni fa, e l’amministrazione chiede di dimostrarlo, altrimenti si presume che sia un fatto di evasione�si presume che qualcuno ti abbia pagato in nero e hai prelevato il denaro per beni che poi non hai contabilizzato.

Quindi vi è l’esigenza di conservare le prove perché altrimenti in questi casi problematici potrebbe accadere che l’amministrazione non si convinca.

Se le presunzioni assolute sono illegittime, qualche problema lo pongono anche le presunzioni relative connotate dalla c.d. probatio diabolica, cioè talune che hanno la prova contraria particolarmente difficile da fornire. Quando la prova contraria assume le connotazioni della probatio diabolica, il rischio è che rimanga cristallizzata una capacità contributiva non effettiva, perché il contribuente non è riuscito ad assolvere l’onere della prova.

Vi sono due certezze in questa materia:

1. le presunzioni assolute sono illegittime 2. devono esser guardate con particolare attenzione le c.d. presunzioni relative con probatio

diabolica. Esempio: caso dei prelievi e versamenti nel conto. Questa norma c’era solo per gli imprenditori, non si applicava per i professionisti; successivamente entra in vigore anche per i professionisti. Questa norma è una norma procedimentale; vale il principio tempus regit actum. Allora l’amministrazione fa il controllo dei professionisti; ma il contribuente mica sapeva che sarebbe stata introdotta dopo la presunzione e potrebbe aver perso la documentazione o non averla conservata perché non aveva l’obbligo di conservazione. Quando la introduco con effetti retroattivi, come fa il professionista a fornire la prova contraria?

Quella presunzione generava un tema di probatio diabolica perché la prova contraria c’era, ma era probabile che il soggetto non avesse conservato la documentazione per fornire la prova�è contrario al principio di capacità contributiva, ma non è stato risolto in giurisprudenza, mentre la dottrina lo ha risolto richiamando il principio di effettività della capacità contributiva.

Capacità contributiva vuol dire attualità, quindi, limiti alla retroattività, ma anche effettività per cui bisogna evitare il rischio di tassare un soggetto sulla base di una redditività fittizia. Quindi non sono ammesse presunzioni assolute, mentre sono ammissibili quelle relative e non quelle relative con probatio dibabolica, perché rendono impossibile praticamente fornire la prova contraria; è un problema di impossibilità fisica o concreta, a differenza delle presunzioni assolute per le quali l’incapacità è giuridica.

La capacità contributiva può esser vista come un indice.

Per superare la difficoltà della probatio diabolica, bisognerà fare attenzione in un momento precedente, laddove “fare attenzione” assume significato sia dal punto di vista pratico che

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giuridico. Come pratici del diritto, esser di fronte ad una presunzione relativa con probatio

diabolica vuol dire, sul piano della consulenza, evidenziare in modo netto la necessità di precostituirsi ogni elemento di prova possibile, cioè monitorare le prove tributarie in anticipo.

Il versante giuridico - teorico pone problemi di costituzionalità: vuol dire valutare se le caratteristiche di quella probatio diabolica siano sovrapponibili al meccanismo della prova assoluta; se è così, è incostituzionale.

Si pensi all’area degli scambi con Paesi a fiscalità privilegiata: il contribuente deve avere una capacità forte di documentare.

2.1.1.2.2 Le forfetizzazioni

Ci sono altre tipologie di norma che pongono gli stessi problemi: le forfetizzazioni,oppure determinazioni medio ordinarie.

In molti casi la distinzione tra queste non è così limpida; si tratta di aree di confine. Molto spesso, tuttavia, possiamo immaginare di individuare fattispecie che funzionano con logiche di forfetizzazione utili a rappresentare didatticamente il problema.

Esempio: gli studi di settore. Questi come funzionano? Sono studi che si basano su logiche matematico statistiche e aziendalistiche che permettono per ogni categoria, attività economica, di ricollegare a quell’attività un certo ammontare di ricavi. Questi ricavi vengono dedotti sulla base delle caratteristiche e condizioni d’esercizio dell’attività, prendendo in considerazione dati contabili ed extracontabili. Si tratta di strumenti che sulla base di scienze statistiche e aziendalistiche permettono ad ogni attività economica di individuare un certo ammontare di ricavi, partendo dalle caratteristiche e condizioni d’esercizio dell’attività e prendendo in considerazione dati contabili ed extracontabili.

Si pensi ad un negozio di abbigliamento; lo studio di settore dice: qual è il settore di attività o claster? Per esempio abbigliamento femminile�il claster individua l’attività economica.

Quali sono i mq che il negozio occupa? Quanti dipendenti ha? (sono dati extracontabili) quali sono i costi che sostiene per l’energia elettrica? Qual è l’ammontare dei redditi dichiarati nelle ultime dichiarazioni reddituali? Quali sono i costi del personale? Qual è la metratura di esposizione? Su strada o la via di collocazione del negozio? Si mettono insieme questi dati con riferimento a tutti i contribuenti che presentano le medesime caratteristiche e si ricava un ricavo riferibile a quell’attività con le medesime caratteristiche�vuol dire che tutti coloro che esercitano quell’attività, per esempio a Treviso, dovrebbero avere gli stessi ricavi. Se svolgo quell’attività a Silea, è diverso per ragioni logistiche.

Ricostruisco quali sono i ricavi attribuibile ad un certo soggetto.

C’è una sorta di forfetizzazione perché il ricavo viene calcolato in maniera statistica considerando le connotazioni di tutte le attività simili stabilendo che quelle attività devono produrre almeno quei determinati ricavi: è individuato un solo ricavo puntuale. Ecco la logica di forfetizzazione.

Questi meccanismi sono legittimi dal punto di vista costituzionale? Se c’è la prova contraria sono

legittimi, se non c’è non lo so. E deve esserci una prova contraria non diabolica e il contenzioso sugli studi di settore è molto pesante perché soprattutto all’inizio l’amministrazione riteneva di poter accertare il contribuente prendendosi lo studio di settore e la dichiarazione�logica di puro automatismo che ha poco a che fare con l’effettività. Poi la Cassazione ha detto che si tratta di presunzioni relative senza alcun tipo di limite di prova contraria. Gli studi di settore pongono diversi problemi; la prova contraria deve essere la più ampia perché deve consentire la prova anche di ciò che sembra impalpabile.

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2.1.1.3 Determinazioni medio - ordinarie

Parliamo di effettività.

Esempio: determinazione dei redditi fondiari che un soggetto ritrae da terreni e da fabbricati. Sono determinati sulla base delle rendite catastali, determinazioni medio - ordinarie. Si riferisce al fatto che tutti gli immobili sono tassati non sulla base del reddito effettivo, ma sulla base di un reddito medio ordinario per tutti gli immobili che hanno le medesime caratteristiche catastali, che prende in considerazione tutte le caratteristiche del bene e le concretizza nell’individuazione di una rendita. L’accatastamento è un procedimento che permette di individuare la categoria catastale di appartenenza. Anche in questo caso, perché questo meccanismo di tassazione medio ordinaria sia possibile, occorre che il soggetto sia in condizione di provare che il reddito non è per sé e questa è una possibilità riconosciuta dal legislatore. Si pensi all’ agricoltore che perde i prodotti per un alluvione; può dimostrare che si sono verificati fatti che hanno determinato la perdita del raccolto. Si pensi al conduttore in mora che non paga il locatore; in questo caso il legislatore riconosce non automatismi, ma la possibilità di fornire la prova contraria. Nella disciplina dei redditi catastali bisogna tener conto che la tassazione catastale è una tassazione di favore; proprio perché ha effetti di vantaggio fiscale, il problema della prova contraria si pone in maniera minore. Succede che i valori e i redditi detraibili tendono a crescere in un’economia crescente, mentre le rendite rimanevano ferme (il catasto non è in grado di rappresentare in maniera effettiva le rendite). In questo caso la prova contraria è riconosciuta con una serie di disposizioni.

2.1.1.4 Le sanzioni anomale o improprie

In generale, si ha una sanzione impropria quando si riconnettono ad un determinato

comportamento del contribuente degli effetti per lui pregiudizievoli che non consistono in una

pena pecuniaria.

Esempio: l’amministrazione ha il potere di chiedere al contribuente per lo svolgimento dell’attività d’indagine determinati documenti che ritiene utile per l’attività di controllo; qualsiasi atto o documento che ritiene utile allo svolgimento dell’attività d’indagine, l’amministrazione ha il potere di chiederlo. La norma è formulata in maniera generica.

Se il contribuente non produce questi atti o documenti, subisce un effetto per lui pregiudizievole, l’impossibilità di utilizzarli a suo eventuale favore nel giudizio. Non si potrà più utilizzare, per es., un contratto a proprio favore. C’è un effetto indiretto pregiudizievole, una preclusione processuale, cioè non posso utilizzare un documento. È una sanzione perché il comportamento è ritenuto non collaborativo.

Queste norme pongono a rischio il principio di capacità contributiva perché il diritto vive nel processo in quanto io posso dimostrare l’effettività della mia capacità contributiva davanti al giudice, che è chiamato a stabilire quale sia i presupposto e l’effettiva capacità. Dirà il giudice se io ho evaso o no; ma se limito le prove, può esser che si produca lo stesso effetto delle presunzioni, il giudice non ha un elemento di prova essenziale per decidere a mio favore. La preclusione

processuale produce un effetto che rischia di cristallizzare una capacità contributiva non reale.

Supponiamo che in un primo momento il contribuente dice che un parte del contratto non sia favorevole; lo brucia e poi l’avvocato gli dice che il contratto poteva esser una prova a sostegno della sua posizione. Il rischio è la cristallizzazione della capacità contributiva non effettiva. Nel caso specifico la norma opera a meno che il contribuente non dimostri che la mancata produzione è dipesa da fatto a lui non imputabile. Quindi l’equilibrio è provato in questo: se il fatto non dipende da una sua scelta, allora la norma non può applicarsi. Se c’è un fatto esterno alla volontà, la norma non può applicarsi.

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Questi esempi dimostrano che accanto all’attualità della capacità contributiva vi è un altro connotato, il principio di effettività che stabilisce che tutte le norme che stabiliscano

forfetizzazioni consentano al contribuente di dimostrare che la sua capacità contributiva è diversa da quella presunta, ricostruita.

Il concetto di capacità contributiva nella dottrina attuale è inafferrabile e parliamo di nozione di capacità; ma sul piano delle conseguenze ci può esser convergenza. Di fronte all’idea che la capacità contributiva colpisca fatti nel passato, vi è convergenza. Non vi è convergenza su quale sia il fatto idoneo a dimostrare la capacità contributiva da parte del legislatore�vi sono 2 filoni oposti:

1. il primo ritiene necessario il fatto di rilevanza economica; 2. l’altro che ritiene che il principio di capacità contributiva sia una specificazione del principio

di ragionevolezza. 2.2 Il principio di progressività.

Il secondo comma dell’art 53 Cost. dice che il sistema tributario è improntato alla progressività. Vi sono 2 parole:

1. SISTEMA tributario e 2. PROGRESSIVITA’.

cosa si intende per progressività’?

Questa espressione allude all’esigenza che un contribuente concorra alle spese pubbliche secondo una logica in forza della quale maggiore è la attitudine alla contribuzione, maggiore è il contributo di solidarietà richiesto�tanto maggiore è l’attitudine, tanto maggior deve esser il sacrificio. La curva della contribuzione cresce in modo progressivo, non proporzionale. Cosa vuol dire se avessi un’aliquota su un reddito del 20 % stabile, la c.d flat tax, cosa succederebbe? Che un soggetto che ha un reddito di 10000 euro paga il 20 % di 10000, un soggetto che ha 50000 euro paga il 20% di 50000 e così via …il sacrificio richiesto proporzionalmente è uguale,ma non è salvaguardata la progressività perché chi più ha è chiamato a contribuire nella stessa proporzione degli altri. È una situazione diversa da ciò che dice il 2 comma!! �chi più ha è chiamato in misura proporzionalmente maggiore. Un soggetto che ha un reddito di 100000 euro è chiamato con un’aliquota del 30%; un soggetto con un milione un’aliquota del 40�meccanismo progressivo.

La domanda è: come è attuato nel nostro ordinamento il principio di progressività? Meccanismo affidato agli scaglioni delle aliquote IRPEF. Se teniamo conto che anche nell’IRPEF ci sono imposte proporzionali, tutta la progressività del nostro sistema affidata alla tassazione del lavoro dipendente e autonomo.

(13/3/2012) Il principio stabilito dal secondo comma dell’ art 53 afferma che il sistema tributario e' improntato al principio di progressività, cioè chi più ha, in maggior misura è tenuto alla contribuzione. Può essere chiamato al sacrificio maggiore chi ha più risorse per concorrere alle pubbliche spese. Il meccanismo della progressività e' affidato alla tassazione IRPEF (tassazione delle persone fisiche) e in particolare, alla tassazione sul lavoro e sulle imprese (sempre individuali, non società).

Come viene realizzata la tassazione IRPEF? Come si concretizza? Attraverso gli scaglioni reddituali, che realizzano quella logica che chi più ha più è chiamato alla contribuzione. La norma che disciplina la progressività è l' art 11 del decreto 917/1986 c.d.

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T.U.I.R. Il comma 1 stabilisce questi scaglioni di reddito che sono tassati sulla base di diverse aliquote.

Art. 11 - Determinazione dell'imposta. 1. L'imposta lorda e' determinata applicando al reddito complessivo, al netto degli oneri deducibili

indicati nell'articolo 10, le seguenti aliquote per scaglioni di reddito:

a) fino a 15.000 euro, 23 per cento;

b) oltre 15.000 euro e fino a 28.000 euro, 27 per cento;

c) oltre 28.000 euro e fino a 55.000 euro, 38 per cento;

d) oltre 55.000 euro e fino a 75.000 euro, 41 per cento;

e) oltre 75.000 euro, 43 per cento.

Il soggetto che guadagna 28000 euro, per esempio, è tassato per i primi 15 mila con aliquota del 23% per i restanti con aliquota del 27%.

Quando si arriva allo scaglione massimo in poi si paga lo scaglione massimo. Maggiore è il reddito, maggiore è la contribuzione. Ciò si esprime con l' inasprimento dell' aliquota. Ma a 75000€ l' aliquota si ferma e la curva si appiattisce.

La prima considerazione generale è che la curva delle aliquote si impenna rapidamente, la progressività attuata da art 11 e' molo accentuata, in poco tempo si arriva agli scaglioni più elevati, poi l' aliquota si rende piatta. Il che può essere discutibile perché la progressività finisce per essere più marcata per i redditi medi, per poi arrestarsi sui 75mila. Quindi una progressività non particolarmente curata nella sua progressione, è un po' grezza.

Le seconda considerazione è che la progressività è limitata all' IRPEF. Le principali imposte sono proporzionali, basti pensare all’ IRES che ha un' aliquota fissa, pari al 27,5%, indipendentemente dal reddito della società. Anche l' IVA, pure proporzionale, colpisce le cessioni dei beni e prestazioni di servizi con un' aliquota fissa (prima 20% poi 21%, forse si arriva al 23%) ma proporzionale, non progressiva. L' imposta di registro è proporzionale, colpisce gli atti di trasferimento di natura patrimoniale, ma e' proporzionale. La progressività invece e' affidata all' IRPEF, essenzialmente sulla tassazione sul lavoro. La legge parla di reddito complessivo, quindi occorre sommare tutti i redditi che il soggetto consegue. In queste diverse categorie troviamo ipotesi in cui la tassazione ha regole sue proprie (come la tassazione immobiliare, la tassazione sui capitali), quindi il grosso che concretizza la tassazione progressiva è il lavoro individuale e dipendente e l' impresa (a cui si sommano le altre categorie reddituali con le loro regole particolari).

Possiamo dire che nel nostro sistema la progressività ha questa attuazione. Possiamo osservare che il nostro legislatore costituzionale fissa una norma, l’ art. 53, che per i più ha natura programmatica dice che 'il sistema e' improntato' , quindi avuto riguardo al sistema tributario complessivo deve emergere una tendenza, quella alla tassazione progressiva. E' il sistema che deve tendere ad una tassazione caratterizzata dalla logica della progressività. E' vero quindi che la norma ha una connotazione programmatica, sarebbe difficile individuare la norma che viola il principio di progressività e quindi sia incostituzionale. Però ipotizziamo l’ ipotesi in cui venga introdotta una flat tax. Se fosse introdotta una tassa piatta che andasse ad incidere sull' IRPEF, ovvero all' unica tassa che realizza la progressività, allora, tolto l' art 11, dove sta la progressività? Si potrebbe quindi parlare di legittimità costituzionale. La norma dell’ art. 53 ha allora come contenuto minimale il fatto di impedire l’ introduzione di una disciplina che azzeri la progressività.

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2.2.1 La progressività dell’ordinamento tributario.

Se vogliamo c’ è anche una progressività dell' ordinamento tributario, del sistema nel suo complesso. Ci sono dei meccanismi che consentirebbero l' attuazione della progressività in una considerazione più ampia, di sistema. Supponiamo che si sottopongano i beni di lusso ad una graduazione delle aliquote. Ad esempio le autovetture al di sopra di un certo prezzo abbiano un aliquota più elevata; determinati servizi di prestigio abbiano un' aliquota più elevata. Così si chiama ad un maggior concorso chi ha più disponibilità. Quindi in questo caso la progressività si realizza con imposte proporzionali, se si graduano le aliquote.

Altro esempio. Il legislatore introduce una tassazione patrimoniale che colpisce il patrimonio complessivo (beni mobili e immobili) del soggetto. Se si tassa il patrimonio unitamente al reddito, chi più ha in termini patrimoniali è chiamato a contribuire in misura maggiore.

Quindi: la progressività è un principio tendenziale affidato all' IRPEF. L' attuazione del principio non è necessariamente affidato alle singole imposte, ma anche considerando l' intero sistema delle imposte. Quindi possiamo considerare anche una flat tax però dobbiamo intervenire sulle altre imposte per realizzare quella progressività che si perde con l’ IRPEF. Oggi però questa progressività non è attuata con riguardo alle altre imposte, l' IVA ha un’ aliquota fissa al 21%. Naturalmente l’ attuazione della progressività con riguardo all’ IVA dovrebbe essere molto meditata. Perché se si nota, una forma grezza di progressività è stata attuata anche con l’ iperbollo sulle autovetture di lusso, il che vuol dire chiamare alla contribuzione chi più ha. In realtà questo meccanismo ha avuto degli effetti depressivi su quei determinati settori economici con cali addirittura dell' 80% sulle vendite. Quindi l’ attuazione della progressività deve essere correlata con lo sviluppo economico.

Mentre la norma tributaria stabilisce un principio tendenziale di progressività (non dice quanta progressività devo attuare), oggi quella progressività è affidata ad art. 11. Se questo viene eliminato senza portare ulteriori modifiche al sistema, quella norma che introduce questa disposizione sarebbe incostituzionale. Ma se io la progressività la attenuo, prevedendo scaglioni con differenze minime, attraverso un controllo sulla ragionevolezza del criterio operato si potrebbe pervenire ad un giudizio di costituzionalità. Se la progressività è conservata in maniera effettiva e sostanziale nessun problema, se la modifica è tale da determinare una progressività proforma diventa inadeguata rispetto al sistema e si potrebbe profilare una questione di illegittimità costituzionale.

Anche la destinazione della propria ricchezza si connette in modo stretto a quei principi di libertà, formazione della persona e attuazione della propria personalità attraverso il lavoro che sono i cardini della nostra costituzione. Il fisco non dovrebbe impedire questa libertà di realizzazione attraverso disposizioni tributarie che impediscono l' accesso a determinati beni. Però nella logica dell' IVA si colpisce il consumo. Il consumo è di per se indice indiretto di capacità contributiva. Consumo perché ho una certa disponibilità. L' atto di consumo denota una specifica e maggiore capacità contributiva rispetto a chi non consuma quei beni, quindi quando si pone in essere quell' atto è ragionevole nell' ambito dell' IVA che il legislatore chieda di contribuire maggiormente, perché manifesti una capacità contributiva maggiore.

2.3 Principio della riserva di legge. Art. 23

Art. 23

Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.

La materia dell' art 23 è più ampia di quella tributaria. Vi rientrano qualsiasi prestazioni di carattere personale e patrimoniale. Queste prestazioni non si possono chiedere, se non su base legale. Tra le prestazioni di carattere patrimoniale ci sono i tributi. Tasse e imposte quindi sono coperte dal principio dell' art 23. Quindi il tributo deve avere una base legale. Perché esiste questo principio in costituzione? Quali elementi del tributo devono fissarsi con legge? Quindi, che natura ha la riserva?

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2.3.1 Le ragioni della sua esistenza.

Dal punto di vista storico l' affermazione di questo principio si connette a quelli che sono i principi fondamentali delle democrazie moderne. L' esigenza che le scelte relative alla fiscalità siano adottate da dei rappresentanti dei soggetti sottoposti a tassazione. La riserva di legge si salda ad un principio fondamentale 'no taxation without rappresentation'. Solo i rappresentanti possono decidere della tassazione che poi mi colpirà. Problema della rappresentanza politica.

Poi c' e' una ragione di tipo ordinamentale. Solo la legge infatti è sottoposta al controllo di costituzionalità. Non sarebbe immaginabile dal punto di vista della certezza del gettito e dal punto di vista della stabilità del prelievo che le norme sulla tassazione fossero affidate ad un controllo diffuso, come avviene nel caso delle fonti secondarie, dei regolamenti, soggetti al controllo di legittimità dei giudici amministrativi per l’ annullamento, anche ordinari ai fini della disapplicazione in via incidentale. Bisogna che la legge tributaria sia sottoposta solo al controllo da parte della corte costituzionale. Ragione ordinamentale che si lega ad esigenze di certezza del gettito e che impone il controllo da parte solo della corte costituzionale.

Queste due ragioni sono quindi di tipo storico, si lega ai fondamenti delle democrazie moderne, e ordinamentale, il controllo deve avvenire da parte della corte costituzionale e non in via di sindacato diffuso dai giudici ordinari o amministrativi.

2.3.1.1 Il problema della rappresentatività politica.

Alla base della tassazione ci sta il voto. 'Tutti' dell' art. 53 riguarda anche i non cittadini, ma solo i cittadini votano! In un meccanismo democratico quelli che sono votati decidono della politica fiscale, ma sul versante dell' obbligo contributivo questo grava su 'tutti'. Come si conciliano le due disposizioni?

Tutti sono tassati, si riferisce a residenti e non residenti per redditi prodotti in Italia. Alla base del fenomeno della residenza o della produzione del reddito ci sta una scelta del soggetto. Se decido di porre in essere attività economiche in Italia, lo decido io spontaneamente, scelgo da che ordinamento farmi tassare. Anche se non voto, comunque ho la libertà di scegliere se farmi tassare da quello stato determinato. Nessuno mi impone una tassazione senza che io voglia. Allo stesso modo si può giudicare la residenza. Nessuno mi impone di risiedere in Italia, se opero questa scelta la faccio liberamente. Mentre sul luogo di produzione del reddito possiamo essere d' accordo, la residenza vuol dire legami (con il territorio, di tipo economico, affettivi). Quindi non è del tutto vero che la residenza in ogni caso e' un atto di scelta, presenta vincoli che non comportano scelte automatiche. Pensiamo al caso degli extracomunitari. Supponiamo che in Italia abbia un lavoro indipendente, abbia una famiglia e dei figli ben integrati nella rete sociale. La residenza del soggetto extracomunitario non è più così agevolmente svincolabile dal territorio italiano. Si potrebbe anche ritenere che giunti ad un certo livello di consolidamento della relazione patrimoniale, economica, affettiva con il territorio, a partire da un certo momento il problema della riserva di legge si pone. Si tratterà di capire qual' è il momento, ma in un determinato momento il problema del radicamento nel territorio, l’ impossibilità di attuare scelte diverse si presenta, c' è un problema di

rappresentanza. L' art 23 dice che ci dobbiamo porre il problema degli stranieri. Il cuore dell' art 23, no taxation without rappresentation, dice che quando la tassazione in Italia non è più una scelta allora, a quel punto, devo poter esprimere i miei rappresentanti. Questo è il coordinamento tra art. 53 e 23. ‘Tutti sono tenuti’ ci sta benissimo. ‘Tutti’ esprime un collegamento di sovranità fiscale molto ragionevole, perché si sceglie dove farsi tassare, si trae anche beneficio dai servizi italiani anche se non si è cittadini. Ma quando quel fatto non è più una scelta, ma una necessità, a quel punto si pone un problema di rappresentanza e quindi di applicazione dell' art 23.

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2.3.2 La natura della riserva dell’ art 23.

Qual' e' la natura della riserva? Può essere assoluta: tutta la disciplina è riservata alla legge; relativa, quando lascia margini alla normativa secondaria. Quella dell' art 23 si ritiene essere una riserva relativa.

Quali sono gli elementi del tributo fissati con legge?

• Il presupposto, ovvero il fatto indice di riparto tassato. Qual' è l' indice di riparto colpito, si

chiama presupposto.

• Poi la base imponibile ovvero la quantificazione di quel fatto indice.

• Soggetti passivi, chi è colpito.

• Le aliquote. Però si ritiene che il legislatore possa stabilire limiti minimi e massimi, riservando a

fonti secondarie l' individuazione dell' aliquota. Può bastare anche la determinazione di criteri

tecnici per individuarle. La disciplina essenziale è affidata alla legge, gli elementi di dettaglio

(ad esempio modalità di applicazione, di attuazione) sono affidati alla normazione secondaria.

2.3.2.1 Chiarimenti sul termine ‘legge’ di cui all’ art. 23.

Ci dobbiamo porre un' altra domanda. Cosa si deve intendere per legge? La legge deve intendersi o in senso formale o in senso materiale. La prima è di approvazione parlamentare, la seconda si riferisce agli atti aventi forza di legge. Legge, decreto legge e decreto delegato integrano i presupposti della riserva. Il principio di rappresentanza è assolutamente fondamentale, dobbiamo capire se nella tipologia di atti normativi, alla luce di art. 23, è possibile individuare un deficit di rappresentatività.

La legge no, si fonda sul dibattito parlamentare, è massima espressione di rappresentatività.

Il decreto legge fa emergere qualche problema. E' una fonte di provenienza governativa. E' sottoposto alla conversione, quindi il recupero della democraticità avviene attraverso questo meccanismo. Guardando però alla dinamica parlamentare, sovente la conversione del decreto non è una fase in cui si discute. Spesso la conversione è sottoposta alla fiducia e sempre si deve tener conto che la mancata conversione del decreto è sintomo della crisi del rapporto fiduciario tra maggioranza parlamentare e governo. La conversione in generale condiziona la fiducia perché determina un’ inclinazione del rapporto tra il governo e la maggioranza. Non c’ è quindi un dibattito democratico libero.

Quando nel 2000 Prof. Marongiu ha elaborato lo statuto, aveva presente il problema. Un' articolo dice che nuove imposte non possono essere introdotte con decreto legge. Naturalmente è una norma ordinaria, può essere derogata (nella prassi molti decreti legge introducono tributi). Allora la valutazione dei requisiti di necessità e urgenza dovrà essere ancora più rigorosa da parte del giudice costituzionale, perché norma derogatoria di una regola generale. In realtà un altra delle ragioni alla base della scelta dello statuto è quella per cui il decreto non convertito decade ex tunc, genera rapporti fiscali di pendenza. Questo genera incertezza dal punto di vista della stabilità di acquisizione del gettito.

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3 Procedimento d’ imposizione

(14/3/2012) Avvocato Alessandro Poli

L’argomento è il procedimento di imposizione, partendo dalla dichiarazione e arrivando a fare un accenno a quelli che sono i controlli dell’amministrazione finanziaria. In questo procedimento il ruolo principale è svolto dal contribuente, il quale al verificarsi del presupposto impositivo ha l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi. La presentazione della dichiarazione dei redditi deve avvenire annualmente, con scadenze fissate ex lege, mediante la quale il contribuente si auto-denuncia. Nella dichiarazione deve dichiarare quali sono stati i suoi redditi nel periodo di imposta precedente, deve procedere anche all’indicazione di quelle che sono state le ritenute subite, di quelle che sono le spese o i costi deducibili o detraibili e infine procede alla liquidazione del quantum. Sulla base della sua dichiarazione l’amministrazione potrà procedere a dei controlli.

3.1 Le teorie sul procedimento.

Facciamo un passo indietro. In ordine al procedimento di imposizione in dottrina sono state elaborate due teorie:

- teoria costitutiva dell’obbligazione tributaria;

- teoria dichiarativa dell’obbligazione tributaria.

3.1.1 Teoria dichiarativa

È la teoria preferibile. In base a questa teoria l’obbligazione tributaria nasce ex lege, proprio in forza degli artt. 23 e 53 della Cost, e delle diverse leggi di imposta. L’obbligazione nasce al verificarsi del presupposto d’imposta della fattispecie impositiva; la dichiarazione o la successiva attività di accertamento svolta dall’amministrazione hanno esclusivamente un fine dichiarativo (natura dichiarativa), civilisticamente parlando sono delle dichiarazioni di scienza. 3.1.2 Teoria costitutiva

Teoria sostenuta anche da Falsitta. Il verificarsi del presupposto d’imposta ha una rilevanza minima, in quanto la vera e propria obbligazione di imposta sorgerebbe solo al momento di presentazione della dichiarazione, ovvero, in caso di omessa dichiarazione, al momento dell’accertamento da parte dell’amministrazione. I problemi posti da questa teoria consistono nel fatto che innanzitutto vi è una violazione dell’art.23: se le prestazioni patrimoniali possono essere imposte solo in base alla legge, non si può poi sostenere che l’obbligazione d’imposta sorga solo al momento della dichiarazione o al momento del controllo. Inoltre si porrebbero problemi nel caso di commissione di errori da parte del contribuente, o nel caso dell’accertamento da parte dell’amministrazione, di commissioni di errori in sede di accertamento. 3.1.3 Teoria procedimentale

In dottrina è stata elaborata una terza teoria: teoria procedimentale, che è una via di mezzo tra la teoria dichiarativa e quella costitutiva. Secondo questa terza teoria il procedimento impositivo sarebbe costituito da una serie di fasi concatenate l’una all’altra, ma allo stesso tempo autonome.

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Anche se questa teoria è stata costruita come una via di mezzo tra le altre due, il presupposto di fondo è che l’obbligazione d’imposta nasce comunque ex lege. Perché dalla realizzazione del presupposto d’imposta partono poi tutte le altre fasi.

In questo procedimento abbiamo come prima fase la realizzazione del presupposto d’imposta da parte del contribuente, presupposto che può essere quello disciplinato dalle varie categorie reddituali all’interno di ciascuna categoria: possesso di redditi da lavoro dipendente, l’esercizio di attività di lavoro autonomo, l’esercizio di attività d’impresa, il possesso di fabbricati o di altri immobili per quanto riguarda i redditi fondiari,… o qualsiasi altra attività rientrante nelle sei reddituali.

Una volta realizzato questo presupposto sorge l’obbligo di dichiarazione annuale, che dev’essere presentata direttamente dal contribuente o, nel caso di lavoratori dipendenti da parte del datore di lavoro che agisce come sostituto d’imposta, o dagli intermediari abilitati (commercialisti), che entro termini fissi devono presentare la dichiarazione dei redditi, salva la possibilità di presentarla in ritardo pagando le sanzioni.

(26/3/2012-bis)

3.2 La dichiarazione dei redditi.

[parte che integra la lezione tenuta dall’Avv. Poli]

3.2.1 L’ autotassazione.

La dichiarazione dei redditi è l’atto con cui si concretizza l’essenziale struttura del rapporto tributario dagli anni 70, cioè il meccanismo dell’autotassazione. Si sposta sul contribuente l’obbligo di provvedere a comunicare all’amministrazione i presupposti d’imposta (cioè la capacità contributiva), quantificare, liquidare e, quindi, pagare il tributo. La dichiarazione è il perno del sistema dell’applicazione di tributi che si incentra sull’autoimposizione. Questo è un meccanismo che responsabilizza i soggetti passivi perché li chiama direttamente all’obbligo di concorso e impone l’esigenza di uno strutturato insieme di controlli per verificare se le dichiarazioni sono state presentate e sono fedeli al vero; ( vedi infra, i controlli formali ex 36 bis e sostanziali ex artt. 36 ter e 37).

Della dichiarazione abbiamo visto la struttura: è un atto formale che si concretizza nella compilazione di un modello approvato annualmente con decreto del Ministero delle finanze, che serve a consentire una uniformità delle dichiarazioni in modo che ci sia una standardizzazione delle stesse, utile al fine della omogeneità delle dichiarazioni e una standardizzazione giustificata dalle logiche di controllo: se le dichiarazioni fossero diverse non sarebbe possibile attuare i controlli automatizzati. La dichiarazione, infatti, si trasmette in via telematica; si tratta, quindi, di un formalismo compatibile con la compilazione di un file, funzionale alle modalità di trasmissione attraverso file tematici che può esser fatto direttamente o tramite intermediari autorizzati.

3.2.2 Natura di manifestazione di scienza.

La dichiarazione è un atto con cui il contribuente porta a conoscenza dell’amministrazione il presupposto, cioè la sua capacità contributiva in relazione allo specifico tributo, cioè porta a conoscenza il fatto indice che sta alla base della capacità contributiva; manifesta, quantifica il tributo in base alle regole di determinazione del presupposto e lo liquida. Quindi la natura dell’atto è quella di manifestazione di scienza, non quindi è un atto negoziale, nè un atto confessorio: il contribuente dice che il presupposto si è verificato, lo quantifica e lo liquida. Da questa qualificazione nascono conseguenze sul versante dichiarativo. Possiamo dire che in taluni e specifici aspetti della dichiarazione, però, emergono eccezionalmente le caratteristiche degli atti negoziali: di quali aspetti si tratta? Quelli nei quali sussistono delle

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opzioni, cioè scelte riconducibili alla volontà del contribuente, per es. stabilire l’ opzione per la contabilità ordinaria o semplificata possibile attraverso la dichiarazione; se per es. contribuente ha venduto un immobile strumentale come un capannone industriale e ha ottenuto un guadagno dalla cessione dell’immobile ha la possibilità di rateizzare la tassazione su questo guadagno e lo deve esprimere nella dichiarazione attraverso un’opzione�vi sono alcuni elementi tipici degli atti negoziali quando ci sono opzioni nella dichiarazione.

3.2.3 Rettificabilità

Dalla natura di manifestazione di scienza deriva la conseguenza che la dichiarazione è un atto

rettificabile, cioè qualora il contribuente sia incorso in errori nella compilazione della dichiarazione, può intervenire a correggere la dichiarazione correggendo gli errori commessi proprio perché la dichiarazione non ha un contenuto vincolante come accade per la natura confessoria e negoziale: il contribuente non si è obbligato nei confronti dell’amministrazione con un effetto pregiudizievole come accade con la confessione pregiudiziale, ha espresso il suo sapere: esiste un principio generale di rettificabilità della dichiarazione dei redditi che può essere a favore o a sfavore del contribuente.

Rettificabilità a sfavore del contribuente.

È a sfavore in tutti in casi in cui il contribuente ha dichiarato meno del dovuto: bisogna apportare una rettifica in aumento perché ho dichiarato meno del dovuto. La correzione dell’errore avviene sulla base di una disciplina specifica che si chiama ravvedimento operoso: ravvedimento perché mi accorgo io dell’errore e operoso perché sono io che mi impegno direttamente a correggere l’errore. Esso è disciplinato dall’art 3 del decreto n° 472 /1997. Questo istituto si basa su un principio: quanto prima tu intervieni a correggere la dichiarazione, tanto minori sono le sanzioni che ti saranno applicate�ne derivano sanzioni crescenti al crescere dell’intervallo tra la dichiarazione e la sua correzione.

Ratio dell’istituto: proprio perché la dichiarazione è al centro del rapporto tra amministrazione e contribuente, l’amministrazione non può accettare che il contribuente faccia la dichiarazione in modo impreciso, quindi la sanzione si collega alla certezza per l’Erario all’acquisizione del gettito; tu quando fai la dichiarazione devi stare attento e i margini di correzione ci sono, ma sono limitati perché lo Stato deve comunque acquisire il gettito in un certo periodo di tempo.

Rettificabilità a favore del contribuente. La dichiarazione è rettificabile anche a favore del contribuente: il contribuente che si accorga di avere pagato più del dovuto può rettificare la dichiarazione a proprio vantaggio. Le modalità tecniche con cui si attua questa correzione sono complesse perché dipendono dal momento in cui il contribuente si rende conto dell’errore. La modalità tipica di correzione è la dichiarazione integrativa, con la quale corregge la precedente dichiarazione, la rettifica a proprio vantaggio. La possibilità di presentare la dichiarazione integrativa prevista dall’ art 2, comma 8 bis decreto 322 /1998 avviene entro un anno dalla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione dell’anno precedente.

Sulla base di un indirizzo giurisprudenziale emerso dal 2002 si ritiene che oltre questo strumento, una volta decorsi i termini per la dichiarazione integrativa, il contribuente può avvalersi dello strumento dell’istanza di rimborso.

Se il contribuente, per es., ha dichiarato 100 ma ha reddito 90 ha due possibilità: 1) dichiarazione integrativa entro un anno; 2) ma se si accorge dell’errore dopo due anni (cioè una volta decorso il termine della dichiarazione integrativa) allora presenta istanza di rimborso: chiede direttamente all’amministrazione il

rimborso. Il termine è 48 mesi dal pagamento dell’imposta.

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La rettificabilità della dichiarazione è stato un tema dibattuto in giurisprudenza, perché vi è stato chi ha ritenuto che la scadenza dei termini di presentazione rendessero la dichiarazione immodificabile, immutabile; la Cassazione nel 2002 con la sent. 1563/ 2002 si è pronunciata a sezioni unite e ha affermato il più ampio principio di rettificabilità. La Cassazione era preoccupata che un errore dichiarativo cristallizzasse un’obbligazione tributaria maggiore di quella corrispondente alla capacità contributiva.

Riassumendo sulla dichiarazione dei redditi:

1. carattere della dichiarazione come perno del rapporto tributario nel principio della autotassazione per esigenze di formalismo;

2. standardizzazione, uniformità degli strumenti di controllo, obbligo di dichiarare 3. Natura come mera manifestazione di scienza 4. dalla natura discende la ampia rettificabilità della dichiarazione a favore o a sfavore del

contribuente. Questi schemi nell’applicazione pratica incontrano delle difficoltà perché ci sono situazioni in cui il legislatore riconosce crediti d’imposta, che non possono essere chiesti in rimborso, ma possono essere solo compensati.

Altro limite: un anno per la dichiarazione integrativa è poco! Il contribuente potrebbe non rendersi conto dell’errore in questo periodo o perché intervengono dopo tempo circolari che chiariscono il contenuto. Ci sono molte cause pendenti sul tentativo di superare il termine annuale:se sbagli la dichiarazione nel caso di debito d’imposta il rimborso non c’è qui, ma solo la dichiarazione integrativa e perdi i termini della dichiarazione integrativa rischi di non ottener il rimborso.

Da qui si innesta il discorso sui controlli sulla dichiarazione.

3.2.4 I modelli di dichiarazione dei redditi

[percorso web: www.agenziaentrate.gov.it > documentazione > archivio >modelli di dichiarazione anno 2011 > unico

società di capitali]

(19/3/2012-bis) La dichiarazione dei redditi è un documento che presenta un contenuto formale, non è a forma libera, il suo contenuto è caratterizzato da formalismo: la dichiarazione deve esser compilata sulla base di modelli approvati annualmente con decreto del Ministero delle finanze. Questi modelli hanno una duplice funzione precisa:

1. servono a standardizzare le modalità di compilazione, assicurandosi che la compilazione sia una guida rispetto all’applicazione delle norme tributarie, accompagnata dalla struttura del modello;

2. a far in modo che la dichiarazione sia oggetto di controlli di tipo automatizzato�servono per standardizzare e consentire il controllo informatico delle dichiarazioni che vengono inoltrate all’amministrazione finanziaria con modalità telematiche.

Quindi i modelli sono improntati da standardizzazione e controllabilità. Allora il legislatore utilizza modelli che approva anno per anno perché è necessario che il contenuto della dichiarazione sia aggiornato in base alle novità introdotte nelle norme del sistema tributario; è questa la ragione per cui i modelli vengono approvati anno per anno.

Nel sito dell’agenzia delle entrate si trovano i modelli delle dichiarazioni: vi sono modelli per ogni anno.

Prendiamo in considerazione i modelli del 2011 (si trovano nel sito della Agenzia delle entrate�vedi sopra): si trovano le varie tipologie di modello dichiarativo che vengono annualmente approvate con decreto del Ministero delle finanze.

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3.2.4.1 Modello unico per le società di capitali.

Viene utilizzato da società di capitali per determinare l’IRES, IVA IRAP; il modello unico racchiude il contenuto della dichiarazione di questi tre tributi.

Nel sito troviamo il modello e le istruzioni per la compilazione;ci sono anche gli indicatori di normalità economica che servono per la compilazione degli studi di settore.

Guardiamo il modello e le istruzioni; essi sono strettamente collegati perché il modello è l’atto che va compilato e le istruzioni fanno parte integrante del modello perché hanno valore di circolare amministrativa, che illustra le regole di compilazione. Seguendo la struttura del modello si capisce come funzionano le regole per la determinazione del reddito d’impresa.

Il modello viene compilato in formato elettronico. Ci sono delle informazioni generali sulle modalità di trattamento dei dati (secondo quanto disposto dal decreto legislativo in materia di privacy).

- Si trovano i dati che consentono l’identificazione del contribuente (sede legale, stato di residenza, ecc..)

- Dati relativi al rappresentante che firma la dichiarazione: questi si assume responsabilità del contenuto della dichiarazione.

- Attestazioni

- Impegno alla presentazione telematica

- .Parte dichiarativa: si parte dal risultato del conto economico: qui va scritto il risultato del bilancio civilistico (se la società ha chiuso in utile o in perdita).

- Variazioni in aumento

- Variazioni in diminuzione. Quello che si studia nel diritto tributario è come si passa dal risultato economico, che è civilistico, al risultato fiscale, cioè il reddito. Il reddito è frutto di una serie di variazioni che dipendono da quello che prevedono le norme tributarie;queste possono prevedere variazioni in aumento oppure in diminuzione.

La dichiarazione è una sorta di struttura a modello, vi è una serie di righi; per es. “interessi passivi indeducibili” è un rigo che dice qual è il regime dei finanziamenti che l’impresa ha acceso con la banca e che non possono esser dedotti.

- Determinazione del reddito imponibile

È interessante evidenziare come il legislatore chieda conto delle componenti straordinarie del reddito d’impresa.

Analiticamente si illustrano le variazioni così come individuate nella prima parte della dichiarazione.

Per il corso è utile studiare la prima parte del modello di dichiarazione dei redditi.

Le istruzioni dicono analiticamente come compilare tutti i righi del modello.

3.2.4.2 Modello unico per le persone fisiche

Esso ha una struttura diversa perché non vi è il dato di bilancio, ma la distinzione dei redditi per categoria ( reddito da la lavoro dipendente, reddito da lavoro autonomo, reddito da fabbricati).

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È presenta la caratteristica della personalizzazione del reddito: è cosa diversa se il soggetto è un singolo che destina il reddito tutto a se stesso o a familiari a carico: l’indicazione serve, infatti, per attivare il meccanismo delle detrazioni.

In ciascun quadro vi sono i singoli redditi da fabbricati, reddito di lavoro dipendente, irpef nel complesso.

La struttura presenta una impostazione per modelli anche in questo caso.

I modelli sono tutti più o meno impostati così. La dichiarazione, siccome è la parte iniziale del rapporto tra amministrazione e contribuente, è un indice che si può utilizzare per lo studio della parte speciale.

Questa parte attiene al formalismo dichiarativo, funzionale alla standardizzazione e al controllo.

Quando si parla di dichiarazione integrativa per rettificare la dichiarazione, la rettifica avviene sullo stesso modello.

(14/3/2012- bis)

3.3 Controlli formali, c.d. automatici.

Su tutte le dichiarazioni dei redditi presentate dai contribuenti l’amministrazione effettua un primo controllo: controllo automatico, disciplinato dall’art. 36-bis del d.p.r. 600/1973. Attraverso questi controlli l’amministrazione tende a verificare la correttezza formale delle

dichiarazioni. Questi controlli sono indirizzati alla ricerca di errori che con maggiore frequenza si ritrovano nelle dichiarazioni. All’esito di questi controlli, laddove siano stati riscontrati degli errori, al contribuente viene inviato un avviso bonario, che non è un vero avviso di accertamento in quanto manca di motivazione e non ha una vera e propria natura di accertamento. Infatti secondo la legge i dati risultanti dalle rettifiche automatiche si considerano a tutti gli effetti come dati della dichiarazione. Quindi attraverso questo avviso bonario, o avviso informale, l’amministrazione avverte il contribuente che sono stati commessi degli errori innanzitutto con l’intento di recuperare la maggiore imposta che sia dovuta, in secondo luogo per far capire al contribuente quali sono stati gli errori commessi con la speranza che non siano commessi l’anno successivo. Questi controlli riguardano tutte le dichiarazioni presentate perché sono informatizzati, e devono essere svolti entro l’inizio del periodo di presentazione della dichiarazione dell’anno successivo, per cui entro il 1 maggio di ciascun anno deve essere controllata la dichiarazione presentata l’anno precedente. I controlli automatici riguardano gli errori formali, cioè errori nella compilazione della dichiarazione dei redditi (aver riportato un costo in una casella invece che in un’altra, non l’aver sommato correttamente gli importi segnati riportati,…)

3.4 Controlli formali

Per quanto riguarda l’omissione di dati, la procedura di controllo è diversa che è disciplinata dall’art. 36-ter del d.p.r. 600/1973. Sono detti controlli formali. Sono soggetti ad un termine più lungo per essere svolti, ovvero fino al secondo anno successivo a quello della dichiarazione. Perciò l’amministrazione ha praticamente tre anni per svolgere questa tipologia di controlli. Sono controlli incrociati, nel senso che l’amministrazione non deve basarsi esclusivamente sulle dichiarazione dei redditi, ma può incrociare i dati in suo possesso (ricavabili dall’anagrafe tributaria, da dichiarazioni dei sostituti d’imposta,…) e incrociarli con quelli della dichiarazione. È in questo caso che possono emergere eventuali omissioni nella dichiarazione.

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Si pensi ad un lavoratore autonomo che ha subito una ritenuta per una prestazione nei confronti di un altro lavoratore autonomo, per cui ha percepito al netto il compenso e in dichiarazione omette di dichiarare il compenso percepito. L’amministrazione si troverà con la sua dichiarazione in cui vi è un determinato reddito e con la dichiarazione del suo sostituto in cui troverà dichiarato il versamento del 20% di ritenuta d’acconto sul compenso versato al primo. L’amministrazione incrociando i dati può trovare l’errore del primo contribuente, ovvero l’omissione di dichiarazione di quel compenso.

In questo caso non vi è un avviso bonario, ma vi sono maggiori garanzie per il contribuente nel senso che all’esito dei controlli l’amministrazione deve inviare una comunicazione succintamente

motivata e deve lasciare spazio al contradditorio con il contribuente, nel senso che deve permettere al contribuente di dimostrare le proprie ragioni prima di eventualmente procedere alla riscossione del quantum accertato.

Questa fase di contraddittorio e di garanzia per il contribuente può svolgersi anche in un momento antecedente. In seguito al controllo l’amministrazione rileva un’omissione, un errore, prima di inviare l’avviso al contribuente può inviare l’avviso al contribuente può invitare il contribuente ad esporre le proprie ragioni e eventualmente a presentare i documenti giustificativi. Se il contribuente omette di difendersi in questa sede, l’avviso parte senza ulteriori limiti.

Questi controlli non vengono svolti su tutte le dichiarazioni, ma vengono svolti in base a criteri stabiliti di anno in anno con decreto ministeriale. Sono controlli incentrati su categorie di contribuenti (ovvero su categorie di dichiarazioni) nelle quali si sospetta siano più frequenti errori od omissioni di questo genere. Anche in questo caso, come per i controlli automatici, non vi è sanzione per omessa infedele

dichiarazione.

3.5 I controlli sostanziali

Di regola la dichiarazione dovrebbe esaurire la fattispecie dell’accertamento ed è seguita solo ed esclusivamente dalla liquidazione, ovvero dalla fissazione del quantum dichiarato, e quindi del debito d’imposta, e dai controlli automatici; o se la dichiarazione rientra tra i criteri stabiliti con decreto nei controlli formali. Però in casi patologici la dichiarazione può essere soggetta a rettifica e a controllo sostanziale da

parte dell’amministrazione. Ovvero in caso di mancata presentazione della dichiarazione scatta il

vero e proprio potere (potestà) di accertamento dell’amministrazione.

I controlli che può effettuare l’amministrazione in caso di presentazione della dichiarazione sono controlli che hanno ad oggetto la dichiarazione. Per cui anche nel caso di errori o di infedele dichiarazione, comunque la dichiarazione del contribuente svolge un ruolo centrale nel procedimento impositivo. In quanto l’amministrazione deve partire dalla dichiarazione per l’effettuazione dei suoi controlli e deve determinare analiticamente il reddito del soggetto. Per cui può discostarsi da quelli che sono i dati dichiarati solo nel caso in cui riesca a reperire dati certi e analitici relativi al suo reddito. Solo in casi eccezionali il redito può essere determinato sulla base di presunzioni, che però devono essere gravi, precise e concordanti. In caso di omessa dichiarazione, l’amministrazione ha poteri più ampi. Non è prescritta l’utilizzazione di metodi analitici, quindi l’amministrazione potrebbe determinare il reddito non dichiarato nella sua globalità e sulla base di presunzioni. Tuttavia secondo l’orientamento giurisprudenziale che trova un appiglio nello Statuto dei diritti del contribuente e in generale nel principio di capacità contributiva effettiva ed attuale, l’amministrazione in presenza di dati certi

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precisi e analitici, dovrebbe partire da questi dati ed eventualmente poi passare a metodi presuntivi e globali nella determinazione del reddito. Questi due tipi di controlli, che potremmo definire sostanziali, sulla dichiarazione ovvero sull’omessa dichiarazione (quindi non un vero e proprio controllo, ma una determinazione d’ufficio del reddito omesso) hanno termini più ampi. La dichiarazione può essere controllata e rettificata da parte dell’amministrazione fino al quarto anno successivo a quello di presentazione della stessa. Nel caso di omissione il termine si allunga di un anno, per cui possiamo arrivare fino al quinto anno successivo a quello di presentazione.

Si potrebbero porre dei problemi nel caso in cui il contribuente al momento della dichiarazione commetta degli errori a suo sfavore. In queste ipotesi dobbiamo pensare che il contribuente ha dichiarato un maggior reddito, ha quindi liquidato una maggiore imposta dovuta e ha versato una maggiore imposta dovuta all’erario. In questo caso le soluzioni potrebbero essere:

- presentazione di un’istanza di rimborso che deve avvenire entro 48 mesi dal versamento

da parte del contribuente, oppure

- rettifica della dichiarazione.

3.6 Rettifica della dichiarazione

Per quanto riguarda la rettifica della dichiarazione, l’amministrazione finanziaria ha sempre tenuto un atteggiamento sfavorevole al contribuente. Nel senso che il d.p.r. 602/1973 art.38 disciplina la rettificabilità della dichiarazione. Al comma 8 si prevede la rettificabilità di errori od omissioni nella dichiarazione entro i termini riconosciuti all’amministrazione per lo svolgimento dei controlli, per cui il quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. Il comma 8bis limita la rettificabilità della dichiarazione, nel caso in cui questa presenti un maggior debito d’imposta rispetto a quello effettivamente dovuto, oppure un minor credito, ad un anno. Ovvero dice che per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior debito d’imposta o di un minor credito, la dichiarazione può essere rettificata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo (termine di poco maggiore rispetto a quello previsto per i controlli automatici). Questa restrizione dei termini per la rettificabilità pro contribuente pone dei seri problemi sia a livello di principi generali, e cioè di effettività della capacità contributiva, sia in termini di ragionevolezza, in quanto se all’amministrazione sono concessi 4 o 5 anni per lo svolgimento dei controlli, non si vede perché al contribuente debba essere concesso un solo anno (al massimo un anno e mezzo) per la rettificabilità della sua dichiarazione. L’interpretazione che l’agenzia delle entrate dà di queste norme è un’interpretazione restrittiva, concedendo al contribuente il termine più breve di un anno e lasciando in caso di scadenza di questo termine l’unica residuale ipotesi della presentazione dell’istanza di rimborso.

3.6.1 Differenze tra rettificabilità e istanza di rimborso.

Le differenze tra rettificabilità della dichiarazione e presentazione dell’istanza di rimborso sono notevoli. Con la rettificabilità il contribuente ha la possibilità di presentare una nuova dichiarazione, liquidare correttamente l’imposta dovuta ed eventualmente portare in avanti il credito risultante dalla dichiarazione, per cui portarlo in compensazione con il debito dell’anno successivo. Se al contribuente si lascia l’unica alternativa di presentare istanza di rimborso, il contribuente è soggetto alla discrezionalità e ai tempi dell’amministrazione; in quanto l’istanza di rimborso

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dev’essere presentata, se va bene è analizzata dall’amministrazione finanziaria, e se va ancora meglio ottiene una risposta. Se l’amministrazione non dovesse provvedere sull’istanza di rimborso o provvedesse in modo negativo, al contribuente non rimarrebbe altra strada che l’impugnazione con i tempi, i costi e le difficoltà che può comportare un procedimento davanti alle commissioni tributarie. Oltre tutto la norma che disciplina il rimborso delle maggiori imposte pagate parla esplicitamente di rimborso per versamenti diretti effettuati dal contribuente. Questo significa che nel caso in cui la dichiarazione del contribuente riporti un minor credito, rettificando questa dichiarazione lui avrebbe la possibilità di ‘correggere il tiro ’ e quindi di dichiarare l’effettivo credito spettante e potrebbe quindi portarlo in avanti con la dichiarazione dell’anno successivo, quindi portarlo in compensazione. Però se al contribuente non si lascia altra strada che la presentazione di istanze di rimborso, nel caso di maggior credito spettante al contribuente non c’è stato nessun versamento iniziale.

Poniamo il caso che dalla dichiarazione del contribuente emerga un credito di 10, dopo 3 mesi dalla presentazione della dichiarazione il contribuente si accorge che il credito che gli spettava effettivamente era di 100 e non di 10. Se siamo entro l’anno l’amministrazione consente la rettificabilità della dichiarazione, per cui il contribuente presenterà una nuova dichiarazione in rettifica in cui evidenzierà il suo credito di 100, invece di 10, e lo porterà in avanti per gli anni successivi. Scaduto l’anno se il contribuente si accorge di questo suo maggior credito, l’amministrazione non gli consente più di presentare dichiarazione in rettifica, ma soltanto di presentare istanza di rimborso. Però trattandosi di un maggior credito (non di un minor debito d’imposta), lui non ha effettuato alcun versamento al momento in cui ha presentato la dichiarazione errata. Per cui a lui non sarebbe permesso di presentare alcuna istanza di rimborso, o meglio, anche presentando istanza di rimborso lui non avrebbe alcuna possibilità di recuperare il maggior credito.

Prendiamo l’esempio di un lavoratore autonomo. Il lavoratore autonomo può dedurre una serie di costi e al momento dell’incasso dei compensi subisce una ritenuta d’acconto. Se al termine dell’anno, tra costi deducibili e ritenute subite, rilevasse che quello che è già stato versato all’erario a mezzo delle ritenute è eccessivo rispetto al suo debito d’imposta, lui avrebbe un credito nei confronti dell’erario.

Consideriamo un lavoratore dipendente. Il lavoratore dipendente è anch’esso soggetto a ritenuta che è progressiva ed è calcolata sul reddito dell’anno precedente. Per cui se un lavoratore dipendente un anno prende di stipendio x e l’anno successivo prende la metà, lui comunque sarà soggetto a ritenute calcolate sul reddito maggiore, per cui si troverà nel secondo anno a prendere un reddito dimezzato e a subire ritenute maggiori di quello che sarà il suo effettivo debito d’imposta. Subirà ritenute per 30, mentre il suo debito d’imposta effettivo è di 20; in quell’anno lui va a credito. Questo credito emerge nella dichiarazione dei redditi e può essere chiesto rimborso immediatamente con la dichiarazione oppure essere portato avanti per la compensazione degli anni successivi.

Nel caso di emersione di un credito non vi è alcun versamento da parte del contribuente, la mancanza di versamento impedirebbe la scelta dell’istanza di rimborso. Ci si rende conto che in un’ipotesi del genere, dove risulta un maggior credito, l’amministrazione non consente più la rettifica della dichiarazione e non è possibile quindi nemmeno la via dell’istanza di rimborso, vi è una palese violazione dell’effettività della capacità contributiva. L’amministrazione tende a stringere i tempi per la rettifica a favore del contribuente. Tuttavia dottrina e giurisprudenza sono favorevoli a concedere al contribuente il termine maggiore, ovvero quello di 4 anni di cui al comma 8. In questo senso si sono pronunciate anche le Sezioni Unite della Cassazione che nel 2002 hanno affermato un principio generale di emendabilità della dichiarazione, entro ragionevoli termini temporali. Cosa si intende con l’espressione ragionevoli termini temporali?

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La Cassazione in quell’occasione ha parlato di rettificabilità a favore del contribuente nel caso in cui il rapporto non sia esaurito, cioè non dev’esserci stato un contenzioso concluso con sentenza passata in giudicato o non devono essere scaduti i termini per i controlli sulla dichiarazione. Da queste sentenze delle Sezioni Unite si potrebbe ricavare la possibilità per il contribuente di correggere errori che hanno determinato un maggior debito d’imposta o un minor credito entro i termini più ampi di cui al comma 8 e non al comma 8bis. Ricapitolando: Torniamo alla rettifica della dichiarazione. Abbiamo visto qual è l’interpretazione data dall’amministrazione in termini restrittivi, ovvero possibilità di rettifica pro contribuente solo nei tempi ristretti di cui al comma 8bis, ovvero scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo. Mentre termini per la rettifica pro fisco: quarto anno successivo a quello della presentazione della dichiarazione. Dottrina e parte della giurisprudenza sono favorevoli ad allargare i termini per la rettifica pro contribuente in nome del principio di capacità contributiva effettiva, nonché sulla base della teoria dichiarativa che vede l’obbligazione tributaria nascere esclusivamente ex lege, infine fondando tale interpretazione su quelli che sono i principi stabiliti ed affermati dallo Statuto dei diritti del contribuente. Lo Statuto infatti afferma i principi di buona fede, di correttezza e di collaborazione nei rapporti tra amministrazione e contribuente. E il rispetto di questi principi vorrebbe che se all’amministrazione sono concessi 4 o 5 anni per il controllo e l’accertamento della posizione del contribuente, identici termini siano riconosciuti al contribuente per l’adempimento e l’eventuale correzione di quello che è il suo obbligo di dichiarazione.

Recentemente anche l’amministrazione sembra avvicinarsi ad un’interpretazione più estensiva e quindi pro contribuente; infatti con la circolare 46 E del 2009 è stata ammessa possibilità di presentare dichiarazione integrativa per l’indicazione di spese con paesi black list nei termini di cui al comma 8, cioè nei quattro anni successivi alla presentazione della dichiarazione. Tuttavia per i restanti errori che determinino un maggior debito d’imposta o l’indicazione di un minor credito, l’amministrazione resta ferma affermando la specialità del comma 8bis rispetto al comma 8 e quindi restringendo i termini concessi al contribuente per rettificare la sua dichiarazione, e ammettendo esclusivamente, passato il termine di cui al comma 8bis, la presentazione di un’istanza di rimborso con i termini che abbiamo visto prima, e con un aggravio per il contribuente in termini di onere della prova e di eventuale avvio di un processo davanti alle commissioni tributarie. Ancora più recentemente la Cassazione (stavolta non a Sezioni Unite) ha ammesso la possibilità di rettificare la dichiarazione pro contribuente anche in sede di contenzioso con l’amministrazione, ovvero oltre i termini di legge. Questo perché richiamando il principio espresso nel 2002 di generale emendabilità della dichiarazione fino a che il rapporto non è esaurito, la Cassazione ha fatto un ragionamento di questo tipo: in caso di contenzioso il rapporto rimane aperto, non si esaurisce fino a che non si giunga a duna sentenza passata in giudicato. Se il contenzioso tiene aperto il rapporto anche oltre i termini stabiliti dal comma 8 o dal comma 8bis deve ritenersi rettificabile la dichiarazione pro contribuente anche oltre questi termini, purché non sia intervenuta una sentenza passata in giudicato. Si possono immaginare quali siano state le reazioni dell’amministrazione finanziaria di fronte ad una pronuncia del genere. Riassumendo: abbiamo le due posizioni contrapposte:

- amministrazione in termini restrittivi;

- dottrina e parte della giurisprudenza più garantista nei confronti del contribuente.

3.7 Caratteri dell’accertamento

(vedi infra) L’accertamento è una fase meramente eventuale del procedimento impositivo, in quanto questo nella maggior parte dei casi si conclude con la dichiarazione e la liquidazione da

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parte del contribuente e con l’effettuazione dei controlli automatici da parte dell’amministrazione nell’arco di un anno dalla presentazione della dichiarazione. Nei casi patologici l’amministrazione ha il potere di rettificare la dichiarazione oppure di accertare il reddito e quindi il debito d’imposta del contribuente in caso di omessa dichiarazione. Quello dell’amministrazione in queste ipotesi è un potere autoritativo: l’amministrazione accerta d’imperio quello che è il reddito del contribuente. È soggetto a limiti temporali (quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione o quinto anno in caso di omessa dichiarazione), ma è soggetto altresì ad altri limiti a garanzia del contribuente. Innanzitutto l’accertamento da parte dell’amministrazione dovrebbe avere un carattere di globalità. Questo per due ordini di ragioni:

- garantire l’efficienza dell’azione amministrativa, perché non si può permettere all’amm di

sprecare ricorse e tempo effettuando controlli frazionati sul reddito, sulla posizione soggettiva

di un soggetto nei confronti del fisco.

- garantire il contribuente contro una molteplicità di controlli e di avvisi di accertamento per

uno stesso fatto d’imposta. Onde evitare che il contribuente sia costretto per difendersi ad

impugnare ciascun avviso di accertamento e a sostenere spese per ciascun procedimento

davanti ai giudici tributari.

Il principio di globalità tuttavia subisce delle deroghe che nelle intenzioni del legislatore dovevano essere eccezionali, ma che un po’ alla volta stanno diventando la regola.

Una prima deroga è costituita dall’ accertamento parziale che dovrebbe essere limitato ai casi in cui l’amministrazione abbia prove certe e specifiche relative ad un fatto di evasione, per cui abbia in mano la prova più che certa di un reddito non dichiarato e della sua quantificazione. Questo perché nel caso in cui l’amministrazione si trovi in possesso di questi elementi, la determinazione del reddito, e quindi del maggior debito d’imposta è quasi automatica. Il legislatore ha quindi pensato di concedere in questo caso la possibilità di emettere un avviso di accertamento parziale senza che l’amministrazione debba svolgere un’attività istruttoria rilevante in merito a quell’elemento, a quei dati in suo possesso. In questo caso l’amministrazione potrebbe emettere un avviso di accertamento parziale senza pregiudizio per l’ulteriore attività di accertamento sul medesimo periodo o fatto d’imposta.

Una seconda deroga è costituita dagli accertamenti integrativi che possono verificarsi nel caso in cui, notificato un avviso di accertamento e quindi conclusa una fase di accertamento per un determinato periodo d’imposta, l’amministrazione venga in possesso di nuovi elementi che permettano di rettificare in aumento il quantum dovuto dal contribuente.

Anche questa possibilità è soggetta a requisiti specifici:

- rispetto dei termini per l’esercizio della potestà di accertamento, quindi 4 o 5 anni;

- emersione, e quindi conoscenza successiva di nuovi elementi;

- indicazione nella motivazione di questi nuovi elementi e delle circostanze che ne hanno

permesso la conoscenza successiva.

Dalla disciplina dell’accertamento integrativo possiamo ricavare un generale onere imposto all’amministrazione di valutare attentamente tutti i dati in suo possesso perché non deve essere ammessa una successiva integrazione dei controlli e degli accertamenti che trovi fondamento esclusivamente in una rivalutazione, reinterpretazione, o in un controllo/analisi più approfondito di quelli che erano i dati già in suo possesso.

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Anche sul concetto di conoscibilità e conoscenza dovrebbero essere fatte delle specificazioni. Secondo la giurisprudenza i nuovi elementi che giustificano l’accertamento integrativo devono essere elementi che assolutamente non erano né conosciuti né conoscibili da parte dell’amministrazione al momento dell’emissione dell’avviso di accertamento. Tuttavia sia giurisprudenza che dottrina hanno ammesso la possibilità di accertamento integrativo nel caso di elementi già in possesso dell’amministrazione ma non conoscibili da parte sua entro il periodo in cui è stato notificato il primo avviso di accertamento. Tutto dipende dall’adozione di un punto di vista oggettivo o soggettivo relativamente al concetto di novità degli elementi.

Una terza deroga alla globalità dell’accertamento possiamo trovarla nell’istituto dell’autotutela, ovvero potere concesso all’amministrazione (in generale alla PA, e nel nostro caso all’amministrazione finanziaria) di rivalutare i propri atti e i propri provvedimenti laddove vi sia un interesse pubblico a tale rivalutazione. In generale non si pongono problemi nel caso di autotutela favorevole al contribuente. Per cui se l’amministrazione ha emesso un avviso di accertamento, un avviso di liquidazione palesemente infondato o errato, l’amministrazione ex ufficio o su istanza del contribuente può riesaminare quel provvedimento ed eventualmente annullarlo d’ufficio; proprio perché interesse pubblico superiore è quello all’efficienza e alla correttezza dell’azione dell’amministrazione, che ritroviamo anche all’art.97 Costituzione. Tuttavia in alcuni casi l’amministrazione agisce in autotutela contro il contribuente e spesso lo fa per aggirare i limiti fissati per gli accertamenti integrativi. Infatti l’amministrazione invece di tenere fermo il primo avviso di accertamento e integrarlo aggiungendo il quantum determinato successivamente, procede all’annullamento del primo avviso di accertamento e all’emissione di un nuovo avviso. In questi casi sono aggirati i requisiti dell’accertamento integrativo e si pongono problemi in ordine al rispetto del principio di affidamento del contribuente, di globalità della potestà di accertamento dell’amministrazione, di corretta e buona fede nei rapporti tra amministrazione e contribuente. La giurisprudenza in ogni caso ha più volte affermato l’illegittimità dell’esercizio contro il contribuente dell’autotutela, proprio perché ha ravvisato in questo esercizio un aggiramento di tutti quelli che sono i limiti posti all’azione amministrativa. Mentre per quanto riguarda l’autotutela pro contribuente le maglie sono molto più grandi.

3.7.1 La motivazione.

Abbiamo visto il carattere di globalità dell’azione di accertamento dell’amministrazione. Altri requisiti che devono essere rispettati riguardano la motivazione. I controlli automatici non sono soggetti all’obbligo di motivazione, nel senso che l’avviso bonario notificato al contribuente non deve essere assolutamente motivato. Mentre i controlli formali ex art.36ter devono essere succintamente motivati per permettere una minima difesa al contribuente. I provvedimenti emanati a seguito di controlli sostanziali devono essere motivati con una motivazione esaustiva nella quale l’amministrazione deve dare conto dell’iter istruttorio seguito e dell’iter che ha portato alla determinazione del quantum accertato sulla base delle prove raccolte.

La motivazione riveste un’importanza fondamentale a difesa del contribuente, è solo ed esclusivamente dalla motivazione che il contribuente può e deve capire le ragioni per cui l’amministrazione ha rettificato la sua dichiarazione e quale percorso ha seguito per la rettifica della sua dichiarazione. È sulla base della motivazione dell’avviso di accertamento che il contribuente può predisporre la sua difesa in sede di contenzioso, ma anche in sede di contraddittorio con l’amministrazione qualora venga scelta prima la strada del contraddittorio.

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Se la motivazione è carente vi sarà un vizio dell’avviso di accertamento, che in base all’art. 7 dello Statuto del contribuente deve essere motivato. In alcuni casi l’amministrazione, procedendo ad accertamento sulla base di indagini effettuate da altri organi, ovvero dalla guardia di finanza, si limita nella motivazione dell’avviso di accertamento a richiamare atti esterni. Ed è questo il problema della motivazione per relationem. Motivazione per relationem che crea problemi al contribuente qualora questo sia costretto ad andare a recuperare altrove i documenti dichiarati. In dottrina e giurisprudenza le soluzioni offerte per ammettere la motivazione per relationem sono due e diverse:

- vi è chi la ammette a condizione che l’avviso di accertamento porti allegati tutti i documenti

richiamati nella loro integralità. Per cui se l’avviso di accertamento richiama un processo

verbale di constatazione della guardia di finanza, questo dev’essere allegato all’avviso di

accertamento;

- altra teoria è quella che ammette la motivazione per relationem a condizione che il richiamo

effettuato nella motivazione porti anche un riassunto degli atti richiamati.

Strada non ammissibile secondo avv.Poli: l’amministrazione richiama dei documenti e sempre a lei viene affidato il compito di riassumerli (il riassunto sarebbe di parte).

(19/3/2012)

3.8 Il controllo della dichiarazione

Le dichiarazioni sono il cuore del rapporto tributario; dopo la riforma degli anni 70, si è spostato sul contribuente l’onere, o meglio, l’obbligo dell’autotassazione: è il contribuente che determina la propria capacità contributiva e la comunica all’amministrazione attraverso lo strumento dichiarativo. Si consideri che dichiarazioni o denunce ci sono in tutti i tributi; però per ragioni di metodo e legate alla centralità dell’imposizione diretta, prendiamo come disciplina di riferimento quella delle dichiarazioni delle imposte dirette: il nostro modello di riferimento sarà, quindi, l’imposta sul reddito e i controlli sulle dichiarazioni reddituali; ma le regole sono dettate anche in altri tributi, come per es. l’IVA, l’imposta di registro, l’ICI (futura IMU) per cui si riscontra una sovrapponibilità tra le regole delle imposte dirette e le altre imposte: anche qui esistono regole sul controllo della dichiarazione che variano, ma la struttura è omogenea, confrontabile.

Il nostro sistema di riferimento è l’imposizione sul reddito e il controllo sulle imposte sul reddito.

Il nostro punto di partenza è il Decreto 600/1973.

Quando parliamo di poteri di controllo dobbiamo partire dalla considerazione del ruolo e della funzione del meccanismo di autotassazione. Dagli anni 70 il contribuente svolge un ruolo da protagonista nel rapporto tributario:è lui che comunica la sua capacità contributiva e che liquida le imposte, non l’amministrazione, ma il contribuente. Dichiarare vuol dire rappresentare qual è sua capacità contributiva, liquidare significa quantificare l’imposta e, inoltre, il contribuente è chiamato anche al versamento; quindi tutta questa fase, dichiarazione, liquidazione, versamento, grava sul contribuente. Intuiamo che l’aver affidato l’intera gestione degli obblighi dichiarativi e di versamento al contribuente implica una notevole responsabilizzazione del contribuente, ma richiede, altresì, un rigoroso controllo per assicurarsi che il contribuente osservi le norme tributarie: bisogna che ci sia qualcuno che controlli l’assolvimento di quest’obbligo dichiarativo. Quindi i controlli intervengono in un secondo momento, ma si tratta di poteri essenziali per assicurare il corretto adempimento, per la cosiddetta funzione generale preventiva delle misure che assicurano l’adempimento dell’obbligo tributario.

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Qual è la disciplina base dei controlli e come sono strutturati?

Dobbiamo distinguere due tipologie di controllo:

1. controlli formali

2. controlli sostanziali

3.8.1 I controlli formali.

Sono poteri di controllo che servono ad attestare se la dichiarazione presentata è corretta per

quanto riguarda gli elementi da essa desumibili. Cioè si parla di controlli formali quando si guarda la correttezza estrinseca della dichiarazione: si vuole, cioè, vedere se i dati sono compilati in maniera corretta, cioè se sono rispettate le forme della dichiarazione e se sono corretti i dati indicati, o meglio, gli elementi materiali e di calcolo indicati nella dichiarazione.

Come sono effettuati i controlli? Sono automatizzati, riguardano tutte le dichiarazioni dei redditi presentate e vengono fatte tramite strumenti informatici, cioè programmi che l’amministrazione utilizza per controllare la correttezza estrinseca della dichiarazione.

Quando si parla di controlli formali, si parla di controlli automatizzati che permettono di verificare se nella dichiarazione ci sono errori materiali o di calcolo e se sono presentate le regole di contenuto della dichiarazione�questi di cui stiamo parlando sono i controlli generali, automatizzati dell’art 36-bis del d.P.R 600/1973

All’esito del controllo formale, solitamente, l’amministrazione manda una lettera al contribuente (avviso bonario) dopo aver effettuato il controllo con cui comunica il mancato riscontro di irregolarità.

3.8.2 Controlli sostanziali sulla veridicità delle dichiarazioni.

Accanto ai controlli formali ci devono esser i controlli sostanziali perché occorre verificare che il

contenuto della dichiarazione corrisponda al vero. Ecco la differenza tra controlli formali e controlli sostanziali: il controllo formale automatizzato riguarda la regolarità formale della dichiarazione, ovvero controlla che vi sia una estrinseca validità della dichiarazione. Ma non è detto che quello che è scritto sia sostanzialmente vero! Al controllo della verità del contenuto della dichiarazione sono funzionali i controlli sostanziali, servono a controllare la veridicità della

dichiarazione. Quindi il controllo della dichiarazione, quando è sostanziale, è molto più penetrante e impegnativo perché non è automatizzato, ma deve esser calato sulla situazione particolare del contribuente e per questo non si tratta di controlli generalizzati perché l’amministrazione deve destinare particolari capacità operative a questi controlli. Si tratta, quindi, di controlli selettivi (e non generalizzati come, invece, lo sono i controlli formali) .

Art. 37 - (Controllo delle dichiarazioni)

Gli uffici delle imposte procedono, sulla base di criteri selettivi fissati annualmente dal

Ministro delle finanze [2] tenendo anche conto delle loro capacità operative, al controllo

delle dichiarazioni e alla individuazione dei soggetti che ne hanno omesso la presentazione

sulla scorta dei dati e delle notizie acquisiti ai sensi dei precedenti articoli e attraverso le

dichiarazioni previste negli artt. 6 e 7, di quelli raccolti e comunicati dall'anagrafe tributaria

e delle informazioni di cui siano comunque in possesso [3] . In base ai risultati dei controlli e

delle ricerche effettuati gli uffici delle imposte provvedono, osservando le disposizioni dei

successivi articoli, agli accertamenti in rettifica delle dichiarazioni presentate e agli

accertamenti d'ufficio nei confronti dei soggetti che hanno omesso la dichiarazione.

Questo articolo si occupa di controlli di tipo selettivo per verificare se il contribuente ha dichiarato e se ha dichiarato il vero.

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3.8.3 Controlli sostanziali documentali.

Nell’ambito dei controlli sostanziali vanno inseriti i controlli disciplinati dall’art 36-ter. Anche questi si chiamano controlli formali (vedremo poi come possono esser diversamente rinominati per facilitare la distinzione rispetto alle altre due tipologie di controllo, formale e sostanziale), ma questo controllo formale del 36-ter è un controllo sui documenti allegati alla dichiarazione dei

redditi: mette a confronto la dichiarazione e i documenti di supporto; questa documentazione di supporto non viene inviata all’amministrazione, ma il modello della dichiarazione si fonda proprio su una serie di documenti. La corrispondenza tra questi e la dichiarazione è, quindi, oggetto del controllo dell’art 36 ter e mira a verificare se i documenti che il soggetto ha corrispondono al vero. In questo caso c’è un problema di fedeltà al vero, ma non è un problema materiale, ma di contenuti. Quindi questi controlli sono pur sempre sostanziali.

Anche questi sono controlli selettivi per verificare la coerenza del dichiarato con i documenti di supporto.

La fattispecie dell’articolo in esame si riferisce al caso che il contribuente abbia subito delle ritenute e il contribuente le abbia dedotte, ma queste non sono spettanti, non sono mai state fatte in realtà e quindi la dichiarazione non è vera; oppure escludere detrazioni d’imposta non spettanti in base ai documenti. La dichiarazione è corretta formalmente, ma quel dato dichiarato non trova riscontro nei documenti. Quindi il controllo dell’art. 36-ter serve a verificare la correttezza della dichiarazione sulla base dei documenti di supporto. Si tratta di un controllo di tipo sostanziale.

Ricapitolando, questi sono i tipi di controllo:

• Controlli formali: art. 36-bis�per verificare la correttezza estrinseca della dichiarazione

• Controlli sostanziali: comprendono sia i controlli ex art. 36-ter che possiamo chiamare controlli documentali e quelli ex art. 37 che possono esser definiti controlli sostanziali sulla veridicità della dichiarazione. Quindi anche il 36-ter appartiene a questa area.

• I controlli sostanziali in senso proprio: art 36 d.P.R 600/1973

I controlli sostanziali si estrinsecano in metodi di controllo, che sono diversi a seconda del soggetto controllato e sono regolati dagli artt. 38 e 39 del decreto.

3.9 La selezione dei contribuenti.

Cosa si intende per controlli sostanziali e come va gestita la fase di selezione dei contribuenti da controllare?

La selettività dei controlli deriva dalla loro maggior complessità, perché si tratta di controllare la veridicità della dichiarazione e questo è complesso perché devi verificare se il contribuente ha mentito nella sua dichiarazione dei redditi. È un problema in dichiarazione: bisogna verificare se il contribuente ha evaso. È un controllo complesso e richiede la sussistenza di poteri muniti di adeguati strumenti per potere essere esercitati con efficacia� richiede l’impiego di capacità operativa da parte degli uffici. Non può esser un controllo generalizzato, ma deve esser selettivo e per questo vi sono pesanti sanzioni amministrative perché altrimenti non opererebbe la cosiddetta funzione generale preventiva dei controlli.

Questi controlli vanno fatti sulla base di criteri selettivi in base ai quali scegliere chi controllare. Sull’aspetto della selezione dei contribuenti si annidano i problemi dell’area tributaria:sulla base di quali logiche si individuano i soggetti nei confronti dei quali concentrare il controllo? È una fase delicata perché comporta una soppressione della sfera di libertà del soggetto.

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Come viene effettuata? Sulla base di criteri fissati annualmente dal ministero delle finanze; questi, però si trovano pubblicati fino al 1995; annualmente erano approvati con un decreto da parte del Ministero delle finanze questi decreti erano pubblicati in Gazzetta Ufficiale. Erano decreti complessi, però avevano regole specifiche per la selezione dei contribuenti. Disciplinavano la capacità operativa degli uffici, dal punto di vista organizzativo, individuavano i compiti delle singole amministrazioni. Stabilivano regole sulle annualità controllabili; si controllavano anche i due anni precedenti perché si ampliava la platea dei soggetti controllati, si prevedevano aree di rischio fiscale, cioè categorie economiche che in base a dati statistici rilevavano pericolo di evasione. Stabilivano regole relative alla durata delle verifiche, solitamente 30 gg lavorativi, perché una durata più elevata avrebbe comportato un impiego di una capacità operativa eccessiva. Si facevano i controlli a sorteggio. I criteri quindi erano compositi e questo era coordinato con una serie di regole che riguardavano la durata delle verifiche e queste regole dal 1995 spariscono. Il legislatore viene meno a questa affermazione per cui i criteri selettivi devono essere fissati annualmente dal Ministero delle finanze.

3.9.1 L’ evoluzione dopo il 1995.

Come avviene la selezione dei contribuenti dal 1995 in poi?

Attraverso una istruzione interna, che possiamo chiamare circolare, con cui il Ministero delle finanze organizza, imprime gli indirizzi operativi all’Agenzia delle entrate per ogni anno di imposta: si tratta di una circolare annuale monumentale, lunghissima.

Quali sono le ragioni di questa evoluzione?

Il merito (o demerito) di questa evoluzione sono gli avvocati, i difensori dei contribuenti�le cose cambiano partendo da quello che succede nei tribunali.

Intorno alla metà degli anni 90 un avvocato di Padova si era accorto di questi decreti ministeriali che pochi consideravano nelle difese di contribuenti. Queste sono pubblicate in GU, contengono norme generali perché riguardano la pianificazione dell’attività di controllo nei confronti della generalità dei contribuenti e, allora, possono essere considerati fonti secondarie, regolamenti. Siccome sono dei regolamenti l’amministrazione è tenuta ad osservarli; se li viola, la sua azione diventa illegittima per violazione di legge. Accadeva frequentemente nell’attività di controllo che questi decreti ministeriali non fossero osservati dall’amministrazione perché, per es., faceva durare la verifica più dei 30 giorni previsti, oppure faceva controlli per 4 anni anziché per 2 o non teneva conto dei relativi indici di pericolosità fiscale. La violazione dei criteri selettivi allora è violazione di legge e la Commissione di primo grado di Treviso ha annullato gli avvisi di accertamento che erano stati adottati in violazione di criteri selettivi. La Commissione regionale di Venezia ha confermato l’invalidità dei provvedimenti e hanno cominciato a fiorire altre sentenze in altre parti d’Italia�si è creato un indirizzo giurisprudenziale omogeneo, che riteneva i criteri selettivi come dei regolamenti.

Per sottrarsi a questo vincolo, il Ministero non li ha più approvati; ha ritenuto possibile di adottare una circolare per far la stessa cosa con un meccanismo di dequotazione della pianificazione per sottrarsi a quella giurisprudenza (tesi di Trivellin) perché la tempistica è singolare da questo punto di vista. Infatti l’ultimo decreto è proprio della metà degli anni 90: è evidente che c’è stata la volontà di aggirare questo tipo di giurisprudenza.

Non è che sono venute meno le possibili prospettive di difesa nei confronti dell’amministrazione finanziaria; oggi queste prospettive sarebbero più impegnative perché è cambiata la struttura di questi decreti; danno indicazioni più ampie degli obiettivi generali; se l’amministrazione lascia inosservata questa disciplina si tratterebbe di un’inosservanza di disciplina interna, che potrebbe

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prospettare un vizio di eccesso di potere e non è da escludersi che se il contribuente riscontra la violazione di uno di questi criteri, possa valorizzare il vizio come eccesso di potere.

La disciplina attuale di pianificazione non risponde agli obiettivi dell’art 37 d.P.R :questo voleva un sistema trasparente in cui la fase di scelta dei contribuenti da sottoporre al controllo, fosse trasparente e conoscibile perché si presta ad abusi, in quanto lo strumento della selezione può diventare indebita pressione per conseguire indebiti risultati; se non c’è trasparenza nella selezione, siccome determina effetti importanti nella sfera del soggetto, vi è il rischio di un possibile abuso. Si trattava di una disciplina di completamento dei poteri, l’art 37 era la norma cardine; dunque il meccanismo era a più livelli. L’idea che ha avuto il Ministero di abbandonare la pianificazione dei decreti non era in linea con gli obiettivi di trasparenza, invece dovrebbe essere il più possibile trasparente in linea con la funzione preventiva generale.

(20/3/2012) In sintesi: i controlli sono divisi in due grandi categorie, quelli formali (art. 36-bis) e quelli sostanziali nei quali abbiamo collocato quelli degli art. 36-ter e 37ss. Precisando che i controlli di cui all’ art. 36-ter hanno un duplice carattere, sono selettivi e documentali. Sono documentali nel senso che hanno la finalità, di verificare la correttezza della dichiarazione alla luce dei documenti di supporto alla dichiarazione. Abbiamo visto i controlli diretti ad accertare la veridicità della dichiarazione, a vedere se sussistono fatti di evasione, sono regolati dall' art. 37 ss. Il quale stabilisce il criterio di selettività dei controlli.

3.10 I metodi di controllo sostanziale

Ora affrontiamo uno dei temi più importanti della parte procedimentale, i metodi di controllo

sostanziale.

La parte dei controlli si compone di due capitoli, il primo riguarda il metodo, il secondo riguarda i poteri con cui l’ amministrazione svolge i suoi controlli. Questi sono i due capitoli sul procedimento. I metodi e i poteri.

Nello schema generale del controllo abbiamo i controlli formali, sono automatizzati. I controlli sostanziali del 36-ter, che sono documentali, poi ci sono i controlli sostanziali sulla veridicità dei documenti, e questi sono svolti sulla base di determinati metodi, di cui oggi parliamo. Il riferimento normativo sono due l' art. 38 D. 600/73 e art. 39 D. cit. Facciamo sempre riferimento alla disciplina delle imposte dirette. Disciplina analoga anche agli effetti dell’ IVA. Come sono strutturate le disposizioni?

3.11 Inquadramento generale.

Entrambe sono strutturate secondo un modello in cui individuiamo due distinte tipologie di metodo. Uno di tipo analitico, un metodo di tipo presuntivo. E' una distinzione che troviamo in entrambi gli articoli. Tuttavia artt. 38 e 39 hanno ambiti di applicazione differenziati.

Art. 38 riguarda l' accertamento nei confronti delle persone fisiche.

Art. 39 riguarda il controllo nei confronti dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili. Ovvero gli imprenditori e i professionisti.

Precisiamo meglio: art. 38 riguarda le persone fisiche, ma se il controllo riguarda il reddito di lavoro autonomo o d’ impresa di una persona fisica il metodo è quello dell' art. 39. I metodi di cui art. 39 riguardano pure società ed enti commerciali.

Quindi abbiamo un elemento di omogeneità dato dal fatto che in entrambi i casi troviamo metodo analitico e presuntivo, però la differenza riguarda i soggetti destinatari della disciplina.

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3.12 Metodi di art. 38

3.12.1 Metodo analitico.

Nell’ ambito di questo troviamo la distinzione tra accertamento analitico e presuntivo. L' accertamento di tipo analitico mira alla ricostruzione, determinazione del reddito della persona fisica essenzialmente sulla base di prove dirette, tende alla ricostruzione del reddito considerando le singole categorie reddituali che compongono la ricchezza del soggetto.

I redditi di categoria costituiscono le tipologie di reddito sottoposte a tassazione e sono: 1) redditi di lavoro indipendente, 2) autonomo, 3) di capitale, 4) d' impresa, 5) fondiari e 6) redditi diversi. Quando l' accertamento tende alla ricostruzione del reddito d’ impresa o di lavoro autonomo il metodo e' quello di art 39.

Quali sono le prove dirette? Lo dice art. 38 comma 2.

L'incompletezza, la falsità e l'inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione, salvo quanto

stabilito nell'art. 39, possono essere desunte dalla dichiarazione stessa, dal confronto con le

dichiarazioni relative ad anni precedenti e dai dati e dalle notizie di cui all'articolo

precedente anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e

concordanti . (…)

Dice che la infedeltà dichiarativa si desume dal confronto tra dichiarazione presentata dal contribuente e le dichiarazioni degli anni precedenti. Si desume da tutti i dati e le notizie che l' amministrazione abbia raccolto nell' esercizio dell' attività d' indagine nei confronti del soggetto passivo.

All’ esito dell’ indagine le prove dirette sono poste alla base per la ricostruzione del reddito del contribuente.

Per esempio supponiamo che un soggetto abbia dato in affitto un appartamento in nero e consegua un reddito che corrisponde al canone di locazione che non è dichiarato. Può darsi che l’ amministrazione, in collaborazione con il comune venga a conoscenza che l' appartamento è occupato da un inquilino. L' amministrazione allora acquisisce prove dirette di fatti di evasione. Oppure pensiamo che un contribuente concede un mutuo, e che queste somme producono un interesse tassabile, ma il soggetto non lo dichiari. Supponiamo che l' amministrazione venga a conoscenza del contratto non registrato che reca la previsione del prestito e dell’ interesse, allora acquisisce una prova diretta di fatti di evasione.

3.12.1.1 L’ utilizzo di presunzioni nel metodo analitico

Nell' ambito di questo metodo analitico è possibile che l' amministrazione si avvalga di presunzioni, però qui hanno un ruolo servente, residuale rispetto alla ricostruzione analitica. E comunque devono essere qualificate, dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Elementi essenziali di questo metodo. Il metodo analitico serve per la ricostruzione del reddito della persona fisica, viene effettuato al fine di individuare i redditi di categoria del soggetto. La ricostruzione analitica avviene su base di prove dirette che derivano dal confronto della dichiarazione con dichiarazioni precedenti, vuoi da qualsiasi dato o notizia che l’ amministrazione abbia acquisito nelle indagini. Nell' ambito della dichiarazione è possibile avvalersi anche di prove presuntive, però sono presunzioni qualificate, gravi precise e concordanti. Così come previste dal codice civile.

3.12.2 Metodo sintetico.

Il secondo metodo di accertamento del reddito della persona fisica è il metodo sintetico, è integralmente presuntivo. Questo metodo di accertamento sintetico si applica a tutti i contribuenti persone fisiche qualsiasi siano i redditi ad essi riferibili. L' analitico dei primi due commi di art. 38 riguarda la ricostruzione dei redditi per categoria, se sono imprenditore o professionista obbligato alla tenuta delle scritture contabili secondo il codice civile mi controllano

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sulla base di 39. Il metodo sintetico dei commi 3 e seguenti di art. 38 riguarda tutti i contribuenti persone fisiche e serve a ricostruire in maniera sintetica e globale il reddito del soggetto.

Come avviene la ricostruzione? Sulla base di presunzioni. Presunzione basata sulla spesa. Parliamo del metodo di accertamento del tenore di vita che è basato su una presunzione, data dalla spesa. Si parte dal dato spesa, dalla spesa l' amministrazione ritrae, considerando il tenore di vita, il reddito del soggetto. Il fatto certo è la spesa, il fatto ignoto collegato dal nesso inferenziale al noto è il reddito.

Questo metodo basato sul tenore di vita è stato oggetto di rilevantissime modifiche nel corso del 2010 con lo scopo di rilanciare questa tipologia di controllo. A partire dalla logica che attraverso le banche dati dell' amministrazione si vedono agevolmente le intestazioni dei soggetti, ora con il controllo dei conti, anche i saldi nelle loro disponibilità. Attraverso il controllo delle dichiarazioni è possibile monitorare la situazione reddituale. L' amministrazione riesce ad incrociare i dati patrimoniali con quelli reddituali. Poi questo tipo di accertamenti si presta ad un controllo di tipo

osservazionale, cioè un monitoraggio del territorio con la collaborazione dei comuni consente agevolmente di individuare situazioni in cui vi sia incoerenza tra i dati dichiarati e le disponibilità patrimoniali.

Ad esempio Cortina. Poi sono andati al festival di San Remo. Servivano a dire ai contribuenti guardate che l’ amministrazione c’ è, vigila. I soggetti erano fermati, nel caso specifico, si verificava l’ intestazione dell’ auto di lusso, si risaliva al proprietario, poi si guardava se c' era coerenza tra il reddito dichiarato e il bene patrimoniale ( l’ auto di lusso). Se c’ era disomogeneità si innestava su questo il controllo sul soggetto. Il controllo è uno dei più penetranti perché può partire dall’ incrocio tra dati patrimoniali e reddituali, poi c’ è il controllo sul territorio, i controlli osservazionali.

Il punto di partenza è la spesa. Fino al 2010 gli indici di spesa che l' amministrazione poteva utilizzare erano molto limitati. Si trattava di elementi di spesa che costituivano l' indice, la spia ai fini della ricostruzione del reddito, però si trattava di spese di particolare evidenza ricostruttiva, erano spese che di per se indicavano rilevanti redditi (c’ erano le abitazioni, seconda casa, al mare in montagna; c’ erano le autovetture, collaboratori familiari; cavalli da corsa; imbarcazioni). Si trattava di spese altamente indicative di capacità contributiva. Il metodo sintetico era pensato per colpire o controllare le situazioni di più manifesta evidenza di un tenore di vita particolarmente elevato. Il redditometro, fino al 2010, serviva per controllare quelli che facevano una vita da ricco.

Con la riforma del 2010 il legislatore muta prospettiva, e fa del sintetico un metodo di monitoraggio puntuale delle principali spese del contribuente, quali esse siano. Non è più una ricostruzione in cui emergono logiche di controllo di soggetti ricchi, ma diventa una ricostruzione che permette di identificare il reddito del soggetto attraverso le sue spese.

Elencazione delle spese che lo strumento del 2010 individua. Per l' abitazione, si considerano i costi principali (non solo le abitazioni secondarie), i costi per i mutui, ristrutturazioni, i costi per gli elettrodomestici, telefonia mobile, apparecchi elettronici. Imbarcazione, autovettura, motociclette, caravan, aeromobili. Anche le assicurazioni sono considerate, RC auto, sulla vita, incendio e furto, malattie e infortuni. La previdenza complementare, l' istruzione (asilo, eventuali corsi di lingua, corsi universitari, master), attività sportive, la cura della persona, spese veterinarie, gioielli, donazioni. Investimenti, fondi comuni, valute estere. Non si tratta più di un metodo di accertamento che serve a dimostrare incoerenze marcate tra dichiarazioni e reddito. Qui si tratta di ricostruire il reddito in relazione alla spesa.

Il risultato difficilmente si discosta dalla disponibilità economica che un soggetto ha in un determinato periodo. Il soggetto poi può fornire prova contraria. Tutti questi elementi ‘piccoli’, portano ad un risultato in termini reddituali, dalla spesa al reddito. Questo meccanismo ricostruttivo prende il nome di redditometro. Il nuovo redditometro si riferisce a questa evoluzione normativa.

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3.12.2.1 Come avviene la ricostruzione.

Dal punto di vista della tecnica di costruzione del redditometro, collega un determinato reddito ad una determinata spesa, attraverso indici moltiplicatori, in alcuni casi pari ad 1 quindi con nessun effetto moltiplicatore. La risultante in termini reddituali è frutto dell' applicazione al dato spesa degli indici contenuti nello strumento redditometrico. Si collega ad una spesa un reddito attraverso indici che rappresentano l’ espletazione del nesso inferenziale, cioè dell’ id quod

plerumque accidit. Lo strumento consente un automatismo nella ricostruzione del reddito. All’ amministrazione basta la prova della spesa per identificare il reddito, perché lo strumento che opera il collegamento è il redditometro. L' amministrazione non è costretta a provare il reddito in dipendenza di una certa spesa. Si potrebbe discutere della trasparenza di questo meccanismo. C' è dunque un collegamento tra spesa e reddito.

3.12.2.2 Spese di investimento e spese di consumo.

Qualsiasi spesa ha una sua intrinseca doppia natura. Spesa per l’ investimento e spesa per il mantenimento. Se acquisiamo una casa, una macchina, sosteniamo una spesa, per l' investimento poi per il mantenimento. Non sono la stessa cosa. Nell' investimento un soggetto può fare delle valutazioni anche di conservazione del patrimonio, con una logica di lungo periodo, mentre le scelte di mantenimento sono fatte con una logica di breve periodo. Allora distinguiamo le spese di investimento da quelle di consumo.

Prima del 2010 la distinzione era chiarissima nel sistema, il redditometro riguardava le spese di mantenimento, le spese di investimento avevano un’ altro regime. si riteneva che un soggetto quando fa un investimento lo fa perché ha accumulato ricchezza. Nel vecchio redditometro l’ investimento è indice di ricchezza accumulata. Fino al 2010 l' investimento si considerava fatto con i redditi accumulati nell' anno e nei 4 precedenti.

La casa è costata 500 mila euro. Di pertinenza dell’ anno sono 100 mila euro, 400 mila sono di pertinenza dei 4 anni precedenti. Quindi se mi controllavano in relazione all’ anno dovevo dimostrare una capacità contributiva di 100.

Nel 2010 il legislatore ha spazzato via la distinzione. L' investimento è considerato come formato con i redditi accumulati nell' anno.

Se acquisti un appartamento di 500 mila euro per il fisco devi dimostrare una capacità di 500 mila. Non puoi più distribuire i costi.

C’ è la prova contraria. Viene meno la ripartizione negli anni di formazione del reddito. Anche i beni di investimento sono giocati tutti nell’ anno in termini di ricostruzione.

In sintesi. Dalla spesa collego un reddito. Le spese sono state generalizzate. Il meccanismo che consente pervenire dalla spesa al reddito è il redditometro, che funziona analizzando le spese di manutenzione e collegando attraverso dei moltiplicatori un certo reddito. Non esiste più la distinzione tra spese di consumo e di investimento. Qualsiasi investimento viene considerato come sostenuto nell' anno.

Questa evoluzione normativa è stata proprio fatta con una logica di rendere la prova contraria più gravosa per il contribuente. Se non la fornisce è sottoposto ad una ricostruzione reddituale più pesante. Secondo l’ id quod plerumque accidit l’ acquisto di beni si fa con redditi accumulati. Quindi non solo la prova contraria è più ardua, ma si incrina anche la logica presuntiva del metodo.

3.12.2.3 Le franchigie.

Questa del redditometro è una presunzione, deve avere un fondamento nella logica. Prima del 2010 il legislatore prevedeva dei meccanismi ulteriori di contenimento della presunzione. Erano le c.d. franchigie. Si poteva utilizzare il metodo sintetico in presenza di franchigie.

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1) Bisognava che tra il reddito dichiarato e il reddito che poteva essere ricostruito sulla base della spesa doveva esserci uno scostamento di almeno un quarto.

Se un soggetto dichiara 100, per poter usare il metodo sintetico, dal calcolo della spesa doveva risultare possibile attribuire un reddito di 125. Un quarto in più. Se dalla spesa risulta 110, non è possibile utilizzare il metodo.

La ricostruzione doveva portare ad un reddito più elevato di quello dichiarato di almeno una quarto. Solo allora potevo usare il metodo sintetico. Qual' era il senso di questa franchigia? Dei propri redditi ciascuno può fare quello che vuole, può essere che qualcuno destini alla spesa risorse superiori a quelle che effettivamente può concedersi (è una cicala piuttosto che una formica).

2) Questo scostamento di un quarto doveva ripetersi per almeno due anni, non necessariamente consecutivi.

Quindi il metodo sintetico aveva molte garanzie perché era legato a beni di particolare incidenza dimostrativa di ricchezza, poi aveva limiti di applicazione che erano le franchigie.

Anche queste franchigie quasi tutte sono state spazzate via. Eliminati i due anni, il riferimento a due periodi d’ imposta, e la franchigia di un quarto è stata ridotta ad un quinto. Questo nuovo meccanismo così come congegnato spaventa molto chi ha da nascondere. Per questo si è assistito ad una nettissima contrazione del consumo, perché questa tipo già di spese finiscono per essere automaticamente utilizzabili nella ricostruzione del reddito. Determina un effetto di contrazione di quella tipologia di consumi, perché vengono monitorate quando una volta non lo erano. Quindi quello che va evidenziato è un profondo mutamento della logica del metodo. Una volta si controllavano i ricchi, adesso il monitoraggio è capillare e parte dal controllo del tenore di vita.

3.12.2.4 La prova contraria.

Quando abbiamo parlato di presunzioni, qualsiasi meccanismo che funziona sulla base di presunzioni deve assicurare la prova contraria. Anche questo tipo di metodo sintetico permette la prova contraria, il legislatore al comma 3 art. 38 le elenca.

Salva la prova che le spese sono state sostenute con rediti esenti (non tassati), con redditi

già tassati mediante ritenuta (hanno già scontato l’ imposta), o comunque con redditi già

esclusi dalla base imponibile.

L' elencazione è puramente esemplificativa, il soggetto può dimostrare con qualsiasi mezzo che le somme che gli vengono attribuiti non provengono dalla sua capacità contributiva. La prova è assolutamente libera. Un importante elemento considerato dal redditometro è la situazione familiare. Il vecchio redditometro non prevedeva correttivi su base familiare, adesso sono previsti correttivi che considerano la situazione complessiva della famiglia. Tra le prove contrarie il soggetto può dimostrare che le risorse con cui ha effettato un investimento (acquisto dell’ appartamento) provengono dalla famiglia.

Quella che crea qualche problema è il tema dell' accumulo. Provare la capacità di risparmio negli ultimi anni, per esempio ultimi 10 anni non è così semplice. Molti contribuenti non conservano traccia della propria documentazione, e anche le banche dopo qualche anno si disfano degli stessi. Questo effettivamente è un limite che potrebbe portare la prova contraria verso la probatio

diabolica che può portare a problemi di costituzionalità.

Sicuramente il metodo sintetico è efficace strumento di contrasto all’ evasione. La spesa è la cosa più apparente. Però qui il controllo sulla spesa trasforma il metodo in una capillare analisi del tenore di vita.

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(21/3/2012) Abbiamo visto come nell’analisi dell’art.38 del decreto 600/1973 sia possibile individuare una bipartizione in forza della quale alla disposizione dell’art.38.1 è riservata la funzione di disciplinare l’accertamento analitico del reddito della persona fisica, e che quindi tende alla ricostruzione dei redditi di categoria sulla base di elementi costituiti da prove dirette, prove dirette che vengono raccolte in forza dell’esercizio dei poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria e che consistono in tutti quei dati e tutte quelle notizie che comprovano in modo diretto fatti di evasione.

In questo metodo è possibile che l’amministrazione utilizzi delle presunzioni, presunzioni che però hanno un contenuto di residualità, di strumentalità rispetto alla ricostruzione analitica, e devono essere presunzioni qualificate cioè caratterizzate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Abbiamo fatto anche una serie di ipotesi: - affitto non dichiarato, e che quindi l’amministrazione venga a conoscenza della circostanza sulla base di dati

ed elementi che derivano dalla sua attività d’indagine;

- somme date a mutuo a fronte delle quali il soggetto percepisce un interesse che non dichiara.

Anche in quest’ipotesi abbiamo individuato la possibilità per l’amministrazione di rettificare il reddito di categoria, nelle specifico abbiamo detto i redditi fondiari e i redditi di capitale.

Questo è quanto dobbiamo focalizzare per quanto riguarda la prima parte dell’articolo 38.

Accertamento sintetico

Nell’art. 38 commi 3 e successivi si disciplina l’accertamento sintetico. È un accertamento che mira non alla ricostruzione del reddito di categoria, ma alla ricostruzione del reddito complessivo della persona fisica (come ricchezza al saldo). E questa ricchezza al saldo si determina sulla base di meccanismi di tipo presuntivo, dove il cuore dell’argomentazione presuntiva è la spesa: si fa un accertamento sulla spesa e dalla spesa si ricostruisce il reddito. Nell’ambito di questa disciplina abbiamo studiato l’istituto del redditometro. È stato ampiamente riformato nel corso del 2010 ed è diventato uno strumento piegato alla funzione di ricostruire il reddito attraverso il tenore di vita, un tenore di vita che viene monitorato in tutte le sue componenti rilevanti. Il redditometro ha comportato un’espansione degli indici posti a fondamento della ricostruzione. In questo metodo di accertamento, in cui si è molto potenziata la valenza induttiva di una serie di indici di spesa, c’è stata anche un’attenuazione della tenuta logica della presunzione. Ricorda che le franchigie sono state in larga parte spazzate via e sostituite dalla semplice esigenza che per dato dichiarato e lo scostamento ricostruibile con le strumento del redditometro si arrivi ad una maggiorazione di 1/5. L’unico elemento che ha in qualche misura compensato questa attenuazione della rilevanza logica della presunzione è dato dal fatto che l’art. 38 ha introdotto un obbligo di contraddittorio preventivo: l’amministrazione che vuole utilizzare il metodo sintetico ha l’obbligo di convocare il contribuente affinché si concretizzi un contraddittorio effettivo sugli indici di spesa utilizzati. Cioè si dà al contribuente la possibilità di spiegare, prima della notifica dell’accertamento, qual è la sua posizione fiscale fornendo gli elementi utili ai fini di difesa nei confronti della ricostruzione induttiva (cioè basata sulla spesa) dell’amministrazione finanziaria. Quindi si valorizza il contraddittorio preventivo, ed è funzionale a dare solidità a questo accertamento presuntivo che determina una sorta di attenuazione della rilevanza logica/argomentativa della presunzione laddove elimina le franchigie.

Questo è il quadro di quanto dovremmo ricordare dell’accertamento sintetico. Ricorda l’ampiezza della prova contraria nonostante la formulazione normativa che individua analiticamente i tipi di prova che il contribuente potrebbe fornire.

3.13 Metodi di art. 39

3.13.1 Accertamento analitico

È un altro metodo di accertamento; è disciplinato dall’art.39 del decreto 600/1973. Metodo che non riguarda tutte le situazioni, tutti i contribuenti, ma solo i contribuenti che sono imprenditori o professionisti. In particolare riguarda i soggetti che sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili.

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Anche l’art.39, come l’art.38, prevede quell’articolazione in due parti che abbiamo descritto a proposito dell’accertamento sintetico. Queste due parti sono date dalla descrizione di una fattispecie di accertamento analitico e da un accertamento di tipo induttivo.

Precisazione terminologica. Anche l’accertamento sintetico è un accertamento induttivo perché c’è una valenza induttiva dell’argomento: si parte dalla spesa e si arriva al reddito; però dal punto di vista della qualificazione dogmatica dell’istituto sarebbe meglio utilizzare l’espressione sintetico per riferirsi all’accertamento sulla spesa, e induttivo per riferirsi all’accertamento presuntivo dei redditi dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili. Accertamento sintetico per riferirsi all’accertamento complessivo e totale dei redditi della persona fisica attraverso la spesa; accertamento induttivo per definire l’accertamento presuntivo nei confronti delle imprese e dei lavoratori autonomi.

Quando l’amministrazione svolge un’attività di controllo nei confronti di imprenditori e professionisti, nel metodo analitico, pone a base l’impianto contabile. La base di questo metodo è la contabilità dell’impresa. Il punto di riferimento su cui si innesta l’attività di controllo sono le scritture contabili e i dati che queste riportano. L’attività di controllo si dirige, mediante l’acquisizione di prove dirette, a verificare se il contribuente ha posto in essere fatti di violazione fiscale ovvero non ha correttamente applicato le norme concernenti la determinazione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo. Si parte dall’impianto contabile, quindi dalla contabilità dell’impresa (da quelle che risultano essere le movimentazioni contabili dell’impresa), e attraverso l’esercizio di un’attività di controllo che si esplicita mediante l’esercizio dei poteri istruttori, l’amministrazione ricerca prove (essenzialmente prove dirette) relative alla sussistenza di fatti di evasione (cioè fatti che non sono transitati nelle scritture contabili) oppure relative a fatti che dimostrano che il contribuente non ha correttamente applicato le norme concernenti il reddito d’impresa o il reddito di lavoro autonomo. Si tratta di un ricostruzione che ancora una volta mette al centro la prova diretta.

Tuttavia, come nel metodo analitico della persona fisica, singoli elementi, e quindi nello specifico singoli componenti positivi non dichiarati (singoli fatti di evasione) ovvero singoli costi non esistenti (componenti negativi non esistenti) possono essere ricostruiti anche attraverso presunzioni. Queste presunzioni però devono essere qualificate e quindi caratterizzate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Le infedeltà dichiarative, cioè la mancata corrispondenza della dichiarazione ai risultati contabili, vengono accertati mediante un’analisi diretta e analitica di queste scritture per verificare mediante l’esercizio dei poteri d’indagine, se sussistono infedeltà dichiarative, e quindi se il contribuente ha posto in essere fatti di evasione, e se ha correttamente applicato le norme concernenti i reddito d’impresa e il reddito di lavoro autonomo. Questo si effettua mediante un’ispezione generale della contabilità, un’ispezione dei documenti dell’impresa, un controllo delle dichiarazioni degli anni precedenti,…qualsiasi altro documento utile che l’amministrazione può acquisire nell’esercizio dei suoi poteri istruttori.

Il legislatore consente che singoli elementi siano ricostruiti tramite presunzioni. Anche in questo metodo la presunzione ha un ruolo contenuto e residuale (incide su singoli elementi); e le presunzioni sono quelle civilistiche, cioè quelle gravi, precise e concordanti.

Articolo 39 - Redditi determinati in base alle scritture contabili.

Per i redditi d’impresa delle persone fisiche l’ufficio procede alla rettifica:

a) se gli elementi indicati nella dichiarazione non corrispondono a quelli del bilancio, del conto dei profitti e delle

perdite e dell’eventuale prospetto di cui al comma 1 dell’articolo 3;

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b) se non sono state esattamente applicate le disposizioni del titolo I, capo VI (quelle che riguardano il reddito d’impresa e di lavoro autonomo), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della

Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni;

c) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta

in modo certo e diretto dai verbali e dai questionari di cui ai numeri 2) e 4) del primo comma dell’articolo 32, dagli

atti, documenti e registri esibiti o trasmessi ai sensi del numero 3) dello stesso comma, dalle dichiarazioni di altri

soggetti previste negli articoli 6 e 7, dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti o da

altri atti e documenti in possesso dell’ufficio;

d) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta

dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 ovvero dal controllo della

completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e

documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’articolo 32.

L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di

presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti. […]

Questo metodo lo uso se: - i dati contabili non risultano correttamente rappresentati e sintetizzati nel bilancio, quindi

se vi sono delle infedeltà nelle scritture;

- se non sono state correttamente applicate le norme relative al reddito d’impresa o al

reddito di lavoro autonomo.

- se risulta un’infedeltà dichiarativa dal complesso di elementi istruttori che

l’amministrazione con i suoi poteri è in grado di raccogliere;

- il controllo dell’infedeltà dichiarativa sulla base dei documenti d’impresa. Possono essere

utilizzate presunzioni semplici.

Il punto di partenza è l’impianto contabile; l’impianto contabile è il presupposto su cui si innesta la verifica; la verifica mira ad una ricostruzione analitica del reddito di categoria (impresa o lavoro autonomo) per verificare se il soggetto ha correttamente compilato la sua dichiarazione. Quindi il metodo mira all’accertamento di infedeltà dichiarative, attraverso quali strumenti? Fa questa ricostruzione sulla base di prove dirette che derivano dal riscontro delle scritture e da tutti gli elementi che l’amministrazione può acquisire attraverso l’esercizio dei sui poteri istruttori. Al centro c’è la prova diretta; dopodiché singoli elementi (singole passività/attività) possono essere oggetto di accertamento attraverso presunzioni affinché queste siano gravi, precise e concordanti.

Esiste una simmetria tra l’accertamento analitico e quello dell’art. 38, perché in entrambi i casi vi è una centralità della prova diretta ed una residualità della prova presuntiva che in ogni caso dev’essere caratterizzata dai requisiti del codice civile (gravità, precisione e concordanza). Nell’analitico della persona fisica miro a ricostruire i redditi di categoria, nell’analitico dell’impresa e del lavoro autonomo parto dalle scritture contabili per ricostruire analiticamente il reddito d’impresa e di lavoro autonomo.

Supponiamo che un’impresa in forma di spa (si applica l’art.39) produca vino. Supponiamo ospiti, in occasione della presentazione dei vini dell’annata, determinati clienti importanti (ristoratori di alto livello,…) in una tenuta spendendo soldi per l’ospitalità. Ipotizziamo che il contribuente consideri questi costi come costi di pubblicità. Cosa transita in contabilità? Costo 100mila euro per evento di presentazione vini (mi speso il costo). Quando faccio la dichiarazione questo componente di costo transiterà in dichiarazione, questo costo finisce dentro il risultato di bilancio e lo influenza in negativo perché è un costo. Supponiamo che l’amministrazione faccia un controllo di questo soggetto e chieda l’esibizione della contabilità. L’amministrazione fa notare come non sono state correttamente applicate le norme del reddito d’impresa, perché questa non è una spesa di pubblicità, ma una spesa di rappresentanza. Non stai promuovendo il tuo

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prodotto, ma la tua immagine: l’immagine dell’imprenditore. Le spese di pubblicità e quelle di rappresentanza hanno una disciplina contabile completamente diversa: quelle di pubblicità sono deducibili interamente, quelle di rappresentanza solo in una certa misura che dipende dal fatturato, dalla tipologia della spesa,… L’amministrazione dice di non ammettere in deduzione una parte del costo in quanto l’imprenditore avrebbe dovuto fare una variazione in aumento perché c’è un costo che si è spesato ma non può dedurre.

Si pensi al caso in cui un’impresa di vino abbia chiesto una consulenza ad un avvocato per la risoluzione di un problema relativo ad un’espropriazione che l’amministrazione sta effettuando su un terreno che era destinato a vigneto. Sostengono un costo e se lo spesano: lo portano in deduzione. L’amministrazione fa un controllo. Questa spesa avresti dovuto dedurla nel 2011, non nel 2012, perché la prestazione dell’avvocato era ultimata nel 2011: problema di competenza, hai sbagliato il periodo.

Supponiamo che l’amministrazione trovi dimostrazione che una certa partita di bottiglie è stata venduta ad un ristoratore senza fattura (vendita non dichiarata), perché ha fatto un controllo nei confronti nel ristoratore: le fatture di acquisto non combaciavano con le consistenze fisiche. L’amministrazione rettifica quella componente.

Tutte le imprese possono dedurre solo i costi coerenti con il loro programma imprenditoriale. Tutti i costi devono avere questo rapporto di inerenza. 3.13.2 Metodo induttivo

Il metodo induttivo di accertamento si caratterizza, anche nel caso dell’art. 39, per essere un metodo spiccatamente presuntivo. Diversamente dal metodo analitico dove le presunzioni hanno un ruolo residuale e servono esclusivamente per accertare singole componenti reddituali, nel metodo induttivo la presunzione emerge come elemento centrale della ricostruzione (un po’ come accade nel metodo sintetico). Le presunzioni sono il cuore del metodo induttivo. Però il metodo induttivo si caratterizza in modo molto differenziato rispetto al sintetico perché parte dalle peculiarità dell’impresa; e il presupposto generale, quello che possiamo considerare come l’elemento chiave che giustifica il ricorso al metodo induttivo è che l’impianto contabile dell’imprenditore o del professionista sia caratterizzato da sostanziale inattendibilità. Quindi il presupposto in forza del quale l’amministrazione può ricostruire il reddito induttivamente (cioè avvalendosi di presunzioni e mettendole al centro del metodo) deriva dal fatto che i libri contabili dell’imprenditore siano inattendibili. Se il metodo analitico si fonda sulla contabilità, quando questa contabilità non è attendibile/affidabile, allora scattano i presupposti per l’operare del metodo induttivo. In linea di massima la contabilità è inattendibile o inaffidabile quando è mancante, quando manca la contabilità a fortiori potrò utilizzare il metodo: non esiste un’ipotesi di inattendibilità della scritture più evidente rispetto a quella della loro mancanza. Può essere che la contabilità vi sia ma sia inaffidabile, è tale quando le irregolarità contabili sono così gravi, numerose e ripetute da rendere sostanzialmente privo di credibilità l’impianto contabile. Il metodo induttivo si applica anche in altre casistiche, ma hanno una rilevanza più limitata. Per esempio nel caso in cui il reddito di impresa o di lavoro autonomo non sia stato indicato in dichiarazione (omessa dichiarazione). Se dietro ci sta un’attività integralmente svolta in nero, allora è evidente che posso applicare il metodo induttivo, ma se si tratta solamente di un’omissione dichiarativa probabilmente non opererebbe il presupposto del metodo.

Quando si verifica questa inattendibilità scattano delle conseguenze molto rilevanti sulla posizione soggettiva del contribuente perché l’amministrazione può procedere alla rettifica del reddito

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avvalendosi di presunzioni, quindi prescindendo completamente dall’impianto contabile, e queste presunzioni possono essere anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Queste si chiamano presunzioni super semplici.

3.13.2.1 Le presunzioni super semplici.

Il presupposto è l’irregolarità della contabilità, le irregolarità debbono essere gravi, numerose e ripetute. Questi requisiti debbono essere provati dall’amministrazione finanziaria, ma c’è un margine di apprezzabilità nel loro apprezzamento (es. poche operazioni ma non contabilizzate ma di grande

valore,…). In questi casi l’amministrazione può avvalersi di presunzioni anche super semplici, significa che l’amministrazione può ricostruire il reddito del soggetto sulla base di argomentazioni che hanno valenza induttiva ma che non raggiungono nemmeno quella solidità probatoria riconoscibile alle presunzioni civilistiche. Sostanzialmente l’amministrazione si avvale di argomenti inferenziali, di argomenti induttivi che non sono qualificati come quelli civilistici, non hanno cioè quei requisiti che consentano alla presunzione di elevarsi a livello di prova (perché possono essere anche presunzioni non gravi, non precise e non concordanti). Nell’ambito di questo metodo si nota un’estrema agevolazione probatoria. L’ amministrazione riscontra inattendibilità dell’impianto contabile e opera con logiche ricostruttive in cui i suoi oneri probatori si affievoliscono moltissimo perché possono essere utilizzate argomentazioni che non assurgono nemmeno a quel grado di solidità induttiva che permette alla presunzione di essere qualificata come prova nel sistema civilistico. Prescindere dalla contabilità significa poter usare presunzioni per la ricostruzione dell’intero reddito d’impresa o di lavoro autonomo.

Caso in cui l’amministrazione finanziaria nello svolgere dei controlli nei confronti di ristoratori, si è avveduta che questi in molti caso omettevano di rilasciare la ricevuta fiscale oppure la fattura. A fronte di una reiterazione di queste violazioni hanno ritenuto inattendibile la contabilità. L’amministrazione ha accantonato la contabilità e ha iniziato a ricostruire la determinazione del reddito sulla base di eventi di valenza probatoria, induttiva (quindi presuntiva) totalmente estranei all’impianto contabile. In qualche caso ha ragionato andando a vedere le spese sostenute per la lavanderia del ristorante. L’amministrazione ha guardato quanti tovaglioli vengono lavati a settimana, per esempio 200. Questo significa che il ristoratore fa almeno 200 coperti. Considera poi il prezzo medio del menù: chi va lì normalmente mangerà primo e secondo per un costo netto di 50 €. Moltiplico il costo medio del coperto per il numero di coperti: ottengo così il reddito settimanale. Moltiplicandolo per il numero di settimane dell’anno ottengo il reddito annuale. È una logica discutibile. Il calcolo del costo medio del menù è discutibile. Il calcolo del numero di tovaglioli in relazione al numero dei coperti è un dato indicativo ma relativo: un bambino potrebbe divertirsi a gettare i tovaglioli per terra, oppure vengono utilizzati in cucina, si utilizzano per servire il vino,…

Dunque il ragionamento che viene fatto in questi casi è quello di dire che l’amministrazione finanziaria può avvalersi di questa tipologia di presunzioni perché l’impianto contabile è inattendibile; spetterà al contribuente l’onere di destrutturare l’argomentazione induttiva fatta dall’amministrazione finanziaria. Quindi dovrà essere il contribuente a dimostrare che quell’argomentazione che l’amministrazione ha proposto come argomentazione che sta alla base dell’accertamento induttivo non corrisponde a verità, non è corretta. Dovrà essere il contribuente a fornire spiegazioni e dimostrazione della circostanza che gli elementi utilizzati dall’amministrazione non sono corretti. Il contribuente si troverebbe a dover fornire una prova negativa, cosa non semplice; nell’esempio avrebbe dovuto dimostrare come non fosse vero che ad ogni tovagliolo corrispondeva un coperto.

3.13.2.2 La natura delle presunzioni supere semplici.

Si tratta logiche di tipo largamente presuntivo. Esiste una certa teoria dottrinale che ritiene che in realtà questo ragionamento sia una posizione che andrebbe un po’ rivista, un po’ ripensata.

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Questa considerazione parte dal chiedersi cosa sono le presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Non sono delle prove, perché per essere una prove la presunzione quanto meno deve manifestare quel nesso differenziale dell’id quod plerumque accidit. Sono forse degli indizi, cioè dei semplici elementi indiziali che denotano l’esistenza di possibili fatti di evasione, ma che non assurgono a livello di prova?

Prima domanda. A questo punto può l’amministrazione finanziaria, in un sistema che è incentrato sull’effettività della capacità contributiva, ricostruire il reddito sulla base di meri indizi e senza prove? È coerente con il principio di effettività attribuire all’amministrazione la possibilità di ricostruire il reddito sulla base di argomentazioni che non assurgono nemmeno a livello di prova e che hanno una valenza meramente indicativa di potenziali fatti di evasione?

Seconda domanda. Un’amministrazione, come l’amministrazione finanziaria, che agisce in un’ottica giustiziale (cioè per andare alla ricerca della giusta imposta), agisce correttamente se ricerca questa giusta imposta senza fornire a se stessa prove reali concrete di fatti di evasione o questa condotta viola anche l’art.97 della Cost laddove impone agli uffici il valore del buon andamento.

Così formulate queste ipotesi richiedono una risposta negativa. Secondo questa teoria, quando il legislatore utilizza l’espressione presunzioni non gravi, non precise e non concordanti (cioè super semplici) esige comunque e richiede comunque che l’amministrazione abbia a disposizione degli elementi che manifestano una valenza dimostrativa che permetta almeno di qualificare gli elementi come prove. Bisogna cioè che quando l’amministrazione ha a disposizione questi fatti noti da cui desume fatti ignoti, questo nesso inferenziale sia caratterizzato comunque dalla valenza di una vera e propria prova. Non può essere un indizio, devono essere elementi che assurgano a livello di prova. Per assurgere a livello di prova occorre comunque che esista un nesso tra fatto noto e fatto ignoto riconducibile all’id quod plerumque accidit. Occorre interpretare il contenuto di quelle presunzioni ritenendo necessaria la sussistenza di un nesso inferenziale riconducibile all’id quod pluerumque accidit. Anche le presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza devono essere prove, il che vuol dire che debbono manifestare un nesso di attendibilità secondo l’id quod plerumque accidit.

Se queste presunzioni debbono essere caratterizzate dall’id quod plerumque accidit, allora le presunzioni super semplici sono in realtà a tutti gli effetti presunzioni. E quindi debbono avere la stessa idoneità dimostrativa delle presunzioni civilistiche. Secondo questa teoria, quando guardiamo alle presunzioni gravi, precise e concordanti del primo comma dell’art. 39 quelle lì non sono presunzioni civilistiche: sono qualcosa di più. Devono esprimere (le presunzioni dell’analitico) una probabilità vicina alla certezza. In questa diversa logica, se rovesciamo il discorso e partiamo dal primo comma, le presunzioni gravi, precise e concordanti sono presunzioni che esprimono una probabilità vicina alla certezza, quindi sono presunzioni di grado più elevato di quelle civilistiche: devono esprimere il massimo rigore inferenziale, una probabilità vicina alla certezza, devono essere praticamente sovrapponibili alla prova diretta. Le altre presunzioni (quelle non gravi, non precise e non concordanti) sono le presunzioni civilistiche.

3.13.2.3 L’ interpretazione delle presunzioni super semplici.

Ulteriore conseguenza: le presunzioni a cui si riferisce l’ art. 39 vanno lette esclusivamente nella prospettiva del diritto tributario, nell’interpretazione dell’ art. 39 non dobbiamo farci influenzare

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dal codice civile. Perché le presunzioni regolate dall’ articolo 39 sono una fattispecie esclusivamente tributaria che alza il livello delle presunzioni: quelle gravi, precise e concordanti esprimono una probabilità vicina alla certezza, quelle super semplici sono le presunzioni civilistiche.

Qui tocchiamo uno degli altri problemi propri della normativa tributaria. Quando la normativa tributaria utilizza concetti tratti da altri rami dell’ordinamento, nel caso specifico dall’ordinamento civile, è a questi ordinamenti che devo guardare per capire il significato della norma o devo leggere la norma esclusivamente alla luce dell’ordinamento tributario? Qui stiamo parlando di concetti (le presunzioni) ben presenti in altri rami dell’ordinamento, che però vengono introdotti nell’ambito della disciplina tributaria. Quando questi concetti vengono introdotti nell’ambito della disciplina tributaria li devo valutare e interpretare alla luce di quello che so nel diritto civile o alla luce di quello che so del sistema tributario? Se interpreto l’ art. 39 alla luce del sistema tributario parto dal principio di effettività dell’ art. 53, parto dal principio della ricerca della giusta imposta e dunque non mi posso accontentare di meri indizi nella ricostruzione. Allora quando il legislatore mi dice presunzioni super semplici non possono essere indizi, ma debbono essere prove. Per essere prove bisogna che abbiamo almeno una connotazione di probabilità, devono essere fondate sull’id quod plerumque accidit; il che le fa corrispondere inesorabilmente alle presunzioni civilistiche. Allora vuol dire che quando poi la presunzione mi viene richiesta come grave, precisa e concordante non è più quella civilistica, ma un qualcosa di più, qualcosa che ha una valenza dimostrativa più alta, e quindi ha una probabilità vicina alla certezza. Con questo si chiude il cerchio perché abbiamo spezzato il nesso tra disciplina civilistica delle presunzioni e disciplina fiscale delle presunzione. Questa è una tesi che in alcuni casi gli avvocati cercano di spendere, è una tesi procedimentale. Quindi quando ci portano il tovagliometro (quella cosa che abbiamo descritto) possiamo difenderci dicendo che c’è la bottiglia di vino e quindi viene utilizzato un tovagliolo in più; ma possiamo dire anche un’altra cosa. Possiamo dire che nell’impianto dell’accertamento induttivo non potete usare presunzioni che sono meri indizi, dovete comunque usare presunzioni perché esiste l’effettività, la ricerca della giusta imposta. E quindi quella prova che state utilizzando (vediamo che si tratta di una difesa procedimentale) non si innalza a livello di valenza dimostrativa necessaria nel quadro dell’art.39 letto alla luce dei principi del sistema. Non basta che ragionate tanti tovaglioli uguale tanti coperti, perché questo è un mero indizio e il legislatore tributario non tollera l’utilizzo di indizi perché ciò sarebbe contrario agli artt. 53 e 97. In questo modo stiamo leggendo la norma alla luce dei principi dell’ordinamento tributario e ci stiamo dimenticando di quello che sappiamo sulle presunzioni civilistiche. L’effetto di questa conclusione è che si deve alzare il livello delle presunzioni gravi, precise e concordanti altrimenti la norma non sta più in piedi, non c’è più coerenza tra i due commi. E le presunzioni gravi, precise e concordanti debbono esprimere una probabilità vicina alla certezza. (26/3/2012)

3.14 Poteri di controllo.

Finora abbiamo parlato di metodi e ora parliamo di poteri.

Abbiamo descritto come l’amministrazione procede alla rettifica della dichiarazione e abbiamo parlato di prove che l’amministrazione deve avere; abbiamo parlato di centralità delle prove dirette, di presunzioni, del metodo analitico e sintetico. Stiamo parlando di prove, cioè fatti che l’amministrazione deve dimostrare; l’amministrazione deve svolgere un’attività istruttoria volta alla raccolta delle prove essenziali. Se si tratta di prove dirette, l’ amministrazione

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dovrà acquisirle, si parla cioè di acquisizione di fatti noti.

Quindi l’attività di ricerca della prova è essenziale ai fini della repressione . Si svolge attraverso un’attività di indagine in cui l’amministrazione è dotata di particolari poteri, i poteri istruttori di cui l’amministrazione è titolare per la ricerca della prova. Questa attività istruttoria può esser svolta direttamente dagli uffici dell’Agenzia delle entrate, ma anche da organi ausiliari, quali la Guardia di finanza, quindi la polizia tributaria.

Con la riforma Monti, inoltre, (anche se si deve segnalare come vi sia stata un’evoluzione normativa graduale dagli anni 70) un ruolo essenziale nello volgimento dell’attività istruttoria è affidato ai comuni, per la loro vicinanza rispetto ai soggetti da controllare; il monitoraggio del territorio può essere attuato con l’ausilio dei comuni. Questi controlli sono attribuiti a livelli diversi dell’amministrazione.

3.14.1 Tipologia di poteri istruttori

Vediamo quali sono questi poteri istruttori.

È possibile suddividerli in due categorie: poteri minori e poteri maggiori.

3.14.1.1 Poteri minori

I poteri minori sono caratterizzati da un’incidenza sulle situazioni di proprietà e libertà del singoli in maniera non rilevante.

I poteri minori sono regolati dall’ art. 32 del d.P.R. 600 / 1973 (ricordiamo che ci riferiamo ai poteri relativi all’accertamento delle imposte su redditi, ma analoghi poteri vi sono per l’IVA ecc). in cosa consistono? Sono le richieste, gli inviti e i questionari.

1. Le richieste. Possono riguardare richieste di informazioni o di esibizione di documenti, dati e notizie; quindi l’amministrazione si rivolge al contribuente con una formale richiesta con cui chiede informazioni, dati o notizie relative alla posizione fiscale del contribuente.

2. Inviti a comparire. Con questi l’amministrazione chiama il contribuente presso i propri uffici affinché il contribuente renda dichiarazioni su determinate tematiche, domane che l’amministrazione intende proporgli in relazione alla sua posizione fiscale.

3. Il questionario. L’amministrazione, in questo caso, non direttamente davanti l’ufficio ma con un apposito documento formula una serie di quesiti al contribuente, il quale deve rispondere per iscritto e sono quesiti più diversi che riguardano la sua posizione fiscale.

Per es. un soggetto ha venduto quote di una società quotata attraverso una società veicolo. Esempio di domande all’interno di un questionario: perché hai costituito una società veicolo? Quali obiettivi economici intendevi perseguire con quest’operazione?� sono tutte domande per comprendere la logica di una determinata operazione .

Questi possono esser diretti al contribuente soggetto all’attività d’indagine, ma anche rivolti a terzi al fine di acquisire informazioni relative ai rapporti intrattenuti dal soggetto destinatario del potere con il contribuente verificato. Si tratta di poteri funzionali allo svolgimento di un’attività d’indagine; sono vietate le c.d. fishing expedition, cioè questionari che si mandano indistintamente ai contribuenti. Questi poteri, infatti, vanno esercitati una volta selezionato il contribuente. Tra i destinatari vi possono esser non solo il soggetto verificato e soggetti terzi, ma anche tutti gli enti ed istituzioni con cui il soggetto verificato intrattiene rapporti, in particolare le banche e istituti di credito, assicurazioni e società fiduciarie. L’amministrazione ha il potere di richiedere alle società fiduciarie chi sia il fiduciante, chi stia dietro all’intestazione di un determinato bene; le società

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fiduciarie, quindi, non son uno schermo efficace nei confronti dell’amministrazione! Si pensi che rilevanza assoluta avevano gli inviti a fornire copia dei conti correnti.

3.14.1.1.1 Le garanzie.

Questi poteri sono assistiti da talune garanzie.

Innanzitutto occorre che l’amministrazione conceda un adeguato termine per rispondere, stabilito dalla legge in 15 giorni, ma può esser prorogato su richiesta del contribuente. È possibile, però, in relazione alle particolari complessità delle domande o difficile reperibilità dei documenti chiedere la proroga del termine. Altro elemento che caratterizza l’esercizio di poteri minori è l’esigenza che le domande formulate si caratterizzino per una logica di specificità e siano motivate. È necessario che il questionario motivi sulle ragioni dell’esercizio del potere, sulle finalità d’indagine e siano caratterizzate da un contenuto specifico, come una richiesta circostanziata e motivata in relazione alle finalità dell’indagine perseguita.

L’esercizio di questi poteri può esser combinato, nel senso che l’amministrazione può avvalersi di questi strumenti cumulandoli nei confronti del contribuente o anche di terzi.

3.14.1.2 Poteri maggiori

I poteri maggiori producono una compressione della sfera di libertà e proprietà del singolo

I poteri maggiori sono caratterizzati da una maggior incidenza sulle posizioni soggettive; essi sono accessi, ispezioni e verifiche. Implicano una compressione maggiore della sfera giuridica perché sono indagini sul campo, si svolgono nei locali del pertinenza del contribuente, nel suo domicilio o nel luogo in cui esercita l’attività economica.

1. Accessi. Sono di vario tipo: - accessi nei locali in cui si svolge l’esercizio dell’attività;

- accessi nell’abitazione privata,

- nello studio professionale, nei luoghi presso l’e istituzione con cui il contribuente intrattiene rapporti.

L’accesso si concretizza nel potere di entrare fisicamente in questi luoghi. Possono ricercare direttamente la prova di fatti di evasione mediante questo ingresso coattivo nei locali in cui il soggetto vive o svolge la sua attività. Questi accessi sono finalizzati a svolgere ispezioni, verifiche. L’ accesso è un potere strumentale orientato alla finalità di svolgere ispezioni o verifiche. Le ispezioni riguardano l’analisi della documentazione reperita presso i luoghi in cui fisicamente si entra. Il che vuol dire ispezione dei documenti dell’impresa, bilanci, registri IVA documenti di supporto, ma anche un controllo più penetrante di ispezione di tutti documenti ovunque reperiti nei locali d’impresa o nel domicilio, per es. L’agenda personale del direttore amministrativo o il contenuto di una valigetta.

2. verifiche. Normalmente sono verifiche fisiche cioè si va a vedere come sono strutturati i locali dell’impresa. Per es. si verifica la consistenza fisica del magazzino; verifiche che riguardano i dipendenti (cioè se il numero dei dipendenti a libro paga corrisponde effettivamente); controllo della corrispondenza fisica dei locali rispetto a quelli dichiarati per gli studi di settore.

3. l’ispezione. Essa riguarda i documenti.

Vi è un’ampia discrezionalità nella gestione delle modalità concrete di ispezione e verifica.

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3.14.1.2.1 Le garanzie.

Si esigono determinate garanzie, contrappesi. L’abbiamo vista anche nei poteri minori: specificità, termine per rispondere.

Assistiamo ad una serie di regole di garanzia: per accedere ai locali d’impresa occorre un’ apposita autorizzazione che deve essere sottoscritta dal capo dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate che procede ai controlli , mentre nel caso sia la Guardia di finanza a procedere serve l’ autorizzazione del comandante di zona. Occorre indicare la mission , nella motivazione dell’autorizzazione cioè l’obiettivo per cui gli organi entrano nei locali. Prima cosa che il contribuente deve fare quando gli arrivano i funzionari della guardia di finanza infatti è chiedere di esibire l’autorizzazione.

Nel caso di accesso domiciliare le regole relative all’autorizzazione sono più stringenti perché mentre nei locali dell’impresa la garanzia va connessa ai diritti soggettivi che hanno una protezione costituzionale: non sarebbe pensabile che la parte che svolge il controllo possa lei stessa autorizzare, ci vuole un’autorità terza, un giudice per l’autorizzazione all’accesso domiciliare: deve essere concessa dal pubblico ministero; occorre anche qui che l’autorizzazione sia motivata in presenza di gravi indizi di violazioni tributarie. Nel momento in cui il pm motiva e autorizza, consente l’accesso domiciliare. Per cui difficilmente questo è il primo atto istruttorio; è probabile che l’amministrazione abbia svolto prima un’attività d’indagine che abbia fatto emergere questi indizi di violazione.

Vi son situazioni cui vi è promiscuità tra il luogo in cui il soggetto risiede e dove è stabilito il proprio domicilio; si pensi alle ipotesi di laboratorio artigianale in casa, per es. Si tratta di locali ad uso promiscuo; allora cambiano le regole dell’autorizzazione: occorre l’autorizzazione del capo dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate o del comandante di zona, ma siccome i locali sono anche destinati al domicilio occorre anche l’autorizzazione del pm: occorrono, quindi, due autorizzazioni ma non occorre che l’autorizzazione del pm rechi gravi in indizi perché i locali sono anche finalizzati all’esercizio della finalità d’impresa, per cui quella del pm è un’autorizzazione meno garantista.

Per l’accesso nei locali destinati allo svolgimento di attività di studio professionale (studi di avvocati, notai per es.) occorre l’autorizzazione del capo dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate o del comandante di zona della Guardia di finanza, ma occorre sempre la presenza del titolare dello studio o di un suo delegato; la funzione è quella di poter permettere la salvaguardia degli interessi dei clienti i cui documenti sono raccolti nello studio, di garantire il segreto professionale.

Esistono autorizzazioni graduate secondo la tipologia. È possibile che una volta che il soggetto entra nei locali dell’impresa o nel domicilio si trovi in situazioni che richiedono ulteriori autorizzazioni. Per es. svolgo attività d’indagine nel domicilio privato, trovo una cassaforte chiusa; dietro un quadro; devo chiedere all’imprenditore di aprire la cassaforte, altrimenti non posso forzarla,ma devo chieder un’ulteriore autorizzazione del pm. Finché questa non arriva, si dovranno apporre i sigilli o vigilare che non avvenga l’apertura. Stessa cosa accade se trovo un cassetto chiuso a chiave o una borsa chiusa; se è aperta posso, invece, guardarci dentro. Altrettanto vale per i locali riconducibili al domicilio o per es. un’automobile privata che è parificata al domicilio.

Per esempio se c’è una macchina chiusa e dentro c’è una borsa chiusa�servono:l’autorizzazione ufficio dell’Agenzia delle entrate, l’autorizzazione del pm e un’altra autorizzazione del pm per la borsa, ma questa volta senza gravi indizi.

Caso di computer protetti da password: sono equiparati a ipotesi in cui è chiesta l’autorizzazione; invece se non è coperto da password non c’è bisogno dell’autorizzazione.

Domanda: queste autorizzazioni possono essere preventive? No.

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L’autorizzazione rilasciata preventivamente è quella relativa all’accesso domiciliare, ma le altre dipendono da quello che i funzionari trovano in loco.

(28/3/2012) Continuiamo il discorso relativo all’attività di indagine. L’altro ieri avevamo iniziato ad esaminare quali sono i poteri istruttori e li abbiamo distinti tra poteri maggiori e poteri minori, distinguendoli sulla base dell’incidenza che questi poteri producono nella sfera giuridica del soggetto passivo.

Abbiamo visto come i poteri minori sono individuabili nell’ambito della richiesta, degli inviti dei questionari abbiamo visto come questi poteri siano assistiti da determinati contrappesi e garanzie che costituiscono gli strumenti di salvaguardia del contribuente che sia destinatario di questi atti istruttori. Abbiamo visto grosso modo che queste garanzie corrispondono all’esigenza che per questi atti istruttori minori sia sempre stabilito un congruo termine per la risposta; termine che non può mai essere inferiore a 15 giorni, che può essere prorogato; che le richieste e gli inviti siano motivati in relazione all’oggetto del potere istruttorio esercitato, e che siano di carattere sufficientemente specifico da poter rendere la risposta possibile nei termini previsti.

Abbiamo poi esaminato le garanzie che assistono i poteri d’accesso nelle varie forme in cui questi sono riconosciuti. Abbiamo visto la graduazione del meccanismo delle autorizzazioni a seconda della situazione soggettiva che viene incisa: meno rilevante il sistema delle garanzie di fronte all’ipotesi di accesso nei locali in cui si svolge l’esercizio dell’attività d’impresa; molto più rigorose le garanzie richieste affidate ad un soggetto terzo (PM) nell’ipotesi in cui l’accesso sia un accesso domiciliare.

3.14.2 Aspetti problematici

Ora dobbiamo fare qualche riflessione più generale sull’esercizio di questi poteri, sui rapporti sui poteri minori e maggiore ed esaminare qualche altro aspetto problematico relativo allo svolgimento di queste attività d’indagine. Esaminiamo ora qualche altro aspetto problematico.

3.14.2.1 accessi

Torniamo agli accessi. Gli accessi debbono essere autorizzati; parliamo in particolare degli accessi domiciliari che richiedono il presupposto dell’esistenza di gravi indizi di violazioni fiscali che devono essere rilevate dal PM e contenute nell’autorizzazione rilasciate dal PM.

Supponiamo che la guardia di finanza, o gli uffici, intenda svolgere un’attività d’indagine nei confronti del contribuente Tizio, e a questo fine ritenga necessario un accesso domiciliare. Supponiamo ritenga di avere gli elementi per giustificare l’accesso domiciliare e dunque chieda l’autorizzazione al PM che la rilascia. Nel momento in cui la guardia di finanza, ovvero gli uffici, entrano nei locali destinati a domicilio reperiscano materiale o documentazione che riguarda soggetti terzi diversi dal soggetto nei cui confronti è stata rilasciata l’autorizzazione. Ad esempio trovano la contabilità nera di un imprenditore diverso dal soggetto verificato, che magari ha affidato a lui la documentazione temendo un controllo domiciliare nei suoi confronti. Questa documentazione può essere acquisita? Può la guardia di finanza utilizzare questa documentazione che riguarda un soggetto diverso, ed impiegarla ai fini di un accertamento nei confronti del soggetto cui si riferisce la documentazione reperita?

Questo è un problema, nel senso che si individua una contrapposizione tra le opinioni di una certa parte della dottrina e le opinioni giurisprudenziali. Secondo la giurisprudenza, l’autorizzazione è di fatto autorizzata a degradare il diritto soggettivo alla riservatezza domiciliare. Una volta che questo diritto soggettivo, per effetto dell’autorizzazione, venga meno, tutto ciò che si trova all’interno del domicilio può essere acquisito. Quindi non importa che riguardi il soggetto verificato, può riguardare anche soggetti terzi. Questo perché, in quest’ottica, l’autorizzazione non è funzionale tanto ad una specifica attività d’indagine, ma è piuttosto funzionale a consentire la degradazione del diritto soggettivo relativo alla riservatezza domiciliare. Una volta che abbiamo superato la barriera del domicilio, tutto ciò che troviamo all’interno può essere acquisito, sia che riguardi il soggetto verificato sia che riguardi

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un soggetto terzo: la documentazione potrebbe dunque essere agevolmente posta a base dell’attività di indagine nei confronti di questo altro soggetto non coinvolto direttamente dall’indagine.

Secondo l’opinione di Prof. Trivellin, che si allinea a quella di parte della dottrina critica, questo indirizzo (della giurisprudenza) non tiene conto di un elemento essenziale dell’autorizzazione che sono i gravi indizi di violazione.

L’autorizzazione, per come è costruita, è congeniata in modo da essere diretta nei confronti di un soggetto determinato. Quindi c’è una connessione stretta tra i motivi che stanno a base dell’autorizzazione (i motivi che la giustificano: i gravi indizi) e la possibilità che l’ordinamento offre di superare la barriera del domicilio. Dunque i motivi dell’autorizzazione sono essenziali: senza quei motivi l’autorizzazione non sarebbe efficace. Se questo è vero, è evidente che l’autorizzazione ha una direzione ben precisa: verso un soggetto determinato, che è quello a cui si riferiscono i gravi indizi. Ed è a questo soggetto che il diritto alla segretezza domiciliare può degradare. Ma per soggetti diversi, che affidano alla riservatezza di quel domicilio la propria documentazione, dovrebbero comunque esistere dei gravi indizi per poter acquisire la documentazione.

Secondo Trivellin questo dimostra che l’autorizzazione è pensata nei confronti del soggetto a cui si riferiscono le gravi violazioni, non nei confronti di soggetti diversi a cui non si riferiscono. Allora nel momento in cui l’amministrazione acquisisse questa documentazione riguardante soggetti terzi supererebbe il limite dell’autorizzazione. A quel punto, se trovasse quel materiale, anziché acquisirlo, dovrebbe apporre i sigilli e quindi disporre che quel materiale non venga rimosso dal luogo in cui si trova, e procurarsi un’apposita autorizzazione all’utilizzo di quella documentazione. Questa è una posizione che trova concordia in una parte della dottrina, ma la giurisprudenza ritiene invece che la documentazione sia acquisibile perché l’autorizzazione servirebbe semplicemente ad aprirti la porta di casa: tutto quello che si trova dentro sarebbe acquisibile.

Questo è un problema che riguarda l’efficacia delle autorizzazioni, uno dei problemi applicativi che possono presentarsi, ma ve ne sono molti altri.

3.14.2.2 Controlli finanziari

Anche nell’ambito dei controlli finanziari esistono dei meccanismi autorizzatori molto rigidi. Quando parliamo dei controlli finanziari ci riferiamo ai controlli relativi a tutti i rapporti finanziari intrattenuti dal contribuente sia nei confronti degli istituti di credito (banche), sia nei confronti di assicurazioni, enti di investimento, società fiduciarie,… L’amministrazione finanziaria tra i suoi poteri ha anche quello di acquisire informazioni relative ai rapporti intrattenuti tra il contribuente e questi soggetti. In alcuni casi ha il potere di accedere anche nei locali in cui si svolgono queste attività con un sistema di autorizzazioni piuttosto rigoroso: occorre l’autorizzazione del direttore regionale (quindi un funzionario di alto livello dell’amministrazione finanziaria) ovvero del comandante regionale della guardia di finanza, l’ingresso in questi locali può essere effettuato soltanto da funzionario, non semplici operatori degli uffici, ovvero da ufficiali della guardia di finanza che abbiano almeno il ruolo di capitano.

Qui molto si discute del valore di queste autorizzazioni, perché: - secondo taluni dovrebbero essere assimilate alle autorizzazioni che legittimano l’accesso nei

locali in cui si svolge l’attività d’impresa.

- secondo altri queste autorizzazioni avrebbero un valore superiore assimilabile alle

autorizzazioni necessarie per l’accesso domiciliare.

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Se così fosse questo sarebbe il segno che il diritto che è oggetto di compressione è sicuramente un diritto soggettivo riconducibile a quella riservatezza tipica della sfera domiciliare. In altre parole, vi sarebbe un dritto alla privacy, in relazione ai rapporti intrattenuti con gli istituti finanziari, omologo a quello della riservatezza domiciliare. Vi sono pronunce del garante della privacy che sostengono questo: che l’autorizzazione è funzionale a garantire che la privacy del soggetto che viene sottoposto ad indagine; quindi una posizione soggettiva equiparabile alla tutela della riservatezza domiciliare.

Anche se non ci ricordiamo qualche autorizzazione specifica, dal punto di vista del metodo è importante ricordare la logica, il meccanismo della graduazione delle autorizzazioni.

3.14.3 Rapporti tra l’esercizio dei singoli poteri istruttori

Come l’amministrazione finanziaria deve comportarsi in relazione alla scelta, all’individuazione del potere istruttorio da esercitare? Abbiamo visto che i poteri istruttori sono diversi, sono ampi e hanno gradi diversi di incidenza nei confronti delle situazioni soggettive del verificato. La questione è: in base a quali criteri l’amministrazione finanziaria deve scegliere il potere da esercitare? In base a quale logica può decidere di inviare un questionario piuttosto che esercitare un accesso nei locali dell’esercizio dell’impresa? Quali logiche che stanno dietro a questa scelta?

Vi sono 3 diverse possibili ricostruzioni, e tutte hanno avuto accoglienza in una certa parte della dottrina ovvero della giurisprudenza. Quindi si tratta di tre tesi relative ai rapporti tra i poteri istruttori.

3.14.3.1 Prima tesi (assoluta libertà)

Ritenere che, laddove il legislatore ha attribuito questi poteri all’amministrazione finanziaria, lo abbia fatto per consentire il massimo di efficienza e di efficacia dell’azione di contrasto all’evasione. Quindi i motivi per cui sono attribuiti questi poteri è per garantire il massimo di efficienza e di efficacia all’azione dell’amministrazione. Il massimo di efficienza e di efficacia dell’azione di contrasto si consegue lasciando l’amministrazione libera, in relazione alle esigenze del caso concreto, di combinare come meglio crede i poteri istruttori attribuibili dalla legge. In questa prospettiva, che pone al centro l’efficienza e l’efficacia dell’azione, si ritiene di poter lasciare libera l’amministrazione di combinare come crede i poteri istruttori: non esisterebbero quindi dei criteri che stanno alla base della scelta, l’amministrazione potrebbe liberamente avvalersi di uno piuttosto che dell’altro di questi poteri istruttori. Quindi non esisterebbero neppure posizioni soggettive del privato da contrapporre alla scelta dell’amministrazione, perché si tratterebbe di una insindacabile libertà giustificata dalla logica dell’efficienza e dell’efficacia dell’attività di contrasto, che è essenziale rispetto alla funzione generale preventiva che devono avere i controlli visto che tutto il meccanismo si regge sull’autotassazione.

3.14.3.2 Seconda tesi (approccio amministrativistico)

È in qualche modo di matrice amministrativistica. È una tesi che fa emergere i contatti che ci sono tra il diritto tributario procedimentale e il diritto amministrativo. Parte dal presupposto che la scelta del potere istruttorio da esercitare non abbia di fronte a sé il nulla, cioè l’assoluta libertà, ma degli interessi del contribuente (in particolare) da tenere in considerazione. Questa scelta ha di fronte a sé l’esigenza di efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa (e quindi diciamo l’interesse pubblico), ma ha di fronte a sé anche l’esigenza di tener conto dell’incidenza del potere sulle posizioni soggettive del privato (quindi un interesse privato).

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Quindi da una parte ha un interesse pubblico (efficienza ed efficacia), dall’altra ha un interesse privato (esigenza di salvaguardare le posizioni soggettive del contribuente). Dunque la scelta non è libera, ma ha di fronte a sé interessi che debbono essere ponderati, che debbono essere posti in relazione nel momento in cui l’amministrazione effettua la scelta. Quindi lo schema è quello tipico della discrezionalità amministrativa (secondo questa prospettiva): una vera e propria ponderazione di interessi contrapposti. Quindi in questa prospettiva la scelta non sarebbe libera, ma discrezionale: se si tratta di attività discrezionale il contribuente dovrebbe anche poter controllare l’esercizio della discrezionalità attraverso gli strumenti con cui nel diritto amministrativo generale si controlla l’esercizio della discrezionalità. Il che imporrebbe all’amministrazione un’adeguata motivazione in relazione alle ragioni della scelta del potere. Quindi non solo una motivazione dell’autorizzazione (perché entro), ma anche una motivazione in relazione al perché ho scelto l’accesso anziché il questionario, perché ho scelto di invitarti a comparire anziché accedere ai locali dell’impresa,… Cioè qual è la ponderazione delle scelte che mi ha condotto all’esercizio di un potere anziché ad un altro; e questa è la logica della discrezionalità amministrativa, che lascerebbe anche spazio di sindacabilità, quanto meno sotto il profilo del controllo della motivazione.

3.14.3.3 Terza tesi (approccio di diritto comunitario)

Potremmo ritenere questa prospettiva come ispirata da un approccio di diritto comunitario. Fa leva su un principio che il nostro ordinamento conosce da molti anni, ma che ha avuto un grandissimo sviluppo in ambito comunitario: principio di proporzionalità. Secondo autorevoli studiosi il portato più rilevante della legge 241/1990 sarebbe quello di aver fatto entrare nel nostro ordinamento il riconoscimento pieno dei principi di tutela dell’affidamento e di proporzionalità. Per proporzionalità si intende un principio in forza del quale l’amministrazione, quando ha a disposizione diversi mezzi per perseguire la sua funzione, è tenuta ad usare il mezzo meno invasivo, meno gravoso per il soggetto destinatario all’esercizio del potere. Quindi quando ha a disposizione diversi mezzi deve usare il mezzo meno invasivo, meno pregiudizievole rispetto alla sfera giuridica del soggetto passivo. Quindi il principio di proporzionalità si esprime in una regola di contentezza dell’azione amministrativa, e di adeguatezza del mezzo rispetto al fine (non puoi cacciare i passeri con un

bazooca = il mezzo che utilizzi non è coerente con il fine). I mezzi idonei per perseguire il fine devono essere quelli meno invasivi. Se guardiamo ai poteri istruttori che abbiamo descritto con questa chiave di lettura, capiamo subito che i mezzi più invasivi (l’accesso domiciliare in particolare, o l’accesso ai luoghi dell’impresa) dovrebbero avere un luogo più residuale: l’amministrazione, laddove possibile e fino a quando questo è efficace rispetto all’azione di controllo, dovrebbe usare i poteri minori. Quindi i poteri minori dovrebbero essere la regola e i poteri maggiori dovrebbero essere esercitati solo dove è strettamente necessario, altrimenti risulterebbe violato il principio di proporzionalità.

Questa terza soluzione sembrerebbe aver trovato accoglimento normativo: art.12 della legge 212/2000 (lo Statuto dei diritti del contribuente).

12 - Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali

Tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività

commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di

esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo. […]

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In realtà, se andassimo a ricercare nella giurisprudenza che si occupa di poteri istruttori, la tesi assolutamente prevalente è la prima: che la scelta dei poteri istruttori non sia sindacabile, cioè sia riferibile ad una sfera di libertà.

3.15 Vizi procedimentali

Ora dobbiamo cercare di capire cosa succeda quando l’amministrazione, nell’esercizio dei poteri istruttori, incorra in vizi procedimentali: errori o vizi nell’applicazione delle norme procedimentali, e in particolare delle norme che abbiamo individuato. Le norme che disciplinano l’attività istruttoria, in linea di massima, sono quelle che abbiamo descritto: regole che stabiliscono principi e garanzie in relazione ai singoli poteri istruttori, regole che stabiliscono autorizzazioni, poi ci sono anche altre regole a cui possiamo fare un rapido riferimento: regole che riguardano le garanzie che il contribuente ha nella fase di verifica, di indagine. Sono regole minori che riguardano la durata delle verifiche (art. 12 Statuto): nessuna verifica, salvo casi eccezionali, può durare più di 30 giorni lavorativi. Adesso uno dei decreti Monti ha modificato questa disposizione stabilendo il termine di 15 giorni lavorativi: ha compresso ulteriormente il termine di durata delle verifiche. Inoltre non dobbiamo considerare questi 15/30 giorni come consecutivi. Tuttavia gli intervalli di tempo tra un giorno e l’altro devono essere ragionevolmente brevi. Esistono poi regole che stabiliscono gli orari in cui le verifiche si devono svolgere: devono svolgersi in orario lavorativo.

Cosa succede se l’amministrazione lascia inosservate queste garanzie? Cioè si comporta in modo tale da violarle: fa un accesso presso i locali dell’impresa senza l’autorizzazione del capo dell’ufficio; invia un questionario non motivato o assolutamente generico,… Su queste violazioni procedimentali si innesta larga parte della funzione del difensore tributario nella fase dell’indagine.

Cosa succede se l’amministrazione commette degli errori nella fase di raccolta delle prove? Pensiamo al caso di un accesso domiciliare non autorizzato. Vi sono tre possibili letture/prospettive rispetto a questa vicenda di illegittimità dell’azione amministrativa.

3.15.1 Prima posizione (teoria dell’invalidità derivata)

Ritiene che nell’ipotesi in cui siano acquisite delle prove di evasione però violando le regole del procedimento, tutta l’azione di recupero è viziata. Quindi se acquisisco della documentazione attraverso un accesso non autorizzato, e pongo questa documentazione a base dell’atto di recupero delle imposte (quindi del provvedimento impositivo), il provvedimento impositivo è radicalmente illegittimo, è viziato. Tutta l’attività d’indagine crolla per effetto del vizio procedimentale e questo si traduce in una radicale invalidità del provvedimento con cui l’amministrazione recupera il tributo. Si chiama teoria dell’invalidità derivata: dal vizio procedimentale deriva l’invalidità del provvedimento di recupero del tributo.

3.15.2 Seconda posizione (teoria dell’inutilizzabilità della prova)

Riconducibile ad una sorta di matrice penalistica: teoria dell’inutilizzabilità della prova. Secondo Trivellin è la tesi più convincente. Si sposa con alcune simmetrie che autorevole dottrina intravede da tempo tra procedimento penale e procedimento amminsitrativo. Allorché l’amministrazione acquisisce delle prove violando delle regole procedimentali, quelle prove, che sono state acquisite violando le garanzie del procedimento, non sono utilizzabili ai fini della rettifica.

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L’amministrazione finanziaria decide di fare un accesso presso i locali dell’impresa e un accesso domiciliare. Nel corso dell’accesso presso i locali dell’impresa acquisisce prove rilevanti di fatti di evasione (è entrata in modo debitamente autorizzato). Per l’accesso domiciliare si è chiesta l’autorizzazione al PM, il quale non ha motivato sull’esistenza dei gravi indizi di violazione. L’amministrazione entra ugualmente: vengono trovate prove decisive di evasione. L’avvocato nota che c’è scritto solo visto, si autorizza e non è stato motivato sull’esistenza dei gravi indizi, ritiene quindi questa autorizzazione invalida. Siccome è invalida l’autorizzazione all’accesso domiciliare, non è legittimamente acquisita la documentazione trovata in casa. Quindi vi è una parte della documentazione utilizzabile (quella trovata nei locali dell’impresa) e una parte della documentazione inutilizzabile (quella trovata nel domicilio privato, in quanto l’amministrazione vi ha gatto accesso violando le regole sull’autorizzazione.

Se con questo esempio ci fossimo trovati a ragionare secondo la teoria dell’invalidità derivata, ci saremmo trovati davanti ad un’assoluta invalidità del provvedimento di recupero del tributo, che avrebbe travolto anche le prove legittimamente raccolte durante l’accesso ai locali dell’impresa. Nel caso della teoria dell’inutilizzabilità della prova: solo la prova acquisita nel domicilio non è utilizzabile, quella acquisita nei locali dell’impresa è utilizzabile; e se quest’ultima è idonea da sola a fondare il provvedimento impositivo di recupero, il provvedimento si reggerà sulla base delle prove acquisite.

3.15.3 Terza posizione

È una sorta di sviluppo, di affinamento della tesi relativa all’inutilizzabilità. Probabilmente è questa terza tesi quella che sembra avere, in quest’ultimo tempo, un maggior accreditamento a livello di giurisprudenza (Prof Trivellin direbbe anche di dottrina). Fa leva sostanzialmente sull’analisi della disciplina di garanzia degli atti istruttori. Sostanzialmente dice che non tutte le garanzie che disciplinano l’esercizio dei poteri rispondono all’esigenza di tutela di un interesse privato. Vi sono delle regole che disciplinano i poteri istruttori, i poteri d’indagine, che rispondono soltanto ad esigenze di efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa. Vi sono invece altre regole che tutelano diritti soggettivi del contribuente verificato.

Per esempio è pacifico che un accesso domiciliare risponde ad un’esigenza di tutela dell’interesse del privato. Questa stessa dottrina dice che per esempio la regola sulla durata delle indagini non risponde ad un reale interesse di tutela del privato, risponde ad un’esigenza organizzativa: quella di contenere le indagine in modo da rendere più efficiente l’attività. Addirittura questa tesi, in alcuni casi, si spinge a dire che neppure l’autorizzazione all’accesso nei locali dell’impresa risponde ad una tutela dell’interesse del privato: basta un’autorizzazione del capo dell’ufficio che è un soggetto interno all’amministrazione, non un organo di garanzia. Vuol dire che è solo un potere che è sottoposto ad una condizione di efficienza: dev’essere chi governa le risorse che dice dove è opportuno accedere, ma l’autorizzazione viene dallo stesso soggetto che poi decide di entrare: l’agenzia delle entrate. Questo dimostra che l’interesse non è veramente un interesse del privato, ma un interesse all’efficienza all’azione amministrativa.

In questa prospettiva non tutte le regole sono uguali: ci sono regole che rispondono ad un interesse di carattere pubblico ed altre che corrispondono ad un interesse di carattere privato, e a dei diritti che devono essere tutelati. Questa tesi dice che il principio dell’inutilizzabilità della prova si applica solo alle violazioni di norme che sono poste a presidio di diritti soggettivi del privato (es. domicilio), altrimenti la prova pur illegittimamente acquisita potrà essere utilizzabile (caso della violazione di norme che riguardano interessi organizzativi dell’amministrazione).

3.15.3.1 Conseguenze

Se il funzionario ha acquisito prove violando la legge ne risponderà in base ai principi disciplinari, di responsabilità contabile,… tutto quello che riguarda la sfera giuridica interna

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dell’amministrazione; ma non riguarderebbe l’acquisizione legittima di quella prova nel procedimento tributario.

La sentenza della Corte di Cassazione che ha dato avvio a questa prospettiva è del 2000 e riguardava un caso del tipo: un funzionario aveva fatto un illegittimo accesso nei locali di un’impresa, in assenza della prescritta autorizzazione, ma aveva trovato prova dell’esistenza di una contabilità nera e quindi della totale inattendibilità dell’impianto contabile. Probabilmente il giudice, mosso da un senso di giustizia sostanziale, ritenne che di fronte a prove macroscopicamente tali da dimostrare fatti di evasione, un semplice vizio dell’autorizzazione non fosse sufficiente a far crollare l’accertamento. Affermò che ne avrebbe risposto sul piano disciplinare il funzionario.

Critica probabilmente legata alle incertezze interpretative che questa norma presenta: come si fa a dire che una certa regola di garanzia tutela interessi pubblici e un’altra tutela diritti soggettivi? Come faccio a trovare il criterio per discriminare le due situazioni? Abbiamo detto: la durata delle verifiche, ma chi mi dice che dietro la durata delle verifiche sta puramente un’esigenza organizzativa? Con altrettanta ragionevolezza potrei dire che stanno diritti soggettivi del contribuente, quali la libertà di iniziativa economica, la libertà di svolgere la propria attività economica senza il peso di un controllo che si trascina a tempo indeterminato. La debolezza di questa tesi è che si presta a dei distinguo che sono frutto di interpretazione e ricostruzione da parte di chi si avvicina alle regole di garanzia. Si presta a delle incertezze ricostruttive che finiscono col far preferire la tesi sull’inutilizzabilità della prova.

Dobbiamo tener presente lo schema generale. Dichiarazione, con il sistema dell’autotassazione. All’interno di questo meccanismo di autotassazione dobbiamo innestare i controlli. I primi controlli sono i controlli formali del 36bis: tutte le dichiarazioni passate al setaccio con gli strumenti informatici per vedere se emergono degli errori materiali o di calcolo. La seconda tipologia di controlli è quella dei controlli sostanziali del 36ter: si va a vedere se i dati dichiarati corrispondono ai documenti di supporto alla dichiarazione. Dunque controlli selettivi, cioè seconda tipologia di controlli sulla dichiarazione che però non riguardano tutte le dichiarazioni, ma selettivamente quelle individuate con decreto ministeriale perché è un controllo che richiede un confronto con i documenti. Terza fase sempre selettiva: controlli sostanziali della dichiarazione, diretti a vedere se il contribuente ha evaso, se la dichiarazione è infedele (per comportamenti dolosi o per semplice errore). A questo scopo si attuano metodologie di controllo che sono quelle che abbiamo visto: metodi analitico e sintetico per la persona fisica; analitico e induttivo per i soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili. La costruzione di questi metodi si basa su prove: le prove sono acquisite attraverso i poteri istruttori che abbiamo esaminato (poteri maggiori e poteri minori). Quando abbiamo acquisito le prove siamo in grado di strutturare il metodo di accertamento perché siamo in grado di valutare la tipologia di metodo che più si adatta in relazione alle prove raccolte, e dunque una volta che ho raccolto le prove sono in grado di procedere al recupero del tributo: acquisire il tributo dovuto attraverso la ricostruzione istruttoria dell’amministrazione finanziaria.

3.16 L’ avviso di accertamento

L’atto con cui l’amministrazione procede al recupero del tributo dovuto è un preciso atto provvedimentale che si chiama avviso di accertamento. Questo è il provvedimento impositivo per eccellenza. Questo provvedimento ha subito una rilevantissima modifica nella sua natura e nelle sue caratteristiche con il decreto 78/2010. L’avviso di accertamento è il provvedimento con cui l’amministrazione procede, all’esito dell’attività di indagine compiuta, alla quantificazione del tributo dovuto dal contribuente e ne chiede il versamento. È un atto con cui l’amministrazione formalizza la sua pretesa impositiva.

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È un provvedimento (un atto provvedimentale) in quanto modifica unilateralmente (ha la forza di imporsi unilateralmente) la sfera giuridica del soggetto passivo, in quanto il tributo in esso contenuto è oggetto di un obbligo per il contribuente di provvedere all’adempimento, al pagamento.

È un atto formale: è soggetto cioè ad alcuni requisiti di forma che sono regolati specificamente all’art. 42 del decreto 600/1973 (disciplina gli elementi che deve contenere l’avviso di accertamento); dev’essere immediatamente riconoscibile come avviso di accertamento, quindi deve recare il nomen iuris avviso di accertamento; dev’essere sottoscritto dal capo dell’ufficio o da un suo delegato, quindi deve essere espressione della titolarità del potere impositivo. Esistono anche requisiti di sostanza come la motivazione del provvedimento.

È un atto esecutivo in quanto è idoneo, se il contribuente non si oppone, a fondare l’esecuzione coattiva. Su questo elemento di esecutività ha inciso in maniera decisiva la legge di riforma: decreto 78/2010. Fino a questa legge l’avviso di accertamento non era titolo esecutivo: era un atto esecutivo perché poteva fondare la riscossione forzata, ma non era titolo esecutivo. Per essere portato ad esecuzione l’accertamento aveva bisogno di un titolo esecutivo, che era il ruolo di riscossione, la cartella di pagamento. Adesso il ruolo di riscossione, la cartella di pagamento non ci sono più: sono stati abrogati dal decreto per tutte l’area delle imposte dirette, IVA e IRAP. Per queste materie l’avviso di accertamento è anche titolo esecutivo, quindi è a tutti gli effetti un atto esecutivo. Oggi quindi possiamo dire che l’avviso di accertamento è atto esecutivo nel senso che costituisce titolo esecutivo, e quindi fonda il pignoramento, può essere posto a base dell’azione di esecuzione forzata che si concretizza per esempio nell’esecuzione forzata.

È un atto esecutorio, nel senso che si consolida ed è suscettibile di acquisire definitività e immodificabilità qualora non venga impugnato nel termine di 60 giorni. Quindi se entro 60 giorni il contribuente non lo contesta, quell’atto diventa definitivo e immodificabile.

È un atto recettizio, cioè è un atto che si perfeziona con la sua notizia e soprattutto dopo il decreto 78/2010 si deve ritenere che la notifica è essenziale al perfezionamento dell’atto: la notifica è una parte strutturale dell’atto, senza la notifica l’atto non viene neppure ad esistenza. Produce i suoi effetti e perfeziona la sua fattispecie nel momento in cui viene notificato.

È un atto vincolato, cioè nella categoria dei provvedimenti amministrativi può essere ascritto all’ambito dei provvedimenti vincolati. La differenza tra provvedimenti discrezionali e provvedimenti vincolati è che i primi contengono una ponderazione di interessi, i secondi esprimono l’applicazione della legge riferibile alla fattispecie. È un atto vincolato in quanto applicativo della pertinente normativa fiscale di riferimento; quindi attraverso l’atto di accertamento l’amministrazione applica alla fattispecie le pertinenti norme fiscali: quindi non ci sono momenti di discrezionalità in questa fase. Possiamo dire che la caratteristica strutturale dell’accertamento è la vincolatezza; è possibile che il documento contenga elementi di discrezionalità che riguardano quegli aspetti di discrezionalità della fase istruttoria.

(2/4/2012) Abbiamo descritto le caratteristiche dell’atto impositivo, del provvedimento che chiude le fasi delle indagini, abbiamo individuato le caratteristiche sottolineando il carattere provvedimentale, la sua ascrivibilità alla categoria dei provvedimenti amministrativi a contenuto vincolato, in quanto l’essenza dell’atto è l’applicazione delle norme tributarie applicate alla fattispecie, quindi non ha elementi di discrezionalità. Vi possono essere elementi che possono ricondurre il provvedimento alla natura dei provvedimenti discrezionali, nella parte in cui contiene la ponderazione di interessi; un esempio di contenuto discrezionale sono i mezzi che l’ amministrazione utilizza per procedere all’attività d’indagine. Altre caratteristiche:richiede rigorosi requisiti di forma, è un atto esecutivo che fonda l’esecuzione coattiva e, a partire dai provvedimenti notificati a decorrere da ottobre 2011, ha la natura di

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titolo esecutivo�atto esecutivo. È, inoltre, un atto esecutorio perché diviene definitivo se non impugnato ed è recettizio, perché produce i suoi effetti attraverso la notifica.

Dopo la riforma introdotta dal decreto 78 /2010, l’atto impositivo mal notificato è illegittimo, quindi la notifica completa la fattispecie.

Ricapitoliamo le caratteristiche fondamentali dell’atto impositivo:

1. carattere provvedimentale 2. contenuto vincolato 3. requisiti di forma 4. atto esecutivo ed esecutorio 5. atto recettizio

3.16.1 I contenuti del provvedimento

Deve essere riconoscibile come atto impositivo, avviso di accertamento.

Deve, inoltre, contenere la pretesa dell’amministrazione finanziaria e per tale ragione è ovvio che l’avviso di accertamento conterrà l’indicazione dell’avviso imponibile accertato e quindi l’accertamento conterrà l’indicazione del maggior imponibile accertato; l’indicazione dell’aliquota di imposte applicate e della liquidazione dei tributi dovuti: è, infatti, un atto che manifesta la pretesa dell’amministrazione. L’avviso di accertamento conterrà anche l’irrogazione delle sanzioni previste per le violazioni commesse dal contribuente. Dovrà esser sottoscritto da un capo dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate o da un suo delegato e dovrà esser motivato.

Ricapitolando, occorrono: la formalizzazione della pretesa della pretesa (indicazione dell’ imponibile, aliquota, imposta), sanzioni, sottoscrizione, motivazione�elementi che avviso di accertamento deve contenere.

d.P.R. 600/1973

42 - (Avviso di accertamento)

Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d'ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante

la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui

delegato.

L'avviso di accertamento deve recare l'indicazione dell'imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote

applicate e delle imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute di acconto e dei crediti

d'imposta, e deve essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno

determinato e in relazione a quanto stabilito dalle disposizioni di cui ai precedenti articoli che sono state

applicate, con distinto riferimento ai singoli redditi delle varie categorie e con la specifica indicazione dei

fatti e delle circostanze che giustificano il ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato

riconoscimento di deduzioni e detrazioni. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né

ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama salvo che quest'ultimo non ne

riproduca il contenuto essenziale.

L'accertamento è nullo se l'avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente

articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui all'ultimo periodo del secondo comma.

Dall’art. 42 si ricava che se manca o è incerto uno di questi elementi, l’avviso è nullo. Possiamo ritenere, aderendo alla posizione prevalente, che quando il legislatore fa riferimento alla nullità, non fa riferimento al concetto di nullità - inesistenza della sfera civilistica, ma ad un vizio radicale dell’atto amministrativo che deve essere fatto valere mediante impugnazione dell’atto. Questa

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nullità, quindi, non è civilistica, che fa sì che l’atto sia totalmente inidoneo a produrre effetti, ma si tratta di un atto provvedimentale e la nullità deve essere fatta valere tramite impugnazione: non si tratta di un vizio che fa venir meno l’esecutorietà dell’atto,l’atto rimane esecutorio ( diventa definitivo se non si impugna), ma l’impugnazione può esser funzionale a far valere i motivi di nullità�si parla di conversione della nullità in motivi di gravame, quindi la nullità diventa motivo di vizio; se non c’è l’impugnazione l’atto si consolida.

3.16.2 La motivazione dell’atto

L’elemento su cui concentriamo la nostra attenzione è la motivazione dell’atto: la motivazione è l’elemento centrale perché l’ufficio esplicita, formalizza le ragioni per cui ha proceduto al recupero del tributo nei confronti del contribuente: è un elemento essenziale del contenuto dell’atto.

Per motivazione si intende far riferimento alla esplicitazione delle ragioni di fatto e dei motivi di diritto che hanno condotto al recupero. L’ufficio deve esplicitare l’iter logico - giuridico , ovvero le ragioni di fatto e di diritto, seguito per pervenire alla ricostruzione del maggior imponibile.

La motivazione deve ulteriormente esplicitare altri snodi essenziali dell’attività: deve esplicitare le ragioni relative alla scelta del metodo adottato, indicandone i presupposti.

I metodi hanno specifici presupposti ( v. art. 39 d.P.R 600/1973 richiede di esplicitare il presupposto relativo all’inattendibilità delle scritture; deve essere un elemento esplicitato nella motivazione dell’avviso di accertamento; se l’ accertamento induttivo si forma sul presupposto della mancata collaborazione del contribuente all’attività istruttoria occorrerà che la motivazione sia esplicitata nell’avviso di accertamento. Se il soggetto utilizzerà l’accertamento sintetico con riferimento agli indici di spesa, occorrerà nella motivazione

dell’avviso tener conto dei presupposti.

Ricapitolando:

a) Prima parte: abbiamo un primo livello di motivazione�motivazione dell’ iter logico - giuridico;

b) Seconda parte: esplicitazione delle ragioni di scelta di metodi di accertamento.

Alla motivazione è affidata la determinazione dei presupposti che stanno alla base della pretesa dell’amministrazione.

3.16.2.1 Le funzioni della motivazione

Le funzioni sono duplici:

1. ragione esterna

2. ragione interna

3.16.2.1.1 La ragione esterna

Qual è la ragione esterna della motivazione? Caratterizza, o meglio, permette la comprensibilità da parte del destinatario del provvedimento, delle ragioni dell’atto, dei presupposti che costituiscono il fondamento dell’atto, di comprendere il percorso argomentativo seguito dall’ufficio per pervenire al recupero. Questa ragione è funzionale alla predisposizione dei mezzi di difesa da parte del soggetto destinatario perché permette la comprensione del provvedimento.

Quali sono i motivi che l’ufficio pone a base del recupero?

È strettamente funzionale a garantire il diritto di difesa.

È esterna perché lo scopo vale a salvaguardare gli interessi di un soggetto diverso dall’amministrazione, il contribuente, il destinatario dell’atto.

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3.16.2.1.2 La funzione interna

La funzione interna attiene alla formazione dell’atto e al riparto di competenze interne nell’organizzazione amministrativa.

L’attività d’indagine può esser svolta dall’ufficio o dalla polizia tributaria, o meglio, dalla Guardia di finanza in funzione di polizia tributaria.

Il titolare della funzione impositiva è l’ufficio; è il capo dell’ufficio o funzionario da lui delegato che possono sottoscrivere l’atto impositivo, non il comandante della Guardia di finanza, perché la polizia tributaria è organo ausiliario degli uffici, ma non è titolare della funzione impositiva. Allora quando l’attività d’indagine viene compiuta dalla Guardia di finanza, i risultati dell’istruttoria sono formalizzati in un atto compiuto dalla Guardia di finanza che non è titolare della funzione.

L’avviso di accertamento serve a valutare criticamente i risultati di un’attività d’indagine compiuta da organi ausiliari, la Guardia di finanza.

La motivazione è strettamente funzionale al recepimento critico e consapevole dei risultati dell’attività d’indagine allorquando sia compiuta da soggetti diversi. Quindi la motivazione che esplicita l’iter logico - giuridico seguito dall’ufficio serve a garantire la suitas della condotta dell’ufficio, cioè che l’ufficio si appropri dei risultati dell’indagine. Serve a che l’ incidenza su posizioni soggettive del privato venga effettuata in maniera critica e consapevole. Questo rende la motivazione un contenuto particolarmente meditato, alla luce di una valutazione critica e consapevole dell’attività d’indagine compiuta dagli altri, da un organo ausiliario come la Guardia di finanza.

Questo rimane vero anche quando l’attività d’indagine è compita dagli stessi funzionari dell’ufficio perché vi è bisogno alla chiusura dell’istruttoria di una attenta ponderazione dei risultati dell’indagine e questa analisi viene compiuta nel momento di confezione dell’avviso di accertamento. Questo vale anche quando sono i funzionari a volgere l’attività d’indagine.

La valutazione del materiale istruttorio raccolto permette di analizzare se effettivamente quei rilievi sono fondati e questa è una funzione interna e non esterna perché riguarda l’organizzazione amministrativa in modo che quel provvedimento amministrativo che esce sia attentamente ponderato.

3.16.2.2 Il vizio della motivazione; la mancata ponderazione

Se viene meno questa fase essenziale di ponderazione, se l’ufficio si limita a recepire acriticamente i risultati dell’indagine, si può parlare di vizio della motivazione perché è una motivazione apparente, esteriore perché l’ufficio si è limitato a recepire un’attività d’indagine non oggetto di ponderazione critica, è una motivazione apparente. Allora il privato in sede di impugnazione dell’atto può sollevare il vizio di illegittimità della motivazione. Non sarà facile capire quando l’onere di motivazione del provvedimento sia venuto meno per violazione della funzione interna della motivazione, perché il contenuto è presentato, ma è acriticamente recepita l’attività d’indagine altrui. In alcuni casi è possibile dimostrarne l‘esistenza sulla base di indizi.

Vediamo alcuni esempi:

- la difesa ha sollevato il vizio di motivazione per difetto di ponderazione critica, elemento interno della motivazione.

- (ultimante però gli uffici non usano più questa prassi) caso in cui l’attività d’indagine veniva compiuta dalla Guardia di finanza che aveva fatto degli accessi domiciliari o di impresa e aveva predisposto un atto, il processo verbale di constatazione, nel quale indicava tutti i rilevi e le contestazioni mosse al contribuente. Questo atto solitamente veniva motivato da parte dell’ufficio con un rinvio integrale al processo verbale

predisposto dalla Guardia di finanza.

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C’era una esplicitazione del quantum, però poi si rinviava acriticamente a quanto stabilito nel processo verbale�c’era una delega nell’esercizio della funzione impositiva. Questo era un caso in cui il contribuente ha sempre contestato per difetto di motivazione. Questa prassi oggi non si riscontra più perché l’ufficio evita queste incertezze e riproduce il contenuto dimostrandone la condivisione. Oggi vi è una motivazione

modellata a quella che emerge dai risultati dell’istruttoria.

Però in questi casi la motivazione c’è, non si può dire che non ci sia. Allora può essere più difficile sollevare il vizio. Ma è possibile quando emergono elementi dai quali risulti che la ponderazione è mancata. Quali sono questi indizi? Bisogna guardare caso per caso.

Vediamo un episodio in cui queste cose si sono verificate: consideriamo l’ analisi dei concreti provvedimenti.

La Guardia di finanza nel predisporre l’atto conclusivo di istruttoria, elencava dei rilievi e argomentava questi dicendo che il contribuente aveva violato la norma tributaria, richiamando della giurisprudenza della Cassazione a sostegno dei suoi assunti. Tuttavia nei richiami della giurisprudenza di Cassazione erano presenti degli errori sia nella citazione delle sentenze, erroneamente riportate dal punto di vista della data, sia con riferimento al contenuto del dispositivo della sentenza, non pertinente alla fattispecie. Nell’accertamento dell’ufficio c’era il medesimo errore�l’errore si riproponeva nell’avviso di accertamento e questo era il segno che l’ufficio non era andato a leggersi le sentenze, ma non aveva fatto alcuna valutazione critica, se quei richiami erano corretti oppure no. La motivazione c’era, ma era apparente.

Altro caso: controllo su un gruppo multinazionale di società. Ce n’è una che ha un fatturato modesto di un milione di euro. L’ufficio della Guardia di finanza attribuisce erroneamente a quella società il fatturato di cento milioni di euro. È un travisamento dei fatti. Nell’avviso di accertamento si trova lo stesso errore, riscontrabile dall’analisi dei fatturati della società; segno che la motivazione era soltanto apparente.

Altro caso: processo verbale di constatazione che chiude l’indagine dell’ufficio; utilizza delle tabelle in cui sono esplicitate le perdite pregresse di ciascuna società del gruppo. I dati delle perdite sono sballati, le

perdite dell’una società, sono in realtà perdite dell’altra.

Questo errore si trova nell’avviso di accertamento. Allora da questa esemplificazione possiamo dire che è evidente che quando la motivazione c’è, è difficile capire se è apparente o no ma il difensore deve avere cura di vedere i risultati dell’ istruttoria e vedere se ci sono imprecisioni. Se ci sono questi errori e sono riportati nell’avviso di accertamento, questo può essere un indizio di inconsapevolezza, indice di una mancata ponderazione della formazione dell’atto, inammissibile delega del potere impositivo. Se ci sono degli errori in questa fase, ci troviamo di fronte ad una motivazione apparente.

Sintesi: la motivazione contiene una descrizione dell’iter logico seguito; duplice funzione: rendere conoscibile il percorso e rendere effettiva la difesa del contribuente (legata all’art. 24 Cost.); funzione interna:azione ponderata, critica consapevole; se manca, la motivazione è solo apparente.

3.16.2.3 Rapporto tra motivazione e prova.

Quando ci riferiamo alla motivazione, ci riferiamo ad un provvedimento che chiude un’attività d’indagine. Nel nostro schema mentale, alla dichiarazione segue l’attività d’indagine, che consente la raccolta di prove in base ai metodi di accertamento e che conducono ad un possibile recupero. L’accertamento giunge a seguito di un’attività d’indagine.

Il problema del rapporto tra motivazione e prova sta in questi termini: è necessario che la motivazione indichi le prove che sono state acquisite nel corso dell’istruttoria e che costituiscono il fondamento costitutivo della pretesa? È necessario che nella motivazione siano indicate tutte le prove raccolte nel corso dell’istruttoria e che fondano la pretesa?

Possiamo fornire una risposta a questa domanda sulla base di una serie di elementi di principio e di dati normativi.

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L’art. 42 d.p.R 600/1973 non esplicita una preferenza da cui desumere la sussistenza di questo obbligo di indicazione delle prove. Non dice se l’avviso deve o no indicare le prove. Allora si potrebbe ricollegarsi ai principi per dare una risposta a questa domanda.

3.16.2.3.1 Principi

Primo ricollegamento in funzione della stessa difesa; la pienezza del diritto di difesa il contribuente la acquisisce nel momento in cui ha la consapevolezza delle prove che stanno alla base della rettifica, per capire se la motivazione è solida oppure no. Quindi l’esplicitazione delle prove è funzionale al diritto di difesa; allora motivare vuol dire anche indicare le prove, se serve per l’attuazione del diritto di difesa. Questo è il primo argomento.

Un secondo elemento che induce a propendere per l’obbligo di indicazione delle prove deriva dall’art 97 cost., principio di buon andamento o funzionamento degli uffici. Se l’amministrazione mantiene un comportamento oscurantista rispetto alle prove, non ha un incedere trasparente, ispirato a criteri di buon andamento inteso come tutela e salvaguardia degli interessi degli amministrati. È un atteggiamento che non si pone in linea con la lettura dell’art. 97 cost. come garanzia per i privati, affermata dalla Cassazione nella sent. 3559/2009. Questo articolo non viene adeguatamente rispettato se le prove non sono indicate.

3.16.2.3.2 Indicazioni normative

Le possiamo trarre dal sistema, elementi di diritto positivo:

Statuto dei diritti del contribuente

7. Chiarezza e motivazione degli atti

1. Gli atti dell'amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto

dall'articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei

provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che

hanno determinato la decisione dell'amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento

ad un altro atto, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama.

2. Gli atti dell'amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono

tassativamente indicare:

a) l'ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all'atto

notificato o comunicato e il responsabile del procedimento;

b) l'organo o l'autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame

anche nel merito dell'atto in sede di autotutela;

c) le modalità, il termine, l'organo giurisdizionale o l'autorità amministrativa cui è possibile

ricorrere in caso di atti impugnabili.

3. Sul titolo esecutivo va riportato il riferimento all'eventuale precedente atto di

accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria.

4. La natura tributaria dell'atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia

amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti.

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Art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, l. 212/2000: la motivazione degli atti tributari. Gli atti dell’amministrazione finanziaria (qualsiasi atto e non necessariamente l’avviso di accertamento) sono motivati secondo quanto prescritto dall’art 3 della legge 241/ 1990� art. 3 l 241: norma che fa espresso riferimento all’istruttoria. Esiste in questo richiamo la possibilità di affermare che il contenuto della motivazione deve essere modellato da quello che è previsto dall’art 3 l. 241/1990. Parrebbe di dover concludere che le prove devono essere indicate.

Decreto IVA, n. 633/1972.

56. Notificazione e motivazione degli accertamenti

1. Le rettifiche e gli accertamenti sono notificati ai contribuenti, mediante avvisi motivati, nei modi stabiliti per

le notificazioni in materia di imposte sui redditi, da messi speciali autorizzati dagli uffici dell'imposta sul valore

aggiunto o dai messi comunali.

2. Negli avvisi relativi alle rettifiche di cui all'art. 54 devono essere indicati specificamente, a pena di nullità, gli

errori, le omissioni e le false o inesatte indicazioni su cui è fondata la rettifica e i relativi elementi probatori.

Per le omissioni e le inesattezze desunte in via presuntiva devono essere indicati i fatti certi che danno

fondamento alla presunzione.

3. Negli avvisi relativi agli accertamenti induttivi devono essere indicati, a pena di nullità, l'imponibile

determinato dall'ufficio, l'aliquota o le aliquote e le detrazioni applicate e le ragioni per cui sono state ritenute

applicabili le disposizioni del primo o del secondo comma dell'art. 55.

4. Nelle ipotesi di cui al quarto comma dell'art. 54 e al terzo comma dell'art. 55 devono essere inoltre indicate,

a pena di nullità, le ragioni di pericolo per la riscossione dell'imposta.

5. La motivazione dell'atto deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno

determinato. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente,

questo deve essere allegato all'atto che lo richiama salvo che quest'ultimo non ne riproduca il contenuto

essenziale. L'accertamento è nullo se non sono osservate le disposizioni di cui al presente comma.

Esiste simmetria nella disciplina relativa alle imposte dirette anche con riferimento ad altri tributi. L’art 56 è l’esatto omologo dell’art 42 del decreto 600 / 1973 e riguarda gi accertamenti in materia IVA.

Questa disposizione dice che negli avvisi relativi alle rettifiche Iva devono essere indicati a pena di nullità….. E i relativi elementi probatori�la motivazione deve dar conto degli errori commessi dal contribuente, ma anche degli elementi probatori che stano alla base della rettifica. Per cui il silenzio normativo non è espressione di una volontà diretta ad escludere l’indicazione delle prove. Se guardiamo al sistema emerge l’obbligo di indicazione delle prove.

Dunque dobbiamo concludere che la motivazione nella quale manchi l’esplicita indicazione delle

prove è invalida, viziata.

Se alla luce di ciò rileggiamo l’art. 42 vediamo che lo stesso contiene degli elementi che ci dicono che le prove vanno indicate. La norma dice che l’avviso di accertamento deve essere motivato in

relazione ai presupposti di fatto e di diritto che lo hanno determinato e in relazione a quanto

stabilito alle disposizioni dei precedenti articoli che sono state applicate.

Nei precedenti articoli c’ è, per es., l’art. 32, art. 33 (accessi ispezioni e verifiche). Allora forse motivare vuol dire motivare in relazione ai mezzi di prova che sono stati impiegati. Allora anche il 42 può esser letto in maniera simmetrica e potrebbe emergere l’obbligo di indicazione delle prove.

Conclusione: le prove devono essere indicate e questa obbligo deriva dal sistema e dai dati postivi; l’omessa indicazione costituisce violazione di legge e vizio di motivazione.

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3.16.2.4 La motivazione per rinvio o per relationem

Ci riferiamo all’ipotesi in cui l’ufficio motiva il proprio atto rinviando ad un atto diverso, che non è parte dell’avviso di accertamento ma ad esso estraneo. Non è il caso del rinvio al processo verbale, è un caso in cui l’ amministrazione fa un indagine allo specifico contribuente in cui si esprime una inammissibile delega della funzione impositiva.

Esempi: l’amministrazione finanziaria sta motivando un avviso di accertamento e intende far riferimento a dei verbali di interrogatorio resi da un soggetto terzo alla polizia giudiziaria nel corso di un indagine penale per frode fiscale internazionale, o di truffa ai danni della Comunità europea. C’è un transito di un verbale acquisito che viene richiamato nell’avviso di accertamento perché rinvia nel contento della motivazione ad un

atto diverso ed estraneo al provvedimento imposto.

Come si deve comportare l’amministrazione per garantire il diritto di difesa?

L’art. 7 dello statuto dei diritti del contribuente che dice che se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto questo deve essere allegato all’atto che lo richiama.

Sussiste un obbligo di allegazione. Nel caso in cui l’avviso di accertamento faccia riferimento ad un diverso atto esterno alla sfera di conoscibilità del contribuente, deve esose allegato. In calce si

dovrebbe trovare copia del verbale di interrogatorio, per esempio.

Se leggiamo l’art 42 d.P.R 600/1973, si trova questa regola: se la motivazione fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato, salvo che l’amministrazione non ne riproduca il contento

essenziale. Stabilisce una deroga alla norma statutaria. Questa norma è stata inserita nel 2000 con l’obiettivo di attuare lo statuto. Però dà una disposizione che non è attuativa dello statuto.

Dobbiamo chiederci qual è la funzione dell’allegazione? Per una ragione strettamente connessa al diritto di difesa. Perché se qualcun altro ha detto qualcosa sul mio conto, io voglio vedere quel qualcosa: devo poter acquisire direttamente quell’atto che produce effetto pregiudizievole nei miei confronti.

Il contribuente esercita allora il diritto d’accesso? Però questo richiede dei tempi: ricevo la notifica dell’avviso di accertamento, ho 60 gg per impugnarlo e in questi 60 gg devo esercitare il diritto d’accesso. Nel diritto tributario il diritto d’accesso agli atti amministrativi è fortemente condizionato, esso è possibile solo dopo la chiusura del procedimento per esigenze di segretezza dell’istruttoria. Se si ha sentore che sarà utilizzato quel verbale, non si può chiedere anticipatamente quell’accesso.

È evidente che avete 60 gg per impugnare, ma avete anche bisogno del tempo per procurarvi l’atto per difendervi adeguatamente. Vuol dire che la tempistica dell’accesso comprime il diritto di difesa; procurare il documento vuol dire perdere tempo! Tutto questo tempo passa e si comprime il diritto di difesa, per difendersi in causa cognita si perde tempo per trovare l’atto.

È per quello che il legislatore ha detto che va allegato.

Quando in sede di attuazione dello statuto si dice che può essere riprodotto il contenuto

essenziale di quell’atto cosa vuol dire? E chi riproduce il contenuto essenziale? Chi mi dice che il contenuto essenziale del prodotto sia quello effettivo e che l’amministrazione non abbia riprodotto la parte di contenuto che serviva per dimostrare le sue pretese? Chi mi dice che non ci fossero dichiarazioni favorevoli al contribuente e che l’amministrazione non abbia riprodotto?

Per dare questa risposta devo vedere l’atto. Quindi se l’amministrazione si limita a riprodurre il contenuto essenziale, ripropone il medesimo problema che deriva dalla mancata allegazione; devo procurarmi il documento mediante l’esercizio del diritto di accesso. Con l’obiettivo di attuare lo statuto del contribuente, l’art. 42 ha svuotato la garanzia statutaria stabilendo una sorta di

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soluzione alternativa che in realtà non salvaguarda il diritto di difesa perché impone comunque la visione dell’atto attraverso l’esercizio del diritto di accesso.

Domanda: ma non si potrebbe verificare nel caso di mancanza di motivazione la violazione dell’interesse legittimo del contribuente?

Sì, l’amministrazione compierebbe una scelta discrezionale e si potrebbe prospettare la violazione dell’interesse legittimo per mancanza della motivazione. In questo caso si dovrebbe dire che la scelta apparterrebbe all’area dei poteri discrezionali e sarebbe possibile riprodurre il contenuto essenziale quando sussistano ragioni che impongono questa soluzione come nel caso in cui il pm avesse autorizzato la pubblicazione di parte del contenuto perché l’altra parte l’ha voluta secretare.

3.16.3 L’accertamento come atto unico e globale.

(3/4/2012) Ultima cosa sulle caratteristiche dell’accertamento. Dobbiamo considerare l’avviso di accertamento un atto unico e globale. Significa che questo provvedimento, che contiene la rideterminazione del tributo dovuto da parte dell’amministrazione, deve prendere in considerazione l’intera posizione fiscale del contribuente. Cioè deve chiudere una fase di controllo nella quale la situazione fiscale del contribuente è sottoposta ad un controllo completo ed unitario. Significa che l’amministrazione non può usare l’avviso di accertamento per accertare frammenti del presupposto, ma deve considerare nel complesso la posizione fiscale del privato.

Dunque l’accertamento è un atto che chiude il controllo definendo la posizione fiscale del contribuente. Si vuole che l’avviso di accertamento si ponga al termine di un procedimento in cui l’adempimento degli obblighi tributari da parte del contribuente è sottoposto ad un controllo globale e complessivo. Si vuole evitare lo spezzettamento degli avvisi di accertamento, che il soggetto cioè subisca una serie di atti di accertamento in successione. Questo perché l’avviso di accertamento è atto autoritativo, caratterizzato dunque da una particolare incidenza sulle posizioni soggettive del privato, e se l’amministrazione potesse reiterare una serie di avvisi con la rideterminazione di pezzetti del presupposto d’imposta, il soggetto sarebbe tenuto ad oneri difensivi troppo gravosi dovendo prendere posizione sugli specifici atti impositivi di volta in volta notificati. Si vuole che l’atto di accertamento chiuda globalmente il controllo.

Questo principio di unitarietà dell’accertamento è un principio che potremmo definire tendenziale. Nel passato poteva considerarsi un vero e proprio dogma, era una caratteristica strutturale dell’avviso di accertamento. Questo è ancora vero, ma questo principio, con le riforme degli ultimi anni, ha subito un contenimento quindi oggi possiamo dire si tratti di un principio tendenziale: esistono diverse ipotesi in cui questo principio di unitarietà e globalità subisce delle restrizioni. Questo principio, in linea di massima, subisce 2 deroghe:

- accertamenti integrativi e modificativi;

- accertamenti parziali.

3.16.3.1 Accertamenti integrativi e modificativi.

Si tratta di integrazioni o modificazioni in aumento. Quindi l’intervento dell’amministrazione finanziaria costituisce un aggravamento dell’accertamento originario. Art.43 comma 4 del d.P.R. 600/1973 disciplina questi accertamenti. Questa disposizione dice che quando il soggetto ha ricevuto la notifica di un avviso di accertamento, questo provvedimento può essere integrato e modificato in aumento soltanto a certe condizioni: quando sopravvenga la conoscenza da parte dell’amministrazione di nuovi

elementi che permettano l’integrazione o la modifica.

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L’amministrazione deve indicare nella motivazione quali siano questi nuovi elementi di conoscenza, nella motivazione andranno anche specificati i fatti, le circostanze in forza delle quali l’amministrazione ha acquisito conoscenza di questi nuovi elementi.

Cosa si intente per integrazione e modificazione? Quando si parla di accertamenti integrativi in aumento si fa riferimento ad un intervento sul provvedimento che implica un suo ampliamento. Integrazione significa aggiunta: l’amministrazione aggiunge ulteriori constatazione, ulteriori rilievi, evidenzia ulteriori profili di violazione rispetto a quelli contenuti nell’accertamento originario. Con una parola: integra l’accertamento originario, lo implementa introducendo nuovi ed ulteriori rilievi non contenuti nel precedente atto.

Esempio: nell’avviso di accertamento l’amministrazione contesta che il contribuente ha violato determinate norme relative al reddito d’impresa e ha dedotto costi indeducibili relativi alla sfera meramente personale dell’imprenditore (si è spesato una vacanza e l’ha dedotta dai redditi d’impresa). Supponiamo che l’amministrazione, successivamente alla notifica dell’accertamento, venga a conoscenza che questo soggetto ha venduto dei beni in nero, senza fattura e così ha occultato dei ricavi. Si tratta di due profili diversi:

- indeducibilità dei costi, che ha formato la base del primo accertamento;

- vendite in nero. Questa contestazione costituisce integrazione dell’accertamento originario che

risulta implementato, incrementato in aumento.

Negli accertamenti modificativi (modifica in aumento) l’ intervento dell’amministrazione consiste nella modificazione, nel mutamento del presupposto della rettifica: l’amministrazione cambia la prospettiva dell’accertamento, cambia quindi anche la motivazione del recupero. Si tratta di un mutamento radicale dell’impostazione originale che l’atto aveva.

Esempio: un contribuente ha subito un controllo sui conti bancari, dal quale è emerso che vi erano prelievi e versamenti. L’amministrazione ritenne che il soggetto esercitasse l’attività di prestito ad usura (uscita di 100mila euro; dopo sei mesi ne rientrano 150mila). Gli interessi vengono recuperati a tassazione come reddito di capitali. Supponiamo che poi l’amministrazione, sulla base di sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, si rende conto che quelle movimentazioni bancarie corrispondono a operazioni non contabilizzate relative ad un’attività d’impresa in nero. Qui c’è un mutamento radicale del presupposto dell’accertamento: si passa dalla tassazione di redditi di capitale ad una diversa ricostruzione dell’accertamento per cui la contestazione riguarda l’evasione di redditi d’impresa. Vi è un mutamento radicale della motivazione dell’accertamento e del relativo presupposto.

Questa modificazione può essere considerata come una vera e propria modificazione quantitativa dell’accertamento che però incide sul presupposto. Questa è la distinzione tra accertamenti modificativi e accertamenti integrativi incide anche sul rapporto tra l’accertamento originario e l’accertamento integrativo. Nel caso di accertamento integrativo si può dire che il secondo accertamento integra e completa l’accertamento originario; in caso di modificazione si realizza una sostituzione dell’accertamento originario.

3.16.3.1.1 Cosa significa sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi?

Secondo la prevalente giurisprudenza, per integrare il presupposto della sopravvenuta conoscenza, non è sufficiente che l’amministrazione acquisisca cognizione di nuovi fatti. Non basta che si passi da uno stato di ignoranza ad uno stato di conoscenza, occorre che i nuovi elementi non solo non fossero conosciuti (cioè fossero ignorati), ma non fossero neppure conoscibili con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza da parte dell’amministrazione nel momento in cui esercitò i poteri di controllo (non fossero nemmeno conoscibili con l’uso degli ordinari poteri istruttori).

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Esempio: l’amministrazione effettua un accesso domiciliare nei confronti di un contribuente in quanto ritiene esistere gravi indizi di violazione fiscale. Nota una cassaforte ma non ritiene necessario intervenire perché ritiene di aver già acquisito documentazione rilevante ai fini dell’accertamento. Successivamente, da dei controlli su un altro contribuente, risulta che questo aveva dei rapporti con il primo contribuente verificato: “di queste operazioni la mia controparte teneva la documentazione nera in cassaforte”. L’amministrazione avrebbe potuto aprire quella cassaforte ma non l’ha fatto: si tratta di un potere che poteva essere tranquillamente esercitato, quei nuovi elementi erano sconosciuti ma conoscibili con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza. Se l’amministrazione ponesse a base dell’accertamento integrativo la contabilità nera trovata in cassaforte, quell’accertamento non sarebbe legittimo perché sarebbe un integrativo in aumento, ma basato su elementi di prova non conosciuti, ma conoscibili.

La fattispecie degli accertamenti integrativi e modificativi è fortemente limitata dall’ipotesi in cui l’amministrazione non potesse venire a conoscenza di questi nuovi elementi con l’utilizzo degli ordinari poteri istruttori. Quando l’utilizzo degli ordinari poteri non avrebbe comunque permesso l’acquisizione della documentazione o degli elementi rilevanti per l’integrativo, allora se poi l’amministrazione ne viene a conoscenza in un successivo momento potrà procedere all’integrazione. Per sopravvenuta conoscenza si intende una situazione che esige una astratta inconoscibilità. È una valutazione che va compiuta di volta in volta sulla base di quella che è la diligenza dei funzionari nell’utilizzo dei poteri istruttori.

Esempio: il contribuente ha posto in essere atti di occultamento della documentazione rilevante di violazioni fiscali; l’amministrazione, neppure con la più piena diligenza, avrebbe potuto venirne a conoscenza. Caso realmente accaduto: contribuente aveva smontato gli interruttori della luce e aveva infilato la contabilità nera dietro gli interruttori. L’amministrazione, nel corso di una prima attività d’indagine, non si è accorta e ha formato l’avviso di accertamento. Si è accorta in un controllo successivo, quando era ancora in termine per rettificare il precedente accertamento integrandolo. In quel caso l’accertamento integrativo fu riconosciuto come legittimo perché nemmeno con l’ordinaria diligenza nell’esercizio del potere, l’amministrazione avrebbe potuto individuare quella documentazione.

3.16.3.2 Accertamenti parziali

Art. 41-bis del decreto 600/1973. Hanno una logica completamente diversa rispetto agli accertamenti integrativi o modificativi. Costituiscono una delle più evidenti deroghe al principio di unicità e globalità, forse la principale: accerta un frammento del presupposto, una parte del presupposto (lo dice il termine parziale). Quando si può utilizzare questo strumento? Il presupposto dell’accertamento parziale è dato dal fatto che l’amministrazione acquisisca una notizia (informazione) qualificata dalla quale sia possibile desumere l’esistenza di fatti di evasione.

3.16.3.2.1 Chi può trasmettere questa notizia?

Ce lo dice l’art.41-bis: le segnalazioni (cioè queste notizie qualificate) possono venire dalla direzione centrale accertamento (organo di vertice dell’agenzia delle entrate), da una direzione regionale, da un ufficio dell’agenzia delle entrate, dalla guardia di finanza, da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici ovvero da dati in possesso dell’anagrafe tributaria.

Quindi abbiamo una serie di soggetti: in parte riferibili all’amministrazione finanziaria (direzione centrale accertamento, direzione regionale, uffici dell’agenzia delle entrate), in parte riferibili all’apparato amministrativo nel suo complesso (PA, istituti o enti pubblici – si pensi all’INPS), in parte riferibili alla guardia di finanza (e quindi ad organi ausiliari dell’amministrazione finanziaria). Quando la notizia proviene da questi soggetti ed è una notizia qualificata, può essere posta a base dell’accertamento.

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3.16.3.2.2 Cosa vuol dire notizia qualificata?

Significa che l’informazione che proviene da questi soggetti dev’ essere a tal punto completa e rilevante da poter essere posta a base dell’accertamento senza ulteriore istruttoria. È una notizia altamente dimostrativa di fatti di evasione, tal da essere posta a base dell’accertamento parziale in base ad una logica di automatismo ricostruttivo (ho la notizia, la notizia è completa, rilevante, significativa e la posso ribaltare come contenuto nell’avviso di accertamento. È una notizia caratterizzata da un automatismo istruttorio: non ha bisogno di ulteriori approfondimenti d’indagine per essere posta a base dell’accertamento.

Esempio: supponiamo che dall’indagine svolta sul campo dall’INPS, risulti che il contribuente ha dei dipendenti in nero; quanto meno senza ulteriore necessità d’indagine si potrà dimostrare che il soggetto non ha adempiuto ai suoi obblighi di sostituto d’imposta rispetto ai dipendenti in nero (non ha fatto le ritenute e non le ha versate – il datore di lavoro per i dipendenti è sostituto d’imposta). Quell’informazione può transitare a fondamento dell’avviso di accertamento; non occorre che l’amministrazione finanziaria eserciti un’attività di verifica unica e globale perché le basterà rovesciare il contenuto di quel verbale dell’INPS nell’atto di accertamento: non c’è alcuna attività istruttoria.

3.16.3.2.3 L’ interpretazione di art. 42-bis dopo il 2004

Ora dobbiamo passare da un piano dogmatico (quello visto finora) all’evoluzione di questo istituto, così come è stato inteso ed interpretato a decorrere dal 2004: nel 2004 la norma del 41-bis è stata ampliata inserendo tra le fonti qualificate da cui possono provenire informazioni soggetti quali la guardia di finanza e l’agenzia delle entrate. Queste integrazioni hanno fatto sì che le informazioni qualificate potessero intervenire anche da organi istituzionalmente dotati del potere di controllo sul soggetto passivo (guardia di finanza o agenzia delle entrate). Attraverso questo innesto della norma si è inserito nel presupposto dell’ accertamento parziale la possibilità che sia la stessa guardia di finanza o la stessa amministrazione finanziaria a fornire notizie qualificate ai fini dell’accertamento. Allora si ritiene che l’attività istruttoria compiuta dall’amministrazione finanziaria o dalla guardia di finanza possa costituire notizia qualificata ai fini dell’accertamento parziale. Nel momento in cui attribuisco alla guardia di finanza e all’agenzia delle entrate la possibilità di fornire notizie che senza bisogno di ulteriore istruttoria possono essere poste a base dell’accertamento parziale, significa che in quel momento legittimo l’utilizzo dell’accertamento parziale anche per accertare fattispecie in cui si è compiuta attività istruttoria da parte della guardia di finanza o dell’agenzia delle entrate. Questo significa che amplio a dismisura i presupposti dell’accertamento parziale: il presupposto non è più una notizia qualificata proveniente da soggetti terzi, è proprio un’attività d’indagine compiuta dagli stessi organi dotati dei poteri di controllo. A quel punto la confusione tra accertamento unico e globale e accertamento parziale diventa evidentissima perché posso porre a base dell’accertamento parziale anche un’attività d’indagine compiuta dall’agenzia delle entrate o dalla guardia di finanza. Questo di fatto significa svuotare il contenuto dell’accertamento parziale. Oggi la norma viene intesa nel senso che sia sufficiente qualsiasi attività istruttoria a giustificare l’accertamento parziale. Larghissimo ampliamento di questo strumento e proprio per questo si può dire che questo strumento di accertamento parziale ha oggi messo in crisi la tenuta del principio generale di unicità e globalità dell’accertamento.

3.16.4 I termini di decadenza

Tutte queste attività istruttorie che vengono compiute e che si concludono con l’accertamento sono sottoposte ad un termine: esiste un termine per lo svolgimento dell’attività istruttoria da parte dell’amministrazione finanziaria e per la relativa chiusura dell’attività d’indagine con la

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notifica del provvedimento impositivo (avviso di accertamento). Questo termine è un termine di

decadenza, fissato dall’ art. 43 del decreto 600/1973. Gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione dei redditi. (Quindi la

dichiarazione del 2011, che viene presentata nel 2012, può essere controllata entro il 31 dicembre 2016). In caso di omessa presentazione della dichiarazione gli anni diventano 5.

Esistono delle regole particolari che sono state oggetto di un recente intervento da parte della Corte Costituzionale. L’art. 43, terzo comma, prevede un’ipotesi di ampliamento dei termini decadenziali appena descritti (4 o 5 anni): questa disposizione permette il raddoppio dei termini di accertamento nel caso in cui il contribuente abbia commesso fatti di rilevanza penale (fatti di evasione di rilevanza penale).

43 - Termine per l'accertamento

Gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31

dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.

Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione

nulla ai sensi delle disposizioni del titolo I l'avviso di accertamento può essere notificato fino

al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto

essere presentata.

In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'articolo 331 del codice di

procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74

(reati tributari), i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al

periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione. Fino alla scadenza del termine

stabilito nei commi precedenti l'accertamento può essere integrato o modificato in

aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di

nuovi elementi. Nell'avviso devono essere specificatamente indicati, a pena di nullità, i

nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell'ufficio delle

imposte.

Per l’operare del presupposto del raddoppio non occorre che sia stata accertata l’esistenza del reato, è sufficiente che l’amministrazione abbia ritenuto di trasmettere la notizia di reato. A far scattare il raddoppio basta la trasmissione della notizia di reato: non occorre l’accertamento del fatto di rilevanza penale. La vicenda penalistica è totalmente indipendente dalla vicenda tributaria. Questo per quanto riguarda i reati tributari previsti dal decreto 74/2000, tipicamente saranno i reati di infedele dichiarazione o i reati di dichiarazione fraudolenta.

Questa norma ha dato luogo ad una serie infinita dubbi interpretativi:

- se questo raddoppio può scattare solo per i termini pendenti oppure anche per quelli

scaduti;

- quale sia l’annualità in relazione alla quale opera il raddoppio, cioè se quella relativa alla

presentazione delle dichiarazione oppure quella precedente in cui è stato commesso il

fatto;

- quali sono i limiti soggettivi della disposizione, cioè se la norma si applichi solo al soggetto

verificato o anche a soggetti che stanno in determinati rapporti con il soggetto verificato;

- cosa accade nel caso in cui il soggetto sia assolto nel processo penale, il raddoppio dei

termini rimane?

- …

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Si tratta di dubbi interpretativi non ancora risolti dal legislatore.

La trasmissione della notizia di reato è un dato affidato alla mera discrezionalità dell’amministrazione. È vero che il funzionario trasmette il reato quando ha circostanze obiettive che dimostrano la possibile commissione di un illecito di rilevanza penale; ma qual è il grado di evidenza di queste circostanze che deve comportare la trasmissione della notizia? Ci si affida a mere scelte del verificatore, il quale magari trasmette la notizia del reato semplicemente per liberarsi da personali responsabilità per non aver trasmesso la notizia di reato (nel dubbio trasmetto). Ma possono esserci fatti in cui la notizia della trasmissione di reato è sfumata.

La trasmissione della notizia di reato è un elemento troppo sfumato, affidato in maniera troppo netta alla sensibilità del funzionario per poter costituire un elemento obiettivo. Che giustifica un effetto così rilevante com’è il raddoppio dei termini di accertamento.

La ratio di questa disposizione che permette il raddoppio sarebbe quella di permettere il transito, l’utilizzo di materiale istruttorio dal processo e dal procedimento penale al processo e al procedimento tributario: garantire un flusso istruttorio più costante, e garantire che l’amministrazione finanziaria possa utilizzare per un più lungo tempo gli esiti dell’attività d’indagine del processo penale. I risultati dell’istruttoria penale e del processo penale dovrebbero poter transitare attraverso questa proroga nell’ambito del procedimento tributario. Vorrebbe garantire un flusso per un più lungo periodo dei risultati dell’istruttoria penale nel processo tributario.

Questa disposizione dà luogo ad una serie di incertezze: sentenza 247/2011 della Corte Costituzionale, la quale ha respinto le censure di illegittimità costituzionale salvando la legittimità della disposizione. In realtà la questione che veniva posta specificamente riguardava l’applicabilità della disposizione ai termini già scaduti: sono decorsi i 5 anni, ma l’amministrazione viene a conoscenza dell’esistenza di un fatto di reato nell’annualità decaduta. Secondo la Corte, nonostante la decadenza, sarebbe possibile la riapertura dei termini di accertamento e dunque l’applicazione del termine raddoppiato nonostante la scadenza dei termini originari. Perché? Secondo la Corte qui non siamo di fronte ad un vero e proprio prolungamento dei termini, ma ad un originario raddoppio. Se c’è un reato il termine è raddoppiato, è originariamente di 8 anni.

(4/4/2012) Abbiamo affrontato le deroghe al principio di unicità e globalità dell' accertamento, analizzando accertamenti parziali, integrativi e modificativi.

Abbiamo considerato come l’ azione di amministrazione finanziaria sia sottoposta ad un termine di decadenza oltre il

quale l’ accertamento diventa illegittimo, e come questo termine raddoppi nell' ipotesi di commissione di fatti di

rilevanza penale. Questa è la disciplina ordinaria dell' accertamento che prende le mosse dai controlli della

dichiarazione e sfocia nella notifica del provvedimento impositivo.

3.17 L’ accertamento con adesione

Possiamo dire che tutto il procedimento descritto fin' ora è caratterizzato da una logica di autoritatività. L’ autoritatività connota in modo specifico il procedimento. Si vedano ad esempio i poteri istruttori che si caratterizzano per una incisione via via maggiore della sfera del soggetto passivo, le caratteristiche dell' avviso di accertamento (esecutorio ed esecutivo) che manifesta la pretesa di amministrazione formulata in maniera unilaterale.

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Oggi dobbiamo analizzare un istituto che si innesta nel controllo delle dichiarazioni, è caratterizzato da un modello diverso di rapporti tra amministrazione e contribuente; un modello in cui all' autoritatività e unilateralità si sostituisce una dinamica caratterizzata dal contraddittorio, dal confronto tra le parti in ottica costruttiva. Il procedimento autoritativo quindi non è l' unica modalità di attuazione dei rapporti tra amministrazione e contribuenti, c’ è una diversa modalità di accertamento che prende il nome di accertamento con adesione.

L' istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 1994, ma ha avuto compiuta attuazione con decreto 218/1997.

3.17.1 Ragioni originarie dell’ introduzione dell’ istituto

Sono legate a volontà di deflazionare il contenzioso, trovare un meccanismo per evitare che tutte le controversie tra amministrazione e contribuente sfociassero poi nell' impugnazione dell' avviso di accertamento, quindi nell’ avvio di un contenzioso giudiziale sui recuperi. In quegl' anni gli organi giudiziari collassavano sotto il peso dei contenziosi. L' obiettivo originario era attenuare la pressione sulle commissioni tributarie. Però una volta inserito l’ istituto nel sistema, ha riplasmato il procedimento al punto di reimpostare i rapporti tra amministrazione e contribuente. Da collaterale qual' era, è diventato istituto centrale. Praticamente in ogni controversia tributaria la fase di adesione si innesta, poi se il procedimento giunge a buon fine dipende dai casi concreti. Quasi sempre dopo la notifica dell' avviso di accertamento si attua un confronto tra amministrazione e contribuente per cercare di pervenire ad un accordo.

3.17.2 Elementi essenziali.

L' istituto dell' accertamento con adesione nel 2008 è stato modificato con l' inserimento di varie fattispecie di definizione le quali non si manifestano omogenee rispetto al procedimento con adesione classico. Noi lo teniamo presente così come previsto dal D. 218.

Per comprendere l' istituto dobbiamo porre dei punti fermi:

1) innesco, come si attiva l' accertamento con adesione;

2) modalità di gestione del rapporto tra amministrazione e contribuente nella fase dell'

adesione. Questo aspetto è influenzato dalla natura giuridica dell' istituto, qual' è la natura

giuridica?

3) Regole di definizione.

3.17.2.1 Innesco

L' iniziativa per attuare il sub procedimento di adesione può essere o di amministrazione o di contribuente. Diverso è però il momento in cui l’ amministrazione e contribuente possono promuovere questo procedimento.

L' amministrazione può promuovere il procedimento durante la fase delle indagini. Dopo l' esercizio dei poteri istruttori, dopo aver acquisito prove relative alla presunta evasione, l' amministrazione, anziché notificare l' atto impositivo, notifica l' invito a comparire. Si tratta di invito funzionale alla definizione in adesione. Questo invito ha un preciso contenuto. La disciplina è all’ art. 5 D. 218/1997. Si tratta di un invito all’ adesione, deve contenere l' indicazione dei periodi d' imposta suscettibili di accertamento con adesione (corrispondono alle annualità controllate), il giorno e luogo di comparizione, quali sono le maggiori imposte che l' amministrazione ritiene dovute sulla base dell' attività d' indagine. Questo invito contiene la motivazione delle ragioni di fatto e di diritto che stanno alla base delle maggiori imposte dovute. Sono gli elementi tipici dell' avviso di accertamento, ha la struttura tipica di questo

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provvedimento, però si sostanzia in un invito a comparire per avviare una discussione in contraddittorio sui risultati dell' attività d' indagine. Nel contraddittorio si potrà confrontarsi per pervenire ad una linea condivisa tra le parti.

Nel 2008 il legislatore ha introdotto, dopo la notifica dell' invito a comparire, una possibilità ulteriore per il contribuente. Nella versione classica si presenta all’ ufficio e avvia il contraddittorio per pervenire ad una soluzione condivisa. Nel 2008 il legislatore prevede un ulteriore facoltà. Il contribuente che riceve l’ invito a comparire può accettarlo cosi come formulato dall' amministrazione finanziaria. Fa acquiescenza, definisce la vertenza tributaria sulla base dell' invito

a comparire. In questo caso ha diritto ad un sostanziosissimo sconto delle sanzioni, ridotte ad 1/6 del minimo (le sanzioni vanno dal 100% al 200% dell’ imposta). Se invece il contribuente decide di non accedere a questa definizione può avviare il contraddittorio per pervenire ad una soluzione condivisa.

Nel caso di innesco per iniziativa del contribuente le ipotesi sono due:

1) Può essere che il contribuente richieda all’ amministrazione di avviare il procedimento di definizione in adesione dopo aver ricevuto comunicazione del processo verbale di constatazione. E’ l’ atto istruttorio che chiude l’ attività d’ indagine e formalizza i risultati in un verbale che contiene le contestazioni. E’ atto istruttorio endoprocedimentale. E' previsto come obbligatorio quando il contribuente subisce i poteri maggiori. Nel momento in cui il contribuente riceve il processo verbale può presentare istanza all' amministrazione affinché sia formulata una proposta di adesione. L' amministrazione dovrà convocare il contribuente per confrontarsi sui contenuti del processo verbale. Con l' istanza l' amministrazione ha l' obbligo di convocare il contribuente per discutere sulla definizione.

Quando il contribuente riceve il processo verbale di constatazione e formula l' istanza affinché l’ amministrazione faccia la proposta, ha anche un ulteriore possibilità introdotta nel 2008. Di definire il processo verbale così come formulato, e se lo accetta in toto potrà beneficiare della riduzione delle sanzioni ad 1/6 del minimo. Posso definire il processo verbale sempreché non abbia ricevuto l’ invito a comparire. O definisco l' invito a comparire o definisco il verbale. E’ importante ricordare la possibilità di definire sia il verbale accettandolo in toto sia l' invito beneficiando della riduzione.

2) Nell’ ipotesi più frequente, l' iniziativa è assunta dal contribuente dopo la notifica dell' avviso di accertamento. In questo caso è lui a formulare istanza di adesione. L' avviso di accertamento è esecutivo ed esecutorio, diventa definitivo se non impugnato nel termine di 60 giorni. La presentazione dell' istanza di accertamento sospende il termine di 60 giorni per l' impugnazione per 90 giorni. E' funzionale allo svolgimento del contraddittorio tra le parti. Se il tentativo di adesione fallirà potrò impugnare l' atto entro i 150 giorni dalla notifica.

3.17.2.2 La gestione dei rapporti

Si tratta di un procedimento caratterizzato da contraddittorio e confronto. Ma nel decreto non sono disciplinate le modalità procedimentali con cui il contraddittori va gestito. Infatti il contraddittorio è informale. Dobbiamo pensarlo come la gestione di pretese contrapposte nell’ ambito di una transazione. Ci si confronta direttamente sui rilievi. Una volta che le parti abbiano assunto posizioni definitive sulle contestazioni si vede se sono conciliabili e quindi se si può pervenire ad una soluzione concordata. Il contribuente riconosce pretese amministrative e l' amministrazione riconosce alcune ragioni del contribuente. Nell' ipotesi in cui si pervenga alla definizione della pretesa, viene formulato un processo verbale, il processo verbale di adesione che viene sottoscritto dall’ ufficio e dal contribuente. La sottoscrizione suggella l’ accordo tra le parti, rende fissa la pretesa amministrativa nei termini indicati nell’ adesione. Le parti concordano nella

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definizione del verbale, con fisiologico abbattimento dei costi. In questo caso il contribuente beneficia di una riduzione delle sanzioni, pari ad 1/3 del minimo. A questo punto il processo verbale contiene la maggiore imposta dovuta che deve essere versata entro venti giorni. Se non versa, decade, viene meno l' adesione. Il perfezionamento si ha con il pagamento.

3.17.2.3 La natura giuridica

Il problema è: qual' è la natura giuridica dell' atto? Si presentano due tesi contrapposte, inconciliabili. Ogni parte evidenzia le proprie ragioni. Una parte della dottrina accede ad una tesi altra dottrina altra tesi. Esiste, abbiamo visto, un confronto tra parti. Ma la ricostruzione teorica individua due tesi contrapposte.

1) Ravvede nell' avviso di accertamento una tipologia di atto a connotazione transattiva, una vera e propria transazione. Amministrazione e contribuente opererebbero in una logica diretta ad un risultato transattivo facendosi reciproche concessioni. E' mera definizione di una vertenza (le parti si fanno reciproche concessioni), non è ricerca del quantum dovuto.

2) Altra dottrina ritiene che il contraddittorio tende alla ricostruzione con l' apporto del contribuente del quantum dovuto per legge. Non ha connotazione transattiva, ma è vera e propria ricerca del quantum attraverso un confronto costruttivo tra amministrazione e contribuente. E' un misto tra autotutela, nei casi in cui l’ amministrazione ritiene di aver errato, e rinuncia da parte del contribuente quando ritiene di avere torto. Qui abbiamo la ricerca della verità, della giusta imposta. Nell' ottica transattiva posso definire ciò che voglio, non ho limiti nei contenuti della definizione, ma se la logica è la ricerca della verità l' amministrazione non può abbandonare la pretesa quando ritiene di avere ragione.

Uno dei principi cardine del diritto tributario, in particolare di art. 53 cost., è il principio di irrinunciabilità e indisponibilità del credito tributario, per cui chi ritiene che art. 53 esprima questi principi deve propendere per l’ idea che l’ accertamento con adesione sia istituto caratterizzato da una comune finalità di ricerca della verità. Mentre nelle prime applicazioni effettivamente vi era una marcata deriva verso le transazioni. Oggi, con il potenziamento del controllo interno dell' amministrazione sui suoi atti, si sta affermando questa seconda tesi. Quando il contribuente propone le sue posizioni le deve porre in maniera fondata sul diritto come se il confronto fosse un vero e proprio processo per convincere l’ amministrazione della bontà della pretesa. L' abbandono del rilievo non sarà nell' ottica della transazione, ma perché l' amministrazione riconosce che le pretese del contribuente sono fondate. All' esito della comune ricerca della verità si perviene alla definizione.

Secondo Prof. Trivellin dobbiamo concludere nel senso che la corretta natura dell' accertamento è quella di atto in cui le parti con la reciproca collaborazione pervengono all' individuazione dell’ imposta dovuta per legge.

3.17.2.3.1 Le conseguenze della decadenza.

Cosa succede se non pago in venti giorni? Il ritardo dovuto a fatti non imputabili non fa decadere la definizione (Cassazione).

Se si accede a tesi di natura transattiva, tutto il contraddittorio non ha un collegamento con l' imposta dovuta, è evidente che nell’ ipotesi in cui decada la definizione, rivive l' accertamento

originario. Questi autori rivedono un supporto normativo nel decreto 218 stesso.

Chi accede alla tesi della comune ricerca dell' imposta deve ritenere una cosa diversa. Chi sottoscrive il verbale, sottoscrive non una transazione, ma un atto che rappresenta la giusta imposta, ovvero quantum dovuto coerente con la capacità contributiva. Ma se non pago non può

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rivivere l' accertamento originario, perché non è giusto. Sarebbe come chiedere un imposta contraria alla capacità contributiva. Significa che l’ amministrazione dovrà comunque riscuotere le somme concordate, e al contribuente non spetta la riduzione delle sanzioni.

La prima tesi si trova esposta in una monografia di Versilioni, parte dall' idea che non ci sia un principio di indisponibilità dell’ obbligazione. La seconda tesi è sostenuta da prof. Marello e prof.ssa Moscatelli.

3.17.3 Una questione di politica fiscale

Attiene alle modalità di definizione dei processi verbali con le sanzioni ridotte ad 1/6. Non sono istituti equiparabili alla definizione in adesione. Un' altra ipotesi è la definizione degli

accertamenti parziali, è prevista una definizione analoga con il pagamento di 1/6 del minimo. Questi istituti deflattivi non hanno nulla a che fare con l’ adesione. Mentre l’ adesione è un confronto sui contenuti, questi qui prendono l’ accertamento, l’ invito, il processo verbale così come sono e riducono la sanzione. Sono istituti di mera acquiescenza. Non hanno la logica dell’ adesione. Qual' è il rischio che nascondono questi istituti? Eccessivo abbattimento delle sanzioni. Prima le sanzioni addirittura erano ridotte ad 1/8 del minimo. Questi istituti sono non eccezionali, ma a regime! Quindi si può contare su questi istituti. Un contribuente (che magari non avverte il patto sociale) di fronte a controlli sostanziali selettivi, (può essere che non ti controllino) accetta il rischio. Cosa succede se mi controllano? Pago quello che avrei dovuto pagare, 1/6 del minimo. E' una partita a poker. Questi istituti generano o no una sorta di volano di evasione? Si, sono istituti

paracondonistici. Sono un favor per l’ evasione! Roba da schizofrenici. Questi istituti saranno pure pensati par fare cassa, lo stato incassava, hanno dato vantaggio finanziario di breve periodo. Ma nel lungo periodo generano un comportamento di valutazione costi/benefici che tolgono il vantaggio. Il vero deterrente all' evasione è eliminare questi istituti e le sanzioni (non andare a Roma, Cortina ecc.) ma non quelle penali, non fanno paura. Bisogna colpire il portafoglio delle persone, sanzioni accessorie, preclusioni, confische. E' vero quindi che si fanno queste manovre, ma se non si fanno quelle di effettivo contrasto all' evasione.

(16/4/2012) Accertamento con adesione. Ci eravamo chiesti quale fosse la natura di quest’atto, se avesse la natura di mera transazione o natura accertativa, ipotesi in cui l’amministrazione accerta il quantum dovuto attraverso una ricerca della verità effettuata mediante il contradditorio con il contribuente. Aderiamo alla seconda lettura, ricollegata ad art. 53 Cost, il che dimostra come questo articolo abbia ruolo nell’interpretazione degli istituti.

L’accertamento con adesione è un procedimento che si chiude con una sottoscrizione del verbale; l’amministrazione e il contribuente individuano il quantum dovuto attraverso la fase di contradditorio; una volta che il processo verbale è sottoscritto, è compiuto.

Si richiede, inoltre, un ulteriore adempimento, il pagamento. Deve avvenire nel termine di 20 giorni dalla sottoscrizione del verbale. Il soggetto può pagare integralmente o in 12 rate (ulteriore vantaggio per il contribuente); in questo ultimo caso il pagamento della prima rata, per il perfezionamento, deve intervenire entro i 20 giorni.

3.17.4 La resistenza dell’accertamento con adesione

Questo atto ha una particolare resistenza; proprio perché è il frutto di un accordo, è una definizione concordata che presenta una particolare attitudine a definire in maniera stabile la controversia tributaria.

Infatti l’art. 2 del decreto 218 /1997 dice che l’accertamento con adesione è atto non

impugnabile: rimane un atto che definisce la pretesa e non è neppure modificabile ad iniziativa dell’amministrazione. C’è però un’eccezione a questo principio: ci sono casi in cui anche la definizione può essere oggetto di integrazione o modifica.

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Riassumendo: regola generale� stabilità della definizione; ma ci sono casi in cui questa definizione può esser modificabile ad iniziativa dell’amministrazione. Questo accade quando si verifichino delle circostanze, in particolare quando l’amministrazione venga a conoscenza di nuovi elementi (caso della c.d sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi), allora la definizione può esser fonte di una revisione o modifica dell’accertamento con adesione, ma deve essere una sopravvenuta conoscenza determinata: deve trattarsi di una conoscenza di elementi che consentano di accertare un reddito pari ad almeno il 50 % in più di quello definito�conoscenza che manifesta fatti di evasione di particolare rilevanza.

Inoltre l’accertamento con adesione non è modificabile se il superamento della soglia è inferiore

ai 75 000 euro.

Quindi le soglie che consentono i superamento dell’accertamento con adesione consentono questo superamento solo se pari al 50 % dell’imposta accertata e pari a 75 000 euro; al di sotto di queste soglie l’adesione non può essere modificata.

La ratio di questo limite qual è?

Presenta qualche problema; chi propende per la tesi della natura transattiva sostiene che se l’accertamento fosse diretto alla ricerca della verità, perché un contribuente abbia falsato dovrebbe essere protetto dalla stabilità dell’atto fino a quei limiti elevati? Se è così vuol dire che l’istituto ha una logica di tipo transattivo.

Forse si può pensare di inquadrare questi limiti in relazione alla tutela dell’affidamento del contribuente che ha partecipato alla comune ricerca della verità e ha diritto che quella definizione sia stabile e non consenta ripensamenti dell’amministrazione. Per questo si pone un limite di stabilità forte caratterizzato dalle soglie, fissate con una logica di favore per favorire l’accesso a questo istituto; quindi non sarebbe di natura transattiva.

Ma un qualche ostacolo a queste ricostruzioni la norma lo pone.

C’è chi ritiene che alla luce del nuovo valore della collaborazione, la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi deve essere interpretata in maniera diversa rispetto a quella che caratterizza gli accertamenti integrativi e modificativi perché negli accertamenti integrativi e modificativi la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, si dice, deve essere conoscenza di elementi non soltanto conosciuti, ma neppure conoscibili sulla base della conoscenza istruttoria ecc.

Quindi riguardo all’accertamento con adesione, una parte della dottrina dice: se le parti devono concorrere a ricostruire la verità dell’imposizione, vuol dire che anche il contribuente ha un ruolo attivo; allora vuol dire che se il contribuente occulta elementi in sua conoscenza, non partecipa al contraddittorio in modo corretto; allora la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi è una conoscenza che l’amministrazione abbia anche di fatti che il contribuente non ha rappresentato. Questo sarebbe un correttivo interpretativo della norma che consentirebbe di ricondurla alla definizione transattiva.

Riassumendo: nella sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, il dato essenziale è dato dal fatto che quell’elemento non fosse conosciuto; quando siamo in una logica in cui le parti devono collaborare, non ha senso dire che l’amministrazione abbia il dovere di acquisire tutte le informazioni perché anche il contribuente deve collaborare, dovrebbe esser il contribuente a mettere in discussione la sua posizione fiscale attraverso il contraddittorio e questo sarebbe premiato con una serie di incentivi, per es. il pagamento rateizzato. Se il contribuente ha mascherato ciò che aveva il dovere di dire, queste informazioni dovrebbero essere a servizio

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dell’amministrazione perché esisteva una dovere del contribuente. Ecco perché si dice che la norma va accertata in modo diverso rispetti agli accertamenti integrativi e modificativi.

Da ricordare ai fini dell’esame: principio fondamentale� rigidità dell’accertamento con adesione che non può essere

oggetto di impugnazione, né di modifica salve le soglie di cui sopra.

3.17.5 L’annullabilità dell’accertamento

C’è una particolare questione in dottrina, connessa alla natura dell’ accertamento, legata al fatto che ci si possa chiedere se l’accertamento possa essere annullato per i vizi della volontà. Ci si è chiesti se errore, violenza, dolo possano costituire un motivo di invalidazione dell’accertamento con adesione. Questo soprattutto con riferimento alla componente che caratterizza l’accertamento, che è l’accordo: è evidente che nella definizione c’è un concorso di volontà.

Se il contribuente perviene alla sottoscrizione dell’accertamento per un errore o se l’amministrazione viene ingannata dal contribuente attraverso l’impugnazione di documenti falsi cosa accade? L’opinione prevalente è nel senso che sia possibile, se vi sono vizi della volontà, l’impugnazione non davanti al giudice tributario, che non ha competenza a conoscere questi elementi, ma di fronte al giudice civile.

Le ipotesi teoriche in cui i vizi della volontà possono generarsi sono:

• errore sul fatto;

• dolo: il contribuente induce l’amministrazione a credere la realtà di certe circostanze attraverso raggiri;

• violenza morale (difficile da configurarsi); ma qualche autore l’ha individuata nelle ipotesi in cui il contribuente giunga ala definizione in adesione sia spinto da accertamenti abnormi. Per es. si pensi alla prassi invalsi di notificare accertamenti monstr per puntare attraverso la definizione in adesione a sgonfiare la verifica riportandola ad equità e il contribuente per evitare il rischio di giudizio è portato a definire l’accertamento magari perché vengono stralciate delle pretese abnormi. Si tratta di un approccio alla definizione che è un pò falsato dalla paura del giudizio e questo meccanismo, gioco per cui l’amministrazione notifica l’accertamento monstr, il contribuente lo definisce perché ha paura che se non lo definisce il giudice gli dia torto, questo problema può essere letto come una forma di forzatura dell’amministrazione finanziaria che può portare alla violenza morale.

Si noti che Befera ha emanato una lettera agli uffici dell’Agenzia delle entrate in cui raccomanda i funzionari

di operare con buona fede.

Questo gioco che deriva dal raccordo tra accertamenti gonfiati per una logica distorta di porre al centro il gettito, di definizioni forzate viene è reso possibile da quello che secondo l’opinione di Prof. Trivellin è la giurisdizione nell’ambito del rapporto tributario se il giudice tributario fosse un giudice con competenze tecniche adeguata il contribuente potrebbe non temere il giudizio; teme il giudizio perché teme l’incompetenza delle commissioni. Esistono dei giudici tributari, che non sono professionali (possono essere anche ex ufficiali della Guardia di finanza o ex segretari comunali), si capisce perché una ha paura del giudice, perché il primo grado di giudizio è aleatorio, il secondo grado è più certo, ma poi c’è la Cassazione…ma è difficile arrivarci!

Anche il discorso della violenza morale potrebbe configurarsi in qualche modo, è uno strumento con cui si potrebbero introdurre forme di tutela parallela nelle ipotesi in cui il contribuente si trovi sottoposto a queste forme di pressione per il fine della massimizzazione del gettito e non alla ricerca della giusta imposta.

È vero che l’evasione è una piaga, ma l’evasione, come dice Falsitta, e deve essere contrastata, ma si devono salvaguardare i principi di giustizia� necessitano strumenti adeguati dal punto di vista delle sanzioni, adeguati al principio di legalità. Da quando ci sono le Agenzie, c’è un gioco di parti, pubbliche e private; allora bisogna recuperare la giustizia del rapporto tributario e a questo

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gioverebbe una politica eccessivamente lassista:l’apparato sanzionatorio è inadeguato a fronteggiare un’illiceità grave come l’evasione.

3.18 L’autotutela

Abbiamo esaminato i metodi di accertamento (come si perviene dalla dichiarazione alla ricostruzione dell’imponibile) , come esista un percorso caratterizzato all’aperture del contraddittorio con l’accertamento.

L’autotutela è un istituto che si sovrappone allo sviluppo autoritativo dell’amministrazione finanziaria e si caratterizza per essere uno strumento attraverso cui l’amministrazione riporta a

legalità e giustizia la sua condotta; quindi quando l’amministrazione si accorge che nell’esercizio della sua attività si annidano violazioni di legge o comportamenti contrari rispetto alla legalità, l‘amministrazione deve intervenire per correggere i suoi errori. Autotutela significa tutela della legalità attraverso l’intervento della stessa amministrazione che ha emanato l’atto viziato; è uno strumento per il ripristino della legalità violata.

Questo è un istituto che si caratterizza per una connotazione particolare rispetto all’autotutela nel diritto amministrativo generale perché l’autotutela è un istituto radicato nell’ordinamento amministrativo, ma viene ricondotto nell’area della discrezionalità amministrativa. Quando l’amministrazione interviene in autotutela effettua una ponderazione di interessi tra l’interesse del privato alla rimozione dell’atto contra legem e l’interesse pubblico al ripristino della legalità, interesse pubblico che per legittimare l’intervento in autotutela deve essere un interesse concreto e attuale al ripristino della legalità. Per es: soggetto pubblico che abbia erroneamente concesso un permesso

di costruire. L’amministrazione in questo caso deve guardare l’interesse del privato , gli altri privati che abbiano

controinteressi e anche gli interessi pubblici.

Quando si parla di autotutela tributaria, la questione si pone in termini diversi: quando l’amministrazione ha emanato un atto impositivo contra legem, per es. ha effettuato un accertamento che essa stessa percepisca come illegittimo contra legem, bisogna chiedersi se l’intervento in autotutela sia discrezionale o no. Qui l’autotutela risponde ad un interesse, è un atto discrezionale o si confronta con una assetto normativo diverso rispetto al diritto amministrativo? Qual è l’interesse concreto e attuale che l’amministrazione potrebbe opporre?

L’art. 53 Cost. è la chiave di lettura; è conforme all’art. 53 che l’amministrazione che si rende conto di aver posto in essere atto illegittimo non agisca in autotutela? È evidente che se l’atto è illegittimo e fotografa la capacità contributiva non effettiva, quell’atto dovrà essere rimosso. L’autotutela sarà un intervento doveroso, obbligatorio: ciò che caratterizza l’autotutela tributaria è che l’intervento in autotutela significa ripristino della capacità contributiva del soggetto, allora l’intervento in autotutela diventa doveroso.

Domanda: Gli errori dell’amministrazione devono essere solo a sfavore del contribuente?

L’amministrazione ha solo l’esigenza di ripristinare l’effettiva capacità contributiva; dovremo concludere che in materia tributaria vi è la doverosità dell’intervento.

Anche nel caso il cui l’amministrazione ha accertato meno del dovuto è necessaria l’autotutela. Cosa dovrebbe succeder quando l’amministrazione accerta meno del dovuto? Dovrebbe adottare un accertamento che rettifica l’errore e sarebbe un accertamento integrativo o modificativo in aumento; infatti sono interventi latu sensu riconducibili all’autotutela, ma hanno dei limiti che abbiamo individuato sulla nozione di sopravvenuta conoscenza degli elementi. Vi è uno specifico limite nella disciplina degli interventi integrativi e modificativi in aumento. Se mi rendo conto per es. che ho notificato un avviso di accertamento per 100 come costi deducibili e in realtà sono ricavi neri, posso intervenire in autotutela (vizi procedimentali), purché mantenga fermo il quantum accertato.

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Quindi ho un’autotutela a favore, ritenuta doverosa�autotutela in bonam partem

Autotutela sfavorevole al soggetto passivo�autotutela in malam partem trova il limite degli accertamenti integrativi o modificativi in aumento. L’incremento dell’imponibile può ammettersi solo nelle ipotesi in cui vi sia una sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, solo nei limiti degli accertamenti integrativi e modificativi; se non viene toccato il quantum, può intervenire sull’atto come meglio crede, modificando il presupposto, cambiando la motivazione, però senza toccare il quantum accertato perché nel momento in cui lo supera cade nell’ipotesi degli accertamenti integrativi e modificativi.

Sul piano pratico l’autotutela è un istituto fortissimamente usato in ambito difensivo, in molti casi attivato parallelamente al giudizio, perché l’istanza di autotutela apre un canale di confronto con l’amministrazione. Se si presenta l’istanza di accertamento con adesione, questa in fase di contraddittorio comporterà che il contribuente chieda interventi di autotutela da parte dell’amministrazione: logica di combinazione di autotutela e acquiescenza. Al di fuori dell’accertamento è un istituto con cui si chiede all’amministrazione di esaminare gli errori in cui è incorsa.

3.18.1 Disciplina dell’istituto: D.M. 37/1997

Il d.m. 37/1997 è un regolamento che disciplina in maniera dettagliata le modalità e tipologie di intervento dell’amministrazione in autotutela: si tratta di casi esemplificativi. Per cui l’autotutela è doverosa qualsiasi sia la violazione commessa nella confezione dell’atto.

3.18.1.1 Limiti dell’autotutela

L’unico limite fissato dal regolamento agli interventi in autotutela è che il contribuente abbia

ottenuto in giudizio un giudicato sfavorevole, sentenza sfavorevole passata in giudicato�limite normativo all’accoglimento dell’istanza di tutela. È l’unico limite imposto normativamente. Se il contribuente omette di impugnare l’avviso di accertamento, l’atto diventa esecutivo ed esecutorio, ma se il contribuente ritiene che l’amministrazione abbia sbagliato, può avanzare istanza di tutela. Ciò non è possibile quando il contribuente abbia ottenuto una sentenza sfavorevole passata in giudicato.

3.18.1.1.1 L’interpretazione del “giudicato sfavorevole”

Ecco cosa dice la norma : Ciò che impedisce l’istanza di autotutela è il giudicato sfavorevole. Allora il problema è di capire cosa intende la norma quando dice giudicato sfavorevole alla tutela.

Si ritiene che l’unico giudicato che impedisce la proposizione dell’ istanza sia il giudicato di merito; allora quando il soggetto ha ottenuto una sentenza sul procedimento che gli dice che il ricorso è inammissibile, che è improcedibile. Tuttavia vi sarebbero dei casi in cui l’istanza di autotutela è proponibile: l’istanza di autotutela sarà comunque proponibile in tutti i casi in cui il giudicato di merito riguardi questioni diverse rispetto a quelle che il contribuente solleva con l’istanza, ad es. il ius superveniens che alla luce del nuovo atto normativo è illegittimo

Il rapporto tra giudicato e autotutela è preclusivo solo nelle ipotesi in cui si sia in presenza di un giudicato di merito e il soggetto presenti con l’istanza le medesime questioni di fatto e diritto che stavano alla base della sentenza passata in giudicato.

L’autotutela è doverosa, ma l’atto di accertamento non impugnato diventa definitivo, è esecutivo ed esecutorio.

3.18.1.1.2 Il problema della giustiziabilità della tutela

Ma il vero problema è quale sia la giustiziabilità dell’autotutela. L’autotutela è doverosa�se il contribuente presenta istanza di autotutela facendo valere motivi di legittimità, l’amministrazione

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è obbligata a intervenire, ma cosa succede se non interviene? Cosa succede se l’amministrazione non risponde o emette un provvedimento di diniego dell’autotutela? Quali sono i limiti, gli effetti della tutela verso il provvedimento di diniego? È il punto decisivo della disciplina. ( lo vedremo parlando del processo)

A fronte della doverosità dell’autotutela la giurisprudenza della Cassazione tende ad escludere una giustizabilità efficace del diniego: risulta così svuotata la tutela verso il diniego; vuol dire che svuota anche il principio di doverosità perché se da un lato l’affermo e dall’altro dico che non è tutelabile perché non c’è lo strumento per contestare il diniego, vuol dire che il contribuente abbia bisogno che l’amministrazione rimuova l’atto illegittimo. In nome di esigenze di certezza del rapporto tributario, l’amministrazione svuota la tutela verso il diniego. (Questione da approfondire nelle lezioni prossime)

Da ricordare: autotutela come istituto di correzione dei profili di illegalità della sua condotta; autotutela in modo diverso rispetto diritto amministrativo generale.

Procedimento: il contribuente può presentare istanza di autotutela ma non è necessario, oggetto può essere qualsiasi

errore, ma i limite è il giudicato di merito.

Questo istituto completa il quadro del’attuazione del rapporto tributario tra contribuente e amministrazione tributaria.

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4 Soggettività tributaria.

I soggetti coinvolti

I protagonisti del rapporto sono il contribuente e l’amministrazione finanziaria perché il soggetto che è tenuto al pagamento del tributo è colui che realizza il presupposto. Ma non è l’unica tipologia soggettiva. Vi sono altre tipologie di rapporti che coinvolgono soggetti che non realizzano il presupposto. Ci sono dei casi in cui obbligato tributario è un soggetto che non realizza il presupposto, soggetto che non può essere contribuente. Sono deviazioni rispetto alla regola generale che vorrebbe coincidenza tra soggetto che realizza presupposto e soggetto tenuto al pagamento. Soggetti, pur non essendo contribuenti, chiamati all’obbligo di adempimento tributario. Disciplina che deve essere esaminata alla luce dell’art 53 cost:

Art. 53 dice: “ tutti[…] in ragione della LORO CAPACITA’”.

Allora come è possibile che vi siano soggetti che non realizzano il presupposto e quindi non hanno capacità contributiva e sono comunque chiamati?

È un’ ipotesi di deviazione dalla regola generale per cui deve essere chi realizza il presupposto ad essere chiamato al pagamento del tributo; trovano fonte nel decreto sull’ accertamento, d.P.R 600/1973 all’art 64; la definizione che si trova in questo articolo è una definizione che vale non solo agli effetti delle imposta dirette, ma per tutto l’ordinamento tributario.

Prevede due ipotesi di deviazione dal principio di corrispondenza contribuente - obbligato e sono riconducibili latu sensu alla coobbligazione tributaria (ma non è proprio far riferimento a questo istituto):

1. Responsabile d’ imposta. 2. Sostituzione d’ imposta.

4.1 Responsabile d’ imposta

È definito come colui che è tenuto al pagamento dell’imposta insieme con altri per fatti o situazioni a questi altri riferibili.

C’è un soggetto tenuto al pagamento insieme con altri: vuol dire che è un coobbligato, affianca la sua responsabilità a quella di altri per fatti o situazioni che costituiscono i presupposto sono riferibili ad altri�in dipendenza di una capacità contributiva manifestata da altri; è un coobbligato

dipendente, perché dipende dalla realizzazione di un presupposto da parte di un altro soggetto. Coobbligato solidale dipendente perché non è lui che realizza il presupposto ma lo realizza qualcun altro. Questa è a scarna definizione normativa. Per capire quali sono i limiti di legittimità di questo istituto è opportuno fare qualche esempio.

4.1.1 Il notaio.

Esempio: Imposta di registro: tributo non regolato dal decreto 600/73: notaio rispetto all’imposta di registro. Il notaio è responsabile dell’imposta. Quando dobbiamo comperare una casa ci rechiamo dal notaio, si dichiara un valore in atto corrispondente al valore effettivo di transazione e il notaio liquiderà l’imposta di registro applicabile alla fattispecie, a fronte del trasferimento della titolarità del bene. L’imposta colpisce il trasferimento di ricchezza. L’imposta che dovremo pagare si chiama imposta principale perché si lega ai valori in atto dichiarati dalle parti. I soggetti che realizzano il presupposto sono le parti del contratto che congiuntamente realizzano il presupposto d’imposta, sono i contribuenti e in questo caso realizzano il presupposto in maniera congiunta attraverso lo scambio di ricchezza�rapporto di coobbligazione solidale paritetica. Il

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notaio ha un ruolo; diviene coobbligato rispetto alle parti per l’imposta principale di registro; vuol dire che se le parti non procedono al versamento del tributo l’amministrazione potrà rivolgersi non solo ai contribuenti, ma anche al notaio che ha rogato l’atto. Questa è un’ipotesi di responsabile d’imposta disciplinata.

Come può alla luce del principio di capacità contributiva stare in piedi un meccanismo del genere?

(17/4/2012) Abbiamo prospettato ipotesi di deviazione rispetto allo schema tipico in cui l' obbligato tributario è colui che realizza il presupposto, la responsabilità e la sostituzione d’ imposta.

La definizione del sostituto e del responsabile è art. 64 decreto 600/1973, norma che ha una valenza definitoria non solo per le imposte dirette ma anche agli effetti di altri tributi, tant’è che l’ esempio di scuola riguarda l’ imposta di registro e la figura del notaio.

Esempio del notaio. Quando si effettua un trasferimento le parti sono obbligate principali all' imposta. Per l' imposta principale di registro è obbligato anche il notaio. Sicché l’ amministrazione in caso di adempimento può rivolgersi sia alle parti sia al notaio indipendentemente, che pure non realizza il presupposto. La responsabilità del notaio è dipendente, la sua responsabilità sussiste fintanto che sussiste la responsabilità degli obbligati principali.

Come può essere legittima una tale fattispecie in cui un soggetto non realizza il presupposto ma è tenuto in reasponsabilità insieme ad altri?

Partiamo dalla figura del notaio che stipula l' atto pubblico. E' ben consapevole della disposizione che sancisce la sua responsabilità a fronte del pagamento del tributo di registro. Quale atteggiamento assumerà allora di fronte alle parti che gli chiedono di stipulare l' atto pubblico di trasferimento? Lo stipula se le parti gli anticipano gli importi necessari al pagamento dell' imposta di registro. E' un comportamento pratico attraverso il quale il responsabile è in grado di acquistare le risorse necessarie per pagare il tributo da coloro che realizzano il presupposto. Se le parti rifiutano il notaio può rifiutarsi di stipulare l' atto. Il notaio si trova in una posizione particolare che gli consente di procurarsi anticipatamente la provvista. Questo meccanismo rende legittimo il sistema della responsabilità d' imposta. Il soggetto può essere chiamato a svolgere la funzione di responsabile d’ imposta solo quando si trova in una relazione particolare con la fattispecie

generatrice del presupposto e questa relazione particolare consiste nella possibilità di procurarsi dalle parti che realizzano il presupposto la provvista per procedere al pagamento. Sempre nelle ipotesi di responsabilità il responsabile deve trovarsi in una relazione speciale (caratterizzata da ragionevolezza) che gli consente di procurarsi i mezzi per far fronte al pagamento. Il responsabile quindi non è esposto al rischio di pagare il tributo senza aver realizzato il presupposto, ha la concreta possibilità di traslare il peso del tributo sul soggetto che concretamente ha realizzato il presupposto. Il notaio si trova in una situazione particolare con la fattispecie: quella che gli consente di stipulare l' atto.

Naturalmente è una facoltà, il notaio può assumersi il rischio di rogare anche se le parti non gli hanno versato quanto necessario.

Perché la responsabilità del notaio riguarda solo l' imposta principale? L' imposta principale è quella dovuta in base ai valori dichiarati in atto, (vendo la casa per 1milione di euro). Però l' Imposta di registro ha altre due tipologie di imposta. L' imposta complementare e suppletiva. La suppletiva

deriva da errori dell' ufficio in fase di liquidazione. L’ ufficio di fronte alla presentazione dell’ atto per la registrazione sbagli per difetto, allora dovrà chiedere un supplemento. Un' altra fattispecie è l' imposta complementare quando i contribuenti hanno posto in essere fatti di evasione, è la maggiore imposta accertata.

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Come mai il notaio risponde solo dell' imposta principale? Questa scelta è la chiara esplicitazione del collegamento soggettivo che art. 53 cost. esige. Se le parti (sottobanco) stabiliscono che l' immobile non verrà venduto ad 1milione (come dichiarato nell’ atto stipulato dal notaio) ma ad 1,5 milioni che ne sa il notaio di questo accordo? Come potrebbe procurarsi anticipatamente la provvista in relazione a quella parte di prezzo di cui non conosce l' esistenza? Quello che vede è ciò che le parti dichiarano (1milione), per questo risponde solo dell' imposta principale. Se fosse tenuto anche per l' imposta secondaria, di cui non sa nulla, verrebbe meno la relazione con la fattispecie, non potrebbe procurarsi la provvista. Ecco perché solo l’ imposta principale e non l’ imposta suppletiva e tanto meno quella complementare.

4.1.1.1 La rivalsa

Il meccanismo con cui il notaio acquisisce il quantum dovuto per il pagamento dell' imposta si chiama rivalsa. Art. 64 D. Cit.: ha diritto di rivalsa, di rivalersi sui soggetti che realizzano il presupposto, facoltà di rivalersi sui soggetti che realizzano il presupposto. Questo meccanismo rende legittima la figura del responsabile. E' lo strumento attraverso cui si trasla il peso del tributo. Nel caso del notaio la rivalsa è anticipata, il notaio può ottenere anticipatamente la provvista. Se paga anticipatamente però ha l’ azione di regresso nei confronti delle parti per la restituzione. E’ una forma di rivalsa, ma mentre la rivalsa preventiva da certezza perché acquisisci anticipatamente, il regresso successivo è subordinato al fatto che le parti abbiano capienza patrimoniale.

4.1.2 Il mandatario senza rappresentanza in dogana

Ci sono delle ipotesi di responsabilità nelle quali il meccanismo funziona in modo imperfetto. Ipotesi del mandatario senza rappresentanza in dogana. Il mandatario in dogana arriva con le merci per le operazioni di sdoganamento, sono operazioni formalizzate. Bisogna andare in ufficio, dichiarare il carico (televisori) e la provenienza (Cina). Le operazioni doganali sono piuttosto complesse. Per i tecnicismi delle operazioni, normalmente le attività di sdoganamento vengono compiute dagli spedizionieri che hanno competenze specifiche. Lo spedizioniere, impresa che assolve alle funzioni di sdoganamento, è un mandatario di chi importa i beni, ha un mandato senza rappresentanza, è un responsabile d' imposta: è chiamato al pagamento dei dazi insieme con l' importatore. Qui la disciplina è molto meno raffinata rispetto all' art. 53. Perché la base normativa è di diritto comunitario. Si muove su logiche di mercato, di efficienza dell' azione amministrativa. I tributi doganali servono per finanziare le istituzioni europee, per questo l' interesse non è la salvaguardia di art. 53 ma riscuotere.

Supponiamo che negli scatoloni dei televisori importati ci sono televisori con il tubo catodico, vado alla dogana di Treviso e pago il dazio di 2% per esempio. Nel frattempo mi sono procurato la relativa provvista come mandatario. Poi in un secondo momento si scopre che erano televisori al plasma con un dazio doganale pari al 4%. Emerge una maggior imposta dovuta. L’ amministrazione può rivolgersi indifferentemente vuoi all’ importatore, vuoi allo spedizioniere, anche per la maggior imposta accertata, non solo per quella dichiarata. Dunque si trova in una situazione più problematica rispetto a quella del notaio. Se gli viene chiesta la maggiore imposta dovrà pagarla e poi agire in regresso. E se l’ importatore nel frattempo si è spogliato di tutto … rimane con nulla in mano. Si pongono problemi di costituzionalità, il rischio è far gravare il peso del tributo su un soggetto che non realizza il presupposto. L' esempio del notaio è molto più equilibrato, perché il responsabile in dogana rischia di subire le conseguenze del comportamento dell' importatore.

E' vero che lo spedizioniere può avere una maggiore possibilità di controllare. L' esempio dei televisori potrebbe risolversi aprendo uno scatolone e vedere, ma in altre situazioni è impossibile per lo spedizioniere di vedere. Per esempio le stampanti hanno molte componenti, ognuna ha un diverso dazio in base alla struttura elettronica. Questo esempio chiarisce che non sempre si può sapere la componente delle merci e il relativo dazio. Spesso poi le operazioni

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di sdoganamento per esigenze di tempistica si compiono senza vedere materialmente la merce. Le procedure semplificate consentono il transito documentale delle merce, lo spedizioniere nemmeno la vede. Contrattualmente potrei cercare un sistema per risolvere i rischi, attraverso un fideiussione per esempio. Ma non è detto che la possibilità della negoziazione sia uno strumento efficace per gestire il rischio, troppe condizioni potrebbero indurre il soggetto ad andare da un altro spedizioniere.

L’ unico strumento per sindacare la norma comunitaria contrastante con il principio di art. 53 sarebbe la norma di recepimento del trattato. Poi non è detto che la corte la dichiarerebbe incostituzionale perché potrebbe accontentarsi del regresso e dei relativi rischi. Quindi la rivalsa anticipata è molto più garantista del regresso.

La ratio dell' istituto della responsabilità è una logica di interesse fiscale e di efficienza nell' acquisizione del gettito. Il legislatore ritiene conveniente ampliare il numero dei soggetti responsabili. E creare delle relazioni tra le parti che inducano il soggetto responsabile al pagamento dell’ imposta. Si crea un contrasto di interessi che favorisce l' adempimento spontaneo. Quindi la responsabilità d' imposta ha questa logica.

4.1.3 Cessione d’ azienda

Abbiamo fatto due esempi in cui il soggetto responsabile risponde con un’ obbligazione solidale di tipo dipendente e illimitata, risponde con tutto il suo patrimonio. Quindi è coobbligazione

solidale, dipendente (notaio e spedizioniere con le parti, senza beneficium excussionis) e illimitata

in questi esempi.

Altro esempio in tema di imposte dirette. Supponiamo di immaginare un imprenditore che cede l' azienda ad un terzo. Nelle ipotesi di cessione d' azienda, per i debiti tributari risponde l' acquirente. Un' azienda produce televisori, la cedo ad un terzo che inserisce questa linea produttiva nell' ambito della sua impresa e risponderà dei debiti tributari insieme al cedente (non solo il cessionario). Se sono state commesse irregolarità tributarie, di queste risponde acquirente e venditore in un ipotesi di coobbligazione solidale. Il cedente dell' azienda risponde dei debiti limitatamente al valore dell' azienda ceduta, risponde intra vires. E' un' ipotesi di coobbligazione di tipo solidale, dipendente, limitata al valore dell' azienda ceduta.

4.2 Sostituzione d' imposta

E’ la seconda ipotesi di deviazione. Viene definita dall' art. 64 decreto 600. Definisce il sostituto come colui tenuto al pagamento dell' imposta in luogo di altri per fatti o situazioni a questi riferibili. Il responsabile è tenuto al pagamento insieme con altri, il sostituto invece in luogo di altri. La deviazione rispetto al rapporto è più marcata perché il soggetto non è coobbligato, è responsabile in sostituzione, in luogo, verso l' erario. Come, perché è legittimo un meccanismo del genere?

Tra le ipotesi più rilevanti in cui il meccanismo trova applicazione è il caso dei datori di lavoro nei confronti dei dipendenti o delle banche nei confronti dei correntisti.

4.2.1 Banche e correntisti

Depositiamo in banca dei soldi, questi rendono un interesse. Questo interesse è un reddito di capitale. Questo reddito è tassato, ma non lo troveremo mai indicato in dichiarazione perché la banca tratterrà direttamente sull' interesse l' importo dei relativi tributi versandolo all' erario. Qual' è la logica? Immaginiamo la complessità della fattispecie tributaria di tutti i correntisti che maturano interessi in Italia. La gestione sarebbe impossibile, l' erario ha interesse a ridurre i sui interlocutori. Esigenza di semplificazione. La sostituzione d' imposta risponde a logica di

semplificazione.

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4.2.2 Datore di lavoro e dipendenti

Il datore di lavoro è sostituto d' imposta. Se il dipendente è privo di altre fonti reddituali il suo reddito sarà dato esclusivamente dal reddito da lavoro. Quando il datore eroga gli importi ne tratterrà una parte per il versamento all' erario. L' unico rapporto diretto con l' erario ce l' ha il datore di lavoro. Anche in questo caso il legislatore non può avere la moltitudine dei dipendenti, ha un interesse a concentrare le relazioni nei confronti del datore di lavoro.

Come funziona il meccanismo? Il datore di lavoro è un debitore del lavoratore, ha un debito verso il lavoratore. Le somme che deve dare sono un credito del lavoratore. Quindi nella disponibilità del datore ci sono importi di pertinenza di un soggetto diverso, il lavoratore appunto. Anziché darli tutti al lavoratore (100) perché paghi le imposte, do al lavoratore il netto (80) e all' erario verso le somme necessarie (20) per il pagamento del tributo. Pago con ricchezza mia o con ricchezza di altri? Di altri, perché sono già debitore del lavoratore. Quindi non c' è un problema di collegamento soggettivo.

Lo stesso riguarda la banca. Non c' è un problema di collegamento soggettivo perché versa ricchezza che è già del contribuente. La funzione del sostituto da taluni è stata accostata al soggetto incaricato alla riscossione. Non è un obbligato tributario ma un soggetto obbligato alla riscossione.

4.2.2.1 La ritenuta.

Il meccanismo attraverso cui il sostituto trattiene le somme e le versa all' erario è la ritenuta.

Concertamente metto da parte, trattengo, rispetto al mio debito quanto serve per pagare l' erario.

Questo è il meccanismo attraverso cui il sostituto attua la rivalsa, per questo si chiama ritenuta di

rivalsa, attraverso la ritenuta il sostituto trasla il peso del tributo in capo a chi realizza il presupposto. La ritenuta integra la rivalsa nell' ambito della sostituzione. Art. 64 prevede l’ obbligo di rivalsa. Il meccanismo della responsabilità prevede una rivalsa facoltativa, nel caso del sostituto d' imposta la rivalsa attraverso la ritenuta è obbligatoria. Il sostituto deve effettuare la ritenuta perché il sistema vuole che il tributo sia pagato da chi realizza il presupposto. Se non effettuassi la ritenuta il soggetto riceve 100 e no 80 ha un reddito maggiore quindi dovrei versare ancora per la parte non coperta dal tributo.

4.2.2.1.1 Ritenuta d’ imposta e ritenuta d’ acconto

Nell' ambito della ritenuta possiamo distinguerne due tipologie: ritenuta d' imposta; ritenuta d'

acconto.

Gli esempi del lavoratore senza altri redditi e della banca sono due esempi di ritenuta d' imposta perché con la sostituzione si esaurisce il rapporto tributario. Pensiamo al dipendente, riceve un netto, il sostituto calcola le imposte e fa i versamenti. Il rapporto tributario si esaurisce in capo al sostituto, la ritenuta è definitiva, d’ imposta. E’ strumento per il pagamento dell’ imposta.

La ritenuta d' acconto è molto diversa dal punto di vista tecnico. Immaginiamo che un' impresa chiede una consulenza legale all' avvocato. Questo gli domanda la parcella di 10.000€. Quando l' imprenditore paga effettua una ritenuta a titolo d' acconto, d' importo proporzionale al 20%. Versa 8.000€ e trattiene 2.000€. E' una ritenuta d' acconto. Il professionista ha fatto una parcella da 10.000 ma 2.000 gli sono stati trattenuti dal cliente. Immaginiamo che l' avvocato faccia un altra operazione di consulenza ad un altra impresa per 20.000€ eroga 16.000€ ma 4.000€ gli trattiene come ritenuta e li versa all' erario. L' avvocato ora deve dichiarare i suoi redditi. I redditi dell' anno sono i 10.000€ per A e i 20.000€ per la società B e dichiara 30.000€ applico le aliquote e pervengo al risultato reddituale. Però ho già subito delle ritenute perciò dal risultato detraggo i 6.000€, riduco l' imposta nei confronti dell' erario. L' avvocato deve fare la dichiarazione come se

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la ritenuta non fosse stata effettuata. Con la ritenuta abbiamo una vera e propria anticipazione ma poi il rapporto tributario non si esaurisce, rimane incardinato sull' avvocato, salve le detrazioni.

Ritenuta d' imposta estingue il rapporto con l' erario, semplifico e chiudo il rapporto sulla base delle ritenute. Nella ritenuta d' acconto non c' è esigenza di semplificazione. La ratio è solo di anticipazione finanziaria, l' erario ha un vantaggio perché acquisisce anticipatamente ciò che l' avvocato dovrà versare. Entrambe si caratterizzano però per la stessa dinamica, un soggetto diverso è chiamato al pagamento del tributo.

Esempio più complicato è il caso del lavoratore dipendente con altri redditi. Avvocato e professore universitario. Questo soggetto nel suo meccanismo di tassazione cumula la posizione di sostituito rispetto al datore di lavoro e di sostituito rispetto ai suoi clienti dell’ attività professionale. Tutte le ritenute che gli vengono effettuate in questo caso sono d’ acconto. La particolarità è che sono ritenute d’ acconto commisurate agli importi materialmente erogati.

(18/4/ 2012) La sostituzione d’imposta è un fenomeno che pone dei problemi significativi sia sul versante dei costi sia sul versante del rapporto tra contribuenti e amministrazione.

Gli oneri del sostituto rispondono ad un interesse fiscale di semplificazione e diversamente gli stessi oneri graverebbero sulla massa dei dipendenti ovvero dei sostituiti probabilmente con un effetto di maggiorazione del carico. E forse anche dal punto di vista dell’interesse economico e della gestione delle economie di scale, sicuramente gli oneri del sostituto sono minori di quanto non sarebbero gli oneri gravanti sui singoli contribuenti per la gestione delle singole dichiarazioni.

4.3 Ipotesi patologiche della sostituzione d’imposta

Che cosa succede quando il sostituto omette di adempiere ai suoi obblighi, e quindi omette di effettuare le ritenute o i versamenti? In alcuni casi il sostituto non effettua né ritenute né versamenti (effettua erogazioni al lordo). In altri casi fa le ritenute, ma non fa i versamenti (si tiene i soldi). Questa prassi di effettuare le ritenute ma non i versamenti è una situazione piuttosto frequente in periodi di crisi. Questo si verifica perché il sostituto destina questi soldi acquisiti attraverso le ritenute ad altre finalità, ad esempio li destina al pagamento di altri creditori. Questo risponde alla logica secondo la quale è meglio avere come creditore lo Stato per le ritenute non versate piuttosto che un privato; questo perché il fisco ha tempi più lunghi rispetto a quelli di un privato. In termini di salvezza finanziaria l’imprenditore preferisce pagare i creditori piuttosto che lo Stato. Ora lo Stato ha previsto un reato per fronteggiare queste situazioni patologiche: reato di omesso

versamento di ritenute certificate (decreto 74/2000).

4.3.1 Il pagamento al lordo.

È possibile che l’imprenditore non effettui né ritenute né versamenti, che paghi quindi al lordo. Capita magari perché l’imprenditore non si rende conto che le somme che versa, o che sta erogando al dipendente, sono reddito, può pensare siano somme che hanno un’altra finalità.

Caso concretamente accaduto: Si pensi ad un’impresa che organizza una convention aziendale. In questa convention i dipendenti vengono invitati dalla dirigenza a passare 4-5 giorni in una località della Spagna. L’impresa organizza la trasferta dei dipendenti (affitta interi voli aerei), organizza l’evento in Spagna prevedendo la presentazione dei risultati dell’azienda nell’anno, dei forum per favorire il contatto tra dipendenti e prevedendo anche significativi momenti di svago: la mattina erano impegnati, il pomeriggio era libero e la sera erano organizzate serate di gala con cantanti famosi sia italiani che spagnoli. La guardia di finanza fa un controllo su questa fattispecie. L’imprenditore riteneva questo evento come un costo del personale perché questa esperienza ha una fortissima rilevanza dal punto di vista della formazione del personale: queste occasioni d’incontro favoriscono il clima di collaborazione tra colleghi, favoriscono

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l’attaccamento all’azienda e nel medio-lungo periodo aumentano le performance dell’azienda stessa; da quando è stata iniziata questa prassi i fatturati dell’azienda hanno avuto un percorso in crescita. La guardia di finanza diceva che questo non era un costo del personale, ma andava valutato come un viaggio premio. In realtà non è un’iniziativa che riguarda la formazione dei dipendenti, siccome la prevalente funzione di questa convention è quella di attribuire ai dipendenti la possibilità di godersi qualche giorno in una splendida località di mare. Nella disciplina del reddito dipendente, questi benefici che il dipendente riceve in relazione del rapporto di lavoro, quali essi siano (viaggi premio, automobile, telefonino), vanno considerati reddito, in particolare reddito in natura.

Ad esempio se sei un dipendente con una busta paga di 1200 €/mese, ma ogni anno ti pagano un viaggio del valore di 2000 €, il tuo reddito è dato da 1200 per 13 (si considera anche la tredicesima) più il valore normale del viaggio (quindi 2000 €).

Questo secondo un principio detto onnicomprensività: tutti benefici che il dipendente riceva in base al rapporto di lavoro, per lui sono reddito. Qualsiasi somma o valore attribuito al soggetto in relazione al rapporto di lavoro è reddito.

Si pensi ad un corso di inglese. Si dice che serve all’imprenditore, molte volte il fisco invece ritiene che il fatto di conoscere l’inglese sia un vantaggio per il lavoratore spendibile in tutte le sue condizioni di vita.

Torniamo al caso della convention aziendale: per il dipendente questo benefit è reddito, in particolare è reddito in natura. Qual è il valore di questo viaggio per ciascuno dei dipendenti? Si prende il costo totale (1 milione) e lo si divide per il numero di dipendenti (1000): 1000 € è il reddito di ciascun dipendente. Su quei 1000 € l’imprenditore avrebbe dovuto fare la ritenuta: questo è un caso di omessa ritenuta e di omesso versamento. Su quei 1000 € dovevano essere fatte le ritenute. Come si fa a fare la ritenuta su un compenso in natura? Non è che il dipendente abbia guadagnato 1000 € in più, è andato in vacanza per quel valore. Si deve fare il calcolo delle ritenute maggiorando le ritenute sulla parte monetaria; attraverso questo meccanismo il soggetto subisce più ritenute. In molti casi questa incidenza diventa notevole: si pensi al caso in cui il dipendente ha a disposizione un appartamento e un’automobile di lusso (funzionari di alto livello di istituti di credito).

La società presa in considerazione si difese affermando che non si trattava di un viaggio premio in quanto il lavoratore non era libero di andarci o meno, mancava la spontanea adesione all’iniziativa che giustifica un benefit. Alla base della logica del benefit sta il fatto che sia percepito come tale, come un vantaggio, come un premio. I dipendenti ci andavano senza la famiglia. La qualificazione della fattispecie come viaggio premio non teneva alla luce di questa ricostruzione. Secondo la guardia di finanza invece era un viaggio premio: vi erano moltissimi spazi di svago, concerti,…secondo la finanza vi era la componente premiale.

La guardia di finanza, nel caso specifico, aveva ribattuto affermando la necessità che il costo venisse proporzionato: le ore di formazione vanno calcolate come costo del personale (20%), il resto delle ore va conteggiato come viaggio premio (80%). Si tratta di un sindacato sulla natura del costo, sulla qualificabilità del costo.

Il dipendente non sopporta nessun carico e dunque il sostituito non è più estraneo alla fattispecie, non è più libero da conseguenze in questa situazione. In particolare l’amministrazione potrà rivolgersi al sostituto per il versamento di quanto dovuto chiedendogli le sanzioni per omesso versamento e per omessa ritenuta, ma potrà rivolgersi anche al sostituito. In questa ipotesi sostituto e sostituito stanno in un rapporto di cobbligazione: rispetto all’erario sono cobbligati per il pagamento delle ritenute. L’amministrazione potrà rivolgersi al sostituto per le sanzioni derivanti dall’omessa ritenuta e dall’omesso versamento, ma potrà anche andare dal sostituito a chiedere direttamente il pagamento della ritenuta (non delle sanzioni). Esiste una cobbligazione solidale che va vista non in una logica tipica delle obbligazioni solidali del codice civile (uno risponde in forza di una fattispecie unitaria): essi rispondono sulla base di due

presupposti diversi, è una co-obbligazione un po’ anomala.

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Il sostituto risponde in quanto obbligato ad effettuare la ritenuta (risponde come obbligato tributario), il sostituito risponde in quanto contribuente (in quanto soggetto che realizza il presupposto).

Se la ritenuta è d’acconto, la logica è diversa perché come è ovvio il sostituito rimane sempre obbligato nei confronti dell’erario alla dichiarazione integrale. Si pensi al caso dell’avvocato. Nell’ipotesi in cui il soggetto (avvocato) subisca la ritenuta ma non si proceda al versamento, lui dovrà comunque dichiarare l’importo integrale, e siccome non avrà la certificazione del versamento perché non è stato effettuato, rimarrà sempre responsabile. Il rapporto coinvolge sempre il sostituito nella ritenuta d’acconto.

La ritenuta d’imposta funziona diversamente. Nelle situazioni patologiche il coinvolgimento del sostituito è possibile solo quando la ritenuta non è nemmeno stata effettuata, perché in quel caso il soggetto ha un compenso lordo che costituisce reddito rispetto al quale è tenuto a sopportare la ritenuta.

4.3.2 Caso di effettuata ritenuta e mancato versamento.

La prima ipotesi che abbiamo considerato è che il sostituto faccia la ritenuta ma non il versamento. In questo caso il dipendente ha già subito il carico fiscale perché gli è già fatta la ritenuta: il sostituito ha già assolto il suo debito attraverso la ritenuta, e tutta la responsabilità rispetto alla fattispecie graverà sul sostituto. Il sostituto sarà responsabile per omesso versamento e pagherà le relative sanzioni, e potrà subire l’esecuzione diretta a conseguire il pagamento delle ritenute.

Quindi il rapporto si esaurisce nella posizione del sostituto, il sostituito rimane fuori dalla vicenda nonostante il fatto che non ci sia stato il versamento in quanto egli ha subito il carico fiscale nel momento in cui ha subito la ritenuta.

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5 Studi di settore

(30/5/2012) Avvocato Fassanelli (tributarista)

5.1 Definizione e ambito di applicazione

Gli studi di settore sono degli studi sulle singole attività economiche. Ogni attività economica è oggetto di una apposita/singola analisi che si basa sulla raccolta di dati contabili ed extracontabili relativi appunto allo svolgimento dell’attività. Questi dati contabili ed extracontabili vengono raccolti ed elaborati sulla base di tecniche/scienze statistiche, economiche, matematiche e per ciascuna attività economica si perviene ad individuare un risultato in termini di volume di ricavi. Questo risultato in termini di volume di ricavi viene a costituire il risultato dello studio. Si deve immaginare lo studio come un’analisi compiuta su ciascuna tipologia di attività economiche che permette di pervenire ad un risultato in termini di ricavi. Ciò significa che l’attività economica che si può inquadrare nell’ambito dello specifico studio deve o dovrebbe assicurare quell’ammontare di ricavi che lo studio stesso fotografa come collegato a quel tipo di attività. Si tratta di una logica di parametrazione, una sorta di presunzione in forza della quale se tu appartieni alla categoria economica cui si riferisce lo studio, il tuo ammontare di ricavi non dovrebbe essere inferiore a quello che risulta dallo studio stesso.

Gli studi di settori, sulla base di dati estrapolati dal bilancio e da altri dati che vengono puntualmente indicati dal contribuente nella dichiarazione, calcolano e stimano un ricavo atteso. Cioè non costruiscono un reddito, ma vanno a rideterminare dei ricavi che secondo questa analisi matematico-statistica vengono stimati e rispetto alla quale il contribuente dovrebbe essere in linea o comunque superiore. Gli elementi che vengono presi in considerazione sono i dati di bilancio e i dati che vengono allegati alla dichiarazione. Infatti in ogni dichiarazione fiscale, ogni soggetto che è tenuto agli studi di settore ha l’obbligo di allegare anche questa ulteriore dichiarazione in cui vi sono dati relativi all’attività: quanti sono i dipendenti, quanti sono gli amministratori che lavorano nella società, la tipologia di clientela,… Lo studio di settore lavora su un piano meramente matematico-statistico: vengono presi a riferimento una serie di dati sulla cui base viene applicato un moltiplicatore e si ottiene il ricavo stimato.

Il moltiplicatore matematico di ogni studio di settore è stato realizzato in contradittorio con le singole categorie imprenditoriali, ma concretamente c’è pochissima trasparenza su come viene calcolato questo moltiplicatore dal punto di vista matematico-statistico. Applicando questo moltiplicatore si ottiene un risultato atteso che va confrontato con il ricavo dichiarato dal contribuente; si possono ottenere due classificazioni: congruità/coerenza o non

congruità/coerenza.

Gli studi di settore vengono divisi per attività, ma all’interno di ogni attività avviene un’ulteriore suddivisione tra raggruppamenti omogenei di contribuenti (cluster).

Ad esempio negli studi di settore che riguardano la termoidraulica abbiamo il raggruppamento omogeneo che riguarda l’impresa individuale-singolare [questo è un cluster] (lavoratore autonomo: idraulico), le imprese individuali con dimensioni più rilevanti e le società commerciali di capitali che hanno un maggior numero di addetti.

Ottenuto il risultato di coerenza o non coerenza l’amministrazione è autorizzata ad accertare il contribuente perché ha dichiarato minori ricavi rispetto a quelli attesi calcolati attraverso l’applicazione degli studi di settore e all’interno del singolo cluster di riferimento o raggruppamento omogeneo.

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5.2 Il contraddittorio

L’amministrazione si è evoluta nel tempo e con gli studi di settore si è raffinata nella propria attività: non procede più automaticamente all’accertamento del contribuente ma instaura preventivamente un contraddittorio con lo stesso. Viene utilizzato un particolare strumento (invito a comparire) che rientra nella macro-categoria dell’accertamento con adesione inteso in senso lato perché di fatto l’amministrazione convoca il contribuente e gli fa notare come i ricavi da lui dichiarati siano inferiori a quelli attesi dagli studi di settore. Il contribuente può adeguarsi alla richiesta dell’amministrazione, e quindi riconoscere le maggiori imposte ed eventualmente le sanzioni, oppure si instaura un contraddittorio nel quale il contribuente deve arrivare a spiegare all’amministrazione le motivazioni che l’hanno portato a dichiarare dei ricavi inferiori. Quello posto in essere dall’amministrazione è un calcolo meramente matematico: non analizza cosa stia succedendo in azienda. Dalla dichiarazione il contribuente vede quale sia il risultato in termini di ricavi a lui attribuibili sulla base dello studio di settore, e vede se i suoi ricavi sono maggiori o minori rispetto a quelli stabiliti dagli studi di settore. La logica che ha condotto poi all’introduzione dell’istituto degli studi di settore, l’allineamento spontaneo del contribuente (quindi il versamento spontaneo) era una delle conseguenze ricercate dal legislatore. Il legislatore vorrebbe che tutti si adeguassero agli studi di settore perché questo porterebbe ad una standardizzazione dei redditi in relazione alle singole attività economiche.

Il contribuente è una società di capitali che opera nell’ambito della termoidraulica, essa opera quasi per la totalità della sua attività in sub-appalto (cioè opera con società edili/società di costruzioni e si occupa di terminare gli immobili costruendo i necessari impianti idraulici). Il contribuente però aveva una particolarità: la società, negli anni di accertamento, aveva anche alcuni beni immobili acquistati per ristrutturarli e venderli. Svolgeva quindi due attività. La particolarità della situazione era data dal fatto che gli immobili erano in ristrutturazione e quindi non avevano dato alcun utile. Il modello di dichiarazione inserito nella dichiarazione dei redditi relativo agli studi di settore non dava la possibilità al contribuente di evidenziare questa doppia attività proprio perché l’attività riguardante gli immobili non dava luogo ad alcun ricavo. Esisteva quindi un limite strutturale dello studio di settore: non permetteva di evidenziare quest’attività parallela. Proprio perché il moltiplicatore si applica su una serie di elementi indicati negli studi di settore, la stima dei ricavi negli studi di settore era quasi raddoppiata rispetto alla cifra dei ricavi dichiarati.

Qui si innesta il primo difetto di questa attività di accertamento: l’ufficio senza domandarsi e senza analizzare l’attività applicava lo studio di settore meccanicamente. Instaurato il contradittorio emerge abbastanza pacificamente questo errore dello studio di settore: il calcolo dello studio di settore non garantisce un dato reale. In contraddittorio l’amministrazione riconosceva l’errore e stralciava tutta l’attività relativa a questi immobili ristrutturati. Curiosità: questi immobili non erano una seconda attività che la società voleva iniziare, ma rappresentavano un pagamento fatto da un cliente che non aveva liquidità sufficiente per pagare le opere realizzate in appalto e aveva ceduto questi immobili.

Per effetto del contraddittorio c’è stato un primo riconoscimento dell’anomalia della situazione dell’impresa che ha portato ad una rideterminazione dei ricavi riferibili. L’esito comunque non era positivo per il contribuente perché una volta corretto lo studio di settore rimanevano comunque dei ricavi attesi che non erano stati dichiarati dal contribuente. In questo caso la difesa del contribuente era caratterizzata dalla particolarità dell’attività: la realtà della società è particolare perché opera nel campo della termoidraulica, ma è una piccola società

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di capitali che opera come terzista (tutto in appalto o sub-appalto) e non ha rapporti con la clientela finale. L’ufficio ‘soddisfatto’ dello stralcio dell’attività relativa ai beni immobili afferma che non vi sono problemi: applica sterilmente lo studio di settore sulla base di quello che rimane. L’ufficio partiva da un’ottica rovesciata: l’accertamento dello studio di settore mi dà un risultato corretto, ritengo che questo ricavo mi permetta di accertare e quindi applico lo studio di settore; le difese e le particolarità economiche e societarie che erano state portate dal contribuente sono state disattese. Infatti nell’accertamento non si trova traccia delle motivazioni e dei ragionamenti, sostenuti da documenti, portati dal contribuente.

L’ufficio ritiene che lo studio di settore sia prova di una evasione, per cui accerto questo reddito. In buona sostanza sta ragionando come se ci trovassimo di fronte ad una presunzione legale relativa. Il fatto che sia relativa, in teoria, dovrebbe comportare che il contribuente ha la possibilità di dimostrare che questa presunzione non regge o comunque è contraddetta nei fatti. Ma nel caso specifico l’ufficio è rimasto totalmente inerte trascurando tutte le argomentazioni.

L’ufficio riteneva di lavorare con una presunzione legale e quindi sterilizzava le argomentazioni, non motivava perché le argomentazioni del contribuente venissero superate e si limitava a dire che applicava gli studi di settore tout court. L’ufficio in questo caso ha strumentalmente ragionato in termini a lei convenienti andando totalmente contro alla giurisprudenza della Cassazione.

5.2.1 La natura degli studi di settore

Prima del 2009 c’era una grossa questione, sia in dottrina che in giurisprudenza, su quale valore avesse lo studio di settore: presunzione semplice o presunzione legale? Le Sezioni Unite sono intervenute a fine 2009 con quattro sentenze gemelle dicendo tutto il contrario di quello strumentalmente che ha portato l’amministrazione in questo accertamento. Queste sentenze riguardano i parametri, che sono gli antenati degli studi di settore, ma la Cassazione precisa che il ragionamento riguarda esplicitamente anche gli studi di settore. La Cassazione dice chiaramente che non è una presunzione legale, è una presunzione semplice quindi non c’è rovesciamento della prova. Sono un indice di evasione o di anormalità economica del contribuente ma di per sé non forniscono prova dell’evasione: possono al massimo costituire una presunzione semplice.

In relazione agli studi di settore, per garantire diritto di difesa e principio di capacità contributiva, l’ufficio deve innestare un contraddittorio per verificare l’astratta corrispondenza dello studio di settore all’effettiva situazione del contribuente. Prof. Trivellin: se si tratta di confrontare lo studio di settore e i dati dichiarati e rettificare successivamente saremmo di fronte a una logica accertativa meramente sulle carte. Così li intendeva l’amministrazione finanziaria, ma attraverso l’evoluzione la giurisprudenza sottolinea che gli studi di settore sono semplici indici che non sono in grado di provare alcunché. Occorre la contestualizzazione istruttoria concreta da parte dell’amministrazione finanziaria (ricerca di ulteriori elementi probatori che rafforzino il quadro istruttorio). Ai fini dell’inquadramento istruttorio, dice la Cassazione, è essenziale il contraddittorio con il contribuente. Studi di settore � presunzione semplice Amministrazione finanziaria � istruttoria specifica Cassazione � necessario contraddittorio per l’istruttoria

Domanda: non si poteva risolvere prima il tutto, già prima della dichiarazione dei redditi?

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Vedi esempio dei cosiddetti “Gerico”: modelli in cui uno inserisce i dati, si ottiene il ricavo che viene confrontato col dichiarato. Comunque l’accertamento è solo eventuale, non avviene per tutte le dichiarazioni dei redditi, non è detto che la PA vada a verificare quel contribuente il cui studio di settore ... Instaurare un contraddittorio preventivo è problematico: non c’è possibilità di discutere o concordare la situazione. È vero che c’è assistenza nella dichiarazione dei reddito ma gli uffici sono relativamente attrezzati e di fatto non ci sono neppure competenze appropriate degli operatori.

- no possibilità di concordare preventivamente la dichiarazione

- no contraddittorio prima che il procedimento inizi

- se anche ci fosse stato un contatto preliminare gli effetti relativi valgono perché non tolgono

la possibilità essere soggetti a controllo

Domanda: nella pratica riesco a far valere questo orientamenti della Cassazione sulle presunzioni? Problemi ce ne sono: quando si entra nel campo delle presunzioni non c’è grande preparazione e il giudice tende a far verdetti senza avere molte relazioni col caso di specie ma facendo una giustizia sommaria che, purtroppo, vede il contribuente sempre evasore. Spesso è un problema di forma mentis di coloro che compongono la commissione e questo rende più difficile far passare le linee innovative per le commissioni tributarie. Gli studi devono essere contestualizzati ma il ruolo importantissimo rimane il contraddittorio che la PA utilizza, purtroppo, in maniera distorta.

Nell’avviso di accertamento la PA dice: il controllo l’ho fatto, si realizza la presunzione relativa grave precisa e concordante pertanto l’accertamento è fondato. In verità nel caso di specie l’ufficio ha semplicemente trascurato la situazione concreta e gli elementi di fatto ma non spiega perché gli argomenti della parte non sono sufficienti a argomentare lo scostamento dagli studi di settore: posso motivare sulla base degli studi di settore. La PA dice: la Cassazione dice che devo contestualizzare e la PA lo fa con il contraddittorio, dando la possibilità di fornire tutti i dati possibili. La PA non è convinta allora lo studio è corretto: la PA fa in modo di aggirare, seppur elegantemente, il contenuto delle sentenza di Cassazione. Questa è la pratica contrapposta alla teoria. Il contraddittorio è il cuore della contestazione ma si risolve nel fatto che: il contribuente porta gli elementi, la PA li valuta da una posizione di alterità, nella maggior parte dei casi li ritiene inattendibili, allora lo studio di settore è corretto. Addirittura, nel caso di specie che stiamo analizzando, vediamo che la PA doveva assolutamente stralciare il risultato dello studio di settore, non doveva fermarsi lì ma doveva valutare tutta la situazione. Nel contraddittorio il consulente aveva esposto tutti gli elementi già detti (appalto per conto di terzi, non lavorava presso il pubblico, le marginalità erano più basse, ...) per dimostrare che i ricavi erano minori. Di tutto ciò non c’è assolutamente traccia nel contraddittorio e addirittura si cita la giurisprudenza di Cassazione a sostegno della sua tesi per affermare l’avvenuta contestualizzazione: è un paradosso.

Prof. Trivellin: la lotta all’evasione va condotta con efficacia e tenacia ma nel rispetto delle garanzie dei principi e nelle norme. Questo non è un modo di recuperare equamente la base imponibile e questo toglie la dimensione del consenso (per questo la gente mette le bombe di fronte a Equitalia): si dovrebbe essere severissimi con gli evasori ma operare nel massimo rispetto delle garanzie. Allora dopo processo e procedimento giusto occorre la sanzione severissima, ma non si può trascurare le garanzie sull’accertamento e poi far passare tutte le sanzioni. Ci vuole equità.

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Domanda: nel caso concreto il contribuente potrebbe dire: io evado, poi eventualmente faccio l’accertamento con adesione: non spinge all’evasione? Paradossalmente sì: si guardi alle società di trasporto in cui i guadagni sono totalmente azzerati: emerge un maggior ricavo atteso dagli studi di settore. Accade che: - la società paga l’IRAP anche se è in perdita

- si ritrova senza ricavi attesi e fa fatica a sopravvivere

- dimensione poco equa del procedimento con la PA

- di fatto l’impresa è portata ad evadere

Gli studi di settore sono sempre stati contrastati da associazioni di categoria, commercianti,... perché hanno un effetto perverso: fanno pagare imposte anche a soggetti che non raggiungono quei livelli di ricavi ma sono protezione per coloro che ottengono ricavi superiori (esempio per particolare efficienza) e non li dichiarano. Il prof. Gallo in tema di giustizia tributaria dice che se i contribuenti mentono anche gli studi di settore mentono, questo è vero: gli studi di settore sono raccolti con dati statistici inviati alle aziende e le imprese tendono a rimanere sotto traccia. Gli studi sono forti con i deboli e deboli con i forti. Domanda: il problema è lo studio di settore o il modo con cui vengono usati dalla PA? Un po’ e un po’. In parte quasi mai lo studio di settore fotografa in modo preciso la situazione economica. Inoltre (tesi del prof. Moschetti) gli studi di settore. dovrebbero essere utilizzati come indici di anomalia e dunque dovrei controllarli ma con i metodi generali, dovrebbero essere solo criteri selettivi. Precisazioni rapide:

1- è vero che uno è invogliato a evadere ma gli studi proteggono coloro che hanno la

possibilità concreta di studiare e pianificare (spesso a settembre ottobre si chiama il

commercialista e chiede: quanto devo ancora fatturare? Devo fare a meno di battere

qualche scontrino?)

2- è interessante ricordare che la Cassazione dice che se stravolgiamo questo metodo

passiamo da mezzo di accertamento a mezzo di determinazione del reddito (e allora non è

più accertamento): ma allora viola principi costituzionali.

3- Esempio: tentativi da parte del legislatore di creare forfetizzazioni nelle compravendite

immobiliari (rettificate con valore medio degli immobili in base ad andamento dei prezzi)

� abrogata, intervento anche della Corte di Giustizia dell’UE. Prof. Moschetti dice, a

proposito: “l’uomo massa si sovrappone al contribuente persona”. Bisogna opporsi a

questo: al centro mettiamo la tutela e la salvaguardia della persona.

Gli studi di settore stimano solo i ricavi. L’aspetto interessante è: stimano i ricavi, non stimano il reddito, e i costi? Nella logica della capacità contributiva se da un lato aumenta la capacità contributiva ma se ho ricavi neri ho anche costi neri, che vengono bellamente trascurati tanto dall’ordinamento quanto dall’amministrazione. Il contribuente dice: è vero, ho dei ricavi in più ma ho anche dei costi neri (per esempio i dipendenti). La logica della capacità contributiva chiamerebbe un riequilibrio.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

Facoltà di Giurisprudenza Sede di Treviso

APPUNTI DI

DIRITTO

TRIBUTARIO PARTE SPECIALE – LA FISCALITA’ D’ IMPRESA

Prof. Mauro Trivellin

Anno accademico 2011/2012

II semestre

Andrea Daminato, Martina Pieretti, Giulia Pontarollo

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6 Principi generali della tassazione reddituale.

Quello che studieremo sul reddito d’impresa subirà un processo di rapidissima obsolescenza. È proprio di questi giorni l’approvazione della delega da parte del Governo Monti per la riforma tributaria. Ce ne era già stata una di Tremonti (legge 80/2003), ma per la maggior parte rimase inattuata (attuata limitatamente all’introduzione dell’IRES). La prima delega era degli anni ’70, quindi questa sarebbe la terza delega.

Questa delega inciderà sulla fiscalità d’impresa: riformerà in maniera radicale la disciplina dell’IRPEF (cioè della tassazione dell’imprenditore persona fisica) e la tassazione dell’IRES (cioè del reddito della società) assorbendole in un’unica imposta che si chiamerà IRI (imposta sul reddito d’impresa).

L’imposta sul reddito è alla base del nostro sistema tributario. È un’imposta diretta, quindi colpisce una manifestazione diretta ed immediata di ricchezza. È un’imposta di periodo: la commisurazione (la quantificazione) del tributo e quindi la determinazione della base imponibile avviene prendendo a riferimento un certo periodo di tempo che normalmente coincide con l’anno solare (le imposte sul reddito vengono quantificate facendo riferimento all’anno solare). La dichiarazione dei redditi è annuale, annuale perché quantifica e liquida il tributo dovuto in relazione all’anno solare.

Dal punto di vista della struttura di questo tributo, si tratta di una tipologia di prelievo che colpisce i redditi ottenuti dal soggetto in quanto ascrivibili a talune categorie determinate. Quindi la tassazione del reddito incide sulle cd. categorie reddituali. Allorché l’elemento positivo (il reddito) confluisca in una di queste categorie, interviene la tassazione.

Elenchiamo le varie categorie in ordine sparso:

- redditi fondiari, che in linea di massima derivano dalla proprietà o dal possesso di immobili

di qualsiasi genere;

- redditi di lavoro dipendente, derivano dallo svolgimento di attività alle dipendenze e sotto

la direzione altrui;

- redditi di lavoro autonomo, derivano dallo svolgimento di attività di tipo artistico o

professionale;

- redditi d’impresa, che derivano dallo svolgimento di attività commerciali;

- redditi di capitale, derivano dagli impieghi di capitale vuoi in operazioni di finanziamento o

prestito vuoi in investimenti, in partecipazioni societarie. Quindi vi sono due categorie di

redditi di capitale: una ascrivibile alla categoria degli investimenti del capitale in operazioni

di prestito (mutui, concessioni di garanzie,…), e quella degli investimenti negli strumenti

finanziari (titoli, partecipazioni,…);

- redditi diversi, categoria eterogenea di fattispecie differenti tra loro, non riconducibili alle

altre categorie reddituali. È possibile identificare dei macro-nuclei reddituali: plusvalenze

immobiliari (i guadagni che un soggetto ritrae dalla vendita di immobili, dalla lottizzazione

di terreni, dalla trasformazione di terreni agricoli in terreni fabbricabili,…), le plusvalenze

da cessione di strumenti finanziari (i capital gains).

6.1 Presupposto generale: il possesso di reddito

Il presupposto generale della tassazione reddituale è esplicitato all’art.1 del decreto 917/1986,

c.d. Tuir. Il presupposto generale dell’IRPEF, quello che viene posto alla base della tassazione sul

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reddito, e che più in generale può considerarsi il presupposto dell’intera tassazione reddituale (non solo delle persone fisiche) è il cd. possesso di redditi in denaro o in natura appartenente alle categorie indicate. Affinché vi sia tassazione occorrono due requisiti: che il reddito appartenga ad una delle categorie, che quel reddito sia oggetto di possesso da parte del contribuente.

Nozione di possesso del reddito. La nozione di possesso si può trarre dal diritto privato: implica una relazione di fatto che però è una relazione qualificata. Bisogna chiedersi se nel diritto tributario la nozione di possesso comporti la stessa relazione (tra soggetto e reddito) che il possesso esprime in ambito civile. Per possesso di reddito s’intende possesso civilistico del reddito o qualcosa di diverso? Per far questo bisogna vedere come si atteggia il possesso nelle varie categorie reddituali.

(23/4/2012) Disciplina della tassazione del reddito d’impresa. Il presupposto generale dato dal possesso di reddito. Cosa si intende per possesso di reddito? È una nozione che riecheggia la nozione di possesso di diritto civile ; si tratta di un problema che tocca una delle questioni più complesse del dritto tributario, dato dal problema dei rapporti tra diritto tributario e altri rami dell’ordinamento, quando il diritto tributario utilizza nozioni provenienti da altri rami dell’ordinamento.

1140. - Possesso

Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di

altro diritto reale.

Nozione civilistica di possesso: potere di fatto su una cosa che si concretizza nell’esercizio di facoltà che corrispondono a quelle del proprietario, ovvero di titolare di altro diritto reale.

Quando parliamo di possesso di reddito possiamo ritenere effettivamente esistente questa

nozione di disponibilità materiale?

Dobbiamo esaminare le singole categorie reddituali per capire se la nozione di possesso è quella civilistica o no.

Infatti l’art. 1 decreto 917/1986 dispone che: il presupposto generale di possesso di redditi

rientranti nelle categorie. È la stessa formulazione civilistica che, quindi, ci invita a prendere in considerazione le categorie reddituali

6.1.1 Le categorie reddituali e la nozione di possesso

6.1.1.1 Redditi da lavoro autonomo

Nei redditi di lavoro autonomo, esercizio di arti e professioni in particolare, un soggetto che è esercente arti o professioni, per es. l’avvocato, è un soggetto che viene tassato sulla base del principio di analiticità, che implica che il contribuente che consegue redditi di lavoro autonomo è tassato sulla base della differenza tra i corrispettivi, i guadagni della sua attività ( per es. parcelle emesse per la prestazione di servizi legali) meno i costi dell’attività�corrispettivi meno costi.

C’è un’ottica di analiticità; il risultato dell’attività è oggetto di tassazione in base ad un principio di

cassa: cioè il reddito va mandato a tassazione nell’anno in cui il soggetto incassa materialmente il corrispettivo: è un’imposta di periodo; se per es. nel periodo 2012 incasso100.000 euro di corrispettivi per l’attività e sostengo 20.000 euro di costi per l’attività �100.000 – 20.000 = 80.000 = reddito 2012.

Che cosa vuol dire principio di casa?Il soggetto nell’anno dispone materialmente di 80.000 euro, i quali sono entrati nelle sue tasche, quindi ha una disponibilità materiale che corrisponde al possesso civilistico del reddito perché si tratta di una disponibilità materiale del reddito. Possiamo dire che la nozione di possesso di reddito corrisponde in modo pieno alla nozione civilistica di possesso.

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6.1.1.2 Redditi di lavoro dipendente

Il soggetto, che è un lavoratore subordinato (esercita un’ attività alle dipendenze di altri) percepisce uno stipendio erogato dal datore di lavoro, il quale lo corrisponde (v. ruolo di sostituto, trattenute); diviene rilevante quando viene incassato, bisogna vedere quali sono le somme e i valori che il soggetto ha acquisito nell’anno, ma li ha materialmente incassati.

C’è una diversità rispetto lavoratore autonomo : lì c’era analiticità; qui i costi di produzione del reddito non sono analiticamente rilevanti. Per es. costo del dipendente per recarsi al luogo di lavoro. Questi costi che il lavoratore sostiene potrebbero essere costi diversi; questi non sono deducibili per il lavoratore. Qual è la ragione, perché non li spesa? È un problema di semplificazione; il legislatore non vuole avere a che fare con il problema di deduzione di tutti i costi del lavoratore. Siccome di norma il lavoratore non sostiene costi particolari per la prestazione lavorativa, perché tutti gli oneri e beni strumentali sono normalmente messi a disposizione dal datore di lavoro, allora il legislatore dice che bisogna semplificare, allora riconosce una detrazione FORFETTARIA, cioè regressiva, al decrescere del reddito, che è riconosciuta solo ai dipendenti e serve a tenere conto in maniera forfetizzata dei costi del lavoro dipendente.

Allora torniamo al concetto di possesso: anche qui conta la disponibilità materiale, ma c’è una componete forfetizzata, che è quella dei costi. Se i lavoratore per avventura sostiene dei costi più elevati di quelli che la detrazione prevede, questi costi non sono più deducibili. C’è una tassazione al lordo. Allora non è detto che quella disponibilità materiale che caratterizza il possesso sia presente anche nel caso di lavoro dipendente perché quella parte di reddito potrebbe essere assorbita da costi indeducibili. Abbiamo ugualmente un possesso, ma all’interno vi è una

componente forfetizzata che potrebbe essere non effettiva. Dunque ci si allontana dalla nozione di possesso civilistico che comporterebbe la disponibilità materiale di tutto il reddito. Qui c’è la disponibilità materiale dello stipendio, parte relativa ai componenti positivi del reddito,ma i componenti negativi sono forfetizzati e quindi se questi vanno ad abbattere il reddito oltre la misura forfetizzata, incidono sulla disponibilità materiale della ricchezza.

Domanda: ma qui non verrebbe tassata una capacità contributiva non effettiva?si tassa una capacità contributiva che potrebbe non essere effettiva. Ragionamento che fa legislatore: c’è una ragionevolezza di fondo perché il lavoratore comunque sosterrà costi bassi, costi che sono normalmente assorbiti dalla detrazione forfettaria: sono costi tipici (per es. trasporto ecc…) che secondo il legislatore possono essere quantificati in maniera forfettaria. Ma ci sono anche casi di costi eccezionali straordinari del lavoro:si ritiene che questi siano deducibili; è un correttivo. Mentre non sono deducibili i costi ordinari, perché sono assorbiti dalla detrazione forfettaria.

Es. reddito dall’attività di professore universitario (è un reddito di lavoro dipendente). Ci sono oneri di trasporto, dovrebbe prendere il treno, ma viene in macchina. La detrazione forfettaria non basta a coprire il costo dell’attività di lavoro dipendente e viene assorbita ed erode una certa parte dello stipendio universitario.

Es. di un caso in cui c’è stata una deduzione analitica: caso di un alto funzionario di banca che era incaricato di gestire i rapporti tra banca controllante e banche dell’est Europa. Questo funzionario aveva un problema familiare, doveva assistere uno dei genitori che stava male; nello stesso tempo due delle banche estere stavano facendo una fusione e le banche avevano bisogno di lui. La soluzione è stata che lui ogni giorno con un aereo preso in affitto dal dipendente faceva la spola tra l’Italia e il Paese dell’est. Il costo era spaventoso, ma era un costo che quel dipendente sosteneva per rendersi in grado di effettuare la prestazione lavorativa. Se questo soggetto non avesse potuto dedurre quel costo, avrebbe subito una decurtazione del reddito. Questo è un costo straordinario per cui l’ha dedotto analiticamente�ecco il correttivo. Pur essendo costo di lavoro dipendente e quindi suscettibile di essere dedotto in maniera forfettaria, veniva in realtà dedotto analiticamente.

Non è detto che tutta la ricchezza sia realmente disponibile perché una parte potrebbe essere assorbita da costi indeducibili, qui costi che eccedono la quota forfettaria.

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6.1.1.3 Redditi di capitale

si tratta di redditi che derivano dallo sfruttamento, impiego di un capitale. Impiego che può essere destinato ad operazioni di finanziamento e prestito oppure investimenti in titoli e partecipazioni. Dividendi e interessi sono redditi di capitale e sono tassati per cassa. Vuol dire che tu sei tassato quando materialmente incassi l’utile, gli interessi. Quando sei tassato, se si tratta di un credito nei confronti di una banca, la banca fa le ritenute a titolo di ritenute d’ imposta. I costi sono totalmente irrilevanti, non c’è nessuna voce di costo indeducibile. Perché? Per una ragione collegata ad una logica di interesse fiscale, semplificazione, perché si ritiene che l’impiego di capitale non comporti costi particolari e si dice che non rilevano le componenti reddituali negative. La nozione di possesso si allontana da quella civilistica perché c’è una disponibilità materiale che potrebbe essere erosa.

Per es. interessi sui deposti bancari; si pensi alle commissioni addebitate per il costo di gestione: spesso assorbono gli interessi percepiti!!

Resta vero il principio generale, che l’impiego di capitale non comporti costi particolari, ma ci allontaniamo dal concetto civilistico di possesso.

6.1.1.4 Redditi fondiari.

Segnano in maniera più marcata l’allontanamento della nozione di possesso civilistico da quella di possesso tributario perché sei tassato in quanto possessore di un immobile, per es. terreno agricolo o appartamento sfitto. Sei tassato in base alle rendite catastali anche se quell’immobile è sfitto e non produce alcun reddito; tu sei tassato forfettariamente in base al reddito medio ordinario che ti deriva dagli estimi catastali.

Il programma di Monti è quello di mettere l’IMU sulle abitazioni e dall’altra si vuole aggiornare il catasto per incrementare le rendite, aumentare la stima dei redditi detraibili dagli immobili.

Qui potrebbe mancare totalmente il possesso di un reddito perché per es. l’immobile è sfitto. Ho il possesso dell’immobile che è il presupposto, ma non ho il possesso del reddito�allontanamento dal possesso civilistico.

6.1.1.5 Reddito di impresa

Non vale il principio di cassa, non opera. Opera il principio di competenza. Allora i costi e i ricavi che derivano dall’attività d’impresa svolta nell’anno sono rilevati non in base al principio di cassa, ma in base al principio di competenza. Vuol dire che costi e ricavi non concorrono con il risultato d’esercizio quando sono materialmente sostenuti o incassati, ma quando sono di competenza. Cosa vuol dire? Di competenza vuol dire maturati: quando si completa, matura la relativa fattispecie, non conta l’incasso.

Es. c’è un impresa edile che costruisce capannoni industriali. Questo imprenditore vende uno dei capannoni realizzati per 1000000 di euro. Va dal notaio, stipulano l’atto di vendita e in questo momento succede che passa la proprietà e sorge il diritto ad essere pagati. La fattispecie è completa giuridicamente. Nel momento della stipula il nostro contribuente deve dichiarare il milione di euro, ma può anche essere che il pagamento sia rinviato all’anno successivo. Qui il soggetto ha venduto il bene, non ha incassato il prezzo, ha acquisito il diritto di incassarlo, ma il reddito tu non lo hai incassato. Quindi il principio di competenza si allontana dalla nozione di disponibilità materiale.

6.1.2 Nozione tributaria di possesso

Non in tutte categorie reddituali la nozione di possesso corrisponde a quella civilistica; l’unica categoria in cui c’è coincidenza è quella del reddito di lavoro autonomo tra possesso civilistico e possesso tributario. In molti casi c’è una nozione di possesso che prescinde dalla materiale disponibilità.

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Allora qual è la funzione dell’art. 1 del decreto 917/ 86, che dice che il presupposto è il possesso di reddito, se poi nell’applicazione concreta le nozioni di possesso sono eterogenee?

La nozione di possesso in diritto tributario è diversa da quella civilistica, è un altro caso in cui il diritto tributario si allontana dalla disciplina generale delle materie a cui esso rinvia e possiamo definirlo come quella relazione tra il soggetto ed il reddito caratterizzata da una ragionevolezza

sufficiente a giustificare il prelievo, la tassazione. Occorre che tra il soggetto e il reddito tassato vi sia una certa qual connessione, una certo rapporto che sia sufficientemente ragionevole di giustificare la scelta del legislatore di tassare quel reddito in capo al soggetto;quindi la chiave di lettura è la ragionevolezza della relazione. Se manca il possesso, sei tassato per un reddito che non è riferibile a te e la previsione di tassazione sarebbe incostituzionale.

È difficile capire quando sia ragionevole e quando non lo sia perché il giudizio di ragionevolezza va fatto in concreto.

6.1.3 Casi in cui il possesso di reddito diventa l’elemento decisivo per la tassazione

6.1.3.1 Le società di persone.

Sono società commerciali che si caratterizzano per non essere connotate dalla personalità giuridica. Nelle società di persone esiste un principio di tassazione denominato principio di

trasparenza. In forza di questo principio, il reddito delle società di persone non è tassato in capo alla società, ma in capo ai soci sulla base della loro quota di partecipazione. Quindi il possesso non è tassato in capo alla società, ma in capo ai soci in base alla loro quota di partecipazione. Quindi si può pensare alla società come ad un prisma. Immaginiamo il reddito come la luce solare che colpisce il prisma e rifrange i raggi solari in tanti raggi quanti sono i soci e i soci sono tassati , non la società, che è un veicolo in base al quale il reddito viene ricondotto ai soci. Così funziona il sistema di tassazione per trasparenza. Allora potrebbe accadere che il socio di una società sia tassato anche se il reddito conseguito non è mai stato materialmente da lui conseguito.

- Caso problematico del reddito della società che decide di reinvestirlo integralmente nell’esercizio dell’attività economica

Caso della società che consegua un reddito di 100 e decida di reinvestirlo integralmente nell’esercizio dell’attività economica; non distribuisce quel 100 ai soci. Il socio non riceve una lira perché tutto il reddito è reinvestito nell’attività d’impresa e nonostante ciò il socio è tassato per il 50% per es. dunque non ha avuto la disponibilità materiale del reddito.

In senso fiscale il possesso di reddito ce l’hanno o no? Dobbiamo ricordarci cos’è il possesso fiscale. C’è questa relazione ragionevole? La risposta non la si può trovare in astratto, ma nella situazione concreta. Andiamo a vedere la disciplina delle società di persone. Si trova che salvo patto contrario, tutti i soci sono amministratori. E vi è una norma che dice che i soci hanno diritto alla distribuzione dell’utile di loro pertinenza nel momento dell’approvazione del rendiconto. Allora vi sono due regole: se non è previsto diversamente sei amministratore; se non sei amministratore hai diritto alla liquidazione dell’utile all’approvazione del rendiconto. Se la società decide di reinvestire e tu non chiedi la liquidazione della tua quota, è una scelta tua. Tu compi un atto di disposizione del reddito. Stabilisci che anziché chiedere la liquidazione, condividi il reinvestimento. Allora nell’accettare il reinvestimento, tu compi un atto di disposizione e questo atto di diposizione esiste perché esiste una relazione tra il soggetto e il reddito. Qui sta la relazione tra il soggetto e il reddito che integra e concretizza il possesso. Nel caso delle società di persone il meccanismo funziona perché il soggetto titolare di un diritto ad ottenere l’approvazione del rendiconto può decidere che quei redditi vengano reinvestiti, quindi dispone di quel reddito ed è ragionevole che venga tassato.

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6.1.3.2 La disciplina CFC.

I paradisi fiscali sono dei paesi che presentano delle aliquote fiscali in un regime tributario particolarmente più favorevole rispetto all’ordinamento italiano, rispetto agli ordinamenti europei. Sono Paesi che per ragioni diverse, o perché ci sono aliquote particolarmente basse o perché ci sono attività che non sono tassate o perché c’è un certo livello di tassazione ma c’è un’assoluta mancanza di trasparenza, presentano una tassazione più favorevole.

Sono Paesi che rientrano in una black list, lista nera di Paesi che presentano un livello di tassazione favorevole. Ora non esiste più la black list, ma esiste una white list in cui vi sono i Paesi virtuosi e tutti quelli che sono fuori son considerati paradisi fiscali. (ma la white list non è ancora stata compilata, per cui si continua a far riferimento alla black list). Per es. gli Emirati Arabi.

Esiste una disciplina che serve a contrastare l’utilizzo da parte dei contribuenti dei paradisi fiscali per realizzare degli obiettivi di sottrazione del reddito attraverso meccanismi di pianificazione internazionale. Questa disciplina ha l’acronimo di CFC, Controller Foreign Companies.

Cosa dice questa disciplina? Che se tu scegli di collocare una società in un paradiso fiscale, tu vai incontro a delle precise conseguenze.

Quali sono le ragioni per cui potresti collocare le società in un paradiso fiscale? Utilizzi queste società per veicolare redditi nel paradiso fiscale e per utilizzare qui redditi in operazioni cross

border, estero su estero che sfuggono completamente alla tassazione italiana.

Per es. società italiana costituisce società a Hong Kong e le cede il suo marchio; la società italiana non è più proprietaria del marchio e paga delle royalties; queste partono dall’Italia e finiscono ad Hong Kong, in questo modo io ho un costo deducibile. A questo punto la società che sta nell’isola può fare qualsiasi cosa, ricaverò degli utili che saranno tassati con aliquote bassissime; queste società si chiamano società conduit perché sono collettori attraverso cui passano ricchezze che provengono da Paesi che non sono paradisi fiscali.

Allora il legislatore deve arginare questi fenomeni sulla base di una disciplina internazionale. È stata elaborata nell’ambito dell’ OCSE, che ha tratto ispirazioni da disciplina anglosassone. Come funziona questa disciplina?

Funziona in modo simile alla trasparenza per lo società di persone. Se tu sei un soggetto italiano e controlli una società situata in un paradiso fiscale, i redditi prodotti da questa società sono tassati in Italia anche se non sono distribuiti; anche se questa società ha la personalità giuridica nel Paese in cui ha la sede legale e anche se ha investito l’utile in operazioni internazionali, è tassato in Italia sulla base di una disciplina incentrata sulla trasparenza. Il bilancio deve essere riclassificato e la società viene tassata in Italia, il reddito viene attribuito alla società controllante perché il reddito potrebbe anche non essere distribuito. Allora in questo caso esiste il possesso di reddito, è legittimo questo meccanismo? La risposta la dobbiamo dare in relazione al caso concreto. La disciplina scatta in quanto esiste una relazione di controllo; solo in questo caso è possibile ritenere sussistente il possesso perché se sei un soggetto che controlla una società, sei tu che nell’organo deputato a decider cosa si fa, decidi se e come distribuire il reddito e quindi il fatto che tu sia controllante vuol dire che tu puoi disporre di quel reddito e, dunque, dal punto di vista dell’ordinamento italiano esiste il presupposto per ritenere possibile di tassare quel reddito, a prescindere dalla contribuzione. Meccanismo per contrastare fenomeni di elusione�ratio: requisito di ragionevolezza in equilibrio con l’interesse fiscale all’acquisizione della giusta imposta.

Se per es. questa società in un paradiso fiscale svolge un’effettiva attività economica, perché dovrei essere penalizzato rispetto al caso in cui avessi posto la mia sede in un Paese non a fiscalità privilegiata? Infatti la disciplina prevede la possibilità di avvalersi di una deroga attraverso un apposito istituto, che si chiama interpello con cui puoi dimostrare che la tua attività è un’attività

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effettiva e reale. Se riesci a dimostrare documentalmente che l’attività è effettiva, puoi uscire dalla disciplina delle CFC e sei tassato solo sugli utili distribuiti.

Altra questione: questa disciplina può essere applicata anche nel caso di società collegate?

(24/4/2012) Ieri avevamo sviluppato il tema del possesso di reddito. Costituisce una nozione di matrice esclusivamente tributaria. Ha senso parlare di possesso di reddito considerando le caratteristiche delle singole categorie reddituali. Abbiamo precisato che ci dobbiamo accontentare di una nozione di reddito con una accezione piuttosto ampia nella quale lo definiamo come relazione qualificata tra soggetto e reddito caratterizzata da ragionevolezza e tale da giustificare il prelievo. Ne abbiamo viste delle applicazioni nell’ ambito della tassazione di società di persone (istituto della trasparenza) e istituti di fiscalità internazionale, coma le disciplina CFC diretta a limitare la collocazione di società in paradisi fiscali per canalizzare redditi all’ estero al fine di sottrarre materia imponibile allo stato italiano e impiegarla in operazioni estero su estero. In queste situazioni è possibile ritenere sussistente il possesso di reddito in quanto la società situata nel paradiso fiscale è sottoposta ad un regime di controllo da parte del soggetto residente, significa potere di disposizione del reddito, che legittima la tassazione in base alla disciplina italiana. Per assicurare parità di trattamento se la società del paradiso fiscale svolge attività commerciale effettiva I’ istituto dell' Interpello permette di derogare alla disciplina dell’ CFC.

Si parla di collegamento quando la società italiana possiede una partecipazione in società estera che si caratterizza per una rilevante incidenza nella vita sociale pur non essendoci un potere di controllo. La partecipazione è sufficientemente qualificata da esercitare un influenza sensibile nell’ assemblea però non così rilevante da determinare un controllo. Questa è in linea di massima una partecipazione di collegamento. In queste situazioni è legittimo estendere la disciplina delle società controllate estere?

Possiamo chiederci se un soggetto con una partecipazione soltanto di collegamento può decidere circa la determinazione del reddito della società estera. Non ha il controllo eppure si trova tassato per trasparenza. Esistono dei dubbi circa il possesso del reddito. Se il soggetto non è titolare del potere di controllo non può disporre del reddito della società estera. Di quel reddito dispone la maggioranza. Dunque la decisione di impiegare quel reddito in operazioni estero su estero, o comunque operazioni che non determinano una distribuzione del reddito in Italia, è presa dalla maggioranza della società, da chi ha il controllo. Dunque l' estensione della disciplina CFC a società collegate pone dei problemi di legittimità costituzionale sotto il profilo del collegamento soggettivo.

Il legislatore italiano per contrastare l’ utilizzo dei paradisi fiscali ha esteso la disciplina CFC alle società collegate quando la partecipazione del soggetto Italiano supera la soglia del 25%. Questo è un problema dal punto di vista della capacità contributiva e dell' elemento soggettivo sotto il profilo del possesso di reddito.

Domanda: Il fatto che l' azienda volutamente abbia investito nell' azienda estera comporta che si vuole penalizzare gli investimenti nei paradisi fiscali anche quando l' investimento non da luogo ad una partecipazione di controllo. Però per quanto le scelte possano essere adottate sulla base del contrasto all' evasione, devono comunque rispettare i principi fondamentali. Poi chi fa questo tipo di investimento dovrebbe poter provare che l' investimento è stato fatto per un interesse commerciale effettivo e che la società svolge un effettiva attività commerciale. Ma mentre il socio di controllo non ha difficoltà a provare questa attività commerciale effettiva, il socio di minoranza che magari ha solo il 25% che chiede all' amministratore di fornirli la documentazione potrebbe avere dei problemi di prova perché l' amministratore può rifiutarli l' accesso alla documentazione rilevante. Quindi è indubbio che la scelta normativa serve per contrastare le evasioni internazionali ma questa scelta non può violare il principio di capacità contributiva.

A titolo di completezza la disciplina del CFC è stata estesa non solo ai paesi black list ma anche a paesi che hanno una fiscalità che pur avendo aliquote più basse di quelle italiane comunque non rientrano fra i paradisi fiscali, come l' Irlanda. E' tra i paesi ai quali si applicava la disciplina CFC. E’ stato un problema notevole per gli operatori europei. C' è stata una notevole discussione all’

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interno di questi istituti che utilizzavano l’ Irlanda come base d’ appoggio di società controllate. Si parlava addirittura di trasferimento della residenza di queste società per riportarle in Italia, che è molto onerosa perché emergono le plusvalenze e lo stato di provenienza esige le exit tax.

Potrebbe essere prefigurata una violazione della libertà di circolazione. Si obietta che chi effettua l' investimento può sempre provare lo svolgimento effettivo dell' attività commerciale. La CGCE ha sempre detto che le libertà ci sono ma non si può abusare delle stesse. La legislazione CFC è stata posta all' attenzione della corte di giustizia, è stata dichiarata contraria alla libertà di stabilimento la disciplina CFC del regno unito. La disciplina italiana fornendo la prova contraria non è stata sottoposta al vaglio.

6.1.3.3 Tassazione della famiglia

Altro esempio di rilevanza del possesso del reddito. Tassazione della famiglia. E' uno dei problemi irrisolti del nostro ordinamento. Prima della riforma del diritto di famiglia esisteva un meccanismo di tassazione detto cumulo giuridico. La tassazione avveniva sommando i redditi di marito e moglie e attribuendo al marito i redditi della moglie. Quindi era il marito il soggetto tassato anche per i redditi della moglie. Questo sul presupposto che il marito potesse disporre dei redditi della moglie. La disciplina degli anni 70 ha costruito un rapporto di parità. Non vi è nessuna ragione per ritenere che un coniuge possa disporre dei redditi dell' altro. Non era legittimo un sistema attraverso il quale operasse questo regime di imputazione. Dunque il meccanismo non poteva stare in piedi, la corte costituzionale ha dichiarato l' illegittimità del cumulo giuridico. Una delle ragioni è stata quella di evidenziare come il collegamento soggettivo, la connessione fra soggetto e reddito (marito e reddito della moglie) era irragionevole alla luce della nuova disciplina tra coniugi nel diritto di famiglia. La logica fu proprio questa. Contestare il possesso di reddito che non esisteva. Altro aspetto di irragionevolezza era il favor per le famiglia di fatto anziché per quelle di diritto. Perché cumulando i redditi si finisce negli scaglioni più elevati, mentre nella famiglia di fatto non si sommano i redditi perciò non si realizza il cumulo. Per completezza, eliminato il cumulo non si sono risolti tutti i problemi. Adesso non c' è più il cumulo ma c' è la disuguaglianza tra famiglie monoreddito e plurireddito. Un coniuge che guadagna 100 e l’ atro non lavora è diverso il caso di due coniugi ch guadagnano 50 e 50 perché le aliquote saranno più basse. Abbiamo lo stesso problema di prima. C' è il correttivo per la detrazione del coniuge a carico ma comunque è insufficiente. Si è proposto il quoziente famigliare alla francese che tiene conto la composizione reddituale della famiglia e tenendo conto anche del numero di figli.

Il possesso di reddito ci permette di interpretare diverse discipline disparate e riportare a ragionevolezza impositiva diverse discipline (CFC, tassazione di famiglia, di società ecc). Insomma l' importante è che il possesso è architrave della tassazione. Quindi il possesso deve essere sempre rispettato.

Ora entriamo nella disciplina della tassazione d' impresa. Il primo passo è capire quali sono le attività che danno luogo a reddito d' impresa. E ancora quali sono i soggetti che producono reddito d' impresa.

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7 Le attività e i soggetti che producono reddito d’ impresa

7.1 Attività commerciali ex art. 2195 c.c.

Sono tipicamente quelle definite attività' commerciali. Quelle definite dall' art. 2195 c.c..

2195 - Imprenditori soggetti a registrazione.

Sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che

esercitano:

1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi;

2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni;

3) un'attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria;

4) un'attività bancaria o assicurativa;

5) altre attività ausiliarie delle precedenti (1754). Le disposizioni della legge che fanno

riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta

diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano

(artt. 100, 200).

Di fronte ad una di queste attività siamo di fronte a fattispecie che dal punto di vista della tassazione reddituale danno luogo a reddito d' impresa. La produzione di reddito d’ impresa prescinde dall' esistenza di un' impresa. Non occorre questa organizzazione. Anche se manca, la fattispecie è tassata come reddito d' impresa.

Esempio. Il facchino della stazione. Quando ci facciamo trasportare una valigia stipuliamo un contratto di trasporto. E' lui solo, non c' e' organizzazione d' impresa. Però i redditi che lui trae dall' attività di trasporto sono redditi d' impresa.

7.2 Attività diverse da quelle commerciali ex art. 2195 c.c.

Attività diverse dal 2195 producono pure reddito d' impresa. Solo ed esclusivamente qual' ora vi sia un' organizzazione in forma di impresa.

Esempio. Medici, professionisti, i quali erano titolari di un laboratorio di analisi. L' attività, non rientra nel 2195. Se mette in piedi una struttura, si intuisce che quando il medico diventa titolare di laboratorio di analisi diventa coordinatore dei fattori di produzione. Qui l' attività non rientra nel 2195 ma l' attività confluisce nell' ambito della disciplina del reddito d’ impresa.

Oppure il fisioterapista titolare di una palestra dove attua gli interventi. Il fotografo di moda che si avvale di collaboratori, dipendenti, strutture, qui abbiamo un' attività qualificabile come impresa. Più ci spostiamo sulla prestazione artistica più è difficile capire la natura della prestazione.

Le attività diverse dal 2195 danno luogo a tassazione d' impresa solo quando c' è un organizzazione d' impresa. Solo se l' organizzazione dei fattori di produzione è prevalente sull' apporto personale del titolare c’ è impresa. Verificata l' esistenza dell' organizzazione dobbiamo chiederci se sia prevalente sull' apporto personale.

7.3 Attività agricole svolte secondo determinate modalità.

Altre attività producono reddito d' impresa. Le attività agricole svolte con determinate modalità. Dobbiamo vedere la struttura dell' art. 32 D. 917/1986 che disciplina le attività agricole. Di regola i redditi agrari sono tassati secondo la disciplina della tassazione catastale. Si inquadrano nei redditi fondiari, tassati in base alla rendita del fondo. Sono medio - ordinari, non determinati analiticamente. Ma certi redditi si riferiscono ad attività che per le particolari modalità con cui sono svolti costituiscono redditi d' impresa. Quando parliamo di coltivazione diretta del fondo e silvicoltura non c' è mai reddito d' impresa. Quando però l' attività agricola evolve, c.d. attività in

serra o allevamento allora in certi casi l’ attività agricola può diventare attività d' impresa. Sono i casi che prendiamo in considerazione ora.

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7.3.1 Le attività di coltivazione in serra

L' art. 32 disciplina le attività di coltivazione in serra che definisce come attività di produzione di

vegetali mediante strutture fisse o mobili. C' è il fondo, su questo insistono delle strutture dove vengono coltivate le piante, anche in due o più piani. La norma dice che queste attività di coltivazione di vegetali mediante strutture fisse o mobili danno luogo a reddito agrario se l' area impiegata per la coltivazione in serra non eccede il doppio del fondo su cui insiste. Cioè, puoi utilizzare strutture la cui area non può essere superiore al fondo su cui insistono. Per la parte eccedente il doppio del fondo quell' attività è attività d' impresa. La struttura reddituale è composita.

7.3.2 Allevamento di bestiame

L' altra area sensibile è l' allevamento del bestiame. Sei imprenditore agricolo, quindi tassato in base alla disciplina catastale e ai redditi medio – ordinari, se gli animali che allevi sono alimentati con foraggio ottenibili per almeno 1/4 del necessario dal fondo. Quindi devi avere un fondo sufficientemente esteso da consentirti di alimentarli con mangimi provenienti dal fondo per almeno 1/4. Ottenibili (non ottenuti), quindi solo astrattamente! Posso comprare anche i 4/4 di mangime però il fondo potenzialmente, in astratto, deve rendere almeno 1/4 del mangime. Se il fondo non te lo permette, l' eccedenza costituisce reddito d' impresa. Non importa che tipo di animali allevi. L’ itticoltura non rientra in questa disciplina.

7.3.3 Attività c.d. connesse di trasformazione e commercializzazione dei prodotti del fondo

Danno luogo a reddito d' impresa a seconda dei casi. Le attività consesse sono le attività di manipolazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti del fondo.

Il viticoltore che produce vino svolge questo tipo di attività. L’ agricoltore che ha olivi e poi produce olio. L' agricoltore che alleva api in terreno agricolo e poi produce il miele.

Sono attività di trasformazione dei prodotti del fondo che danno luogo ad attività agricole, sono attività tipiche dell’ agricoltore. A prescindere dal volume di reddito sviluppato dall’ attività connessa, la tassazione rimane catastale perché è attività agricola. Eppure vi sono attività che pure connesse ma che sono d’ impresa. Si pensi al soggetto che coltiva patate, fa i sacchetti di patate fritte e le

vende. E' un attività d' impresa, perché? Come si capisce? Sempre attività di manipolazione sono.

Di recente il legislatore ha semplificato la disciplina con decreto interministeriale in cui si decidono le attività connesse che danno luogo al reddito d' impresa e quali no. Una volta si distingueva fra quelle che rientravano nell' esercizio normale dell' agricoltura e quali no. E' normale che chi ha i vigneti poi produce il vino. Ma chi produce il sidro dalle mele è attività normale? Oppure chi produce patate fritte dalla coltivazione delle patate? Il meccanismo si prestava a troppe incertezze. L' esercizio normale doveva essere considerato a livello locale o nazionale? Il legislatore semplifica. Quello che è previsto nel decreto è attività agricola quello che non è previsto è attività d' impresa.

Quindi le attività rilevanti sono:

1. le attività ex art 2195 (a prescindere dall’ esistenza dell’ impresa),

2. le altre attività diverse dal 2195 ( richiedono una organizzazione d’ impresa).

3. Le attività agricole che devono superare determinate soglie o modalità di esercizio (coltivazioni in serra,

allevamento, commercializzazione e trasformazione prodotti del fondo).

C’ è un ultima categoria …

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7.4 Attività minerarie

Sono attività agricole le attività di sfruttamento di miniere, torbiere, saline, laghi, stagni e acque interne. La norma è l' art. 55 D. 917/1986.

7.5 Soggetti che producono reddito d’ impresa

Produce reddito d' impresa chi svolge le attività su indicate. E' l' imprenditore individuale che svolge queste attività. Accanto a questo soggetto vi sono altri soggetti: tutte le società

commerciali, a prescindere dall' attività da esse esercitata. Quindi il reddito d' impresa si determina per tipologia di attività o per tipologia di soggetto.

Se ho una Spa titolare di un fondo rustico, coltiva viti e vende vino, i redditi sono redditi d' impresa anche se l' attività è agricola.

(2/5/2012) Riprendiamo il discorso sul reddito d’impresa. Abbiamo esaminato le attività che danno luogo a reddito d’impresa; abbiamo visto la struttura di queste attività individuando come vi siano tipologie di attività che producano reddito d’impresa a prescindere dall’organizzazione (ricorda le attività dell’art.2195), le attività diverse dall’art.2195 che producono reddito di impresa solo se organizzate in forma di impresa, attività agricole oltre i limiti stabiliti per l’agrarietà, attività particolari come lo sfruttamento di miniere, cave e torbiere ecc (attività che dev’essere riunita alle altre come generatrice di reddito d’impresa).

Vi sono poi soggetti che realizzano reddito d’impresa a prescindere dall’attività da essi svolta: le società commerciali di qualsiasi genere.

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8 I principi fondamentali della determinazione del reddito d’ impresa

Principi fondamentali che costituiscono l’architrave della disciplina del reddito di categoria:

- principio di dipendenza o di derivazione;

- principio di competenza, con i suoi sotto-principi: principio di certezza e principio di

obiettiva determinabilità;

- principio di inerenza;

- principio di previa imputazione dei costi negativi a conto economico.

8.1 Principio di dipendenza o di derivazione

Si può definire, forse in maniera più precisa, come principio di dipendenza parziale. Il principio di dipendenza nel reddito d’impresa si esprime attraverso la regola generale secondo cui il fondamento, la base per la determinazione del reddito d’impresa è il risultato del bilancio di

esercizio: quindi il reddito d’impresa dipende/deriva dal risultato di bilancio. Più in particolare il reddito d’impresa deriva dal risultato del conto economico, che è quel risultato in termini di utili o perdite che nel bilancio fotografa il flusso di ricchezza del periodo (cioè dell’anno di riferimento). La base di partenza è l’utile o la perdita di bilancio, quale è raffigurata nel conto economico.

Il bilancio ha una struttura tripartita: stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa. Lo stato patrimoniale rappresenta la composizione del patrimonio della società. Il conto economico rappresenta il flusso di ricchezza, il risultato in termini di andamento annuale dell’attività. Ed è il risultato di conto economico che costituisce, in termini di utile o di perdita, la base di determinazione del reddito.

Ricorda che nella dichiarazione dei redditi il primo rigo di compilazione era risultato di bilancio.

8.1.1 Perché si sceglie questo criterio del risultato di bilancio?

Qual è il motivo per cui parte della determinazione del reddito dipende dal risultato di bilancio? Le ragioni sono legate a logiche di tipo sostanziale e a logiche di tipo procedimentale o, se vogliamo, probatorio. Il punto di partenza è dato dall’utile di bilancio perché il bilancio, in quanto documento che filtra e sintetizza i risultati derivanti dalle scritture contabili dell’impresa, quindi dall’andamento dell’impresa nell’anno, è il documento che rappresenta in modo più fedele e più completa la reale situazione economico-finanziaria dell’impresa. È fisiologico che faccio riferimento a quel documento dotato di un elevato criterio di attendibilità, in quanto si aggancia a tutta la documentazione dell’impresa, e regolato da una disciplina estremamente rigorosa per quanto riguarda la tecnica di compilazione e la verità di rappresentazione sulla base delle regole del codice civile. Prudenza e verità sono due principi cardine della redazione del bilancio civilistico, assistito anche da sanzioni di tipo penale se redatto in maniera fraudolenta od erronea. Quindi il risultato di bilancio rappresenta in modo tendenzialmente fedele la ricchezza dell’impresa.

Anche in termini probatori, procedimentali, il risultato di bilancio è documento dotato di particolare attendibilità perché è il risultato delle complessive scritture dell’impresa, e può essere ricostruito alla luce di quella documentazione analitica che l’impresa adotta di volta in volta nello svolgimento delle sue singole attività. Il riferimento è a tutti i documenti contabili, documenti contrattuali, fatture che rappresentano l’attività dell’impresa e trovano la loro sintesi nel bilancio.

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Il bilancio è dotato di particolare attendibilità sia perché costruito sulla base delle scritture dell’impresa sia perché assistito da garanzie, per quanto riguarda la fase di compilazione, circa la verità, correttezza, adeguata rappresentazione e prudenza nella rappresentazione della ricchezza dell’impresa.

8.1.2 La derivazione parziale

Il diritto tributario, come materia di secondo grado, deve rispondere a delle necessità che non necessariamente trovano soddisfacimento nel bilancio civilistico, quindi quell’utile o quella perdita di bilancio che rappresenta il punto di partenza del percorso di determinazione del reddito non è anche il punto di arrivo. Non c’è una piena ed assoluta coincidenza tra utile di bilancio e reddito d’impresa. La derivazione è una derivazione parziale, parziale perché quell’utile è il punto di partenza. All’utile di bilancio si applicano le regole stabilite dall’ordinamento tributario, regole che rispondono a logiche proprie dell’ordinamento tributario. Regole che rispondono a finalità che costituiscono peculiarità del sistema di tassazione dell’impresa e che la disciplina civilistica del bilancio non può di per sé soddisfare. Si tratta di regole che in alcuni casi sono legate a logiche di semplificazione, in altri casi a finalità di contrasto all’elusione, in altri casi orientate alla certezza del gettito, in altri casi regole strutturali al funzionamento della tassazione. Ad ogni modo a quel risultato di bilancio occorre apportare dei correttivi che derivano dall’applicazione delle norme tributarie.

Quindi l’utile di bilancio costituisce il punto di partenza di un percorso che ci consente di arrivare alla quantificazione del reddito. È un punto di partenza che dev’essere sottoposto ad una serie di correttivi che derivano dall’applicazione di regole proprie dell’ordinamento tributario, regole che rispondono alle logiche più diverse. Questi correttivi si chiamano variazioni e possono essere variazioni in aumento o in diminuzione.

In cosa consiste il principio di derivazione? È quel principio in forza del quale l’utile di bilancio costituisce il punto di partenza di determinazione del reddito d’impresa, punto di partenza sul quale si innestano variazioni in aumento e in diminuzione sulla base della disciplina propria del reddito d’impresa, per ragioni diverse che sono di semplificazione, di contrasto all’elusione, strutturali del reddito d’impresa.

8.1.2.1 Il funzionano delle variazioni: gli ammortamenti

Gli ammortamenti sono una figura che serve a rappresentare in modo adeguato dal punto di vista contabile la deduzione del costo di un bene strumentale ad utilizzo pluriennale.

Immaginiamo il caso di una società che acquista un macchinario industriale, ad esempio per la lavorazione del legno, del valore di un milione di euro. Questo costo di un milione avrà un’utilità per la società per vari anni: per tanti anni quanti sono quelli in cui il macchinario sarà in grado di compiere le lavorazioni che l’impresa vorrà fargli effettuare. Avrà una vita utile per diversi anni, ipotizziamo per 10 anni. Se l’impresa potesse dedurre il costo tutto nell’esercizio di sostenimento, se potesse dedurre tutto il costo del macchinario nell’anno in cui acquista il bene, si avrebbe uno squilibrio: in anno si avrebbe il sostenimento del costo che abbatterebbe il reddito in maniera radicale, negli altri anni non si avrebbe più il costo del bene, ma soltanto i ricavi che derivano dall’attività/funzionamento di quel macchinario.

Si avrebbe una situazione fortemente asimmetrica: in un anno avrei un costo, negli altri 9 anni di utilizzo del bene avrei soltanto dei ricavi. Si avrebbe così una logica di rappresentazione contabile fortemente asimmetrica. Quel bene partecipa al processo produttivo dell’azienda per 10 anni.

La regola che sta alla base dell’ammortamento è quella che ti impone di ripartire il costo che hai sostenuto, di suddividerlo nei vari anni di vita utile del cespite.

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Questo permette un recupero di simmetria, perché si avrà il costo spalmato nei vari esercizi in cui il bene produce utilità per l’impresa. Quindi si avrà anche una più stretta correlazione dei ricavi con il costo. Questo processo di suddivisione contabile del costo sostenuto in un esercizio si chiama ammortamento. Quindi nel momento in cui l’impresa acquista il bene patrimoniale da un milione di euro non lo deduce integralmente, lo manda a patrimonio (sarà un bene di patrimonio, quel bene sarà iscritto nell’attivo di patrimonio), ma a conto economico (parte che misura il flusso della ricchezza nell’anno) non avremmo un milione di euro, ma soltanto la quota di costo corrispondente alla vita utile del bene.

Siccome abbiamo ipotizzato una durata di 10 anni di vita utile del cespite, si deve dividere il costo per 10 e in ogni anno si troveranno 100.000 euro. Alla fine deli 10 anni si avrà dedotto un costo pari a 1 milione di euro.

Questo processo di ammortamento esiste nella redazione del bilancio civilistico e nella determinazione del reddito d’impresa. Le regole nei due ambiti sono diverse, quindi la tecnica degli ammortamenti costituisce una di quelle ipotesi ascrivibili alla categoria delle variazioni. Quindi abbiamo una disciplina civilistica ed una disciplina tributaria degli ammortamenti.

8.1.2.2 L’ ammortamento civilistico vs l’ ammortamento fiscale

Nel bilancio civilistico, il redattore del bilancio, cioè chi è incaricato di compilare il bilancio e poi di approvarlo, si trova in una situazione di ampia libertà in relazione alla fissazione delle quote di ammortamento. Ampia libertà che deriva da scelte che possono giustificare un impiego del cespite più inteso di quello tipico o diverso da quello che si assegna normalmente a quella categoria di beni. Quindi il redattore civilistico è piuttosto libero nello stabilire il piano di ammortamento del cespite, è sufficiente che questo piano di ammortamento sia un piano omogeneo, uniforme, cioè sia caratterizzato da una struttura organizzata di deduzione delle quote. Tuttavia è un piano che può essere tranquillamente modificato di anno in anno a seconda delle esigenze di utilizzo del cespite. Quindi possiamo affermare che l’unica regola che esiste in materia civilistica è la sistematicità del

piano di ammortamento: deve essere un ammortamento sistematico, dopodiché il redattore del bilancio è libero di determinare le percentuali di ammortamento dei cespiti strumentali.

Nell’esempio che abbiamo fatto, consideriamo che il bene parteciperà al processo produttivo dell’azienda per 5 anni, non per 10, perché si tratta di un’azienda ad alto livello di innovazione oppure perché il processo di produzione è particolarmente gravoso e si fanno lavorare i macchinari a ritmi superiori a quelli a cui normalmente vengono sottoposti macchinari di quel genere.

Il redattore del bilancio civilistico è libero di determinare il periodo di vita utile del bene, salvo il principio di verità.

In ambito tributario gli ammortamenti sono rigidi, sono stabiliti in quote costanti che vengono fissate dal legislatore: è il legislatore che fissa le quote di ammortamento per ciascuna tipologia di bene. Queste regole sono fissate in un apposito decreto ministeriale che stabilisce per ciascuna tipologia di cespiti le quote di ammortamento.

Quindi esiste una regola civilistica (la flessibilità, purché sia rispettato il principio di verità e la sistematicità dell’ammortamento) e una regola fiscale (la rigidità: le quote di ammortamento sono rigide). Si tratta di quote che non possono mai essere superate. Decreto ministeriale 31 dicembre 1988 è il decreto sui coefficienti degli ammortamenti.

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Industrie manifatturiere del legno, gruppo 6: per ciascuna delle tipologie di beni strumentali utilizzati dalle industrie manifatturiere del legno troviamo i coefficienti di ammortamento dei principali beni strumentali. Ad esempio i fabbricati di norma si ammortizzano con il 3%. Poi vi sono delle sotto-categorie, ciascuna con la specificazione del coefficiente di ammortamento.

Si tratta di percentuali fisse, questa è la percentuale massima. Un soggetto può decidere di ammortizzare meno, ma al di sotto di questa soglia non si può scendere.

Supponiamo che l’imprenditore, sulla base di una scelta legata allo svolgimento della sua attività decida di ammortizzare in bilancio il suo bene strumentale (macchinario del valore di un milione di euro) in 5 anni: stabilirà un ammortamento sistematico annuale che corrisponderà ad un’aliquota, ad una quota del 20%. Quindi il bene confluirà in conto economico come componente negativa, quindi come costo, nella misura del 20% per ogni anno: si avrà a patrimonio il bene che è stato acquistato al valore di un milione di euro e a conto economico lo si troverà spesato con un aliquota del 20% ogni anno.

Si avranno ammortamenti per 200.000 ogni anno. Questo è l’ammortamento civilistico.

Ipotizziamo che dal punto di vista tributario il bene debba essere ammortizzato con aliquota massima del 10%, quindi in 10 anni (aliquota del 10%).

Dal punto di vista civilistico il costo ha partecipato al risultato di conto economico nella misura di 200.000, quindi ha abbattuto l’utile di bilancio dell’importo di 200.000 pari al costo spesato. Quella quota di costo è una quota riconosciuta solo agli effetti civilistici perché agli effetti fiscali non posso spesarmi 200.000 perché l’aliquota di ammortamento è 10%, e quindi la mia quota di costo in nessun caso può superare 100.000. Civilisticamente ho 200.000, fiscalmente posso sperare 100.000.

Come faccio a fare emergere in dichiarazione questa asimmetria tra quello che risulta a livello fiscale e quello che risulta a livello civilistico? Attraverso un’apposita variazione in dichiarazione.

Nel caso specifico dovrò apportare in dichiarazione una variazione in aumento pari a 100.000.

Questo significa che avrò un reddito più elevato dell’utile civilistico, nella misura di 100.000. Sarà più elevato perché fiscalmente ho un costo di 100.000 e civilisticamente ho un costo di 200.000. Siccome il reddito è dato dalla differenza tra ricavi e costi, se ho un costo più alto (200.000) ho un reddito più basso. Quando faccio la dichiarazione devo rettificare il risultato di bilancio perché quel risultato di bilancio aveva in sé un costo pari a 200.000 che fiscalmente non è integralmente spesabile, in quanto sarebbe fiscalmente spesabile solo nella misura di 100.000. Devo rettificare quel costo, devo riportarlo a 100.000, quindi farò una variazione in aumento pari a 100.000.

Valore del bene strumentale: 1 milione. Utile di esercizio, risultato di esercizio: 1 milione. Percentuale di ammortamento civilistico: 20%; periodo di vita utile del bene: 5 anni. Percentuale di ammortamento fiscale: 10% massimo; periodo di vita utile del bene: 10 anni. Nell’esercizio ho ricavi pari ad 1 milione.

Amm. Fiscale

10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10%

Amm. Civile

20% 20% 20% 20% 20% 0 0 0 0 0

Quale sarà il risultato di esercizio a bilancio civilistico nel primo anno? 1 milione (ricavi) - 200.000 (costi) = 800.000 (utile civilistico)

Considerando la vicenda fiscale, quale sarà il risultato di esercizio nella prima annualità? 1 milione (ricavi) - 100.000 (costi) = 900.000 (reddito)

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Quindi abbiamo un risultato in termini di utile civilistico pari a 800.000, e un risultato in termini di reddito pari a 900.000: + 100.000 (variazione in aumento). In dichiarazione troveremmo utile civilistico pari a 800.000; variazione in aumento +100.000.

A partire dalla quinta annualità abbiamo finito di ammortizzare il costo dal punto di vista civilistico, ma abbiamo ancora un costo spesabile dal punto di vista fiscale.

Dal quinto anno ipotizziamo che l’ammontare dei ricavi da vendite sia ancora pari a 1 milione. Quindi l’utile civilistico il quinto anno sarà 1 milione: 1 milione – 0 (costo civilistico) = 1 milione.

Fiscalmente 1 milione – 100.000 (sarebbe l’ammortamento fiscale che devo ancora fare) = 900.000. Avrei quindi un utile civilistico di 1 milione ed un reddito di 900.000. Dato che 900.000 è minore di 1 milione devo fare una variazione in diminuzione.

Quindi fino al quinto anno compreso farò variazioni in aumento, poi farò variazioni in diminuzione dato che avrà finito di ammortizzare. Alla fine dei 10 anni avrò spesato integralmente il bene dal punto di vista fiscale ed lo avrò spesato integralmente dal punto di vista civilistico. Alla fine dei 10 anni ho il punto di equilibrio, il punto di riconciliazione: riconciliazione tra i risultati del bilancio civilistico e i risultati in termini reddituali. Si chiude soltanto alla fine del periodo di ammortamento previsto dalla disciplina fiscale.

(7/5/2012) Avevamo introdotto il primo dei principi della determinazione del reddito d’impresa, principio di

derivazione o dipendenza del reddito d’impresa dal risultato di bilancio in termini di utili o perdita. Nell’esempio degli ammortamenti abbiamo visto come funzioni il meccanismo delle variazioni, come ci siano regole che comportano un intervento di rettifica del risultato del bilancio in aumento o diminuzione per esigenze di carattere fiscale.

8.1.2.3 La ratio della diversità di disciplina degli ammortamenti

Qual è la ratio di questa diversità di disciplina tra ammortamenti civilistici e fiscali? Le ragioni per cui si procede a dettare regole che determinano un disallineamento della disciplina fiscale rispetto a risultati di bilancio possono essere diverse logiche: logiche di semplificazione, antielusive.

Il caso degli ammortamenti è un caso in cui le ragioni sono miste; da una parte c’è una logica di semplificazione perché il legislatore tributario vuole evitare di entrare nel merito della valutazione della correttezza del piano di ammortamento adottato a livello civilistico, cosa che comporterebbe anche un sindacato del bilancio civilistico dal quale l’amministrazione è esclusa; non è che l’amministrazione possa sindacare le scelte di bilancio fatte dai redattori del bilancio; è una valutazione che non può essere affidata ai funzionari dell’amministrazione e c’è un’ esigenza di semplificazione. Si prende un dato medio, lo si formalizza, lo si inserisce un decreto ministeriale che prevede l’ammortamento di determinate categorie di beni e si perviene ad una certezza circa le quote di ammortamento deducibili.

Però ci sono altre ragioni legate a logiche antielusive, o meglio, dirette a contrastare fenomeni di tax planning, o pianificazione fiscale, perché il redattore del bilancio sarà portato, se la determinazioni di ammortamenti civilistici fosse analoga a quella fiscale, a creare piani di ammortamento complessi con quote di ammortamento elevate in modo da ridurre il costo nel minor tempo possibile: tenderà a comprimere al massimo il periodo di ammortamento, utilizzando le quote nella misura massima perché anticiperebbe la deduzione del costo, ridurrebbe

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il reddito perché avrebbe quote di costo e rinvia la tassazione al futuro; deducendo il costo abbatte il reddito e pagherà meno imposte; pagherà più imposte nel futuro ma, nel presente l’incidenza del carico fiscale è minore.

Il legislatore vuole evitare questi fenomeni di tax planning , che consisterebbero nell’anticipazione dei costi, e allora cristallizza gli ammortamenti in quote costanti. È una delle ragioni per cui il sistema è rigido, anziché flessibile, per l’ esigenza di semplificazione e di evitare fenomeni di pianificazione fiscale.

Le ragioni di queste variazioni sono le più diverse.

8.1.2.4 Variazioni in ambito pex

Una società, A, possiede una partecipazione di controllo del 60% nella società B (relazione di controllo). Immaginiamo che la società A intenda cedere questa partecipazione alla società C. Dopo l’operazione di cessione, si instaura la relazione per cui C controlla B per il 60 %: si tratta di un caso di vendita della partecipazione.

Supponiamo che A detenga B da un periodo superiore all’anno e che B sia una società di carattere industriale, sicché la partecipazione può considerarsi duratura. Supponiamo che A realizza un guadagno, una plusvalenza di 5 milioni di euro (vuol dire che ha comprato questa società a 1 milione e la rivende a 5 milioni di euro). Nel bilancio civilistico questi 5 milioni fluiranno come risultato di esercizio; la società acquisisce la disponibilità giuridica dell’importo di 5 milioni, che determina un risultato di bilancio positivo nell’apporto relativo alla cessione. Nel bilancio troviamo i + 5 milioni. In dichiarazione dei redditi si dovrà fare una variazione in diminuzione pari a 5 milioni meno il 5% (ora non è proprio questa la percentuale prevista, ma lo utilizziamo per facilità). Variazione in diminuzione di 5 milioni - 250 000 (che è il 5% di 5 milioni). Quindi in bilancio ho + 5 milioni; in dichiarazione apporto una variazione che mi sterilizza l’operazione come se la vendita non l’avessi fatta. (secondo me è sbagliato perché la pex prevede esenzione per il 95% ergo 5 milioni meno il 95% cioè 4.750.000euro, così mi viene sterilizzata l’ operazione).

Perché c’è questa disciplina? Realizzo un componente positivo e poi in dichiarazione sterilizzo i 5 milioni di euro e faccio una variazione in diminuzione?

È una disciplina che porta ad azzerare l’importo che ho incassato dalla vendita; il che vuol dire che il reddito è molto più basso di quanto non sia il risultato di bilancio; questo effetto è frutto di una disciplina introdotta, participation exemption o PEX. Questa disciplina è stata introdotta con la riforma del 2004, si chiama esenzione sulle partecipazioni: cioè quando una società cede ad un soggetto terzo una partecipazione immobilizzata, cioè una partecipazione che per lei è un’immobilizzazione finanziaria, cioè un investimento di carattere finanziario stabile, come lo è la partecipazione in una società, la relativa operazione di cessione è sottoposta ad un regime di

quasi esenzione.

Come mai c’è questa disciplina che chiarisce che la vendita è sottoposta ad un regime esentativo?

È una disciplina che dipende dalle caratteristiche strutturali della tassazione dell’impresa; serve a evitare doppie tassazioni nei rapporti tra redditi dei soci e redditi della società: è un meccanismo strutturale che serve ad evitare fenomeni di doppia imposizione societaria. ( vedremo un esempio di tutto ciò nel caso della cessione di catena di hotel italiani a un gruppo spagnolo).

Ai nostri fini è importante sapere che: si tratta di un meccanismo che serve ad evitare fenomeni di doppia imposizione societaria, allora il legislatore sterilizza la plusvalenza, abbatte il reddito rispetto all’utile di bilancio, di un importo pressappoco pari alla plusvalenza realizzata per evitare fenomeni di doppia imposizione e quindi in

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dichiarazione troviamo una variazione in diminuzione e in questo caso la logica è strutturale. La ragione non è la semplificazione, ma è una ragione strutturale.

Perché ci sarebbe una doppia imposizione?

I 5 milioni derivano dal patrimonio di B, dipendono dal valore di B, sono il corrispettivo del valore che ha la società; questo valore si è formato negli anni attraverso redditi che si sono accumulati. Se li tassassimo nuovamente avremo una doppia imposizione. Questo patrimonio accumulato sotto forma di reddito è già sottoposto a tassazione, se lo tassassimo un’altra volta la ricchezza sarebbe di nuovo tassata, prima come reddito e dopo come valore. È un meccanismo strutturale, non è agevolativo.

Quindi l’esempio dell’ammortamento è legato a logiche di semplificazione, l’esempio del tax

planning è legato a logiche strutturali

8.1.3 Il significato del principio di dipendenza

Dipendenza vuol dire relazione tra il risultato in termini di bilancio e il reddito d’impresa, relazione che va, però, in ogni caso assoggettata a rettifiche rispetto alle esigenze che l’ordinamento tributario pone. È un principio cardine che deriva dal fatto che l’utile, sia in termini di prova che di attendibilità, costituisce l’elemento chiave che rappresenta la ricchezza dell’impresa e dunque è fisiologico partire da lì, ma il legislatore tributario ha le sue esigenze e dunque apporta una variazione al bilancio sulla base dei dati i previsti dalla normativa tributaria.

8.2 Il principio di competenza

Il principio di competenza ha una funzione che si estende ai componenti positivi e negativi, quindi ai ricavi e ai costi che caratterizzano il reddito d’impresa; è un principio generale che riguarda sia i ricavi dell’esercizio dell’attività, sia i componenti positivi che derivano dallo svolgimento dell’attività, sia i costi, gli oneri le spese che l’imprenditore sostiene. Serve a capire in quale periodo d’imposta io devo rilevare il componente reddituale (positivo e negativo, che concorre a determinare il risultato d’esercizio) perché l’imposta sul reddito è un’imposta di periodo.

8.2.1 I momenti di rilevazione della componente reddituale

Prendiamo un intervallo temporale di 2 anni, tra 2012 e 2013. Supponiamo che il 28 dicembre 2012, prima della fine del periodo d’imposta, l’imprenditore ceda un bene strumentale per es. una partita di merce, per es. televisori:ci sarà un contratto concluso verbalmente, beni mobili e qui si conclude il contratto di cessione per l’importo di 1000000 di €. So che la mia società incasserà 1000000 €. Supponiamo che la consegna avvenga ad aprile 2013. Allora ho concluso il contratto nel 2012, però l’esecuzione dell’ordine che cristallizza il diritto ad ottenere il milione di euro, la fattispecie si completa ad aprile 2013. Il principio di competenza serve per rispondere a questa domanda: quand’è che l’imprenditore che ha ceduto i bei mobili deve indicare in dichiarazione, dichiarare il suo ricavo d’esercizio dell’attività pari a 1 milione di euro , nel 2012 quando ha concluso il contratto, o nel 2013 quando ha consegnato le merci? Nel caso specifico il momento in cui va dichiarato il ricavo è nel 2013, cioè quando avverrà la consegna. Il legislatore dice il momento di competenza in cui devo imputare il ricavo all’imposta è il periodo di consegna della spedizione.

Il materiale pagamento non c’entra nulla, c’entra il momento in cui è avvenuta la consegna, nel caso specifico.

Allora il legislatore per diverse categorie di operazioni individua il momento di effettuazione. Quali sono le ipotesi che il legislatore fa?

- Operazioni che hanno ad oggetto beni mobili (esempio): il componente reddituale va rilevato al momento della consegna o spedizione del bene, non rileva l’incasso del corrispettivo. Nel momento in cui consegno la fattispecie è completa.

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- Beni immobili: regola della stipula dell’atto. Quindi il contribuente dichiarerà il componente reddituale nel momento della stipula, stipula non vuol dire stipula notarile, vuol dire conclusione del contratto.

Esempio: se si tratta di un fabbricato industriale, mi accordo per la cessione di un fabbricato industriale con la consegna del capannone nel 2013, il ricavo va mandato a tassazione nel 2012 perché qui ho la stipula dell’atto.

Perché non l’atto notarile? Perché non occorre la stipula dell’atto pubblico, perché questa è una formalità che è funzionale agli effetti pubblicitari della trascrizione quindi il completamento della fattispecie avviene già con l’atto pubblico.

- Prestazione di servizi: rileva il momento della ultimazione. La scelta varia a seconda dei criteri indicati

Imprenditore che effettua una prestazione di sevizi, per es. si occupa di bonifiche ambientali e nell’interesse di un cliente effettua la bonifica di un terreno in cui c’erano materiali inquinanti. Inizia l’attività di bonifica alla fine del 2012 e la finisce ad aprile 2013 (ultimazione).

Incasso il milione di euro derivante dall’attività di bonifica ( ma l’incasso è irrilevante), il provento andrà

dichiarato nel 2013, al momento della ultimazione.

In base al principio di competenza se l’incasso lo ricevo nel 2014 comunque vengo tassato nel 2013.

Domande: Ciò accade perché ci sono diversità tra possesso civilistico e tributario; qui si ha un possesso di reddito che non deriva da una materiale disponibilità, però si ha il diritto. L’esistenza del diritto in una fattispecie completa legittima, secondo la relazione di possesso nella disciplina del reddito d’impresa, la tassazione e lo rende effettivo.

Si applica anche per opere che si estendono per molti anni? È ovvio che questo meccanismo potrebbe determinare effetti distorsivi; sarà probabile che nella disciplina contrattuale siano previste della fasi contrattuali con dei collaudi periodici a cui è accompagnato un corrispettivo. Allora normalmente hai dei componenti reddituali ch divengono tassabili quando vengono finiti singoli segmenti dell’appalto, ma il principio non viene intaccato; quindi in un appalto non concepito in segmenti, che dura 10 anni, dovrei mandare a tassazione dopo 10 anni.

Nel momento in cui uno o più debitori non pagano ci sono dei rimedi?

Per es. ho stipulato il contratto, finisco nel 2013 e dichiaro il mio compenso. Supponiamo che l’imprenditore che mi ha chiesto il servizio vada a verificare la bontà del mio lavoro e non ti pago; oppure l’imprenditore fallisce. Allora io ho dichiarato il componente in base al principio di competenza e poi non lo incasso. È ovvio che devo avere dei correttivi altrimenti sarei tassato per una ricchezza che non ho, ma potrebbe essere che non ho mai soldi.

I correttivi si chiamano SOPRAVVENIENZE (le studieremo in seguito): è un istituto per correggere gli effetti dell’imputazione temporale. Vuol dire che se io ho dichiarato nel 2013 un compenso per lo svolgimento dell’attività e poi risulta che nel 2014 il milione di euro non lo prendo, ragionerò con una sopravvenienza passiva, vorrà dire che mi dedurrò dal reddito 1000000 €. Ho un milione in più nel 2013 e un milione in meno nel 2014. E’ una figlio del principio di competenza, perché è un istituto che serve a rettificare gli effetti dell’imputazione temporale.

Quando potrò stralciare il milione di euro che ho dichiarato? Se non viene pagato il milione di euro potrei avere un elemento di prova, per es. la lettera con cui mi contestano l’adempimento, per cui io non ho diritto di acquisire quel componente reddituale. Ma il legislatore vuole una prova più rigorosa, che sia certo che quel milione di euro non entrerà nella mia sfera giuridica. Vuole che tu dimostri di aver fatto tutto il possibile per incassare il credito, vuole che dimostri che hai fatto il decreto ingiuntivo, che hai fatto l’esecuzione ma non l’ha; lo devo dichiarare, vuole che siano presenti elementi certi e precisi che diano dimostrazione palese, incontrovertibile che il componente reddituale non potrà essere incassato. Vuol dire che devo fare un’attività esecutiva, condurre fino alle estreme conseguenze il diritto di incassare.

Le perdite sui crediti sono un problema perché si scontra con la questione dell’effettività e i meccanismi di competenza.

Nel caso di fallimento basta la dichiarazione di fallimento? Sì, il legislatore si accontenta di una dichiarazione di fallimento.

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- le c.d. vendite obbligatorie. Operazioni in cui l’effetto traslativo non si realizza nel momento della stipula, ma in un momento successivo o perché sto vendendo un bene altrui o un bene futuro. (Vendita di cosa futura: effetto traslativo�quando viene ad esistenza; vendita di cosa altrui: effetto

traslativo�quando i cedente diventa proprietario della cosa altrui). Il legislatore interviene dicendo che la competenza si ha nel momento in cui si realizza l’effetto traslativo, non conta la stipula. Nei casi di vendita di cosa altrui o futura conta che si realizza il momento traslativo. Se stipuli oggi non rilevi nessun componente e lo rileverai nel momento in cui la cosa viene ad esistenza e tutto ciò prescinde dalla cassa. In qualsiasi momento avvenga la cassa non è importante.

Domanda: perché non si prende a riferimento la cassa? Il principio di competenza dal punto di vista è in grado di rappresentare in modo più corretto e puntuale la reale situazione economico finanziaria dell' impresa. I flussi di cassa, finanziari, dipendono da circostanze estrinseche (regole contrattuali, situazioni contingenti ad esempio dilazioni di pagamento). La competenza invece permette di rappresentare in modo omogeneo tutte le componenti della ricchezza dell’ impresa e siccome il bilancio civilistico ha una funzione di rappresentare la reale situazione dell’ impresa depurata dai flussi finanziari nell’ interesse dei soci e dei creditori, proprio per questa esigenza la possibilità di rappresentare le posizioni di debito e credito e quindi i diritti e gli obblighi, è un modo adeguato e completo di rappresentare la situazione economico contabile dell’ impresa. Una ragione dunque che possiamo sintetizzare in una più puntuale situazione di quello che la società può aspettarsi dalla sua posizione nel mercato in termini di diritti e obblighi. I flussi finanziari invece potrebbero alterare la rappresentazione reali. La competenza è il criterio più adeguato

8.2.2 La maturazione del diritto

Questi sono esempi disciplinati dal legislatore, ma la realtà aziendale è molto più complessa.

Supponete che io abbia subito un pregiudizio alla mia immagine, per es. sono un produttore di scarpe e esce un articolo sul giornale e dicono che io uso i bambini di 5 anni per produrre le mie scarpe. Allora faccio causa al giornalista e magari ottengo il risarcimento dei danni. Il giornale paga un risarcimento milionario. In base al principio di attrazione, qualsiasi componente reddituale è rilevante perché è positivo. Deve fluire nel risultato d’esercizio, ma quando? Il danno al mio marchio avrà determinato una perdita per me, che si sarà tradotta nel bilancio in una svalutazione del marchio; può essere poi che quel danno non abbia rilevanza fiscale, se però avessi ceduto il marchio, quella perdita sarebbe stata realizzata perché avrei ceduto il marchio ad un valore inferiore. Se incasso il risarcimento, quello lo devo mandare a tassazione. Però quando? Potremo avere diverse soluzioni: per es. vinco in primo grado, ma la mia controparte impugna la sentenza di primo grado, perdi in secondo grado e impugni in cassazione. Quando dichiaro il componente? Quando il giudice di primo grado mi ha dato ragione, ho diritto di chiedere l’attribuzione di questo risarcimento o in realtà devo attendere il passaggio in giudicato?

La risposta non può essere data con certezza assoluta, il legislatore si riferisce al momento in cui si completa la fattispecie generatrice del diritto, quando sono maturati i diritti o obblighi relativi alla fattispecie. È un concetto elastico sintetizzato nell’espressione “maturazione del diritto” o “completamento della fattispecie generatrice del diritto e dell’obbligo”.

Qui in un caso come questo, quando si può dire che il diritto è maturato? Un diritto si può dire maturato tutte le volte in cui esiste quell’appartato strumentale di tutela creditoria che mi permette di realizzarlo, di averlo in riconoscimento. Nel momento in cui ho anche gli strumenti per rendere effettiva questa titolarità, dovrei anche dichiarare il componente perché la sentenza di primo grado è esecutiva. Se non viene sospesa, ho il diritto ad acquisire il componente anche coattivamente.

La dichiarazione del componente segue la completezza della fattispecie generatrice.

Esempio: il furto. Subisco un furto in magazzino, per es. mi portano via tutta la merce. Nel momento in cui subisco la sottrazione nel magazzino potrei rilevare la perdita. Ma supponete che io abbia un’assicurazione perché potrebbe essere che hai un magazzino di roba invendibile e ti inventi il furto così monetizzi l’assicurazione. Quindi faccio un’indagine, però magari accade che siccome non si vuole sottoporre l’impresa ad un rischio senza avere la copertura dell’assicurazione, L’assicurazione a semplice richiesta eroga le somme

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però dopo si riserva la possibilità di ripeterle qualora si dimostri che tu non avevi diritto all’indennizzo, però dice che questo indennizzo è provvisorio perché se all’esito dell’istruttoria si dimostra che non hai diritto all’indennizzo perché, per es., hai lasciato le porte del magazzino aperte e non dovevi, come funziona la competenza? Non avremo la risposta in astratto ma fa parte dell’interpretazione, si dovrà fare riferimento al momento in cui il diritto effettivo viene realizzato. Solo che qui, diversamente dal caso della sentenza, vi è una connessione stretta delle dinamiche negoziali, nel caso del contratto di assicurazione c’è una connessione stretta tra l‘erogazione provvisoria e il successivo controllo, manca la certezza dell’attribuzione.

In questi due esempi vi sono possibili soluzioni, non certezze. L’unica certezza riguarda la definizione poi si tratta di interpretare i fatti, andare alla ricerca del momento in cui può dirsi effettivamente maturata la fattispecie o il diritto, il che sottintende che il diritto è assistito da tutte quelle prerogative che lo rendono effettivo.

8.2.3 I sottoprincipi di certezza ed obiettiva determinabilità

(8/5/2012) Ci sono poi due sottoprincipi, che stanno sotto al principio di competenza:

1. certezza

2. obiettiva determinabilità

Questi due sottoprincipi non aggiungono nulla di sostanziale a quello che ci siamo già detti, non è che mutino la sostanza di quello che abbiamo precisato cioè che il componente reddituale deve essere rilevato quando è completa la fattispecie, cioè quando c’è la maturazione del diritto, ma servono a chiarire quando dobbiamo considerare integrata la fattispecie e maturato il diritto, servono ad illuminare il concetto di maturazione. Quando parliamo di certezza, ci riferiamo all' an, se un comportamento è attribuibile ad un soggetto o no. Quando parliamo di obiettiva determinabilità ci riferiamo al quantum, l’importo del componente reddituale.

Ieri facevamo l’esempio del contratto di assicurazione. Pensiamo al fatto che nel momento in cui il soggetto subisce il sinistro (la distruzione del magazzino) non sia certo quanto sarà l’ammontare del risarcimento. Il diritto al risarcimento esiste ma non è chiaro l'importo perché occorre per esempio vedere quanto è andato distrutto. Certus nell' an, incerto nel quantum. In questo caso il componente della certezza determina l'imputazione ma manca la certezza del quantum. Quindi rinvio la tassazione a quando acquisirò sicurezza anche sul quantum, questa è l’ obiettiva

determinabilità.

Un soggetto durante un giudizio relativo al risarcimento del danno consegua una sentenza non definiva nella quale si accerta il risarcimento ma si rinvia ad ulteriore istruttoria per la determinazione del quantum. Ho il diritto ma non conosco l'ammontare, quindi devo rinviare la tassazione. Certezza ed obiettiva determinabilità sono quindi espressioni, specificazioni, di quel principio di maturazione del diritto o compiutezza della fattispecie generatrice dell’obbligo che costituisce l' elemento chiave per capire quando un elemento va imputato a conto economico e quindi esposto in dichiarazione.

8.3 Principio di inerenza

Riguarda soltanto i componenti negativi, i costi. Dunque a differenza dalla competenza ha una portata limitata. La competenza serve a capire quando devo dichiarare un componente e quindi dedurre un costo (funzionale alla costruzione di reddito d'impresa nel periodo); l' inerenza

riguarda solo i costi, può essere definito come condizione di deducibilità di un costo. Un costo è deducibile soltanto se è inerente. Cosa vuol dire allora inerenza? C'è stata una significativa evoluzione sulla nozione di inerenza. Si è passati da una visione rigida di principio di inerenza ad una interpretazione più ampia e flessibile che è rappresentata dall'attuale assetto della disciplina del reddito d'impresa. Secondo un orientamento restrittivo superato, un

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costo è inerente solo quando è idoneo concretamente alla produzione di ricavo d'impresa. E' un costo che si inserisce in un ottica di concreta utilità alla produzione di ricavi.

Un costo per l' acquisto di materie prime presenta idoneità per la produzione di reddito. Altrettanto per i costi del personale, sono immediatamente idonei alla produzione di ricavo. Il costo di acquisto di un macchinario, perché è strumento attraverso il quale realizzo la mia attività.

L' impresa potrebbe anche sostenere costi che non hanno una concreta ed immediata produttività. Si pensi ad un impresa che svolga un indagine di mercato per vedere se un determinato prodotto

troverà accoglienza presso i consumatori. Questa spesa non manifesta una immediata idoneità perché non sono certo che il sostenimento di tale spesa sia idonea alla produzione di ricavi. L' idoneità è solo potenziale, quel costo rappresenta una spesa sostenuta in vista di possibili ricavi futuri. In una definizione rigida di inerenza avremmo il dubbio che un costo meramente potenziale sia idoneo ad essere considerato come inerente. Secondo l' evoluzione del concetto di inerenza anche un costo potenzialmente idoneo è considerato inerente. Nell' attuale assetto codicistico non solo i costi immediatamente idonei alla produzione di ricavi sono considerati inerenti, ma anche quelli potenzialmente idonei. Il TUIR ammette la deducibilità delle spese di pubblicità. E' la conferma che il concetto di inerenza va inteso in senso potenziale, perché la pubblicità è per eccellenza la spesa volta ad un investimento sulla potenziale crescita dell’ impresa. Altro esempio, quando c'è lo sportivo utilizzato come testimonial pubblicitario poi si scopre che è dopato, l' azienda viene legata a qualcosa di scorretto che può comportare cali di vendita. Non a caso ci sono azioni di danno nei confronti del testimonial. Ma il legislatore tributario non tocca queste spese che rimangono deducibili.

Il concetto di inerenza ha subito poi un ulteriore affinamento. Oggi risponde ad una correlazione tra il costo e l' attività imprenditoriale. Per essere deducibile un costo deve essere coerente con l' attività di impresa. Un costo è deducibile quando si inserisce con coerenza nel programma imprenditoriale dell' impresa. La nozione è elastica, l’ inserimento di un costo nel programma imprenditoriale permette una flessibilità nella decisione circa i costi rilevanti ai fini dell’ impresa e un ampia discrezionalità delle scelte imprenditoriali.

Quando parlavamo del problema delle ritenute abbiamo fatto l' esempio della convention

aziendale sul versante degli obblighi di ritenuta. Quella convention era un costo che potevamo considerare inserito nel programma aziendale quindi deducibile. Perché aveva una idoneità potenziale alla produzione di ricavi tramite un miglioramento dei rapporti tra dipendenti, attaccamento all' impresa e quindi la maggior solidità delle relazioni, che è un vantaggio per l’ impresa.

8.3.1 Casi sospetti di spese inerenti.

Poi ci sono spese pure inerenti che il legislatore guarda con sospetto, perché potrebbero essere forme di erogazione della ricchezza a soggetti terzi attraverso modalità evasive, e le sottopone a regole particolari. Spese di rappresentanza effettuate per pubblicizzare l' immagine dell' imprenditore (no del prodotto).

Ad esempio l’ impresa ospita i clienti in un bellissimo hotel a Venezia. Ci sono spese di pubblicità ma anche di rappresentanza perché spendo una cifra considerevole nell’ ospitarli. Possono mascherare una forma di erogazione del reddito a terzi.

Siccome c'è questo timore sono previste regole speciali. Sono deducibili le spese di rappresentanza ma a certe condizioni: deve trattarsi di certe spese individuate in un decreto ministeriale apposito; e devono essere in un certo rapporto con il volume di affari, perché se salta

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questo equilibrio vuol dire che non sono di rappresentanza ma rispondono a logiche di erogazione del credito a terzi.

Abbiamo visto costi diretti ad aumentare i ricavi. Ma sarebbero inerenti anche i costi effettuati per ridurre delle perdite. Ad esempio costi per la difesa legale contro una domanda di risarcimento danni. E'

funzionale per evitare una perdita. L’ inerenza va vista dal versante positivo e negativo.

In che rapporto sta l' inerenza con l' ammontare del costo? E' sindacabile il costo dal punto di vista quantitativo? Come la mettiamo con i costi che derivano da illecito? Si pensi al caso dell' imprenditore che ha pagato una tangente e vuole dedursela. Oppure l' imprenditore che sostiene spese di difesa legale dell' amministratore che ha pagato la tangente. Oppure l' imprenditore carica il camion oltre i limiti di tara, supera il limite di velocità e prende la multa. E' deducibile il costo? (vedi infra)

8.3.2 Il caso diesel spa (?)

Esempio pratico. Consideriamo un gruppo di imprese legate da vincoli partecipativi. Settore dell' abbigliamento (jeans). La struttura del gruppo:

Vertice società A spa, era una holding di partecipazione (gestiva partecipazioni societarie); poi c'era un sub-holding B Spa, controllata al 100%. A era società estera riportata in Italia per evitare disciplina CFC. B aveva come holding una serie di società controllate, C D E F G. C spa, italiana, è società industriale del gruppo, quella che produce jeans, abbigliamento ecc. La società G è una holding multinazionale, gestisce partecipazioni in società estere. E' una holding situata in Lussemburgo. Ha il controllo di una serie di società. Poi G ha il possesso al 100% di H sub-holding, società statunitense che a sua volta controllava altre società americane I L M N. I distribuisce i prodotti negli stati uniti, L M N invece sono negozi. La società produttrice C deve venderli ad I società americana distributrice, la quale si impegna a venderli ai negozi americani.

A spa (holding)

B spa (sub-holding)

C spa (società

industriale)

D E F G spa (holding multinazionale)

H spa (sub-holding, controllata al 100% da G)

M

L I

(distributrice)

N

Negozi americani in

crisi finanziaria

Società estere controllate da G

Finanziamento di diversi

milioni di euro

utili

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8.3.2.1 Il fatto

I negozi L M N sono alla soglia del fallimento, crisi finanziaria. In una logica di immediatezza delle responsabilità dove guardiamo per un interveneto volto ad evitare il fallimento? Ad H. Ma nel caso specifico nessuna società del gruppo si mosse tra quelle chiamate al coordinamento delle società americane. Si mosse B subholding italiana che erogò un finanziamento di diversi milioni di euro. Le società americane pagano i loro debiti, pagano la distributrice, e alcuni crediti nei confronti della industriale, quindi i soldi in parte rientrano nel gruppo. Esaurite le pendenze i negozi non falliscono ma chiudono. Non hanno restituito il finanziamento. B si trova un finanziamento aperto, allora deduce un componente negativo pari al finanziamento erogato, abbatte il reddito di un importo pari al finanziamento erogato. Aggiungiamo un dettaglio: la holding di Lussemburgo aveva liquidità sufficiente a deliberare i dividendi. Delibera la distribuzione di utili a favore di B.

8.3.2.2 L’ accusa di AF

L' amministrazione finanziaria fa un controllo su B e dice: avete chiuso i negozi, gli avete finanziati e spesati i costi. Sarebbe stato più coerente che tu intervenissi tramite le società controllanti, dunque H doveva intervenire. Se non aveva le risorse, queste risorse le avrebbe messe G sub-

holding di Lussemburgo (che ha deliberato la distribuzione di utili). Queste risorse avrebbero dovuto seguire il percorso dall’ Lussemburgo verso gli USA come apporto di capitale, questa operazione sarebbe stata coerente con il programma finanziario. Non doveva essere utili verso l’ Italia, ma apporto verso stati uniti. Il finanziamento da parte di B proveniva da una società, la holding che non aveva una responsabilità diretta nella gestione della crisi delle società americane. La responsabilità, era su G. Il finanziamento partito da B è partito senza una particolare ragione imprenditoriale, dunque manca l' inerenza. Allora il finanziamento che tu hai dedotto te lo recupero a tassazione. Sotto il profilo relativo al fatto che il flusso economico è stato realizzato da B al di fuori del programma imprenditoriale, quando G poteva intervenire perché aveva utili.

Il ragionamento diventa più suggestivo. Nel caso specifico l' agenzia delle entrate dice che il meccanismo aveva una logica di evasione ed elusione fiscale internazionale. Gli utili che partono dal Lussemburgo e arrivano in Italia sono tassati al 5% in base alla disciplina internazionale. Mentre il finanziamento te lo spesi al 100%. Dunque tu B hai ottenuto utili tassati al 5% e una perdita che ti abbatte il reddito, deducibile al 100%. Deduco il costo integralmente ma il relativo ricavo è tassato al 5%. Bel vantaggio fiscale. Componente negativo dedotto al 100, componente positivo tassato al 5. Se agivi tramite G avresti avuto un conferimento di capitale irrilevante fiscalmente, un altro conferimento da H ai negozi anche questo irrilevante, le società avrebbero perduto valore per l’ uscita di capitale. Quindi una perdita di valore di H e G ma nessuna conseguenza fiscale. In caso di cessione le minus valenze sono irrilevanti per la disciplina della pex (plusvalenze non tassabili ma minusvalenze indeducibili). Tramite l' altro meccanismo hai ottenuto un notevole vantaggio. Il finanziamento era indeducibile perché bisognava seguire un altro meccanismo, invece così vi siete procurati un vantaggio fiscale.

8.3.2.3 La difesa: tutela del marchio

Come si difese B? Sulla base del principio di inerenza. La causa si chiuse con il contradditorio finalizzato all' adesione. Partiamo da A, era titolare del marchio d' impresa. Ha un valore considerevole. Faceva parte di un azienda. Era stato ceduto a B, titolare del marchio. A sua volta B aveva concesso a C, la industriale, l' utilizzo del marchio tramite affitto d'azienda verso il pagamento di royalties. In questa contratto c'erano clausole interessanti, c'era scritto che il marchio comprendeva il know-how produttivo e commerciale compreso quello relativo al commercio al dettaglio. In più tutti gli incrementi di valore del marchio dovevano essere attribuiti a B. In più B aveva la titolarità di tutti i disegni e modelli che derivavano dalla commercializzazione

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del prodotto. I vantaggi immateriali derivanti dal marchio andavano tutti a B. La difesa partì da una semplice considerazione, cosa sarebbe successo al marchio e al know-how commerciale se fossero falliti i negozi? Proprio in America dove è nato il prodotto! Se falliamo in USA il marchio commerciale fa una brutta fine.

(9/5/2012) Ieri, analizzando i rapporti contrattuali tra B e C abbiamo detto che esisteva un accordo in forza del quale B era titolare del marchio e del know-how produttivo e commerciale e ne aveva ceduto l’utilizzo a C (industriale). Erano previste clausole particolari in forza delle quali B rimaneva titolare del marchio e di quel know-how produttivo e commerciale corrispondente anche alla vendita al dettaglio. Inoltre beneficiava di tutti gli incrementi di valore del marchio derivante dall’esercizio dell’attività da parte di C e di tutti quegli strumenti necessari alla valorizzazione del marchio (design, modelli di utilità, modelli che venivano di volta in volta elaborati per le singole collezioni). C poteva solo utilizzare il marchio nella commercializzazione del prodotto; in realtà il reale interessato al valore del marchio era B secondo questo assetto contrattuale. Una delle linee difensive utilizzate per evidenziare le ragioni del finanziamento da parte di B furono legate agli effetti del fallimento delle società americane. Cosa sarebbe successo se fossero fallite le società americane?

Il fallimento degli stores americani avrebbe quasi determinato anche il fallimento della distributrice perché la distributrice era creditrice di una serie di importi di rilevante ammontare nei confronti degli stores americani. Quindi se la distributrice non prendeva i soldi dagli stores non riusciva neppure a far fronte alle proprie obbligazioni. Di fatto il fallimento di L, M, N avrebbe determinato il collasso di tutta la catena societaria statunitense.

Se B subisce il default integrale di tutto il gruppo si possono immaginare quali ripercussioni, a livello di marchio, di immagine d’impresa, potevano verificarsi nel caso concreto. Rispetto all’attività di B, è chiaro che il finanziamento aveva una ragione, si trattava di una ragione connessa alla possibilità di mantenere o, in qualche modo salvaguardare il valore del marchio. Salvaguardare il valore di quel bene immateriale di cui era titolare che sarebbe risultato pregiudicato in modo molto più grave dal fallimento che non dalla chiusura dei negozi. Il fallimento ha delle ripercussioni sul tessuto economico molto più grave di quanto non sia una chiusura con l’assolvimento di tutte le obbligazioni pendenti. Mentre il fallimento è un default, un collasso integrale della catena, la chiusura può essere anche intesa sul mercato come una esigenza di riorganizzazione del gruppo. Questa fu una prima osservazione opposta all’amministrazione finanziaria, rilevando come effettivamente il crollo della catena istitutiva avrebbe determinato una perdita di valore del marchio. Quindi questo primo argomento è perfettamente coerente con il principio di inerenza.

8.3.2.4 La difesa: rapporti contrattuali e ragioni statutarie

C era creditrice del gruppo americano. C era l’industriale che commercializzava nei negozi americani: dunque i negozi che compravano dovevano pagare un prezzo. C’erano rapporti debito-credito tra queste società, e C avanzava diversi milioni di euro come crediti dal gruppo americano. Cosa sarebbe successo se queste società fossero fallite? Questi crediti sarebbero stati perduti, c’è un flusso di ricchezza in entrata in C che non sarebbe stato incassato. Si sarebbe verificata una situazione in cui il mancato pagamento dei crediti avrebbe messo in pericolo la consistenza di C e quindi il pagamento degli oneri contrattuali con cui C era legata a B, in particolare con riferimento allo sfruttamento del marchio. Si sarebbe verificata una reazione a catena determinata dal fallimento degli stores americani e si

sarebbe ripercosso direttamente sugli interessi di B.

L’obiezione che fu fatta ed opposta fin dalle memorie in contraddittorio, proposta dal contribuente per chiarire le ragioni economiche dell’operazione, riguardava questi interessi.

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Bisogna fare attenzione all’intreccio degli atti societari con la concreta operatività. Nello specifico c’era da studiare lo statuto di B, perché in esso, tra le attività che risultavano indicate come statutarie, era previsto che B avesse la possibilità di operare interventi di finanziamento fruttifero (finanziamento legato a logiche di supporto finanziario al sostentamento del gruppo), di operare come supporto finanziario, come ‘banca’.

Abbiamo già due elementi che colorano il concetto di inerenza: - l’utilità diretta legata alla tutela del marchio (salvaguardia del marchio);

- l’utilità connessa all’adempimento del contratto che la legava a C.

Se consideriamo l’inerenza delle scelte fatte da una singola società, tutte queste scelte devono essere coerenti con la logica imprenditoriale della singola società. Nell’ambito di un gruppo si potrebbero fare anche scelte contrarie agli interessi di una società del gruppo quando quella scelta risponde all’interesse generale del programma imprenditoriale del gruppo.

L’amministrazione finanziaria è molto restia a cogliere questa nozione di inerenza come riferimento del costo al progetto imprenditoriale di gruppo. Ma si deve pensare che il gruppo abbia un interesse economico unitario, e proprio per questo è possibile pensare che singoli comportamenti, che nell’ambito del gruppo possono non apparire coerenti con il progetto imprenditoriale, lo divengano poi avuto riferimento al gruppo nel suo complesso.

È evidente che in connessione con gli obiettivi di supporto finanziario che questa società aveva e

con gli interessi generali del gruppo che sono quelli di valorizzare le partecipazioni estere e l’immagine complessiva del gruppo, questa operazione poteva stare in piedi. Quindi l’obiettivo che si poneva era coerente con il principio di inerenza.

8.3.2.5 Il cavillo dell’ elusione

La difesa, in un primo momento fu impostata secondo questa logica. Convince abbastanza questa visione perché sembra che l’operazione presenti un contenuto di inerenza.

Il problema era anche quello dell’elusività, o perlomeno dell’effetto di pianificazione che derivava dall’operazione. Sono partiti dei finanziamenti (deduzione 100%) e degli utili (tassazione al 5%). Vi era il salto

d’imposta: deduzione piena della componente negativa ed una quasi esenzione della componente positiva. Vi era una vantaggio fiscale in questa operazione, e si trattava anche di superare questa obiezione. A parte che la stessa nozione di inerenza permetteva di superare l’obiezione, cioè se l’operazione è inerente, se è coerente con il progetto imprenditoriale, vuol dire che il comportamento di B, che fa il finanziamento, risponde ad una logica specifica. Se si dice che l’operazione crea un vantaggio fiscale, si può opporre che, essendo ampiamente giustificato l’intervento di B, quel vantaggio fiscale è soltanto una conseguenza indiretta di una scelta che io legittimamente posso fare: se per B il finanziamento rientra perfettamente nel piano imprenditoriale, è evidente che quella operazione debbo poterla fare, non me la si può impedire sulla base di una logica connessa al fatto che questa logica mi crea un vantaggio fiscale. Se quell’operazione mi venisse bloccata si inciderebbe sulla mia libertà economica.

Quindi, nello specifico, l’inerenza era anche funzionale a contrastare l’eccezione che veniva mossa in relazione al vantaggio fiscale dell’operazione. L’amministrazione contrastava il fatto che l’operazione di finanziamento fosse partita da B e non da G.

Quest’operazione avrebbe determinato, in quest’ottica futura, una plusvalenza indeducibile.

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Ecco lo svantaggio fiscale che derivava dall’operazione e perché la finanza non voleva sentir ragioni: la finanza sosteneva che se avesse fatto l’operazione in questa maniera si sarebbe preso una minus indeducibile, anziché un finanziamento deducibile. Era questo il vantaggio fiscale dell’operazione.

Era fondamentale quindi provare l’inerenza: la prova dell’inerenza era la chiave di volta. Perché nel momento in cui dimostriamo che l’operazione fatta da B è un’operazione che risponde al suo programma imprenditoriale e al programma imprenditoriale del gruppo, siamo sicuri che l’operazione è un’operazione economicamente accettabile, coerente con le scelte economiche di B.

8.3.2.6 La difesa: ragioni civilistiche

Ad ulteriore conferma di quanto detto e della necessità di integrare le nozioni fiscali con quelle civilistiche, per confermare la bontà delle operazioni di finanziamento, possiamo studiare il codice civile. Le norme civilistiche che aiutarono i difensori a risolvere il problema furono gli articoli 2467 e 2497-quinquies. L’art.2467 riguarda i finanziamenti dei soci alla società partecipata, quindi i finanziamenti da H ai negozi americani. L’art.2497-quinquies prende in considerazione i finanziamenti effettuati dalle società che esercitano funzioni di direzione e coordinamento nei confronti di altre società del gruppo.

Art.2497quinquies - Finanziamenti nell'attività di direzione e coordinamento

Ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e

coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti si applica l'articolo

2467.

Art. 2467 - Finanziamenti dei soci

Il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla

soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di

fallimento della società, deve essere restituito.

Ai fini del precedente comma s'intendono finanziamenti dei soci a favore della società

quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in

considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio

dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della

società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.

Il primo comma tutela innanzitutto la disponibilità economica perché questa sia impegnata nei confronti degli altri creditori, non del finanziatore.

Nel caso specifico si sono estinte tutte le obbligazioni dei negozi, ma poi non è rimasto nulla per soddisfare B. È fisiologico che sia così, lo dice il codice civile: il credito è postergato.

Il secondo comma stabilisce che sono finanziamenti quelli effettuati in una situazione finanziaria nella quel sarebbe stato ragionevole un conferimento (apporto di capitale).

Nel caso specifico sarebbe stato ragionevole un apporto di capitale, nonostante questo l’art.2497 qualifica e legittima il finanziamento da parte di una società capo-gruppo. Dice che questa operazione si può fare ed è un’operazione di finanziamento.

La dimostrazione definitiva dell’inerenza viene dall’art.2467 in combinato disposto con l’art.2497quinquies.

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Quindi sotto un primo profilo esistevano ragioni contrattuali che legittimavano ad effettuare l’esborso, esistevano ragioni statutarie che legittimavano ad effettuare l’esborso, esistevano ragioni legate alla tutela del marchio che legittimavano ad effettuare l’esborso, esistevano

ragioni civilistiche che legittimavano l’operazione dal punto di vista della tenuta civilistica dell’operazione. Quindi se l’ordinamento nel suo complesso mi autorizza a fare un’operazione, significa che la valutazione sulla tenuta economica di quell’operazione è perfettamente legittima. Attraverso questo meccanismo si è riusciti a dimostrare l’inerenza dell’operazione. L’inerenza è un giudizio che possiamo definire in astratto come coerenza con il programma imprenditoriale, ma per capire se effettivamente sussiste dobbiamo analizzare le peculiarità della fattispecie (analizzare i rapporti tra le società del gruppo). L’inerenza nei gruppi di società si atteggia in modo parzialmente diverso da quanto avviene nella singola impresa: occorre tener conto dei vantaggi compensativi che si hanno nel far parte nel gruppo. L’inerenza dev’essere valutata in relazione alle singole attività economiche sfruttando tutti gli elementi che abbiamo a disposizione, comprese anche le norme codicistiche che disciplinano l’attività d’impresa. Non dobbiamo fermarci ai fatti, ma dobbiamo guardare anche al diritto.

8.3.2.7 La soluzione del caso

In questa situazione la controversia non andò in giudizio per una serie di ragioni, legate a logiche contrattuali. In particolare il 2467 e il 2497-quinquies sembravano chiudere la questione. C’erano ragioni contrattuali che avevano liberato la disponibilità di una certa somma di denaro per definire la questione fiscale. I difensori si trovarono in una situazione in cui vi erano risorse che permettevano di risolvere la questione evitando l’alea del giudizio, si sarebbe trattato di un giudizio rischioso con pericolo di sanzioni (ad esempio per l’elusività).

L’ufficio si rese conto che le ragioni della difesa erano buone. Nella logica del contradditorio in adesione fu trovata una soluzione, ma consistette nel ripensare integralmente alla logica dell’operazione partendo dai dati. L’operazione fu risolta: l’ufficio è d’accordo nel ritenere che B abbia un interesse alla tutela del marchio produttivo e commerciale, e che quindi l’operazione era inerente, poteva essere fatta, c’era l’interesse specifico alla tutela del marchio. Per questo motivo il finanziamento può essere riqualificato, può essere considerato come una spesa per il marchio. È un onere che B ha sostenuto per rafforzare il valore del marchio. Queste spese contabilmente si chiamano spese incrementative: spese che incrementano il valore del marchio o comunque evitano una perdita di valore.

Marchio vale 80; sosteniamo una spesa incrementativa del marchio di 100: questa spesa aumenta il valore del marchio. Dopo l’operazione il marchio vale 180.

Questi finanziamenti anziché essere portati a deduzione, sono portati ad aumento del valore del marchio (non sono stati dedotti come voleva la società). Se andiamo a vedere il decreto sugli ammortamenti troviamo i marchi d’impresa. Questi si ammortizzano in 18 anni. La società voleva spesare questo aumento in un anno. Questo 100, anziché essere spesato in un anno è spalmato in 18 anni. L’effetto è che invece di abbattermi tutto il reddito di periodo nell’importo di 100, cioè mi va tutto a ridurre il reddito di periodo nell’anno in cui lo sostengo, mi abbatterà il reddito in futuro per un importo di 10 ogni anno. Il mio costo lo deduco in 18 anni, l’effetto è che pago le tasse prima. Quindi l’operazione mi viene riconosciuta in 18 anni, non in un anno con conseguente abbattimento dei redditi.

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Per l’amministrazione finanziaria questa operazione è stata chiusa con un vantaggio finanziario. Il vantaggio dell’erario non fu sostanziale perché l’importo del finanziamento fu comunque ridotto, ma anziché essere dedotto in un anno fu dedotto in 18 anni. Fu sostanzialmente riconosciuta l’inerenza, proprio sulla base degli argomenti utilizzati dalla difesa (spesa per tutelare il marchio); per questo fu portata ad incremento. Il primo anno non si ebbe un grande sconto: 1/18. Il vero sconto si vedeva nei 17 anni successivi.

(14/5/2012)

Riassunto della conferenza con il Prof. Gallo

Un punto interessante è come tutt’ora il diritto tributario, in particolare il tributo, è strumento per la miglior realizzazione degli strumenti di giustizia sociale; il tributario non deve essere vissuto solo nell’ottica del peso del carico, ma come strumento di attuazione di obiettivi essenziali per la logica di realizzazione della giustizia sociale, che è l’obiettivo fondamentale dello stato.

Attualmente, però, nel nostro sistema si è creato il c.d “cortocircuito” del prelievo fiscale: in questo il prelievo fiscale è destinato a finalità diverse, per la copertura di una situazione economica finanziaria di grave crisi.

Avrete osservato una certa lontananza, distanza da quanto noi diciamo a proposito della capacità contributiva perché il Prof. ha detto che la capacità contributiva dovrebbe essere riconosciuta anche di fronte a capacitazioni (così le ha definite il Prof. Gallo) non necessariamente legate a logiche di patrimonialità, l’indice utilizzato non potrebbe essere necessariamente un indice a contenuto patrimoniale e quindi potrebbe essere un indice che denota certe situazioni socio – economiche che il legislatore può apprezzare come fondamento del prelievo fiscale. Il prof. Gallo è, infatti, espressone di una delle tesi più lontane dalla scuola del prof. Moschetti (maestro di Trivellin), per il quale, invece, la patrimonialità dell’imposizione è una base essenziale, mentre prof. Gallo risolve il problema della capacità contributiva in un problema di ragionevolezza della scelta del fatto indice e questo è dovuto ad una diversa visione del principio di capacità contributiva, nella prospettiva che la capacità contributiva è una sorta di criterio integrativo del principio di eguaglianza e ragionevolezza e non come un autonomo principio riconnesso alla patrimonialità dell’indice. In questo contesto cui viviamo, il principio della capacità contributiva intesa come sola patrimonialità dell’indice , probabilmente può rivelarsi non del tutto sufficiente a fronteggiare le esigenze e, quindi , è necessario prendere in considerazione questa diversa prospettiva. Infatti il prof Gallo dice che ci vuole una redistribuzione della ricchezza e anche una redistribuzione del prelievo perché oggi il prelievo è eccessivamente spostato sul lavoro e ci sarebbe bisogno di ripensare alla reale attitudine alla contribuzione di ciascuno.

8.3.3 La deducibilità delle sanzioni

Nell’esercizio dell’attività d’impresa è possibile che l’imprenditore sia chiamato a sostenere dei costi che derivano dalla illeceità, dalla contrarietà alla legge del suo comportamento. Potrebbe essere illiceità meramente amministrativa (sanzione amministrativa) oppure un’illiceità penale (importo che l’imprenditore deve sostenere a fronte di illeciti che hanno rilevanza penale).

Come esempio di sanzione amministrativa si pensi alle violazioni del codice della strada: eccesso di velocità per consegnare più merci, eccesso di tara per caricare il camion con più merci, sanzioni anti-trust legate anche al fatturato dell’impresa e quindi possono raggiungere importi notevoli,… Sanzione penale: l’imprenditore che paga una tangente per ottenere un determinato appalto coerente con la finalità di incremento del reddito,…

Dobbiamo distinguere tra sanzioni ed altri comportamenti (tangente).

Se guardiamo alla relazioni tra il programma d’impresa e il costo la nozione di inerenza può dirsi integrata perché avevamo parlato di inerenza come di rapporto tra costo sostenuto e il

programma imprenditoriale specifico e se colleghiamo il programma imprenditoriale specifico anche all’efficienza o massimizzazione dei ricavi derivanti dall’esercizio dell’atività, anche le sanzioni potrebbero in astratto rientrarvi.

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È ovvio che se ragioniamo in questi termini, l’impresa di trasporto che sovraccarica i camion fa meno trasporti e ottiene ricavi maggiori. Ma possiamo ritenere che il principio di inerenza riesca ad assorbire anche queste fattispecie e le faccia rientrare nei costi deducibili?

8.3.3.1 La funzione preventiva della sanzione

Dobbiamo allargare la prospettiva e chiederci qual è la funzione della sanzione e come ci dobbiamo porre rispetto alle misure afflittive perché la sanzione è determinata in funzione del disvalore che si attribuisce alla condotta illecita, dunque il quantum della sanzione stabilito per legge serve alla logica di costituire il contrappeso della condotta illecita. Però è ovvio che la misura della sanzione incide sulla funzione general-preventiva. Si assiste ad un impatto differenziato a seconda del tipo delle violazioni, vedi per es. il caso del parcheggio dove non si può che è sanzionato in misura inferiore all’ eccesso di velocità. Già questo è un punto da cui non possiamo prescindere perché è ovvio che se posso dedurre la sanzione dal reddito con una mano, pago la sanzione e subisco pregiudizio, ma con l’altra mano ne attenuo l’impatto perché pago meno imposte, deducendo dal reddito e quindi pago meno imposte. Quindi l’effetto combinato di questo meccanismo attenua l’incidenza della sanzione e allora attraverso l’imposta finisco per incidere su quella misura, la misura sanzionatoria a cui era collegato il disvalore, quindi io deducendomi l’imposta dal reddito attenuo l’impatto della sanzione: quindi faccio venir meno il rapporto tra misura del disvalore e sanzione della condotta, che il legislatore aveva fotografato nella norma.

Questa è una prima osservazione che dimostra come ci sia qualcosa che non quadra perché le sanzioni già incidono sul regime reddituale, però devo guardare al sistema nel suo complesso.

8.3.3.2 Problema dell’uguaglianza tra consociati

Il secondo aspetto è un problema di uguaglianza tra consociati perché ve ne saranno taluni che possono dedurre il peso della sanzione dal reddito e altri che non lo potranno fare perché quel costo non sarebbe inerente all’attività o perché di inerenza non si tratta. Per es. sanzione per velocità irrogata al dipendente mentre si reca a lavoro: non potrebbe essere dedotta (abbiamo visto che i costi di lavoro dipendente non sono rilevanti, nel reddito di lavoro dipendente).

L’impatto delle sanzioni sarebbe diverso a seconda delle categorie di reddito su cui mi colloco. Nondimeno dobbiamo ammettere che vi sono sentenze di merito, perché non risulta che la Cassazione si sia pronunciata sul merito, tuttavia si sono pronunciate certe volte giudici di merito con pronunce che hanno riconosciuto la legittimità delle deduzioni delle sanzioni. Qui si tratta di una considerazione ancora più generale rispetto a questa che riguarda che riguarda l’effetto sul piano del peso sanzionatorio, perché c’è un effetto di riduzione della funzione general - preventiva della sanzione. È una considerazione che a ben guardare non si deduce neppure proprio dal principio di capacità contributiva, ma si deduce proprio dalla nozione di inerenza che vogliamo adottare.

8.3.3.3 Libertà di iniziativa economica e liceità

Quando il legislatore tutela, anche a livello costituzionale, la libertà di iniziativa economica e i valori fondamentali, come il valore del lavoro, mette in conto o no che questa iniziativa economica sia esercitata in maniera illecita? Il quadro costituzionale che tutela il lavoro e la libertà di iniziative economiche presuppone che l’operatore economico persegua la sua attività nel terreno dell’ambito del lecito. Esiste una dimensione di liceità dell’attività economica che sta alla base della sua tutela, anche costituzionale. La base che giustifica la tutela fondamentale della libertà è che questa libertà si eserciti secondo dinamiche lecite; è come se quel riconoscimento si legasse ad un apporto che il singolo dà alla crescita economica del Paese, ma in una dimensione di liceità.

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Questa liceità dell’agire si comunica, si trasmette anche alla dimensione di inerenza. Tu cioè quando disegni, definisci il programma imprenditoriale di un’impresa lo devi definire secondo regole e modalità lecite. Non lo puoi considerare un programma tutelabile quello di chi si assicuri la stipulazione di appalti tramite tangenti. Sarà pur un’attività economica che ti permette di procurarti anche ingenti ricchezze, ma non trova tutela nell’ambio dell’art. 41, 4 cost (tutela del lavoro) e che si connette alla funzione solidaristica dell’art. 53, ma è un’attività lecita quella che rientra in questa visione. Quando guardi ad un programma imprenditoriale, dovresti guardare a quei costi che si ricollegano ad un programma di tipo lecito conforme alla legge e, quindi ,un costo che di per sé confligge con programma caratterizzato da illiceità non può essere inerente. Allora quando guardi alla coerenza del costo con il programma imprenditoriale dovresti guardare a quei costi che si ricollegano ad un programma di tipo lecito. Ne dovremmo desumere che, secondo

questa impostazione, gli oneri sanzionatori, poiché si connettono ad un modo di intendere il

programma imprenditoriale in modo non rispettoso di intendere la legge, non possono essere

dedotti dal reddito.

Ragioniamo su due versanti: quello della sanzione e, quindi, irragionevolezza della scelta da una parte di sanzionare e dall’altra di permettere la deduzione sul problema dell’eguaglianza e poi sul problema della liceità del programma imprenditoriale, che deve essere alla base della libertà d’iniziativa economica e della relativa tutela.

Quando il contribuente si pone in contrasto, non potrebbe dedurne i relativi costi. Ancora più evidente tutto ciò diventa rispetto all’esempio della tangente, dove la deduzione di quel costo manifesta un illecito di rilevanza penale, quindi non si possono dedurre quei costi. Anche se ci sono autori che dicono “ se io per realizzare quel reddito ho pagato una tangente, quello per me è un costo, non mi puoi non dedurre la tangente perché mi ha ridotto la mia ricchezza: esasperando il principio di inerenza giungono a ritenere che anche questi oneri dovrebbero essere deducibili.

Non è che io ci guadagno, mi riduce l’entità della sanzione e fa venir meno la funzione general- preventiva, quindi finisce per essere un comportamento criminogeno che favorirebbe la commissione di illeciti e quindi è da evitare la deduzione della sanzione.

Per prof. Trivellin deve esistere una dimensione della legalità con cui guardare il fenomeno tributario; l’illecito non c’entra nulla col tributario, quando sostieni dei costi illeciti di fronte ad attività che incrinano il programma imprenditoriale, non è deducibile.

8.3.3.4 La visione del legislatore: la tassazione degli illeciti

Ma questa non sembra essere fino in fondo l’idea del legislatore. Tassereste i proventi che derivano dallo spaccio di droga o dallo sfruttamento della prostituzione o i sequestri di persona o le rapine se voi doveste ragionare con gli strumenti di cui stiamo parlando?

No, perché non c’entrano niente con il tributario perché il tributario guarda alla sfera del lecito, perché si tratta di illeciti che dovrebbero essere estranei alla dimensione della fiscalità; se faccio qualcosa di illecito dovrebbero essere altri gli strumenti repressivi, non il Fisco. Perché prelevare redditi da chi sfrutta la prostituzione vuol dire far partecipare questi soggetti a quei valori di solidarietà che stanno alla base dell’ art. 53 Cost., perché esiste una dimensione del lecito. Però la scelta del legislatore non è questa perché la l. 537/1993 stabilisce la tassazione dei proventi illeciti, ivi compresi quelli caratterizzati da illiceità penale, nell’ambito delle categorie di reddito comprese nel decreto 917/ 1986. I proventi sono tassati a condizione che non intervenga sequestro o confisca. I redditi illeciti che derivano da attività di illecito penale sono comunque tassati nell’ambito delle categorie. C’è la categoria di reddito lecito e la corrispondente categoria di reddito illecito, se quei beni in particolare sono illeciti, quelle sono attività di impresa seppure illecite.

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Se prendete l’attività del rapinatore che lavora da solo senza organizzazione, allora la linea di demarcazione è tra il lavoro autonomo lecito e quello illecito. È una scelta giusta? C’era una volontà per cui se non riesco a confiscare il profitto del reato, almeno avrò la tassazione, avrò un concorso alle pubbliche spese, però è una scelta discutibile che mette in discussione dei valori perché nel momento in cui scegli di far rientrare questi illeciti nell’area della tassazione mi servono per far funzionare la macchina statale, quindi anche se non è una fonte pulita, questi soldi avranno comunque una destinazione pulita; però il contrappeso di questa scelta è che mette in discussione i valori. Quindi chi vuole dedurre la tangente, ha un valido argomento e l’argomento è dato dal fatto che non è vero che esiste una dimensione del lecito, tanto è vero che i proventi sono tassati, quindi si mette in discussione il valore che è quello dell’art 41 Cost, quindi quello che si pone è un problema di principio. A me, legislatore, non interessa che la fonte sia lecita o meno, ma che la ricchezza possa essere utilizzata per le pubbliche finalità.

La scelta del legislatore di tassare i proventi illeciti, v. art 14 c.4 e comma 4 bis oggetto di modifica da parte di Monti con decreto 16/2012 del decreto 537/1993: come funziona tassazione dei proventi illeciti.

8.3.3.5 Rapporto tra confisca e sequestro

Domanda: quando viene meno la possibilità di sequestrare?

Funziona così: se tu nell’esercizio di imposta in cui hai realizzato il reddito non sei sottoposto a sequestro o confisca paghi le imposte. Cioè se oggi smascherano un trafficante di droga e viene fuori che ha una disponibilità di 2 milioni di euro tu intanto paghi le imposte. L’anno dopo si chiude il procedimento e subisci prima la confisca e poi il sequestro. Ecco il rapporto tra confisca e sequestro: se interviene nello stesso anno non sei tassato, ma se interviene in un anno successivo sei tassato con l’effetto che c’è un cumulo, un raddoppio di carico. Allora è un’incoerenza nell’incoerenza perché prima sei tassato e poi te lo sequestrano, prima ti chiamo a pagare le imposte per un fatto illecito che non dovrebbe rientrare nella disciplina del concorso (violazione del principio di inerenza) poi se vengono confiscati i beni non ti restituisco più le imposte ,il che vuol dire che è violato il principio di effettività per cui è una disciplina non caratterizzata da coerenza. Ma questa norma ha una ulteriore appendice che costituisce l’indeducibilità dei costi illeciti (ma di questo non parliamo).

8.3.3.6 La soluzione preferibile:esclusione della tassazione degli illeciti

Non dovrebbero rilevare i costi illeciti come elementi che riducono il reddito perché esiste la legittimità dell’attività compiuta, la dimensione dell’illiceità non è compresa; quando il legislatore dice che i proventi degli illeciti te li tasso, mette in crisi questo valore perché l’autore dell’illecito deve partecipare al percorso virtuoso della solidarietà.

Si dice che andrà allora soggetto ad altre sanzioni ma non concorre alle pubbliche spese, non potresti piegare il diritto tributario a funzioni diverse, ovvero a funzioni repressive di incentivazione di condotte illecite. Questo giustificherebbe l’indeducibilità di questi costi; hanno raccomandato scelte legislative volte ad impedire la deduzione di questi comportamenti anche a livello di contrasto alle frodi internazionali si poneva il divieto di deduzione di questi costi.

Quindi, dal punto di vista dell’inerenza si dovrebbe concludere che i costi correlati al compimento dei reati non sono ascrivibili alla categoria del lecito, dovrebbe esserne esclusa la deduzione.

Domanda: se rimanessimo nell’ottica della legalità si verrebbe a generare una sorta di buco prima che intervenga il penale, il fatto che si estenda il tributario forse potrebbe servire per colmare il penale. La scelta del legislatore potrebbe essere pragmatica, la scelta del minore dei mali, come per es. quando fa con i condoni.

8.3.4 L’inerenza di tipo quantitativo, legata alla quantità della spesa.

Esempio di inerenza quantitativa (tratto da Prof. Lupi)

Esempio del barbiere che apre il suo negozio e ci mette i rubinetti d’oro. Allora ci potremmo chiedere: rientra nel programma imprenditoriale un costo di diversi centinaia di migliaia di euro? Gli servono a qualcosa

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i rubinetti d’oro? È un qualcosa che attiene al programma imprenditoriale (v. es. della scorsa lezione sulla convention) è il rapporto tra costo e programma imprenditoriale.

Qui parliamo di rapporto tra l’entità del costo e il programma. Potrebbe sorgere un dubbio sulla coerenza di quel costo per il tipo di attività. Il sostenimento di quel costo determinerebbe un significativo abbattimento del carico fiscale perché abbatterebbe il reddito per un certo periodo di tempo che potrebbe essere di diversi anni perché uno si porta in avanti il costo e se lo continua a dedurre negli anni. Quali sono i limiti del sindacato di questa scelta rispetto alla libertà di iniziativa economica? Quali sono le ragioni per cui la scelta economica viene fatta? Qual è il limite? Fino a che punto posso impedirlo per ragioni fiscali legate al principio di inerenza?

Quando si parla di inerenza quantitativa si tocca uno snodo delicato perché si utilizza la leva fiscale per sindacare le scelte, perché l’inerenza va calata nella tipologia di attività che il soggetto svolge.

Se noi prendiamo il barbiere o il parrucchiere della provincia di Treviso, non è la stessa cosa del parrucchiere delle dive e a Roma che mette i rubinetti d’oro perché non ha lo stesso programma imprenditoriale di quello di provincia.

Però poi verrebbe da dire: perché quello di Treviso non può attrarre lui le dive, perché ha l’obiettivo di diventare il parrucchiere più prestigioso? Sono scelte imprenditoriali, non è facile risolvere questo problema.

Esempio di quello che accade normalmente con i problemi dell’inerenza: caso dei compensi eccessivi agli amministratori quando una società attribuisce ad un suo amministratore dei compensi abnormi, eccessivi rispetto alla carica perché rispetto alla media dei manager del settore quei compensi normalmente sono più bassi di quello che normalmente quella società eroga. Allora quel costo è deducibile o indeducibile? Perché è un costo che apparentemente è antieconomico. L’imprenditore che decide di acquistare un elicottero e fare i suoi trasferimenti in elicottero, sono costi inerenti o non inerenti? Può l’amministrazione sindacare queste scelte imprenditoriali oppure no? Ci sono due livelli di risposta:

La prima risposta valorizza il principio generale di autonomia del’imprenditore, cioè l’imprenditore deve essere libero di allocare i suoi costi come meglio crede; cioè il principio generale è quello della insindacabilità delle scelte economiche perché avremo una pesantissima ingerenza su quella libertà che è costituzionalmente garantita. Il quantum non è sindacabile e questo è il principio generale. ( Opinione della Cassazione).

Però il costo antieconomico può presentare degli aspetti dubbi. Ci si può chiedere qual è la funzione di questo costo antieconomico. Di fronte a costi palesemente eccesivi e, quindi, contrastanti con la logica di quello che normalmente è un programma imprenditoriale, deve essere l’imprenditore a spiegare le ragioni di quel costo, che quell’atto può considerarsi in linea con gli obiettivi imprenditoriali come se si spostasse l’onere della prova con gli obiettivi dell’imprenditore e quindi il costo può essere segno di una distorsione dell’esercizio dell’attività.

Come è strutturato l’accertamento? La Gdf andrà negli uffici e vedrà che il compenso è disallineato rispetto ai compensi medi; dovrà essere l‘imprenditore a dimostrare, per es., che la redditività è superiore ecc.. ma la prova si sposta sull’imprenditore. L’inerenza non permette di spingersi fino a disconoscere le scelte dell’impresa, ma di fronte ai costi antieconomici l’onere di dimostrare coerenza con programma è posto a capo dell’imprenditore.

Ciò è nato da una vicenda: Caso di un’impresa che produceva scarpe e risultava effettuare dei trasporti; risultava dalle bollette di trasporto relative ai camion che movimentava questa impresa, che il camion aveva trasportato 10 paia. Allora l’amministrazione fa un controllo e dice “ ma qua c’è coerenza in questo costo con il programma imprenditoriale perché mandi un camion con 10 paia di scarpe? Spediscile che ti costa meno! Era un costo antieconomico che nascondeva un illecito: l’imprenditore nella bolletta che mettevano nel camion scrivevano così : 101 erano le paia di scarpe ( così se per caso la Gdf li fermava per strada mostravano

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questa bolletta) . Poi appena arrivavi a destinazione 101 (I0I) diventava I0Paia [l’ultimo 1 era trasformato in P] e le altre non le fatturava.

Da questo semplice marchingegno vedevano che era partito un camion con 10 paia ma in realtà era partito un camion con 101 e ne aveva fatturate 10.

È la prova che il costo antieconomico ha qualcosa che non va, allora devi essere tu imprenditore a fornirne la prova(sent. 1821 del 2002). Era un meccanismo che permetteva di salvarti nel momento in cui ti fermava la finanza; poi, dopo, siccome dovevi rendere coerente la fatturazione con le bollette di trasporto, si modificava la bolletta di trasporto.

8.4 Principio della previa imputazione

Questo principio era stato oggetto di una riforma che aveva derogato a questo principio e, successivamente, questo principio è stato oggetto di una sorta di controriforma proprio qualche anno fa che ha riportato la disciplina ad una versione previgente e possiamo dimenticarci come una di quelle esperienze che il tributario ha fatto e che ha ancora i suoi strascichi in giudizio e ci fermiamo sulla semplicità del principio che è stata ricostruita dopo la riforma.

Adesso il principio di previa imputazione si può formulare così:

riguarda solo i costi, non i ricavi, quindi è un po’ come il principio di inerenza, perché il principio di competenza riguarda costi e ricavi.

Nessun costo può essere deducibile se non è esposto in conto economico: per essere deducibile un costo, deve essere fisicamente esposto nel conto economico. Non è possibile dedurre un costo se quel costo non è esposto nel bilancio come costo che concorre al risultato di esercizio. Il principio di dipendenza diceva che si doveva partire dagli utili e questo precisa che non ci deve essere nessun costo che per essere deducibile deve essere esposto nel bilancio. La funzione di questo principio è quella di assicurare che tutto l’utile civilistico, il risultato civilistico, sia sottoposto a prelievo, che non vi sia nessuna particella dell’utile civilistico che sfugga a tassazione. Se tu potessi far concorrere in dichiarazione dei costi che non sono presenti in bilancio, avresti uno sfasamento perché il bilancio rappresenta un risultato in cui il costo non concorre e il reddito sarebbe inferiore all’utile e questo si dovrebbe evitare. Nessuna particella di reddito può sfuggire a tassazione, dunque l’utile deve essere imputato altrimenti non può essere dedotto.

8.4.1 Attenuazione della regola

Allora questo è un principio che pone taluni problemi sul versante dell’effettività della capacità contributiva.

Esempio: imprenditore che pone in essere parte della sua attività in nero, senza fatturare l‘attività che svolge. Imprenditore che vende una serie di prodotti in nero senza fatturare. Da questa vendita in nero supponiamo che l’imprenditore abbia imputato per es. 100000 €. Questo flusso di ricavi, in quanto in nero, non entrerà mai in esposizione in dichiarazione perché è un flusso di vendita in nero e ,quindi, incasso questi soldi e non li espongo in dichiarazione. Però per realizzare queste vendite in nero dovrò aver sostenuto dei costi, dovrò aver sostenuto costi che per es. riguardano l’acquisto della materie prime e che mi sia avvalso di collaboratori in nero; dunque potrei aver avuto dei costi in nero anche per 80000€. Questi costi neri non risulteranno da nessuna parte né in bilancio né in dichiarazione, non avranno evidenza sul conto economico perché non saranno fatti risultare. Però secondo il principio di previa imputazione in linea massima, se un costo non ha evidenza in conto economico, non è imputato a conto economico e siccome non è imputato a conto economico, in linea di massima non è deducibile.

Effetto: mancando la previa imputazione dovrei essere tassato sui ricavi lordi. Il legislatore di fronte a questa scelta attenua in certa misura il principio di previa imputazione.

Regola generale: se il costo non è imputato, non è deducibile, ma il legislatore contempera questa possibilità in nome del principio della capacità contributiva. Se i costi riguardano direttamente i

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ricavi che concorrono all’attività d’impresa, quindi, se quei costi riguardano i ricavi che concorrono alla determinazione in termini di reddito, i costi se riguardano direttamente i ricavi sono deducibili anche se non sono imputabili. Allora questo costo riguarda direttamente il ricavo e torna quindi ad essere deducibile perché riguarda direttamente ricavi. L’onere della prova è integralmente a carico del contribuente che deve fornire la prova della correlazione degli stessi con i ricavi, se questi costi non riguardano direttamente i ricavi e non sono imputati, non sono deducibili.

Se per es. mi sono rivolto ad un avvocato gli chiedo qual è il rischio in termini di sanzioni su un’ operazione in nero e magari la consulenza mi costa 5000 €. Nemmeno l’avvocato emette la fatture e diventa un costo nero per l’impresa ma non si riferisce ai ricavi, è un costo generale. Questa componente reddituale non sarà mai deducibile in nessun caso. Questo è l’effetto del principio di previa imputazione.

Ovviamente nei casi precedenti opera se l’imprenditore viene scoperto.

(15/5/2012) Abbiamo parlato dell'ultimo dei principio della tassazione d'impresa. I costi per essere deducibili devono essere esposti in conto economico. La sua funzione mira ad assicurare che nessuna particella di utile civilistico sfugga dalla tassazione. Questo principio subisce un contenimento per i costi direttamente riferibili ai ricavi d'impresa. Se non fossero deducibili questo tipo di costi il rischio sarebbe una tassazione su base lorda, non effettiva.

8.4.2 Deroghe al principio di previa imputazione

Il principio di previa imputazione conosce diverse deroghe. Ci occupiamo solo di alcune di queste.

La prima deroga è una conseguenza delle variazioni in aumento e diminuzione.

Riferiamoci agli ammortamenti e all’esempio. Periodo di ammortamento di un bene che vale 500. Le aliquote di ammortamento fiscale sono corrispondenti al 10%. L'ammortamento civilistico è al 20% e in cinque anni speso il bene; l'ammortamento fiscale, che transita in dichiarazione in relazione al quale dobbiamo fare delle variazioni, si verifica in 10 anni.

Amm. Fiscale

10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10%

Amm. Civile

20% 20% 20% 20% 20% 0 0 0 0 0

Fino al 5 anno non si verifica alcun problema di previa imputazione, perché è esposto a bilancio un costo di 20. 10, costo fiscale, è imputato a bilancio perché ricompreso nel 20. Quindi il principio di previa imputazione è salvo perché c'è il costo in bilancio. Nei 5 anni successivi, a bilancio abbiamo zero, il costo civilistico è zero perché il bene è già stato ammortizzato, manca l' imputazione del costo. Se il principio di previa imputazione qui non subisse una deroga non potremmo dedurre 10 perché non abbiamo nessun costo previamente imputato. Qui abbiamo un costo fiscale che non è altro che il costo civile spesato in un tempo più ristretto. Il costo in realtà è stato imputato, solo che è stato imputato negli esercizi precedenti (i primi 5). In questo caso la deduzione del costo fiscale è rinviata. Quindi il principio di previa imputazione si applica anche quando il costo è presente in bilancio ma la sua deduzione dal punto di vista fiscale è stata rinviata dalle pertinenti disposizioni fiscali. Ho dedotto il costo in 5 anni e ho solo rinviato la deduzione del costo fiscale.

8.4.3 L' inquinamento del bilancio civilistico

Effetto distorsivo che deriva dall'applicazione del principio di previa imputazione. E' il fenomeno del c.d. inquinamento del bilancio civilistico. Si verifica quando il redattore del bilancio fa delle scelte di redazione che sono influenzate dalle norme fiscali, per ottenere risultati utili sul piano fiscale.

Immaginiamo un esempio rovesciato. Un bene strumentale vale 500 e che potrebbe essere soggetto ad un ammortamento fiscale con aliquote del 20%, secondo il decreto che stabilisce le

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aliquote degli ammortamenti. Il bene fiscalmente viene spesato in 5 anni. Supponiamo che il nostro redattore ritenga che in realtà, per le particolari caratteristiche di utilizzo del bene, il piano di ammortamento, per essere una rappresentazione fedele del concreto utilizzo del bene, debba essere ammortizzato con aliquota del 10%. Stando all'esempio avrei un ammortamento fiscale più veloce di quello civilistico, di venti per 5 anni e un ammortamento civilistico di dieci per 10 anni.

Amm. Fiscale

20% 20% 20% 20% 20% 0 0 0 0 0

Amm. Civile

10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10% 10%

Questo teoricamente, se dovessero funzionare i due binari separati. Però dobbiamo fare i conti con la previa imputazione, che mi impedisce di dedurre costi che non sono esposti in conto economico. Consideriamo il primo anno, il costo esposto in conto economico è 10, il costo fiscale che voglio spesarmi è 20. Il costo esposto (10) non è capiente, non è sufficiente ad assorbire la quota di ammortamento. La previa imputazione mi impedisce di dedurre 20, posso spesare 10. Per il principio di previa imputazione devo spesare, anche fiscalmente, la stessa quota di ammortamento per 10 anni. L’ effetto del principio di previa imputazione: aggancia l' ammortamento civile a quello fiscale, non posso più fare variazioni perché l’ ammortamento civilistico ha quote inferiori a quello fiscale. Questo è effetto figlio del principio di previa imputazione. E' il caso dell'ammortamento fiscale più alto di quello civilistico. Questo dovrebbe succedere se il redattore di bilancio si attiene al piano civilistico.

Però potrebbe accadere che il redattore del piano civilistico faccia una considerazione. L'ammortamento fiscale è 20, utilizzo il bene per funzioni non tipiche quindi il mio ammortamento dovrebbe essere 10. Però il 20 è previsto dal decreto ministeriale, riguarda la media di utilizzo del settore dei beni della stessa categoria. Quindi chi me lo fa fare utilizzare il 10, visto che l’ ammortamento fiscale è 20, meglio utilizzare il 20. Uso 20 previsto per l' ammortamento fiscale anche ad effetti civilistici. Fiscalmente posso spesare 20 perché 20 ho esposto in conto economico. Nessuna variazione, ammortamento civilistico e fiscale coincidono.

Amm. Fiscale

20% 20% 20% 20% 20% 0 0 0 0 0

Amm. Civile

20% 20% 20% 20% 20% 0 0 0 0 0

Questa situazione consiste in un inquinamento del bilancio. Perché se l' avessi redatto in base ai criteri di verità e prudenza avrei dovuto spesare il bene in 10 anni, perché quella era l’ utilizzo reale del bene dal punto di vista civilistico, quello era la corretta rappresentazione. Però siccome avevo un interesse fiscale a spesarmi 20, perché deduco il costo in 5 anni anziché 10, attraverso questo meccanismo ho preso gli ammortamenti fiscali al solo scopo di ottenerne la deduzione nel tempo minimo garantito dal decreto ministeriale. E’ un fenomeno distorsivo, perché ho una rappresentazione del bilancio civilistico non veritiera e corretta perché influenzata dalla disciplina degli ammortamenti.

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9 Elementi positivi e negativi che concorrono a determinare il reddito d' impresa

9.1 Principio di analiticità

Il risultato d’esercizio è il frutto di una differenza tra i ricavi e i costi dell' esercizio dell'attività. L'espressione ricavi è a-tecnica. Dovremmo dire che il reddito è espressione di un risultato algebrico, di una differenza tra elementi positivi e negativi. Questo è il principio di analiticità.

Questi i principi analizzati fin’ora.

• Principio di previa imputazione;

• Principio di inerenza;

• Principio di competenza;

• Principio di dipendenza;

• Principio di analiticità: R-C, elementi positivi meno elementi negativi.

9.2 Elementi positivi

Ricavi, plusvalenze, sopravvenienze attive, interessi attivi, proventi atipici.

Tra le plusvalenze attive si distingue tra plusvalenze su beni strumentali e plusvalenze finanziarie.

9.2.1 Ricavi

Sono la voce principale che compone il redito dell'impresa. Sono gli elementi positivi che derivano dallo svolgimento dell'attività tipica. Possiamo dire che i ricavi sono quei componenti che derivano dalle cessioni di beni (c.d. beni merce) o prestazioni di servizi che rientrano nell'oggetto dell'attività tipica dell'impresa.

I ricavi sono costituiti anche da altri elementi. Abbiamo altre operazioni o fattispecie che generano ricavi.

- La cessione delle materie prime.

Sono un impresa che costruisce abiti, però ho uno stock di tessuti non utilizzati richiesti da altra impresa. Se cedo i tessuti, la cessione non rientra tra le attività tipiche, ma non ostante ciò l'operazione genera ricavi.

- Il risarcimento danni per perdita di beni merce oppure di materie prime.

Imprenditore subisce la distruzione del deposito dei vestiti e ottiene risarcimento danni, quelle somme costituiscono ricavi.

Sono ricavi perché (lo anticipiamo, ma si rimanda a successiva trattazione) quando ho una perdita e me la deduco, mi concorre a formare il reddito di esercizio. Ma se ho un risarcimento questo lo considero come un ricavo così mi bilancia la perdita.

- L' altra ipotesi è data dall' attivo di portafoglio. Sono i titoli e le partecipazioni che l' impresa detiene per la vendita, a titolo di investimento speculativo. Investimenti in strumenti finanziari effettuati non con la logica dell' investimento duraturo, ma speculativo. I proventi che derivano dall' attività di trading su titoli circolanti da luogo a ricavi. La disciplina è completamente diversa dagli investimenti in titoli e partecipazioni a scopo duraturo. Qua addirittura non si parla di ricavi ma di plusvalenze. Il confine tra trading speculativo e quello duraturo è un elemento strutturale della fiscalità finanziaria dell' impresa. Lo snodo dell' attivo di portafoglio è molto importante.

- Altro elemento che compone i ricavi sono i contributi in conto esercizio. Ora quasi non esistono più. Erano di natura pubblica con la funzione di portare in equilibrio il bilancio d'esercizio. Ora i contributi mirano al rafforzamento patrimoniale dell'impresa, sono in conto capitale.

- Un ipotesi deve essere tenuta distinta. Ed è l' autoconsumo. Allude al fenomeno del consumo diretto di beni d'impresa da parte dell'imprenditore o dei suoi familiari oppure la destinazione del

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bene a finalità estranee all'esercizio d'impresa. (Se si tratta di una società, l’ utilizzo diretto da parte dei soci ecc.)

Abbiamo autoconsumo quando un bene d'impresa esce dal circuito dell'impresa per una finalità diversa, arrecare beneficio all'imprenditore, ai familiari, ai soci o a soggetti terzi al di fuori di una logica di coerenza con il programma imprenditoriale.

Impresa produce abiti di alta moda, dona alla figlia di uno dei soci di maggioranza una collezione di abiti di alta moda. Si tratta dell' uscita di beni con destinazione ad un soggetto che ottiene un beneficio personale.

Impresa costruttrice di automobili che costruisce un auto assegnata al titolare. Assegnata al di fuori di una logica di coerenza con il programma d' impresa.

L' operazione così come descritta non genera ricavo d'impresa perché l'imprenditore non ha un corrispettivo (è una liberalità) e però questa operazione è considerata generatrice di ricavi. Come si fa ad individuare questo ricavo in operazioni che non danno luogo a corrispettivi? In questo specifico caso il ricavo è costituito dal valore normale dei beni assegnati o destinati a finalità estranee. Da intendersi come valore venale del bene in commercio.

Se la collezione di abiti di alta moda abbia un valore venale pari a 50.000 euro, l’ impresa dovrà esporre tra i ricavi 50.000 euro. Dovrà considerare la fattispecie come un atto di disposizione del reddito, come se lei stessa avesse acquistato i beni e li avesse ceduti al terzo.

Viene tassata la differenza tra il valore normale del bene e il teorico guadagno che avrei ottenuto dalla vendita. L'autoconsumo è espressione di una regola generale per cui possiamo dire che tutti i beni che fuoriescono dal circuito dell'impresa realizzano i loro plusvalori latenti. Un principio generale che si trova in fusioni, scissioni, fiscalità generale, tutte le volte in cui beni fuoriescono dal circuito dell'impresa.

9.2.2 Plusvalenze

C'è simmetria con quanto detto a proposito dei ricavi. Sono plusvalenze le operazioni che derivano dalla cessione di beni strumentali oppure patrimoniali. Quindi beni diversi dai beni merce. I beni

strumentali sono utilizzati nell'esercizio dell'attività d'impresa. Un bene è strumentale per natura il (capannone industriale) oppure per destinazione (l' appartamento destinato a showroom). I beni

patrimoniali sono quei beni che non sono ne strumentali ne merce.

Si pensi alla società che produce automobili e che acquista una palazzo sui canal grande a Venezia. E’ un bene patrimoniale. Da luogo a plusvalenze se viene venduto.

- Poi abbiamo i componenti che derivano dal risarcimento danni per la perdita di questi beni.

- Plusvalenze da immobilizzazioni finanziarie. Corrispondenti al trading finanziario.

- I contributi in conto capitale (prima gli avevamo in conto esercizio).

- Autoconsumo di beni strumentali o meramente patrimoniali.

(16/5/2012) Le plusvalenze in linea di massima sono generate dalla cessione di beni diversi da quelli che sono qualificabili come beni merci. I beni plusvalenti, in linea di massima, sono quei beni che possiamo ascrivere alla categoria dei beni strumentali o dei beni meramente patrimoniali o patrimoniali. I beni strumentali si distinguono in beni strumentali per natura o per destinazione, a seconda della loro idoneità ad inserirsi nel processo produttivo in maniera naturale per le loro intrinseche caratteristiche ovvero a seguito di apposite trasformazioni. I beni patrimoniali invece sono beni che sono nella titolarità dell’impresa, ma che non sono direttamente collocabili nell’ambito del processo produttivo.

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9.2.2.1 La determinazione delle plusvalenze

- Caso dei beni meramente patrimoniali

Esempio dell’impresa che costruisce autovetture che acquisisce a titolo di mero investimento un palazzo sul Canal Grande. Supponiamo che l’impresa decida di vendere il palazzo. Il costo sostenuto per l’acquisto dell’immobile è 100, il contratto di vendita prevede il trasferimento dell’immobile per un valore di 200. In questo caso la plusvalenza è agevolmente determinabile come differenza tra il costo e il corrispettivo della cessione. La plusvalenza che andremo ad esporre in conto economico sarà 200 – 100 = 100

- Caso dei beni strumentali. Il costo dei beni strumentali va determinato considerando il processo di ammortamento, perché questi si ammortizzano in quanto vengono utilizzati nel processo produttivo e il loro costo viene spesato.

L’imprenditore ha sostenuto per l’acquisto un costo di 1000. Il prezzo a cui il soggetto ha effettuato la vendita è 2000 (prezzo di vendita). Se si trattasse di un bene patrimoniale basterebbe fare la differenza tra prezzo di vendita e costo d’acquisto. Si tratta di un bene mobile strumentale (macchinario strumentale) con quota di ammortamento annuale pari al 10%. Il costo di 1000 è spesato per 100 all’anno. Immaginiamo che al quinto anno intervenga la vendita. Trattandosi di bene mobile dovremmo avere anche la consegna (vendita + consegna) affinché l’operazione rilevi dal punto di vista fiscale sul piano della competenza. Mando a tassazione 2000.

Per calcolare la plusvalenza devo considerare la differenza tra il costo e il corrispettivo. Devo considerare il costo al netto degli ammortamenti, cioè devo depurarlo degli investimenti, cioè dei costi che sono già dedotti e che hanno già abbattuto il reddito.

Nell’esempio il costo che ho già dedotto equivale a 500. Per determinare la plusvalenza dovrò considerare il costo storico al netto degli ammortamenti (1000–500). Questo è il mio costo fiscale, cioè il mio bene al quinto anno ha un costo fiscale di 500. La plusvalenza sarà data da 2000 – 500 (pari al costo fiscale del bene, cioè quella parte di costo che non ho spesato, che non ho già dedotto, cioè quella parte di reddito che non ha già concorso ad abbattermi il reddito). Nel caso specifico la plusvalenza sarà 1500. Quindi 1500 è la plusvalenza che deriva sostanzialmente dalla differenza tra il corrispettivo ed il costo fiscale.

Il costo fiscale (detto anche valore fiscalmente riconosciuto) è quel valore che è dato dal costo storico del bene al netto degli ammortamenti, quello che per il fisco vale quel bene in termini di costo.

Perché si utilizza questo procedimento? Quando il soggetto ha messo nel circuito produttivo il bene si è dedotto il costo, e questo costo ha abbattuto il reddito di esercizio di anno in anno. Il costo di 1000 sostenuto inizialmente l’ho già dedotto attraverso le quote di ammortamento. Se considerassi la differenza tra 2000 (costo di vendita) e 1000 (costo originario) andrei a prendermi una plusvalenza di 1000, ma in realtà questo costo di 1000 ha già ridotto il reddito di esercizi precedenti. Quindi avrei un vantaggio fiscale che consisterebbe in un salto d’imposta perché ho già dedotto questo costo, mi ha già abbattuto il reddito. Dunque per calcolare la plusvalenza devo andare a prendermi il valore fiscalmente riconosciuto, cioè la differenza tra corrispettivo e il costo non ammortizzato (la parte di costo che non ha già ridotto il reddito imponibile). Se avessi venduto il bene al decimo anno avrei avuto un valore fiscalmente riconosciuto pari a 0, quindi una plusvalenza di 2000 (2000 – 0).

L’operazione dei beni patrimoniali e quella sui beni strumentali, dal punto di vista del saldo delle imposte sono uguali, danno lo stesso risultato in termini reddituali. Il bene patrimoniale da una plusvalenza di 1000 (2000 – 1000); il bene strumentale dà una tassazione di 1500, ma una deduzione di 500. Sono tassato sempre su 1000.

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- Caso dei beni strumentali con spese per l’ incremento del valore Supponiamo: Prezzo di acquisto 1000 Prezzo di vendita 2000 Quota di ammortamento 10% Vendita al termine del quinto anno di esercizio Supponiamo che prima della vendita (quindi nel quinto esercizio) l’imprenditore faccia delle spese che determinano un incremento del valore di questo bene (spese di miglioramento che sono dette spese incrementative). Supponiamo che queste spese migliorative ammontino a 200.

Come si calcola la plusvalenza? Costo storico del bene 1000 e l’ho ammortizzato per 500. Ho sostenuto una spesa di 200 per migliorare il bene (spese incrementative), queste aumentano il costo fiscale del bene e dovrò quindi sommarle al valore fiscalmente riconosciuto. Plusvalenza: 2000 (prezzo di vendita) – 500 (costo fiscale) + 200 (spese incrementative) = 1700

Modifichiamo l’esempio Ipotizziamo che le spese incrementative siano di 500 Prezzo di vendita 2000 Supponiamo che le spese incrementative si collochino alla fine del secondo esercizio, quindi non nell’anno della vendita. Costo storico di 1000 che ammortizzo per 100 all’anno. 100 nel primo anno, 100 nel secondo anno, ma qui ho delle spese incrementative che potrebbero modificare il mio valore fiscale. Al termine del secondo esercizio ho un costo non ammortizzato di 800.

Le spese incrementative vanno ad aumento del valore fiscale e quindi rideterminano il valore fiscalmente riconosciuto (800 + 500 = 1300).

Dal terzo esercizio devo continuare l’ammortamento con aliquota di ammortamento tipica del bene, ma parto da un valore fiscalmente riconosciuto di 1300. Quindi dal terzo esercizio, sempre tenendo del 10%, dovrò ammortizzare 130. La quota di ammortamento è cambiata perché ho incrementato il costo delle spese incrementative ed ho continuato ad ammortizzare il bene con le stesse aliquote tipiche del bene. Quando arrivo al quinto anno, al momento della vendita, quale sarà il valore fiscalmente riconosciuto? Dovrò fare: 100 + 100 + 130 + 130 + 130 = 590 Il costo storico del bene è 1000, gli ammortamenti che finora ho dedotto sono pari 590: 1000 – 590 = 410, che è il valore fiscalmente riconosciuto. Per calcolare la plusvalenza faccio la contrapposizione con il prezzo di vendita: metto a confronto il prezzo di vendita con il costo non ammortizzato.

Quando le spese incrementative aumentano il costo del bene, continuo il processo di ammortamento delle spese fino a quando non le ho dedotte interamente. Nell’esempio ho sostenuto una spesa incrementativa di 500, ma ne ho dedotto solo 90 (30 + 30 + 30).

Considero il costo storico di 1000. Ho sostenuto spese incrementative per 500, che si sommano al volare del bene: ho sostenuto un costo complessivo di 1500 (è quanto mi è costato complessivamente il bene). Di questi 1500 ne ho ammortizzati una buona parte (590): 1500 – 590 = 910, che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto. Per calcolare la plusvalenza faccio 2000 – 910 = 1090.

A seconda del tipo di funzione che il bene assolve nell’ambito di impresa cambia il regime fiscale a cui è assoggettato.

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Consideriamo un’impresa che costruisce immobili: tra i suoi beni merce (beni alla cui produzione è diretta l’attività dell’impresa, cioè i beni che danno luogo a ricavi) potremmo avere beni che sono strumentali, cioè immobili che sono utilizzati per lo svolgimento dell’attività d’impresa (ad esempio capannone destinato a ricovero per gli automezzi necessari, oppure l’immobile destinato ad uffici amministrativi). Oppure possono esserci beni di mero investimento, ad esempio palazzi storici acquistati che vogliono essere tenuti come beni di investimento. Quindi nella stessa impresa potremmo avere tre diverse tipologie di beni immobili che rispondono a tre diverse logiche di tassazione:

- ricavi (beni merce);

- plusvalenze da beni strumentali (beni strumentali);

- plusvalenze da beni meramente patrimoniali (beni di patrimonio).

9.2.2.2 Plusvalenze derivanti dalla negoziazione di titoli e partecipazioni

Sono regolate dall’art.87 del decreto 917/1986. Riguarda le ipotesi in cui una partecipazione societaria sia detenuta da una società commerciale, quindi non da persone fisiche (per le quali esiste un apposito regime che vedremo), ma da persone giuridiche. L’ipotesi presa in considerazione da questa disciplina si ha nell’ipotesi in cui si abbia la cessione di titoli e partecipazioni da parte di società commerciali.

Questa disposizione afferma che a certe condizioni le plusvalenze derivanti dalla cessione di titoli e partecipazioni non sono sottoposte a tassazione nella misura del 95%, sono quindi esenti per il 95%.

Vuol dire che se hai una partecipazione che vale 100, la cedi per 100 e la plusvalenza (il guadagno) che realizzi da questa operazione è 100 (ad esempio hai un costo storico di 0), questo capital gain cioè questo guadagno che deriva dalla cessione della partecipazione è esente per il 95%: lo mandi a tassazione solo nella misura del 5%. Questo significa che a conto economico mandi 5 e lasci esente 95. Nel bilancio civile avremmo una plusvalenza di 100 (quindi +100), ma in dichiarazione, siccome quel 100 è esente quasi totalmente, avremo una variazione in diminuzione pari 95, e manderemo a tassazione soltanto 5.

Questo regime di quasi esenzione si chiama regime di partecipation exention (esenzione sulle partecipazioni), detta con l’acronimo pex.

Quali sono le condizioni affinché una partecipazione possa partecipare a questo specifico regime di esenzione? La condizione è che questa partecipazione sia una partecipazione che possiamo considerare immobilizzata, cioè acquisita a titolo di investimento duraturo. Non dunque con logiche speculative, ma con logiche di investimento duraturo. Questa è la condizione necessaria affinché una partecipazione sia ritenuta rientrante in questo regime. Partecipazione immobilizzata vuol dire che il soggetto la considera ascrivibile alla categoria dei titoli che sono acquisiti con logiche di investimento. Il legislatore poi disciplina le condizioni oggettive necessarie affinché una partecipazione sia considerata immobilizzata

Le condizioni sono indicate all’art. 87:

- è necessario che il soggetto detenga la partecipazione per un certo periodo di tempo.

Occorre che la partecipazione rimanga nella titolarità dell’impresa per un lasso di tempo determinato. La finalità di investimento deve essere duratura. Occorre un ininterrotto possesso di 12 mesi, di almeno un anno (questo periodo di tempo cambia molto spesso a seguito di modifiche della legge).

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- occorre che l’imprenditore iscriva la partecipazione in bilancio nella categoria delle

immobilizzazioni finanziarie. Non deve iscriverla nell’attivo circolante.

- occorre che la società controllata non risieda in un paradiso fiscale, altrimenti il contribuente

dovrà dimostrare (attraverso la procedura di interpello) che questa società svolge un’attività

commerciale effettiva (deve quindi aver superato la prova dell’interpello). Quindi occorre che

si tratti di una società che non abbia la residenza fiscale in un paradiso fiscale, e se ce l’ha

deve aver superato favorevolmente l’interpello (la società è collocata in un paradiso fiscale,

ma svolge attività commerciale effettiva).

- la partecipazione deve riferirsi ad una partecipazione in una società che svolge attività

commerciale, in un’impresa commerciale. Quindi ne sono escluse tutte le società utilizzate

come mero contenitore di bene.

Queste quattro condizioni devono sussistere congiuntamente e sono condizioni oggettive che permettono di identificare la partecipazione immobilizzata. Quando la partecipazione presenta queste caratteristiche il titolo può considerarsi idoneo a fruire del beneficio della quasi esenzione di cui all’art.87.

Se la partecipazione è una partecipazione che si presenta come ascrivibile alla categoria dell’attivo circolante, la relativa cessione dà luogo a ricavi che sono tassabili. Se la partecipazione è una partecipazione immobilizzata, la relativa cessione dà luogo a plusvalenze che sono pex, che rientrano nella disciplina dell’art.87.

Noi abbiamo un doppio regime circolatorio delle partecipazioni, e questo è alla base della fiscalità finanziaria dell’impresa, cioè alla base delle regole che determinano la rilevanza fiscale dei capital

gains per l’impresa.

Questo doppio regime è:

- regime delle partecipazioni iscritte nell’attivo circolante: le partecipazioni iscritte nell’attivo

circolante confluiscono nei ricavi d’impresa. Quando la plusvalenza confluisce nei ricavi d’impresa

abbiamo la tassabilità piena (100%) del ricavo. Se subisco una perdita deduco integralmente la

perdita. Quindi quando le plusvalenze sono plusvalenze da attivo circolante le conseguenze sono

che tasso i ricavi e deduco le perdite.

- regime delle partecipazioni iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie: le partecipazioni iscritte

tra le immobilizzazioni finanziarie confluiscono nelle plusvalenze d’impresa. Le plusvalenze che

derivano da immobilizzazione finanziaria hanno una disciplina diversa: quando ottengo dei ricavi

questi sono quasi esenti (abbiamo la disciplina pex), la maggior parte di questa plusvalenza rimane

completamente intassata. Se ho una perdita, la minusvalenza (perdita che deriva dall’operazione

di negoziazione del titolo) è indeducibile nella misura corrispondente.

Questo regime di circolazione dei titoli della finanza d’impresa è un regime molto complesso. Spesso è alla base di manovre connotate da elusività, perché sfruttando questo doppio regime si cerca di cumulare l’esenzione sulle plusvalenze che derivano dalle partecipazioni iscritte tra le immobilizzazioni con la deducibilità delle perdite che derivano dalle minus. Si tratta di operazioni complesse che sono spesso utilizzate per cumulare gli effetti di questo doppio regime circolatorio. Si tratta di un sistema che risponde ad una precisa logica, logica che si connette alla struttura del tributo. Ci dobbiamo chiedere quali siano le ragioni per le quali esiste o comunque si giustifica la questa disciplina pex.

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9.2.2.3 La ratio della disciplina pex

L’esenzione della tassazione sui capital gains che derivano dalla cessione di titoli immobilizzati nasce da una scelta ben precisa del legislatore tributario del 2004 (riforma Tremonti). Scelta che si poneva la finalità di rendere la fiscalità del nostro sistema paese più competitiva rispetto ad altri paesi europei dove il regime pex era già presente da tempo. Questo allo scopo di evitare la fuga di capitali dall’Italia per favorire investimenti allocati in regimi fiscali in cui esisteva il regime pex. Alla base di questa scelta di carattere sistematico c’è stata una logica di concorrenza tra Stati. Ci sono stati casi anche abbastanza eclatanti dal punto di vista giornalistico (gruppo telefonico italiano, gruppo di occhialeria…) che avevano costituito società estere al solo scopo di andare a prendersi la disciplina pex. Alla base dell’introduzione di questa disciplina vi è anche una ragione strutturale che può essere riassunta nella finalità di evitare doppie imposizioni: fenomeni di duplicazione del prelievo sulla medesima ricchezza.

Supponiamo che la società sia stata acquistata per 100 (costo storico). Inizia a lavorare ed a conseguire ricavi:

- ricavi per 100 nell’esercizio 2012, aliquota fiscale 30%, reddito rimane per 70

- ricavi per 100 nell’esercizio 2012, aliquota fiscale 30%, reddito rimane per 70

- ricavi per 100 nell’esercizio 2014, aliquota fiscale 30%, reddito rimane per 70

Supponiamo che questa società investa i redditi nell’esercizio della sua attività. Alla fine del 2014 questa società varrà 100 + 70 + 70 + 70 = 310. Questi 310 sono il frutto di redditi già tassati che sono stati investiti ed hanno aumentato il patrimonio della società. Quindi nel 2014 questa società vale 310 perché ha un costo di 100 e con i redditi sono stati fatti degli investimenti: è aumentato il patrimonio della società. Supponiamo che nel 2014 la venda, l’ho pagata 100 e la vendo a 310. Qual è la mia plusvalenza? Qual è il mio capital gain? 310 – 100 = 210 Questi 210 sono redditi che sono già stati tassati. La ricchezza, l’incremento del valore di questa società deriva da redditi che sono già stati sottoposti a tassazione. Se tassassi nuovamente questi 210, di fatto tasserei lo stesso reddito che ho già tassato. Per questo c’è l’esenzione.

L’esenzione c’è per raccordare la fiscalità del socio con la fiscalità della società: per evitare che il soggetto proprietario della società sia tassato due volte su redditi che già hanno scontato l’imposta in testa alla società. L’esenzione c’è perché bisogna sterilizzare quella che è la tassazione avvenuta nella formazione progressiva della ricchezza di quella società e del valore di quella società.

Quindi la pex è strutturale, non è agevolativa. Non serve a favorire qualcuno che vuole vendere partecipazioni, serve a raccordare la fiscalità del socio con quella della società per evitare doppie imposizioni. La pex non è un’agevolazione, è una norma strutturale che serve ad evitare doppie imposizioni societarie.

9.2.2.4 Applicazione del regime pex

(22/5/2012) Vediamo dei casi per comprendere i problemi pratici riguardo ai componenti positivi del reddito d’impresa, ci soffermeremo sul regime circolatorio dei titoli e delle partecipazioni. Si tratta di temi che nell’applicazione dei principi hanno una significativa rilevanza e sono temi di cui i fiscalisti devono spesso occuparsi.

Tema dei requisiti per poter beneficiare del regime pex (esenzione sulle partecipazioni).

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Caso realmente accaduto attualmente oggetto di accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria. Quindi si tratta di un caso non definito e in esame da parte della amministrazione finanziaria. Riguarda il trasferimento di uno dei principali gruppi alberghieri italiani. L’amministrazione finanziaria ritiene sia stata applicata in modo scorretto la pex. Noteremo come le interrelazioni tra il diritto tributario e la disciplina contrattuale vadano regolate sempre con particolare attenzione.

Primo step

B

A D estera

Partiamo dall’assetto dei rapporti negoziali su cui si è innestata poi l’operazione che ha portato all’applicazione della disciplina pex. A (società quotata in borsa) era la società titolare degli immobili e che gestiva l’attività alberghiera nell’ambito di tutto il territorio nazionale. Questa società era per la maggioranza di proprietà di una famiglia che possedeva quindi la società in modo composito, attraverso un’altra società B e attraverso delle persone fisiche che facevano parte di questa famiglia. Era così costituito un nucleo unitario che garantiva la maggioranza delle partecipazioni. Vi era poi una quota di minoranza posseduta da una società estera D; D faceva parte di un gruppo multinazionale che operava sempre nel settore alberghiero.

L’andamento del mercato borsistico e l’andamento del mercato alberghiero italiano non erano particolarmente favorevoli (ci riferiamo a sei/sette anni fa): A non andava particolarmente bene. Il management di A si è posto il problema di affrontare un percorso di riorganizzazione per cercare di rafforzare la propria posizione sul mercato con l’introduzione di un management specialistico del settore in grado di far andare meglio le cose. Quindi si è passati ad una riorganizzazione del gruppo, e nella riorganizzazione del gruppo si è annidato il problema relativo alla tassazione.

Secondo step

F I B

A1

A

C’era l’esigenza di riorganizzare il gruppo e soprattutto c’era l’esigenza di trovare dei finanziatori esterni che fossero in grado di apportare quelle condizioni di management necessarie per la condizione del gruppo. La famiglia si rivolse ad una società che gestiva un fondo di private equity, cioè di capitale di rischio. Questa società si dimostrò interessata all’investimento nel settore in questione.

D estera

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Fu costituita una nuova società A1. In A1 furono riversate tutte le quote e le partecipazioni che in precedenza erano detenute nella società alberghiera: la maggioranza riversò in A1 attraverso un’operazione di conferimento le quote che originariamente deteneva in A. A finì sotto A1 perché le quote di controllo furono conferite all’interno della società A1: la società alberghiera si trovò ad essere controllata da A1.

Quando A1 fu costituita, fu costituita anche con l’apporto del fondo di investimento che aveva riversato risorse necessarie alla riorganizzazione. Chi controllava A1? Gli stessi soggetti di prima: le persone fisiche, la società della famiglia (B) e il fondo di investimento (FI). In A c’era ancora la quota di minoranza della società estera D. A1 costituisce un veicolo di riorganizzazione perché permette alla persone fisiche e a B di regolare la governance di A, cioè di fare le scelte strategiche su A, rimanendo compatti. Con l’ingresso del fondo di investimento, che ha apportato specifiche competenze manageriali e quindi gli strumenti tecnici per risolvere le problematiche che la società alberghiera stava vivendo, il titolo di A in borsa risale: la curva del titolo di A risale. Quindi attraverso questa operazione si risana la situazione della società alberghiera.

Il socio estero D, fino a prima dello step 2, era un socio riottoso: riteneva che la gestione aziendale non fosse adeguata. Dopo il miglioramento della situazione gestoria la società estera si dichiarò interessata ad acquistare la maggioranza del gruppo. Questa proposta di acquisto fu condizionata alla conferma degli andamenti di mercato e alla conferma della bontà di gestione del nuovo management. Quando D manifestò il suo interesse all’operazione, la società D e il gruppo di controllo di A1 stipularono un accordo quadro (contratto che prevedeva degli step operativi successivi) per rendere possibile il successivo trasferimento delle quote di A, della titolarità di A.

Terzo step

In questo step si è annidato il problema fiscale.

F I B

A1

vendita

A2 D estera

A

Fu costituita una nuova società sopra ad A: A2, costituita per l’attuazione degli accordi quadro. A2 fu costituita tramite apporto (operazioni di conferimento) da parte di A1 e da parte di D estera. Il contesto è il seguente:

- A1 che conferisce in A2 capitale e diventa proprietaria di A2;

- D società estera che apporta le sue partecipazioni in A2;

- A diventa controllata da A2 nella quale sono confluiti i titoli che prima D aveva in A, e

confluiscono le partecipazioni che A1 aveva in A.

Come confluiscono? Qui sta il problema fiscale.

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Ricapitolando: in base all’accordo quadro A1 deve far confluire le sue partecipazioni in A2. Il problema sta nella modalità con cui queste confluiscono. A2 si inserisce con lo scopo di realizzare le condizioni per operare poi il trasferimento a favore del gruppo estero. A1 doveva trasferire ad A2 i titoli. Come li trasferisce? Si trattava di trasferire partecipazioni che il soggetto aveva acquisito in A. Si trattava di titoli che erano stati conferiti in A1 con lo scopo originario di investimento. Questa operazione di trasferimento da A1 ad A2 fu attuata attraverso una vendita: una vera e propria operazione idonea a generare plusvalenze (si trattava di una vendita di partecipazioni).

Come doveva essere trattata fiscalmente questa vendita? Come una plusvalenza esente o come un plusvalenza imponibile?

Quarto step

A1

vendita

A2

Mettiamo a fuoco l’operazione di cessione delle partecipazioni da A1 ad A2. Questa è l’operazione oggetto di contestazione. Le partecipazioni di A furono oggetto di un conferimento in A1 da parte degli originari soggetti e poi vi fu anche l’ingresso del fondo di investimento. Questa operazione di conferimento in A1 aveva ‘svecchiato’ le partecipazioni. Le partecipazioni in A erano detenute da moltissimo tempo, da generazioni; dunque non vi era dubbio che quelle partecipazioni avessero un carattere di immobilizzazione finanziaria. Se quella famiglia avesse ceduto le partecipazioni a soggetti terzi direttamente quindi nel caso in cui non ci fossero stati tutti gli step che abbiamo visto, ma ci fosse stata una cessione diretta al terzo (alla società estera) non ci sarebbe stato dubbio alcuno che quella cessione sarebbe stata una cessione a cui applicare la disciplina pex (cessione esente) in quanto vi erano tutti i requisiti. Quindi la plusvalenza eventualmente realizzata dalla famiglia se avesse venduto direttamente alla catena alberghiera estera sarebbe stata esente al 95%.

Le cose non andarono in questo modo: fu costituita A1 al solo scopo di realizzare un miglioramento dei titoli azionari attraverso l’ingresso del fondo di investimento (operazione volta a consolidare la governanace di A). Nel momento in cui i titoli passano dalla famiglia ad A1 cambia soggetto: il titolare delle partecipazioni non è più lo stesso. Le azioni entrano in un nuovo soggetto, divengono proprietà di A1 che è un nuovo soggetto. Siccome A1 è un nuovo soggetto, le condizioni per verificare il regime di tassazione degli eventuali trasferimenti delle partecipazioni vanno verificate con riferimento ad A1: è con questo soggetto che dobbiamo verificare l’esistenza delle condizioni per beneficiare del regime pex. I requisiti della commercialità e della sede della società (Italia non è un paradiso fiscale) non sono mutati. Devo verificare l’holding period (periodo di possesso prima della cessione) e l’iscrizione nel primo bilancio approvato tra le immobilizzazioni finanziarie. Prima della costituzione di A2 fu stipulato un accordo quadro tra il gruppo estero e il gruppo italiano relativamente al trasferimento delle azioni di A1 in A2. Questo accordo quadro fu concluso prima della cessione della partecipazioni da A1 ad A2; esso prevedeva le modalità di trasferimento delle partecipazioni a certe condizioni.

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Questo accordo prevedeva l’eventuale cessione diretta dei titoli (che poi avvenne in concreto) oppure prevedeva un conferimento; lasciava arbitra la società A1 di decidere con quali modalità trasferire le partecipazioni in A2 (scelte che avevano logiche gius-commecialistiche diverse).

[Non ci interessa molto l’opzione put-call] Questa possibilità era bilanciata da delle opzioni put-call che completavano l’operazione. Si prevedeva che una parte dei titoli fosse oggetto di cessione diretta e un’altra parte fosse oggetto di opzione attraverso la decisione di acquisto o di vendita che è tipica dell’opzione put-call.

A1 chiude il primo bilancio prima di aver ceduto, ma dopo la stipula dell’accordo quadro (che prevede la cessione). Dopo la chiusura del bilancio trasferisce. A1 nel bilancio iscrive i titoli tra le immobilizzazioni finanziarie. Attende il decorso dell’holding period (al tempo erano 18 mesi) e poi cede.

Consideriamo i requisiti pex della società A1. - società alberghiera che ha sede in Italia, no paradiso fiscale;

- società alberghiera che svolge quindi attività commerciale;

- nel primo bilancio chiuso il titolo è iscritto tra le immobilizzazioni finanziarie;

- è decorso l’holding period.

Ci sono tutte le condizioni per l’applicazione del regime pex.

L’operazione va sotto gli occhi dell’amministrazione finanziaria perché il fondo di investimento è sottoposto ad un’attività di controllo e si riscontra un’operazione analoga in un’altra vicenda relativa alla cessione di uno dei più noti gruppi del settore della moda a livello mondiale. Da questa segnalazione parte il controllo su questa operazione.

La guardia di finanza dice: quando avete chiuso il primo bilancio di A1 sapevate già che avreste venduto. Avevate già un accordo con la società alberghiera estera che prevedeva a certe condizioni, in qualche caso dipendenti dalla sola volontà di A1, di trasferire i tioli e le partecipazioni. Cioè avete iscritto tra le immobilizzazioni finanziarie un titolo che sapevate di poter vendere, e in particolare per il quale si sarebbe potuta rendere concreta ed effettiva la vendita a semplice iniziativa volontaristica di A1 (opzione put regolata dall’accordo quadro). L’amministrazione sosteneva che si doveva iscrivere quel titolo nell’attivo circolante perché si tratta di una partecipazione che a questo punto entra in un assetto di circolazione; l’amministrazione sostiene che viene meno il requisito dell’immobilizzazione finanziaria e che si entra nell’area dell’attivo circolante. Non è più una plusvalenza, ma un ricavo. Essendo un ricavo si applica il regime di imponibilità perché i titoli iscritti nel circolante sono tassati quando nella vendita si realizza un guadagno. Per effetto di questa riqualificazione dell’operazione la plusvalenza (circa 200 milioni) è passata dall’esenzione al 95% alla tassazione al 100%.

Secondo l’amministrazione finanziaria, l’esistenza dell’accordo quadro era idonea a determinare il mutamento della caratteristica del titolo da immobilizzazione finanziaria ad attivo circolante. Il sapere di vendere è sufficiente per far considerare la partecipazione come una voce di attivo circolante?

Vi è una strettissima relazione tra le scelte negoziali fatte in quell’occasione ed il regime fiscale. Non dobbiamo perdere di vista quello che fu lo scopo dell’operazione: il veicolo A1 nacque con finalità di consolidamento della governance di A; riversare le partecipazioni in A1 fu una scelta di investimento tanto ché la cessione al gruppo estero avvenne solo in forza di eventi sopravvenuti. L’investimento ha la finalità di conservare il valore dei titoli e delle partecipazioni nel mio patrimonio; questa qualità del titolo non si può perdere perché ad un certo momento diventa

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oggetto di accordi di cessione in quanto si tratta di una qualità dell’investimento che rimane incardinata nella scelta imprenditoriale originaria. Questa è la posizione della più recente dottrina.

(21/5/2012) Avevamo esaminato la disciplina delle plusvalenze, in particolare abbiamo parlato del regime delle plusvalenze sulle partecipazioni, della diversità di disciplina tra plusvalenze iscritte nel circolante e di quelle iscritte nell’ambito delle immobilizzazioni. Abbiamo visto questo doppio regime circolatorio.

Ci restano da esaminare gli altri elementi positivi e negativi.

9.2.2.5 Risarcimento danni

Anche nel regime dei componenti positivi connotati dalla qualifica di plusvalenze, rilevano anche le ipotesi di risarcimento danni; tra le ipotesi di risarcimento danni non abbiamo molto da dire di quanto avevamo detto sulla ipotesi della perdita dei beni merce, perché stiamo considerando un caso in cui l’imprenditore subisce un danneggiamento di un bene plusvalente, quindi di un bene ascrivibile, vuoi alla categoria di beni strumentali in senso proprio sia per natura o per destinazione, vuoi alla categoria dei beni patrimoniali quindi beni diversi dagli edifici; quando avviene la distruzione di beni strumentali o di beni meramente patrimoniali il risarcimento che il soggetto ottiene è considerato ascrivibile alla categoria delle plusvalenze e anche per i beni patrimoniali o strumentali vale la regola dell’autoconsumo che abbiamo definito in base ai beni merce;

esempio: un imprenditore che abbia un appartamento che destina a showroom e decide di destinare a se stesso o ai propri familiari quell’appartamento, quindi lo converte e lo fa entrare nell’area dei beni personali. Questa uscita del bene dal circuito produttivo determina l’emersione di una plusvalenza. Stessa cosa per i beni merce.

Non vi è differenza nella disciplina nell’analisi tra i componenti postivi, tra ricavi e beni strumentali l’importante è ricordare la rilevanza della distinzione per quanto riguarda la tassazione degli strumenti finanziari, in particolare le plusvalenze finanziarie.

9.2.3 Le sopravvenienze

Le sopravvenienze sono un ulteriore elemento positivo. È un istituto che ha delle peculiarità fiscali la cui comprensione permette di capire come gira il meccanismo di funzionamento del reddito d’impresa.

Sono di due tipi:

• Tipiche

• Atipiche o assimilate

9.2.3.1 Sopravvenienze tipiche

Le possiamo considerare non propriamente come una categoria autonoma di componenti positivi, ma un istituto che si connette agli altri componenti positivi, siano essi ricavi o plusvalenze, quindi si connette agli altri componenti positivi, siano essi ricavi o plusvalenze.

Definizione: La sopravvenienza è quella fattispecie in forza della quale si procede alla rettifica di una operazione precedentemente contabilizzata.

Rettifica, operazioni precedentemente contabilizzata. L’esigenza di rettificare nasce dall’applicazione al reddito d’impresa del principio di competenza.

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Due cose sono importanti: la definizione di sopravvenienza; la rettifica di operazioni precedentemente contabilizzate può rendersi necessaria per effetto dell’applicazione al reddito d’impresa del principio di competenza; se non si applicasse questo principio non avremmo bisogno dell’istituto delle sopravvenienze.

9.2.3.1.1 Le sopravvenienze attive

Le sopravvenienze attive funzionano allo stesso modo.

Ipotizzate che l’imprenditore sia legato da un contratto di distribuzione in esclusiva di determinati prodotti. Immaginiamo che nel contratto di distribuzione sia prevista una sorta di premio al raggiungimento di quantitativi determinati. Normalmente questi premi vengono decisi a chiusura dell’esercizio. Si va a vedere a fine esercizio quanto è stato effettivamente venduto ed eventualmente si attribuisce questo premio se il mercato è coerente con gli obiettivi contrattuali.

Supponiamo che il soggetto abbia ottenuto nel corso del 2012 determinati obiettivi di vendita e abbia diritto all’incasso del corrispettivo per l’attività di distribuzione, corrispettivo di 100. Alla fine dell’esercizio è in condizione di dire che egli ha diritto di ottenere il corrispettivo standard, ma non sa se avrà diritto al premio perché questo premio richiederà dei calcoli. In questo momento so solo che ho diritto ad ottenere il corrispettivo contrattuale dell’esercizio dell’attività. Ho maturato il diritto al corrispettivo ma non so se maturerà il premio. All’esito dell’istruttoria si accerta che esiste il diritto al premio e supponiamo che ottenga un premio di + 20. Ho un dato, il prezzo corrispettivo dell’attività relativa all’anno 2012, che ho contabilizzato con un + 100, che ho rettificato perché il mio corrispettivo non sarà 100 ma 120, però qui si è chiusa la mia dichiarazione, devo rettificare quel valore e questa rettifica deve avvenire attraverso una sopravvenienza attiva. Nel 2012 dovrò esporre in dichiarazione + 20. L’effetto è che sommando i due importi ottengo il corrispettivo reale per l’attività di distribuzione di merci operata nel corso del 2012. (L’esempio dei beni merce e prestazione di servizi, attiene alla disciplina dei ricavi).

Non sarebbe diverso se io mettessi un bene strumentale, se io avessi deciso di vedere un capannone industriale per esempio, ed ecco che emerge il componente positivo; poi viene fuori che nel 2013 quell’immobile ha dei difetti e sono costretto ad effettuare una riduzione di prezzo. Non è un problema di caratteristiche oggettive dell’istituto, non è un istituto che ha una sua autonomia, ma un elemento positivo che si collega agli altri e non ha altro effetto che rettificare quelle disomogeneità rispetto all’effettività della capacità contributiva che deriva dallo sfasamento temporale dovuto al principio di competenza. Se non avessi il principio di competenza che mi impone di dichiarare 100 e potessi dire no, guardo all’incasso, se operasse il principio di cassa, l’incasso è una componente irrilevante perché devo mandare a tassazione l’importo di competenza e questo può determinare degli effetti distorsivi; se si realizzano degli effetti che determinano la necessità di riposizionare quell’importo, devo ricorrere alle sopravvenienze attive o passive. È un meccanismo di rettifica di precedente contabilizzazione.

Sono effetti di conto economico che derivano dall’aggiustamento dei precedenti componenti.

Avrà dedotto un costo di 100 e risulterà che l’importo gli costa 70 e dovrà mandare a tassazione + 30.

Si tratta di un istituto che ha la funzione di rettificare gli effetti dell’applicazione del principio di competenza. Queste sono le sopravvenienze tipiche che modificano gli effetti del’imputazione al periodo.

(Per le sopravvenienze passive vedi infra.)

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9.2.3.2 Sopravvenienza atipiche o assimilate

Sono un istituto che non si connette a precedenti contabilizzazioni, ma sono vicende che non hanno connessione con elementi transitati a conto economico e assumono la connotazione di componente autonomo.

Nell’ambito dell’istituto delle sopravvenienze che assumono carattere di autonomia possiamo collocare (anche se taluni collocano questa voce nell’ambito delle plusvalenze) i contributi e le liberalità alle imprese, i quali vanno considerati non nella loro componete che confluisce a bilancio e, quindi conto economico ,ma con funzioni di aumento del patrimonio e, quindi, conto capitale non conto d‘esercizio. Siano essi erogati dallo Stato o da soggetti privati, confluiscono nell’ambito delle sopravvenienze atipiche; sono un componente reddituale caratterizzato da autonomia.

9.3 Elementi negativi

Costi, minusvalenze, sopravvenienze passive, interessi passivi, perdite.

Possiamo aggiungere tra gli elementi passivi i contributi e le liberalità.

(Per le minusvalenze vedi supra.)

9.3.1 Le sopravvenienze passive

Consideriamo due periodi di imposta: il 2012 e 2013.

L’imprenditore nell’esercizio del 2012 effettua un’operazione commerciale che comporta un trasferimento di titolarità di beni mobili, cede una certa partita di beni mobili. Il contratto di cessione non determina di per sé l’emersione di alcuna componente reddituale sulla base del principio di competenza e nel 2012 avviene anche la consegna dei beni, con l’effetto che l’imprenditore realizza un ricavo di 100 di fronte a questa cessione. È tecnicamente un ricavo. Supponiamo che nel corso del 2013 il compratore si accorge che il prodotto venduto ha dei difetti e qui emerge una contestazione del compratore per vizi della cosa. L’esistenza di vizi darebbe diritto all’acquirente di agire con le azioni previste dal codice civile, cioè la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. Immaginiamo che i vizi della cosa effettivamente sussistano e che la vicenda si chiuda in maniera transattiva con il riconoscimento di una riduzione del prezzo che contrattualmente sarà rivisto nella misura di 70. Quindi ci sarà un abbattimento del prezzo pari a 30.

Qual è l’effetto dal punto di vista dichiarativo? Avremo + 100 dichiarato, perché si è integrato il principio di competenza io ho pagato le imposte su 100, che io in realtà non ho mai incassato perché in realtà incasserò 70. Quindi ho dichiarato 100, ma incasserò 70 e per effetto della transazione diviene certo che io incasserò 70 e non di più e dovrò rettificare questa dichiarazione precedentemente contabilizzata. Questa operazione la devo rettificare con l’istituto della sopravvenienza, che consente la rappresentazione di una vicenda sopravvenuta rispetto ad una precedente contabilizzazione, sopravvivenza rispetto alla contestazione del vizio e alla cessione del bene. Come faccio a rilevare la differenza di prezzo? Attraverso una sopravvenienza, che sarà passiva in questo caso, pari a 30, pari alla misura di riduzione del prezzo che ho incassato per effetto della transazione.

Se si guarda alla vicenda dichiarativa nel succedersi dei 2 anni, il primo anno avrò una tassazione di 100 e nel secondo meno 30, quindi avrò la deduzione di un componente negativo pari a 30, il secondo anno stralcio la parte di ricavo che ho già mandato a tassazione attraverso una deduzione fiscale che corrisponde ad una sopravvenienza passiva. Qual è la tassazione che ho nei due anni, il

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saldo della tassazione? Il saldo della tassazione dei 2 anni rimane 70 perché un anno tasso 100, l’ano dopo 30 sarebbe come se nei due anni io avessi mandato a tassazione 70. Questa operazione, l’esposizione del meno 30, ha rettificato la precedente contabilizzazione riportandola al valore effettivo di scambio.

9.3.2 Le perdite su crediti

È un istituto riconducibile alla logica delle sopravvenienze passive. Attiene non ad un bene inteso in senso stretto, quindi beni merce o patrimoniali oltre che strumentali, ma ad una diversa categoria di beni che sono i crediti. È l‘istituto della sopravvenienze applicato al bene credito.

Le perdite su crediti, che sono un problema attuale dell’impresa, sono un istituto che dal punto di vista fiscale che deve essere visto con particolare attenzione.

Esempio: abbiamo due periodi di imposta, 2012 e 2013. Supponiamo che nel corso del 2012 l’imprenditore effettui una cessione di bene merce e poi lo consegni. Anche in questo caso ho integrato il requisito della competenza e, quindi, devo andare a dichiarare il componete positivo, + 100. Questo 100 confluisce in dichiarazione come ricavo dell’esercizio. In realtà rispetto a questo 100 non ho incassato alcunché e l’ho realizzato in quanto si sono integrati i requisiti della competenza.

Questa vicenda della cessione è raffigurabile come l’esistenza di un credito di 100 che è stato mandato a tassazione attraverso la tassazione di quel 100 e ho crediti verso clienti per 100.

Cosa accade se nel corso del 2013 allorché era previsto il pagamento e quando doveva monetizzarsi quel credito in realtà il pagamento non interviene? Cosa succede se nel 2013 il cliente non paga? È una vicenda molto frequente in questo momento storico, la tensione originata dalla regole della competenza determina una situazione di crisi finanziaria, non economica, perché il soggetto è costretto a pagare imposte su soldi che non ha incassato e che deve ricavare da altre risorse, quelle finanziarie, perché il meccanismo di competenza funziona così.

Cosa succede se non paga?

Le situazioni per cui il soggetto non paga sono le più diverse: perché ha un’indisponibilità temporanea,o un’ insolvenza, incapacità di assolvere ai suoi debiti, contestazioni sul prezzo.

Il legislatore consente di valorizzare la perdita su crediti, quindi, di dedurre la perdita solo a condizioni molto rigide. Quindi ho dichiarato 100, il mio cliente non paga; in realtà ho dichiarato 100 e incasso 0; dovrei operare una sopravvenienza passiva di meno 100 che è pari alla perdita su credito. Ma questo passaggio, cioè il passaggio per cui prima dichiaro 100 e poi porto a deduzione del reddito meno 100 per stralciare il risultato precedentemente dichiarato con una sopravvenienza passiva è sottoposto a regole rigidissime: dimostri l’esistenza di elementi certi e precisi; cioè l’imprenditore dovrà fornire la prova di esistenza di elementi certi e precisi in forza dei quali si possa ritenere che il pagamento non interverrà; quindi la condizione essenziale si potrà realizzare solo in presenza di elementi certi e precisi.

Cosa intende l’amministrazione e la giurisprudenza per elementi certi e precisi che legittimano la deduzione della perdita su credito? Si intende, secondo l’opinione prevalente, che il contribuente deve aver effettuato tutto il possibile, deve aver posto in essere l’intero arsenale degli strumenti di tutela creditoria per ottenere l’incasso.

Cosa vuol dire? Significa che il contribuente che non ha ricevuto il pagamento deve agire giudizialmente per ottenere il pagamento utilizzando gli strumenti a disposizione e questi sono esauriti o non efficaci, se ho un cliente che non mi paga gli devo fare il decreto ingiuntivo, ma se questo viene opposto non basta l’opposizione occorre che vada avanti con la causa fino a quando non sarà certo che quel credito venga incassato. Se devo portare ad esecuzione il credito prima di

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poterlo stralciare, la situazione può diventare anti-economica per l’imprenditore e determinare crisi finanziarie; finisco per subire i tempi necessari per la tutela giudiziale. Questa è un’idea che trova il più ampio riconoscimento anche in giurisprudenza. Allora non basterebbe a legittimare la deduzione della perdita l’eventuale risposta del cliente che dica “non ti pago perché non ho la disposizione finanziaria”; quali che siano le ragioni io non posso stralciare la perdita, ma devo tenerla esposta in bilancio fino a quando non ho la certezza.

9.3.2.1 Credito prescritto

Potreste stralciare un credito prescritto? Se mi sono accorto che il mio credito di 100 esposto in dichiarazione l’ho lasciato lì per alcuni anni, cosa succede?

La prescrizione è sufficiente a determinare lo stralcio del diritto? Basta applicare un calcolo numerico alla data in cui il credito è sorto per capire se è prescritto o no; ma in realtà non è così perché la prescrizione non è rilevabile d’ufficio e non fa venir meno di per sé l’esistenza dell’obbligazione naturale (cioè l’adempimento de debito prescritto) e il debitore potrebbe anche adempiere il credito prescritto e il legislatore richiede un ulteriore elemento di prova, occorre almeno verificare, all’esito di un’apposita azione giudiziaria, che il debitore ha opposto la prescrizione perché se il debitore l’ha opposta possiamo pensare che sussistano elementi certi e precisi ma occorre essersi attivati con un’azione che implichi la spendita degli strumenti di tutela del credito. Se interviene una procedura concorsuale per comprovata insolvenza, al momento della dichiarazione di fallimento è possibile stralciare la perdita sul credito; si tratta di una scelta che integra gli elementi certi e precisi indicati dalla norma per lo stralcio; quindi lo stralcio è riconosciuto direttamente, ma al di fuori della procedura abbiamo capito come spingere l’attività di tutela del proprio credito.

9.3.2.2 Crediti vantati nei confronti di PA

Domanda: crediti vantati nei confronti della PA. Sono tutti dichiarati e non stralciati. Per esempio nell’ambito IVA mutano le regole di effettuazione dell’operazione IVA, l’iva non è dovuta fino a quando non interviene il pagamento. Nell’ambito delle imposte dirette se ho ceduto beni a PA, se l’amministrazione non paga non hai né lo stralcio né una contromisura fiscale per abbattere quell’importo. È un problema serio quello del cronico ritardo della PA, riguarda le imposte dirette e non c’è un meccanismo dilatorio concesso dal contribuente. Occorrerebbe operare con norme che sanzionano comportamenti di inerzia.

La grande istituzione organizzata ha una notevolissima forza contrattuale nei confronti dei fornitori; i fornitori sono imprese che hanno a che fare con la distribuzione organizzata; c’è uno squilibrio mostruoso in termini contrattuali: è la grande distribuzione che decide le regole di pagamento; la grande distribuzione è caratterizzata da un’estrema sussistenza di liquidità e, nonostante questo, c’è uno stallo di pagamenti, ma dovrebbero esistere delle contromisure normative. Intanto hai pagato le imposte e poi non si capisce se il credito sarà incassato, quando sarà incassato. C’è un modo, a parere di prof. Trivellin per risolvere il problema; al di là dell’approccio tecnico de iure condendo, il problema è sul modo di intendere gli elementi certi e precisi; ma nessuno dice che “elementi certi e precisi” deve essere interpretato con il rigore con cui l’amministrazione finanziaria vuole interpretarlo. Si potrebbe proporre un’interpretazione più flessibile deducendo certi componenti. Il problema è che se la disciplina si irrigidisce sulle condizioni di quel credito poi non lo deduci mai.

Pensiamo all’impresa che ha piccoli crediti in sofferenza (noi abbiamo imprese piccole e medie nel tessuto economico qui in Veneto) esiste una estrema parcellizzazione del credito.

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Per es. imprese orafe del settore vicentino. Hanno a che fare con clienti che sono piccoli clienti, per es. il piccolo dettagliante, piccole gioiellerie, sono piccoli operatrici che hanno volumi di acquisti non particolarmente rilevanti e il fatturato delle imprese è dato dall’insieme. Quando cominci ad avere 50 clienti che non ti pagano perché in Italia si è inchiodato il mercato di riferimento (mentre le imprese che producono beni di lusso guadagnano, nei settori del lusso locali il mercato è morto e la stessa cosa è successa al nostro mercato interno).

Per stralciare il credito dovresti agire giudizialmente nei confronti di ciascuno dei soggetti. Ma allora gli inadempimenti diventerebbero un costo per l’imprenditore che si troverebbe a dover sostenere i costi delle cause nei confronti dei suoi debitori. A parte il problema de costi di difesa, in un caso del genere ottenere l’ adempimento è totalmente antieconomico; immaginate l’effetto in termini di tempi! E quindi molte imprese preferiscono dire “ho pagato le imposte? Amen! rinuncio ai crediti”.

Questa è una violazione subdola dell’art. 53 cost.; se la violazione derivasse da una norma, fosse la farei valere davanti alla corte costituzionale; ma qui non c’è illegittimità della norma, il problema è che la deducibilità è nei FATTI impossibile, è una violazione non giuridica, ma indiretta e fattuale e in quanto tale è pericolosa.

9.3.2.3 La cessione su crediti (factoring)

Quindi il problema è quello della nozione di elementi certi e precisi; il valore di un credito si può perdere perché il cliente non paga o perché si fanno delle operazioni negoziali sul credito: per esempio cessione su crediti (factoring).

Un credito può essere oggetto di cessione come un altro bene, potrei anche cederlo a terzi secondo regole civilistiche, può essere cessione pro solvendo o pro soluto a seconda che garantisca o meno l’adempimento. Posso trattare il credito come qualsiasi altro bene e quindi cederlo.

Il factoring, la cessione, è uno degli strumenti tecnici con cui si procede a risolvere il problema dell’esistenza di crediti parcellizzati perché l’imprenditore allora dice che “siccome ho crediti per 1 milione ma ho centinaia di crediti di piccoli importo, li cedo tutti per 200.000 € perché se li tengo lì non incasso, almeno se li cedo li incasso, sarà poi la società di factoring che incasserà i singoli crediti. Le società di factoring nascono proprio per questo. Nell’ipotesi in cui io disponga la cessione di credito, siccome il contratto di cessione è impegnativo per entrambe le parti, se il credito viene ceduto ad un valore inferiore al valore nominale, la differenza tra valore nominale e corrispettivo per la cessione del credito, siccome c’è un contratto dovrei poter stralciare la differenza.

Siccome ho fatto un’operazione di cessione di credito di 100 e lo cedo per 80 dovrei avere una sopravvenienza passiva di 20.

Quando opero con atti di trasferimento del credito, il trasferimento è l’elemento certo e preciso che legittima la sopravvenienza passiva. Però la tesi assurda della Cassazione, è quella per cui ritiene che anche nei casi in cui il trasferimento del credito avvenga sulla base di un contratto, è necessario che il contribuente dimostri gli elementi certi e precisi. Bisognerebbe che il contribuente dimostrasse gli elementi certi e precisi.

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10 Elusione fiscale

(23/5/2012) Chiudiamo con le plusvalenze sulle immobilizzazioni finanziarie. Parliamo di un caso in cui è il contribuente che sfrutta il doppio regime circolatorio. Parliamo di un operazione qualificata come elusiva.

10.1 Il dividend washing

Operazione elusiva che sfrutta il doppio regime circolatorio.

Consideriamo una società che non svolge delle attività specifiche in materia finanziaria, produce attrezzature sportive (A). Stimolata da alcuni consulenti pone in essere una operazione di finanza straordinaria con obiettivi diretti a 'utilizzare' il doppio regime circolatorio. La società si rivolge ad un istituto di credito chiedendo un finanziamento pari a 40 milioni di euro, ha un capitale di debito. Con questo finanziamento fa un investimento in borsa. Compra azioni di un altro istituto di credito, istituto che di li a pochi giorni avrebbe deliberato utili agli azionisti. In portafoglio ha titoli che valgono per un controvalore di 40 milioni. Dove iscrivo i titoli? Considero l'investimento di tipo speculativo, gli iscrivo tra l'attivo circolante, con la scelta di iscrizione nelle mie scritture, qualifico questo acquisto non come un investimento duraturo ma speculativo, per cui il regime è questo: se ci guadagno pago le imposte, se perdo mi deduco la perdita. Sono titoli gravi di dividendi. L'istituto distribuisce, per il controvalore di 40 milioni, i dividendi ad A per un 1 milione di euro. Il regime fiscale dei dividendi è simmetrico a quello della pex, il fine è quello di evitare doppie imposizioni societarie. Quando i dividendi sono erogati ad una società commerciale, come le plusvalenze, sono esenti al 95%. La società retrocede i titoli, in coerenza alla qualificazione dell'operazione come speculativa. I titoli valevano 40 milioni € perché dentro c’erano i dividendi, adesso ho spogliato i titoli dei dividendi quindi valgono meno perché il milione è stato distribuito. Il patrimonio si è ridotto di un milione. Rivendo i titoli ma a 39 milioni e 50 mila (39.050.000 €). L' operazione avviene nel giro di pochi giorni. I 50 mila dipendono da un effetto di borsa. (Quando ottieni la distribuzione dei dividendi si ha un rimbalzo per cui dopo lo stacco delle cedole il titolo vale un po’ di più rispetto all'impoverimento in misura pari). Quindi nell'esempio si ha una minusvalenza pari a 950.000 €. La minusvalenza è pienamente deducibile perché è attivo circolante (applicazione del doppio regime circolatorio).

La società ha ottenuto 1 milione di dividendi. Rivendendo ha incassato 39.050.000 €. Il flusso è di 40 milioni e 50 mila. La società estingue il mutuo e le rimangono 50 mila €. (Gli interessi incidono poco perché l'operazione è stata veloce). Ok, immaginiamo che contando gli interessi il guadagno è di 30 mila €. L' operazione ha avuto una sua circolarità. Dal punto di vista economico la società non ha avuto alcuna conseguenza se non addirittura un guadagno di 30 mila €. Guadagno senza rischi. Questo è il risultato finanziario. Ma fiscalmente? Da una parte ho dividendi esenti al 95% (pago l’imposta solo su 50 mila, il 5% di 1milione) ma poi mi deduco dal reddito 950.000€. Per effetto di un operazione che non ha portato ad alcuna conseguenza economica. Questo è un effetto del doppio regime circolatorio. Il grosso del vantaggio fiscale sta tutto nella deducibilità della minusvalenza. I 30 mila sono mandati a tassazione effettivamente con il 5% dei dividendi però sono piccoli importi, il reddito dell’anno è abbattuto dai 950 mila €. L’operazione ha una sua chiarissima funzione. Non quella di conseguire vantaggi economici, ha un utilità di tipo fiscale. E’ volta ad ottenere risparmi d’imposta. Per fare questa operazione però bisogna avere solidità patrimoniale, credibilità finanziaria. Dal punto di vista tecnico questa operazione è definita di dividend washing.

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L’amministrazione finanziaria dice che questa operazione è priva di valide ragioni economiche. Strumentalizza in maniera distorta e con finalità di risparmio fiscale le regole di circolazione dei dividendi e dei capital gains, è dunque un operazione che non può avere riconoscimento dal punto di vista economico, quindi non è opponibile all’amministrazione finanziaria, la possiamo qualificare come elusiva.

Cos’è l’elusione? Qualsiasi comportamento che nel rispetto formale delle regole, costituisce un aggiramento della ratio delle disposizioni fiscali. Aggiramento posto in essere con un fine che è quello di ottenere risparmi fiscali senza alcuna utilità economica.

Nell’operazione in esame i dati normativi sono rispettati però questo guadagno non possiamo considerarlo un vantaggio significativo, dunque si tratta di un operazione che economicamente non porta a nulla se non vantaggi fiscali.

La definizione di elusione la troviamo formalizzata all’art. 37-bis D. 600/1973.

37-bis. Disposizioni antielusive.

1. Sono inopponibili all'amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche

collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti

previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti

indebiti.

Il comma 2 dice che si può contestare l’elusione solo quando nella concatenazione negoziale ci siano determinate operazioni indicate al comma 3. Sono comprese le operazioni da chiunque effettuate comprese le classificazioni di bilancio. Sono indicate anche le operazione su titoli. Quella che abbiamo visto è una operazione che rientra nel 37-bis. Qual è l’effetto di questa operazione? Gli effetti fiscali sono inopponibili, quindi l'amministrazione finanziaria disconosce la deduzione della minusvalenza.

Nel progetto di delega al governo Monti in buona sostanza spariscono le ipotesi casistiche, viene ampliato l'ipotesi dell’art. citato. Addirittura viene riqualificata l'ipotesi, che viene considerata non elusione ma abuso di diritto.

Come avvocati dovremmo dire che l'operazione non è elusiva. L'impresa non è semplice perché queste operazioni di dividend washing sono già state oggetto di pronunce della Cassazione, la quale le ha tutte cassate. In un obiter dictum sull’abuso del diritto la Cassazione utilizza come esempio di operazione classicamente elusiva proprio il dividend washing. Dal 2005 in poi queste operazioni sono state massacrate da AF. Di fronte a queste operazioni cosa si può dire? Dal versante di A non ci si può difendere perché c’è stato un vantaggio fiscale. La disciplina prevede un doppio regime circolatorio la cui ratio è evitare doppie imposizioni. Bisogna spostare l’attenzione su chi ha venduto i titoli ad A. Immaginiamo che A abbia acquistato da B i 40 milioni di titoli che aveva nell’attivo circolante. B gli ha acquistati a 20 milioni quindi dalla vendita ad A realizza una plusvalenza che sarebbe tassata. Nello step successivo si verifica quello che abbiamo visto. Però questa operazione dal punto di vista generale per lo stato, se la guardiamo considerando anche la posizione di B, ha portato ad un guadagno. La plusvalenza tassabile è di 20 milioni a cui faceva da contrappunto una minusvalenza di 950 mila. Come fate a dire che c’è un effetto di risparmio fiscale reale dall’ operazione se non si considera l' effetto fiscale sul venditore dei titoli? Perché anche questo effetto sul venditore, al saldo, ci fa capire se c’è stato un vantaggio o meno per l'erario. Se AF si concentra solo su A e non su B ha una visione parziale e si avvantaggia di ulteriori imposte.

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11Trust

(27/3/2012)

11.1 Inquadramento civilistico

Si può definire come un complesso di rapporti giuridici mediante il quale un soggetto, disponente, trasferisce ad altro soggetto, trustee, un complesso di beni affinché quest’ ultimo li gestisca con determinati obiettivi, per determinati fini. Lo scopo può essere il più vario e risponde ad un interesse soggettivo del disponente. Tra i vari scopi, anche quello di amministrare una massa patrimoniale per trasferirla poi a dei beneficiari, finali dei beni conferiti in trust o beneficiari del reddito prodotto dal trust nella gestione dello stesso.

Il nostro ordinamento non prevede e non disciplina il trust. Nasce nei paesi di common law come affidamento fiduciario dei beni. Entra in Italia nel 1989 con la rattifica della convenzione dell’ Aja del 1985 che disciplina il trust. Una disciplina indiretta la troviamo all' art. 2645-ter del codice civile.

Disciplina la trascrizione degli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, pubbliche amministrazioni, altri enti o persone fisiche. Introdotto nel 2005 per rendere opponibili ai terzi vincoli di destinazione che perseguano interessi meritevoli di tutela e che riguardino beni immobili o mobili registrati per una durata massima di 99 anni o pari alla vita del beneficiario. Quindi questa disciplina dei vincoli di destinazione indirettamente possa far rientrare il trust nel nostro ordinamento, ma la vera disciplina è nella convenzione dell' Aja del 1985 che disciplina il riconoscimento in Italia di trust esteri. Infatti possono essere istituiti e devono essere riconosciuti in ciascun paese anche se presentano elementi di estraneità rispetto all' ordinamento. Per l’ Italia l' elemento di estraneità è sempre la legge regolatrice. Nell' ambito europeo vari stati hanno emanato leggi regolatrici. La più utilizzata è quella di Jersey (poi c’ è la legge di Malta e di San Marino per esempio). In Inghilterra dove è nato il trust non esiste una legge regolatrice.

La convenzione dell' Aja impone il riconoscimento dei trust stranieri. Pone anche limiti al riconoscimento e all' istituzione degli stessi.

Innanzi tutto deve essere regolato dalla legge di un paese che lo riconosce. In secondo luogo il riconoscimento può essere evitato sulla base di quei limiti che si basano sul diritto internazionale: norme di applicazione necessaria e ordine pubblico. Nel caso in cui la legge prescelta preveda effetti contrari all' ordine pubblico o si applica un altra legge o il trust non può essere riconosciuto. Il disponente che costituisce il trust può scegliere varie leggi regolatrici per i diversi aspetti.

Il trust è questo strumento molto flessibile con il quale il disponente può spogliarsi di beni o denaro e affidarli ad un altro soggetto attraverso un affidamento che si basa sulla fiducia e destinando questi beni ad un determinato scopo o a determinati soggetti. Infatti sarebbe più coretto parlare di trusts. Possono essere perseguiti vari tipi di interesse. Trust istituiti per far fronte alla successione di un soggetto; istituiti per far fronte ai bisogni di una persona debole, invece di nominare un amministratore di sostegno; nell' ambito commerciale, trust istituiti per far fronte alla situazione di crisi dell' impresa. Invece di procedere con le procedure concorsuali l' imprenditore può affidare ad un trustee l' azienda per tentare il risanamento o procedere al pagamento dei creditori e alla liquidazione dell’ impresa nel modo più ordinato.

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11.1.1 Soggetti, durata e atti.

Sono: il disponente, il trustee, i beneficiari (del redito o beneficiari finali del trust) e un guardiano che ha il compito di vigilare sull' attività del trustee, consigliarli, revocarli la nomina a trustee. Il trustee può essere sia una persona fisica ma anche una persona giuridica, vedi le trust company. L’ importante è scegliere persone di cui il disponente possa fidarsi proprio perché attraverso il trust il disponente si spoglia dei suoi beni, ne perde la proprietà affidandola al trustee. Quest' ultimo non assume in proprio la proprietà dei beni, ma in qualità di trustee, qualità che dovrà essere annotata nei registri immobiliari.

Questa annotazione permette l' effetto segregativo dei trust. Permette di evitare che i beni possano essere aggrediti dai creditori del disponente e del trustee e che i beni possano finire nel patrimonio del trustee in caso di morte dello stesso. Separazione del patrimonio tanto dall' originario titolare quanto dal successivo titolare. I beni in trust possono essere aggrediti solo ed esclusivamente dai creditori del trust.

E' importante scegliere persone di fiducia o società che svolgono professionalmente quest' attività ma importante è anche prevedere dei sostituti del trustee, perché se viene meno (morte, rinuncia, revoca) ci si troverebbe in una posizione di immobilità con difficile possibilità di nomina di un nuovo trustee.

La disciplina dei vincoli di destinazione prevede la durata di 90 anni o pari alla vita della persona fisica beneficiario. Il trust non prevede vincoli sulla durata, di solito è parametrata alla natura degli scopi che si intendono perseguire. In ogni caso la durata è libera.

Nella costituzione del trust troviamo un atto istitutivo vero e proprio, con il quale il disponente regola la segregazione dei beni, poi troviamo gli atti dispositivi con cui vengono assegnati dei beni al trust. Anche se in un unico documento, sono due atti distinti e questo avrà riflessi in ambito di tassazione. Il patrimonio può essere incrementato periodicamente o comunque con atti successivi. Il tutto nell' ambito del regolamento previsto con l' atto costitutivo e nell’ ottica del perseguimento dello scopo voluto.

La convenzione dell' Aja prevede che il trust debba essere costituito con atto scritto, ma non è necessario l' atto pubblico o la scrittura privata autenticata salvo che lo richieda la legge italiana per il conferimento di taluni beni. Ma in se l' atto istitutivo potrebbe non prevedere alcuna assegnazione di beni, potrebbe non richiedere alcuna forma.

11.2 La tassazione del trust

Nel 2006 è stata reintrodotta l' imposta sulle successioni e donazioni, allargando l' ambito applicativo prevedendo l' applicazione della stessa alle donazioni, successioni per causa di morte e agli atti a titolo gratuito e vincoli di destinazione. Non c' è dubbio che i vincoli di destinazione rientrino in questa tassazione ma la menzione degli atti a titolo gratuito pone altri problemi.

Infatti la ratio, il fondamento di questa imposta su donazioni e successioni, vediamo che intende colpire un arricchimento del soggetto. Quindi alla base di questa tassazione sembra esserci sempre uno spirito di liberalità. Quest' imposta nell' ambito della riforma, che ne ha visto la reintroduzione e l’ allargamento, è applicata con aliquote diverse a seconda dei soggetti tra cui interviene la successione o donazione. Sono previste tre aliquote: la prima del 4% viene applicata tra soggetti parenti in linea retta o tra coniugi; quella del 6% tra parenti in linea collaterale; 8% quando non c' è alcun vincolo di parentela tra i soggetti. Con la finanziaria del 2007 sono state previste delle franchigie, cioè valori al di sotto dei quali non si applica l' imposta. Nell’ ambito dei rapporti di parentela o coniugali la franchigia è di 1 milione di euro, da calcolarsi pro capite contando anche tutte le somme e i beni trasferiti a titolo successorio o donativo tra gli stessi

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soggetti. Quando vengono in rilievo rapporti tra fratelli la franchigia scende a 100 mila euro. Sale ad un milione e mezzo se i soggetti sono portatori di endicap.

11.2.1 Il momento della tassazione.

Se queste aliquote devono essere applicate in ragione del soggetto beneficiario, nell’ ambito del trust dovremmo applicare l’ imposta in ragione del beneficiario però si pongono dei problemi perché l' amministrazione ritiene che l' imposta debba essere applicata al momento del trasferimento iniziale dal disponente al trustee. Questo perché l' amministrazione vede il trust in un ottica unitaria. Siccome tutti gli atti ricompresi nell’ istituto rispondono alla medesima causa, quella segregativa e finalizzata ad un determinato scopo, l’ amministrazione richiede subito l’ imposta. In un primo tempo l' amministrazione riteneva anche che si doveva applicare guardando i rapporti tra disponente e trustee. In un secondo momento l' amministrazione si è resa conto dell' errore e ha previsto l' applicazione dell' imposta al momento iniziale ma guardano i soggetti beneficiari finali. E' un istituto flessibile potrebbe essere che vengano affidati al trustee poteri ampiamente discrezionali, tanto nella scelta di beneficiari finali, quanto nella scelta dei soggetti beneficiari, potremmo anche non conoscerli. Per l' amministrazione l' imposta andrebbe comunque applicata con l'aliquota massima così come nel trust di scopo. La giurisprudenza di merito, e in un paio di casi anche la cassazione, hanno cercato di bocciare questo orientamento imponendo un’ analisi casistica dei trust. Quindi se al momento dell' istituzione i beneficiari sono individuati si può applicare immediatamente l' imposta proporzionale sulle successioni e donazioni, ed eventualmente scontando anche le franchigie previste. Laddove non siano individuati i beneficiari l' imposta non potrà essere applicata istantaneamente. Allora si pongono diverse soluzioni.

Vi è chi ha pensato all’ applicazione istantanea dell’ imposta con aliquota massima e senza franchigie ma con possibilità successiva di rimborso al momento in cui i beneficiari successivamente individuati otterranno materialmente il bene.

Una seconda, e preferibile soluzione, è quella di tassare inizialmente il trust in misura fissa (tassa di registro di 168 euro) per poi applicare l' imposta proporzionale al momento in cui i beni saranno effettivamente devoluti ai beneficiari. Questa soluzione si trova una conferma positiva all' art. 27 del T.U. sull’ imposta di registro, con la possibilità di scontare su questa seconda imposta quanto già versato.

Possiamo pensare ad un trust in cui non siano determinati i beneficiari e poi il beneficiario finale risulti essere il nipote del disponente, applicandosi aliquota minima e franchigia di un milione può darsi che il debito di imposta sia pari a zero. Avendo già versato i 168 euro iniziali, sarebbe possibile chiedere il rimborso di 168 euro.

11.2.2 L’ effettiva presenza dell’ intento liberale.

Un altro problema posto dal trust in relazione all’ imposta su donazioni e sucessoni è quello di vedere se effettivamente c' è un intento liberale sotteso al trust stesso. Il trust potrebbe essere costituito per conseguire finalità commerciali o solutorie, in questo caso non vi è alcun intento liberale e il trust più che atto dispositivo unilaterale viene ad assumere natura contrattuale. Quindi non dovrebbe applicarsi alcuna imposta su donazioni e successioni. Ovviamente l’ amministrazione aveva ritenuto il contrario, per fortuna alcune commissioni tributarie hanno ritenuto inammissibile l' applicazione dell' imposta nel caso dei trust commerciali. Dovrà applicarsi l' imposta fissa di registro sull’ atto pubblico, nel caso ci sia un atto pubblico. Poi si potrà applicarsi un’ altra imposta diretta, come l’ iva nel caso delle liquidazioni aziendali.

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11.2.3 Il soggetto passivo.

Potremmo chiederci chi è nell' ambito dell' imposizione del trust il soggetto passivo. Il trust stesso, nella persona del trustee. Perciò il trustee dovrebbe farsi dare la provvista dal disponente per far fronte ai debiti di imposta. A questo punto dovremmo verificare chi effettivamente è il soggetto inciso dall’ imposta. Se l' imposta sulle successioni colpisce l' arricchimento di un determinato soggetto, allora quello inciso dovrebbe essere il beneficiario, e il trustee allora dovrebbe chiedere la provvista al beneficiario, non al disponente. Ma allora il beneficiario che non ha alcuna disponibilità dei beni ma solo un aspettativa, sarebbe tassato su una capacità contributiva non attuale. Per questo parte della dottrina riteneva inapplicabile la strada scelta dall’ amministrazione di applicare l’ imposta al momento iniziale di vita del trust.

L' amministrazione, a parte due vecchie circolari, non si è più espressa sull’ applicazione dell’ imposizione indiretta ai trust e ai vincoli fiduciari. Vi è invece stata una circolare più recente, 2011, in materia di imposizione diretta.

11.2.4 Imposizione diretta dei trust.

Nell' ambito della gestione dei beni conferiti in trust possono venire in rilievo attività produttrici di reddito. Attività commerciali o occasionali che generano reddito, come il possesso dei beni da parte del trustee (redditi da fabbricati, derivanti da partecipazioni azionarie, dal deposito di denaro). Nell’ ambito del TUIR troviamo menzione dei trust tra i soggetti passivi dell’ imposta. L' art. 73 menziona tra i soggetti passivi dell' imposta sul reddito delle società i trust, sia commerciali residenti, sia non commerciali residenti, sia qualsiasi tipo di trust non residente, che ovviamente produca reddito in Italia. Di volta in volta i trust sono assimilati agli enti pubblici e privati diversi dalle che hanno per oggetto esclusivo o principale l’ esercizio di attività commerciali o che non hanno ad oggetto attività commerciali; ovvero sono assimilati a società o enti di ogni tipo non residenti nel territorio dello stato.

Per la prima volta nell' ambito del nostro ordinamento tributario troviamo un esplicito riferimento al trust. Il 2 comma art. 73 prevede che nel caso in cui il trust abbia beneficiari individuati l' imposta sia applicata direttamente ai beneficiari. Sulla base di questa disposizione l' amministrazione ha individuato trust opachi, dove non è possibile individuare con certezza dei beneficiari. La tassazione avviene in capo al trust. Trust trasparenti dove sono ben individuati i beneficiari e si passa ad una tassazione diretta dei beneficiari stessi, saltando lo schermo del trust. Per beneficiari individuati dobbiamo riferirci ai beneficiari di reddito individuati, per cui deve essere possibile ricondurre una quota di reddito direttamente al beneficiario. In questa fase stiamo parlando di beneficiari del reddito, non dei beneficiari finali (altrimenti viene in rilievo l’ imposizione indiretta).

Nel caso di trust trasparenti la determinazione del reddito imponibile avviene con una struttura bifasica. Inizialmente il reddito deve essere determinato in capo al trust secondo i criteri di determinazione propri della categoria reddituale nella quale si inserisce l’ attività svolta dal trust, e una volta determinato il reddito complessivo lo stesso dovrà essere imputato pro quota ai beneficiari. In questo passaggio interviene l' art. 44 TUIR in base al quale sono redditi di capitale i redditi imputati al beneficiario di trust ai sensi di art. 73 comma 2 anche se non residenti.

Quindi in caso di trust opaco sono redditi di capitali quelli imputati al beneficiario del trust, in caso di trust opaco abbiamo una tassazione con IRPEG o meglio IRES. In caso di trust traspartenti, la determinazione del reddito avverrà con i criteri propri dell’ IRES, ma poi la tassazione avverrà direttamente in capo al beneficiario come redditi di capitale, perché abbiamo questa assimilazione espressa dall’ art. 44.

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Recentemente l' amministrazione è intervenuta con circolare 61/2010 limitandosi a porre chiarimenti sul piano dell' imposizione diretta. L' amministrazione in questo caso ha ripreso quelli che erano gli orientamenti già espressi nell’ ambito delle altre circolari, ma cercando di chiarire questi orientamenti ha posto più problemi. Se in un primo momento aveva detto che per beneficiari individuati doveva intendersi beneficiari di reddito individuato, adesso ha detto che laddove un beneficiario sia comunque individuato il trust deve considerarsi trasparente. Ciò pone un problema di imputazione, se abbiamo visto che nel trust trasparente i redditi sono tassati direttamente in capo al beneficiario , deve esserci un rapporto diretto e certo tra il beneficiario e il reddito. Se però abbiamo il beneficiario individuato ma non è individuata la quota di reddito, si pone il rischio di tassarlo sulla base di una capacità contributiva non sua. Se poi il regolamento istitutivo del trust prevedesse i soggetti beneficiari del reddito ma lasciasse al trustee la possibilità di scegliere se e quanto attribuire a ciascun beneficiario individuato non è possibile procedere annualmente a imputazione diretta per trasparenza dei redditi e a tassazione in capo ai beneficiari. Perché se anche tutti i redditi e beni finali dovessero essere divisi tra i beneficiari individuati, un beneficiario, seppur destinato a ottenere prima o poi dei redditi, sarebbe tassato su una capacità contributiva futura ponendo anche dei problemi di liquidità in capo allo stesso.

In secondo luogo questa circolare è intervenuta anche sul tema dell' interposizione. Affermando che in tutti i casi in cui il disponente figuri nell’ ambito del regolamento anche come beneficiario, il trust deve configurarsi come interposto, quindi inesistente, e tutti i redditi saranno tassati in capo al disponente. Questo chiarimento potrebbe anche essere corretto, solo a condizione che il disponente figuri come unico ed esclusivo beneficiario. Non è corretto escludere in ogni caso la possibilità che il disponente figuri anche come beneficiario, perché l' estrema flessibilità del trust permette di gestire situazioni in cui si il disponente risulta essere beneficiario, ma nel quale l’ obiettivo principale non è quello di fungere da schermo per limitare la tassazione dei redditi ma perseguire un interesse meritevole di tutela (quale quello della gestione e programmazione della propria successione). Secondo le parole dell' amministrazione se il trust fosse costituito a tutela di un soggetto debole, al ritorno dei beni al disponente avremmo un trust trasparente. Anche in questa ipotesi il beneficiario sarebbe beneficiario dei beni e non dei redditi, avremmo tassazione sulla base di una capacità non propria perché il disponente si priva di beni e non ha il possesso dei redditi prodotti da quella gestione. Per cui anche su questo punto la dottrina ha criticato la presa di posizione dell' amministrazione ritenendo migliore l’ originario orientamento che aveva scisso solo in due categorie i trust senza porre limitazioni al disponente di poter configurare come beneficiario..

Altro punto poco chiaro della circolare è quello dei trust esteri. Ovviamente un trust estero non residente sarà tassato in Italia, se è opaco, solo per le attività' che producono reddito in Italia. Secondo la circolare sembrerebbe che nel caso di trust esteri e residenti in paesi a fiscalità privilegiata, dovrebbero essere tassati due volte. In capo al trust e poi in capo al beneficiario. Per cui secondo quest' ultima circolare avremmo inizialmente una tassazione come trust opaco, e nel momento in cui fossero assegnati dei redditi a dei beneficiari avremmo un ulteriore tassazione ai sensi di art. 44. Questo però va contro alla normativa e all’ iniziale orientamento dell’ amministrazione. Infatti le due categorie di trust e le modalità di tassazione sono tassative ed esclusive. Nel trust opaco la tassazione avviene in capo al trust e le somme distribuite sarebbero esenti, nel caso di trust trasparente sarebbe inesistente quasi e la tassazione dovrebbe avvenire in capo ai beneficiari. Anche questo punto della circolare, dalla quale si potrebbe ricavare una doppia imposizione dei trust esteri, è stata ampiamente criticata. La dottrina ha commentato i risultati.

Quello che importa è l' approccio casistico, in quanto il trust è flessibile, può rispondere ad un ampissima categoria di interessi del disponente, può servire al perseguimento dei scopi più vari e può essere regolato in maniera differente.

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Lo stesso sul piano fiscale. Nell' imposizione diretta e indiretta ciò che importa è un approccio caso per caso. Se vi è uno spirito liberale, se vi sono beneficiari individuati che possono esprimere una capacità contributiva, oppure nell' ambito dell' imposizione diretta se vi sono beneficiari di reddito individuato, se l' eventuale previsione del disponente come beneficiario possa o meno giustificare la sanzione dell' inesistenza del trust e infine verificare l' eventuale profilo di doppia imposizione che dovessero risultare da imposizioni distorte della pubblica amministrazione.

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12 Il processo tributario

(28/5/2012) Il processo è un argomento importante.

Il processo tributario si caratterizza per una certa snellezza dal punto di vista della struttura e del procedimento. Ci sono momenti delicati nell’instaurazione del giudizio, al quale sono collegate le previsioni delle preclusioni delle decadenze, però la struttura del processo è esile, semplice.

È essenzialmente documentale, quindi è un processo in cui non trovano spazio mezzi di prova come la prova testimoniale; vi è un’unica udienza di trattazione a cui si affianca, se ve ne sono i presupposti, un’altra udienza cautelare. È un processo che si svolge su un’ udienza di trattazione e un’udienza cautelare, che però non è sempre presente.

La tempistica del processo tributario non può essere paragonata con quella del processo civile, perché tra il momento in cui si presenta il ricorso e il momento in cui si arriva alla sentenza, nel giro di un anno/ un anno e mezzo si chiude una fase. Si potrebbe arrivare al giudizio d’appello in tre anni; se pensate ai tempi biblici del processo civile o penale, sono tempi molto compressi,quindi non c’è un problema di tempi.

Adesso vi sono istituti come l’istituto della mediazione tributaria o del reclamo, che hanno funzione di deflazionare il contenzioso,che arriveranno ad un’ulteriore compressione dei tempi del giudizio, perché si ritiene che la cause aventi valore inferiore a 20000 € saranno risolte con il tramite della mediazione.

Quindi possiamo dire che il problema della giustizia tributaria non è un problema di lunghezza del rito. I problemi della giustizia tributaria sono quelli dell’effettività della tutela.

12.1 La struttura del processo

Il nostro processo si svolge davanti appositi organi di giustizia tributaria, le commissioni tributarie. Sono i giudici speciali che sono eccezionalmente sopravvissuti alla introduzione della carta costituzionale, perché erano preesistenti.

12.1.1 La struttura delle commissioni.

D.Lgs 545/1992, art.4; dobbiamo fare una riflessione sull’efficacia della giurisdizione e sull’indipendenza del giudice tributario.

Articolo 4 - I giudici delle commissioni tributarie provinciali.

1. I giudici delle commissioni tributarie provinciali sono nominati tra:

a) i magistrati ordinari, amministrativi o militari, in servizio o a riposo, e gli avvocati e

procuratori dello Stato, a riposo;

b) i dipendenti civili dello Stato, o di altre amministrazioni pubbliche in servizio o a riposo che hanno prestato

servizio per almeno dieci anni, di cui almeno due in una qualifica alla quale si accede con la laurea in

giurisprudenza o in economia e commercio o altra equipollente;

c) gli ufficiali della Guardia di finanza cessati dalla posizione di servizio permanente effettivo prestato per

almeno dieci anni;

d) coloro che sono iscritti negli albi dei ragionieri e dei periti commerciali ed hanno esercitato per almeno dieci

anni le rispettive professioni;

e) coloro che, in possesso del titolo di studio ed in qualità di ragionieri o periti commerciali,

hanno svolto per almeno dieci anni, alle dipendenze di terzi, attività nelle materie tributarie ed

amministrativo-contabili;

f) coloro che sono iscritti nel ruolo o nel registro dei revisori ufficiali dei conti o dei revisori

contabili, ed hanno svolto almeno cinque anni di attività;

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g) coloro che hanno conseguito l'abilitazione all'insegnamento in materie giuridiche,

economiche o tecnico-ragionieristiche ed esercitato per almeno cinque anni attività di

insegnamento;

h) gli appartenenti alle categorie indicate nell'articolo 5;

i) coloro che hanno conseguito da almeno due anni il diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e

commercio;

l) gli iscritti negli albi degli ingegneri, degli architetti, dei geometri, dei periti edili, dei periti

industriali, dei dottori in agraria, degli agronomi e dei periti agrari che hanno esercitato per

almeno dieci anni le rispettive professioni.

Qui sta il problema della giustizia tributaria, il problema che è segnalato dagli studiosi e dai commercialisti che difendono i contribuenti evidenziano come questa composizione sia fortemente inadeguata ad assicurare due requisiti essenziali del giudizio, cioè:

1. indipendenza

2. competenza tecnica del giudice, che è fondamentale.

Tra le due preoccupa meno la questione dell’indipendenza che quella della competenza tecnica perché l’indipendenza è questione di onestà intellettuale, ci si affida alla correttezza del giudice; quindi mi aspetto che un ufficiale della guardia di finanza che si è formato una forma mentis tipica di chi contrasta l’evasione, si ritiene che poi quando riveste la posizione di giudice si ritiene che riesca ad assumere terzietà.

Il vero problema è la competenza tecnica perché da una parte il diritto tributario procedimentale sia ascrivibili al diritto amministrativo e, quindi, gli strumenti della difesa sono caratterizzati da un profilo giuridico,(i vizi degli atti, il contraddittorio…). Per non parlare del merito: sottile è il confine tra comportamenti leciti ed illeciti. Per cui si richiede un altissimo livello di competenza tecnica; figuriamoci i giudici che a volte non hanno neppure la laurea in giurisprudenza!

12.1.1.1 Limiti e ratio

Si intrecciano due meccanismi gravi: presunzione e incompetenza; si arriva all’akmè; perché se l’umiltà si affianca alla competenza, allora si è disposti ad ascoltare, altrimenti c’è l’arbitrio e non c‘è il giudizio, allora c’è l’ordalìa: allora non c’è più giustizia. Questo è un problema che si leva dalla comunità dei difensori tributari, che sono rassegnati nei confronti di questa giurisdizione. Non c’è nemmeno un concorso dell’accesso, ma una selezione, che richiede dei requisiti. Poi le retribuzioni sono minime parchè vengono pagati a cottimo in relazione al numero delle sentenze emesse, per cui non puoi chiedere ad una persona uno sforzo sovraumano per chiedere la gestione di una causa tributaria. Ma non è possibile che non ci sia una giustizia non affissata a giudici tributari, quando il sistema del diritto tributario è centrale!

qual è la ratio di questa composizione? La ratio è duplice:

- ratio legata alla storia: in precedenza erano organi puramente amministrativi e non avevano natura giudicante;

- ratio per diversificare la composizione in relazione alle diverse competenze: la ratio è quella di inserire nell’ambito del giudizio delle competenze diversificate perché ci possono essere delle nozioni in ambito tributario, come i redditi agrari, dove ci sono delle valutazioni catastali per cui ci possono essere delle competenze più adatte negli agronomi, di quanto non sia un laureato in giurisprudenza..ma se esistono i periti a posta..!!

Per es. anche nel formulare il ricorso bisogna concentrarsi sul merito, perché altrimenti il rischio è che sia percepito una mancanza di argomenti sul merito; significa adattarsi ad una giurisdizione che non ti mette davanti un giurista!! E questo è un serio problema di giustizia, perché il principio

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di legalità, le regole sono un punto fondamentale del rapporto tra amministrazione e cittadino, ma se questi principi vengono svuotati allora si va verso l’abuso e l’arbitrio, non verso la giustizia.

12.1.2 I gradi del processo

Il processo si svolge in tre gradi:

1° grado: davanti le commissioni tributarie provinciali;

2° grado: davanti alle commissioni tributarie regionali che hanno circoscrizione corrispondente alla corte d’appello

3° grado (impropriamente tale, è un grado di legittimità) il giudizio davanti alla corte di cassazione.

12.1.3 I requisiti per accedere alla giurisdizione tributaria

Su due pilastri; e occorre che ci siano entrambi perché si possano adire le commissioni tributarie.

12.1.3.1 Materia tributaria

Primo criterio: la materia tributaria. E’ attribuita alla cognizione delle commissioni la materia tributaria; l’art 2 del D.Lgs 546/1992 dice che se sono attribuiti tutti i tributi di ogni genere e specie, quindi si attribuisce una cognizione piena al giudice. Il problema è capire se ci troviamo di fronte ad un tributo o no. Allora bisogna recuperare le cose che ci siano detti all’inizio del corso in relazione al tributo. Può emergere qualche dubbio in relazione a fattispecie, per es. tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, poi trasformata in tariffa ( ci sono però stati interventi della corte cost che però l’ha qualificato come tassa). In passato esisteva la competenza generale del giudice ordinario, slava la competenza di certe materie per il giudice tributario. Dal 2001 la giurisdizione è per materia.

12.1.3.2 Gli atti impugnabili

Secondo pilastro: gli atti impugnabili. Per adire le commissioni nell’ambito del tributo ci si deve trovare di fronte ad un atto impugnabile. Gli atti impugnabili sono elencati all’art 19 D.Lgs 546/1992:

Art. 19-Atti impugnabili e oggetto del ricorso.

Testo:

1. Il ricorso può essere proposto avverso:

a) l'avviso di accertamento del tributo;

b) l'avviso di liquidazione del tributo;

c) il provvedimento che irroga le sanzioni;

d) il ruolo e la cartella di pagamento;

e) l'avviso di mora;

f) gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell'art. 2, comma 3;

g) il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non

dovuti;

h) il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari;

i) ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l'autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie.

2. Gli atti espressi di cui al comma 1 devono contenere l'indicazione del termine entro il quale il ricorso deve

essere proposto e della commissione tributaria competente, nonché delle relative forme da osservare ai sensi

dell'art. 20.

3. Gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente. Ognuno degli atti autonomamente

impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri. La mancata notificazione di atti autonomamente

impugnabili, adottati precedentemente all'atto notificato, ne consente l'impugnazione unitamente a

quest'ultimo.

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Il problema è capire se l’elencazione degli atti sia tassativa o no. Occorre tener conto dell’evoluzione della giurisdizione tributaria, che si è evoluta rispetto al 2001; prima c’erano materie determinate, poi si è ampliato a tutti i tributi.

Finché si sta nell’ambito della materie determinate, gli atti sono questi elencati, perché corrispondevano agli atti procedimentali previsti nel procedimento dell’accertamento del tributo. Però poi adesso sono entrati atti diversi da quelli elencati, per. es la TARSU è un tributo, ma ti arriva a casa la fattura (e nell’elenco non c’è la fattura); i tributi doganali sono tributi, ma sono previsti atti non elencati in questa esemplificazione ( per es. la revisione di accertamento, che non è inserito nell’elenco).

L’elenco previsto dall’art. 19 non deve essere letto come assolutamente tassativo; lo dobbiamo intendere come un’elencazione da interpretare in chiave funzionale. Cioè dobbiamo guardare a qual è la caratteristica dell’atto, qual è la funzione dell’atto nel procedimento.

Per es. la funzione dell’avviso di accertamento è quella di determinare la pretesa tributaria; allora di fronte a tutti gli atti che magari non si chiamano avviso di accertamento, ma esprimono la medesima funzione, allora abbiamo l’impugnabilità.

Per es. la revisione dell’accertamento e la fattura sono atti che contengono la pretesa, che hanno la funzione di fissare la pretesa dell’amministrazione e per questo sono impugnabili, perché riconducibili alla funzione di un atto previsto.

Il comma 3 dell’art. 19 dice che ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere

impugnato solo per vizi propri. È una regola molto importante. Vuol dire che devi impugnare l’atto elencato nell’art 19 o quello che ha la medesima funzione solo per i vizi dell’atto, non per i vizi di atti diversi ed eventualmente successivi. Non puoi impugnare il titolo esecutivo facendo valere dei vizi dell’accertamento.

Per es. c’è un difetto di motivazione nell’avviso do accertamento; quando ricevete il ruolo, impugnate l’avviso di accertamento e lo impugnate facendo valere il ruolo: questo non si può fare. Ogni vizio deve essere fatto valere nei confronti dell’atto impugnato.

Si caratterizza per l’esigenza di sparare tutte le cartucce difensive fin dall’inizio del processo; i vizi li devi far valere impugnando l’atto, per tutti i vizi che si riferiscono a quell’atto.

12.1.3.3 L’impugnazione facoltativa

La Cassazione ha progressivamente ampliato le maglie della giurisdizione tributaria, introducendo un concetto che è estraneo alla struttura del processo tributario, che è la cosiddetta impugnazione facoltativa.

Cioè in sentenze aventi ad oggetto l’impugnazione dell’atto bonario, ha affermato che l’elencazione degli atti nell’ art 19 prevede atti che DEVONO essere impugnati: se non li impugni diventano definitivi; ma ciò non toglie che si possano individuare atti che POSSONO (non, devono) essere impugnati: impugnazione facoltativa. Sarebbero impugnabili mediante questo strumento tutti gli atti che pur non essendo previsto nell’elenco, integrano una lesione delle situazione giuridiche del contribuente, le quali pur non essendo lese di fronte ad atti dell’elenco, sono compromesse per effetto di altri atti del procedimento. Questo concetto amplia il novero degli atti impugnabili perché muta la ratio del 19: sarebbe quella di impugnare gli atti, pena la definitività; gli altri atti non previsti nell’elenco possono essere impugnati ma se non li impugno non é prevista la definitività.

È un istituto di creazione giurisprudenziale; dobbiamo tener per ferma che vi è la nozione di tributo da un lato e la definizione degli atti dall’altra, interpretando l’art. 19 in ottica funzionale.

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Per es. accesso in un’abitazione privo di autorizzazione del P.m: è lesivo di posizioni soggettive, ma l’autorizzazione all’accesso non è individuata dall’elenco dell’art. 19. Siccome esiste un principio di rilevanza costituzionale che permette l’effettività della tutela dei diritti e degli interessi legittimi, allora mi potrò rivolgere al giudice amministrativo o ordinario seconda la ripartizione della giurisdizione (diritti soggettivi�tribunale; interessi legittimi�giudici amministrativi).

Quindi essere fuori dalla giurisdizione tributaria, non significa essere privi di tutela.

Domanda: i clienti chiedono all’avvocato la chance di vittoria perché così sono in grado di fare la scelte più opportune. La chiave per prendere queste decisioni è: se vado in giudizio vinco o perdo? Dovete rappresentare al cliente il problema centrale della giurisdizione, perché il rischio di sconfitta è imprevedibile. I giudici della regionale hanno una responsabilità diversa, perché la questione è chiusa. Il problema è che quando fai questa valutazione strategiche devi rappresentare al cliente che in questo caso non si è in grado di dire dove sta la regione e dove sta il torto.

La questione di fatto è centrale e le vicende di fatto sono diverse e possono essere diverso oggetto di apprezzamento. Alla fine c’è un problema, che ti invitano di trovare soluzioni transattive per evitare di contrasti per il giudice. E forse, a voler essere maliziosi, questa è la vera ratio per cui le Commissioni sono composte così: il contribuente pur di non affrontare l’alea del giudizio paga quelle sanzioni (c’è una ratio di acquisizione del gettito).

L’imparzialità e l’autonomia del giudice hanno un riconoscimento costituzionale; ma la competenza è legata all’imparzialità perché se non sei competente, non sei nemmeno in grado di essere imparziale. Problema di rapporto tra giustizia-violazione dell’art. 53. Non è ancora stata sollevata la costituzionalità, ma la costituzionalità è fortemente in dubbio per cui sarà un problema con cui il legislatore dovrà confrontarsi.

Il professionista non è indipendente perché dà ragione il contribuente, allora li hanno tolti, in ragione dell’imparzialità…ma quelli avevano competenze! Ma perché nelle commissioni non mettono i laureati in giurisprudenza? Sarebbe una qualificazione delle commissioni; non ci sarebbe un incremento dei costi, sarebbe uno strumento utile anche per promuovere l’ingresso di chi è più giovane nell’amministrazione della giustizia.

Quanto più la lotta all’evasione diventa centrale, tanto più servono garanzie e un giudice effettivo; quando la lotta non è così proclamato va bene anche un giudice non togato, ma quando ti trovi in situazioni simili al processo di Kafka, tu pretendi un giudice vero. Mettetevi nei panni dell’imprenditore a cui hanno accertato 20 milioni di euro perché su 200 vendite hanno trovato un mutuo che non quadrava e gli hanno applicato una presunzione per cui se ha fatto un operazione in nero sull’acquisto di una casa, lo ha fatto su tutte le altre. Se uno non è un vero giudice e non sa cosa significa presunzione, ti rovina!

12.2 Il ricorso

L’atto introduttivo è il ricorso, regolato all’art. 18 D.Lgs 546/1992. è una disposizione che contiene in maniera esemplificativa le caratteristiche che devono essere presenti nell’atto di riscorso.

Art. 18-Il ricorso.

Testo:

1. Il processo è introdotto con ricorso alla commissione tributaria provinciale.

2. Il ricorso deve contenere l'indicazione:

a) della commissione tributaria cui è diretto;

b) del ricorrente e del suo legale rappresentante, della relativa residenza o sede legale o del

domicilio eventualmente eletto nel territorio dello Stato, nonché del codice fiscale;

c) dell'ufficio del Ministero delle finanze o dell'ente locale o del concessionario del servizio di

riscossione nei cui confronti il ricorso è proposto;

d) dell'atto impugnato e dell'oggetto della domanda;

e) dei motivi.

3. Il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del ricorrente e contenere l'indicazione

dell'incarico a norma dell'art. 12, comma 3, salvo che il ricorso non sia sottoscritto

personalmente, nel qual caso vale quanto disposto dall'art. 12, comma 5. La sottoscrizione

del difensore o della parte deve essere apposta tanto nell'originale quanto nelle copie del

ricorso destinate alle altre parti, fatto salvo quanto previsto dall'art. 14, comma 2.

4. Il ricorso è inammissibile se manca o è assolutamente incerta una delle indicazioni di cui

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al comma 2, ad eccezione di quella relativa al codice fiscale, o non è sottoscritta a norma

del comma precedente.

Il termine di impugnazione è di 60 gg, di fronte a ciascuno degli atti notificati ed impugnabili. Il ricorso controllato è avvicinabile al ricorso contro i provvedimenti amministrativi.

Il ricorso deve contenere:

- l‘indicazione della commissione tributaria cui è diretto (bisogna indicare la commissione competente per territorio; è facile da individuare, perché la competenza per territorio è legata all’ufficio che ha emanato l’atto).

- ricorrente e il suo legale rappresentante.

- residenza, sede, domicilio

- codice fiscale e indirizzo di posta elettronica certificata (elementi per identificare la parte attrice, ovvero la parte che impugna il ricorso, perché l’attore in senso sostanziale è l’amministrazione finanziaria)

- l’ufficio del ministero o l’ente locale o concessionario nei cui confronti è proposto il ricorso, che normalmente sarà l’ufficio che ha emanato l’atto

- atto impugnato e oggetto della domanda; l’atto impugnato sarà uno di quelli indicati nell’art. 19. l’oggetto della domanda: si tratterebbe di capire qual è la natura del processo tributario, cioè se è processo di annullamento dell’atto o di accertamento del rapporto. L’oggetto della domanda tenderà all’annullamento dell’atto e all’accertamento delle ragioni del contribuente.

- cuore del ricorso: motivi di ricorso; sono le ragioni di fatto e di diritto che si contrappongono a quelle che l’amministrazione ha esposto nell’accertamento, che costituiscono il fondamento della difesa. La motivazione dell’accertamento e i motivi costituiscono l’ambito della cognizione del giudice; la giurisdizione non può spingersi oltre questo limite. Se vi dimenticate un motivo, quello ve lo siete perso, per es. non avete formulato un vizio di motivazione, quel motivo è definitivamente certo, è uscito dal processo. È fatta salva la regola dell’integrazione dei motivi, che è una regola residuale.

- il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore, perché è richiesta una difesa tecnica, salve le cause di valore inferiore a 5000 € (avvocato, dottore commercialista, consulenti del lavoro, periti agrari nelle materie di loro competenza). C’è stata una sentenza di cassazione che condannava un consulente di lavoro al risarcimento danni perchè aveva difeso il contribuente in una materia che non riguardava la materia del lavoro. Qui ci sono anche problemi di deontologia professionale.

12.2.1 Requisiti per l’ammissibilità del ricorso

Il comma 4 dà le indicazioni di inammissibilità: il ricorso è inammissibile se manca, o è incerta una delle indicazioni di cui al comma 2; quindi arriverà una pronuncia di rito con cui si dice che il ricorso è inammissibile (salva indicazione del codice fiscale e indirizzo PEC). Allora l’atto diventa definitivo (forse resta l’autotutela e non puoi far valere i vizi dell’atto successivo perché esiste il limite che abbiamo visto prima.)

12.2.2 La notifica

Il primo passo è la notifica del ricorso; si notifica alla controparte cioè all’ufficio che ha emanato l’atto, non alla commissione. Questa emerge in un secondo momento.

Ci sono tre modalità di notifica:

1. notifica con l’ufficiale giudiziario secondo le regole di procedura civile;

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2. consegna diretta all’ufficio (effettuata presso l’ufficio ricezione atti, ci si fa rilasciare modello 8, che è una ricevuta?

3. lettera raccomandata (deve essere un piego aperto senza busta); mettono il timbro di spedizione sull’originale così non ci sono dubbi sul fatto che si è assolto all’obbligo di notifica nei 60 gg.

12.3 La costituzione del giudizio

Bisogna far sapere al giudice che si è presentato il ricorso: questa fase si chiama costituzione in

giudizio e segue alla notifica. Bisogna farla entro 30 giorni dalla notifica; entro 30 giorni dobbiamo costituirci, cioè far sapere al giudice. Avviene depositando davanti alla commissione il fascicolo di costituzione.

Cosa c’è dentro al fascicolo? La copia autentica del ricorso o l’originale (se si è notificata mediante ufficiale giudiziario), altrimenti si fa la copia autentica, cioè si firma il visto di conformità e quella copia vale come originale e si mettono i documenti che si vogliono produrre in caso (ma non è necessario, è possibile farlo anche 20 giorni prima).

La commissione attribuisce il ruolo della causa (RGR) e il ricorso è introdotto. Se non si rispetta il termine di 30 giorni, il ricorso è inammissibile, anche se è fatto correttamente notificato.

Quando si è adempiuto all’obbligo di notifica e di costituzione, i successivi adempimenti spettano al giudice, alla controparte, all’ufficio.

(29/5/2012) Abbiamo parlato del ricorso, delle modalità di presentazione, notifica e costituzione in giudizio che va effettuata entro 30 giorni dalla notifica con il deposito del fascicolo di parte. Accanto al ricorso ci saranno i documenti che il soggetto intende produrre in giudizio tra cui l'atto impugnato. Il fascicolo depositato in commissione è la costituzione in giudizio. Il ritardo rende inammissibile il ricorso.

L'amministrazione pure ha l'onere di costituirsi in giudizio, per contrastare i motivi dedotti dal contribuente. Si costituisce in giudizio nel termine di 60 giorni dalla notifica. L' unico incombente che ha è la costituzione che avviene con il deposito del fascicolo. Ci saranno controdeduzioni e argomenti che offre in contraddizione. Il termine di 60 giorni è un termine ordinatorio, l'amministrazione infatti può costituirsi fino alla data dell' udienza (in primo grado). Non sussistono delle conseguenze se l'amministrazione non si costituisce entro 60 giorni.

Una volta che la causa è radicata tramite la costituzione in giudizio il presidente della commissione assegna il ricorso ad una sezione, e il presidente della sezione effettua una valutazione sulla ammissibilità del ricorso. Se è manifestamente inammissibile, ad esempio per difetto plese di uno dei requisiti che riguardano la composizione del ricorso, può pronunciare inaudita altera parte

l'inammissibilità con provvedimento reclamabile. 12.4 La trattazione della vertenza

Se la causa è ammissibile viene fissata l' udienza di trattazione. L' udienza è comunicata tramite biglietto di segreteria e da li scattano nuovi termini che riguardano anche il difensore. Infatti ci sono ulteriori incombenze a capo del difensore: fino a 20 giorni liberi prima dell' udienza si può depositare qualsiasi tipo di documento, anche in luce delle controdeduzioni dell'ufficio; entro 10 giorni liberi prima dell'udienza si possono depositare memorie illustrative. (Liberi significa che non si conta il primo e l' ultimo giorno).

L'udienza si svolge in camera di consiglio, salvo che contribuente non chieda espressamente la pubblica udienza. Normalmente domanda la pubblica udienza, perché permette alle parti una discussione in fase di trattazione davanti al giudice sugli atti impugnati. Soltanto nel caso in cui l' udienza non sia pubblica, cioè in camera di consiglio, è possibile depositare brevi repliche scritte

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prima dell’ udienza. Una volta che c'è stata la discussione la causa va in decisione. La struttura del processo è snella

12.4.1 Il reclamo o mediazione

Novità significative sono state introdotte l' anno scorso per cause di valore inferiore a 20.000 €. Con la finalità di deflazionare il contenzioso tributario, si è introdotta una fase amministrativa obbligatoria prima dell’ avvio della fase giudiziale di reclamo (o mediazione) obbligatoria sotto l'influenza degli istituti della mediazione civilistica. Per il valore si deve tenere conto della maggiore imposta dovuta. Il procedimento di reclamo non è che un meccanismo per cercare una fase di gestione amministrativa della vertenza. Nella sostanza il contribuente deve rivolgersi ad un apposita commissione incaricata di esaminare il reclamo del contribuente il quale nell’ atto in cui contesta può fare una proposta di definizione in ottica di mediazione. Il contribuente può limitarsi al reclamo, non è obbligatoria la proposta. Se l’ AF accoglie le ragioni del contribuente annulla l’atto altrimenti può formulare una proposta di mediazione. Se non si sottoscrive alcun accordo di mediazione il reclamo vale come ricorso. L'atto di reclamo si

converte in ricorso. L'atto di reclamo ab origine deve quindi avere tutti i requisiti richiesti per il ricorso. L'istituto della mediazione è totalmente nuovo ed ha modificato le regole dell'introduzione del giudizio per le pratiche di valore inferiore a 20.000 €. Questa strada del ricorso non è incompatibile con le precedenti possibilità, come l’accertamento con adesione, quindi si può fare istanza di accertamento con adesione, se non si perfeziona l’adesione si può tenare la carta della mediazione.

Tenete presente che questo istituto è fortemente discusso dal punto di vista della costituzionalità. La corte costituzionale ha sempre detto che quando l'accesso alla tutela giurisdizionale è subordinato alla predisposizione necessaria di ricorsi amministrativi c’è un vizio di costituzionalità, perché non si può porre questo limite alla tutela giurisdizionale. Ciò è possibile, cioè condizionare l' espletamento della tutela giurisdizionale all’attuazione di ricorsi amministrativi, solo quando lo scopo della fase amministrativa sia trovare soluzioni concordate. Quindi se applicato alla mediazione il sistema è costituzionalmente legittimo. Tuttavia bisogna tener conto che questa mediazione funziona per tutti gli atti impugnabili, e mentre nell’ avviso di accertamento ci sono spazi per mediare, se prendiamo la cartella esattoriale, il ruolo o il titolo esecutivo sono atti che derivano da un precedente procedimento. O è legittimo o non lo è, non hanno senso mediazioni. Nel caso concreto non c'è spazio per mediazione, se la procedura amministrativa non può avere alcun effetto di mediazione allora è incostituzionale. In tal caso l'istituto del reclamo/mediazione è costituzionalmente illegittimo.

La disciplina positiva del reclamo è piena di situazioni in cui si può cadere in casi di inammissibilità. Siccome è un istituto nuovo è probabile che si commettano errori e siccome queste inammissibilità' sono tutte a danno del contribuente, nel breve termine molti difensori sbaglieranno e quindi servirà per fare cassa. Il rischio di inammissibilità è talmente elevato che “a pensar male si fa peccato ... ma qui si indovina”! L'atto di reclamo diventa ricorso se la mediazione fallisce.

Questo è quanto per il processo di primo grado.

12.5 Fase cautelare

Molto importante perché si scaricano le esigenze difensive legate al fatto che l' atto di accertamento l’abbiamo definito esecutivo ed esecutorio. Se non impugnato diventa definitivo e legittima l'esecuzione coattiva. In materia IVA e imposte dirette è diventato titolo esecutivo, e come tale legittima l'esecuzione coattiva, con il primo atto che è il pignoramento. L'esecutività dell'atto si produce e si manifesta anche con l'impugnazione dell’avviso di accertamento.

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L'impugnazione non ha efficacia sospensiva. Nonostante l'impugnazione, l'amministrazione ha la facoltà di porre in riscossione 1/3 della maggior imposta accertata. E' ovvio che abbiamo l'interesse a bloccare questa esecuzione provvisoria che tecnicamente si chiama esecuzione

provvisoria in pendenza di ricorso. La fase cautelare serve a bloccare l'esecuzione provvisoria, impedisce all’ amministrazione di portare ad esecuzione il terzo dell’ imposta. Solo per quanto riguarda gli accertamenti che sono titolo esecutivo, in materia IRES IRPEF IRAP e IVA esiste una fase di sospensione automatica prevista dalla legge di 180 giorni da quando l' atto è stato consegnato all'esattore per la riscossione. Ma questa non ha nulla a che vedere con la fase cautelare che si svolge davanti al giudice e che viene meno solo con la pronuncia sfavorevole di primo grado.

L' istituto è regolato da art. 47 D. 546/1992, il quale prevede che il contribuente possa proporre nel ricorso ovvero in un atto separato un'istanza volta ad ottenere la sospensione in via cautelare dell'efficacia dell'atto impugnato.

I presupposti per la concessione della misura sono: fumus boni iuris e periculum in mora. Il primo non è altro che l'apparenza di fondatezza delle ragioni del contribuente. La sospensione può essere concessa anche inaudita altera parte dal presidente della commissione previa delibazione in situazioni di urgenza. La delibazione implica cognizioni delle ragioni del contribuente, quindi valutazione del merito. Il secondo è qualificato dal legislatore in modo particolare, occorre che il contribuente dimostri che dall' esecuzione dell' atto potrebbe subire un danno grave ed

irreparabile.

Danno grave ed irreparabile, se lo interpretiamo in modo stretto, non ci arriviamo mai perché per equivalente esiste sempre la possibilità di ottenere il ristoro. L'irreparabilità di fronte ad un esborso monetario non esiste mai. Per definizione il danno non economico non è mai irreparabile. La norma sarebbe tamquam non esset. Quando il legislatore ha formulato la disposizione ha voluto sottolineare che il danno sia rilevante, considerevole. Occorre che l'irreparabilità sia degradata a concetto di gravità.

Fumus boni iuris e periculum in mora stanno in un rapporto di reciproca influenza. Se le ragioni del contribuente sono particolarmente evidenti, allora il periculum lo devi valutare con minor rigore. Se invece le ragioni sono praticamente inesistenti è evidente che la sospensiva la concedi se il danno è veramente rilevante. La sospensiva opera eventualmente a condizione del rilascio di apposite garanzie, il giudice può subordinarla all’ offerta di garanzie, non è obbligato.

Nel caso in cui il giudice dia torto al contribuente l' atto torna ad essere esecutorio.

12.5.1 Casistica

Quando un danno è di particolare gravità? Se il contribuente è esposto ad un rischio di insolvenza l' irreparabilità sussiste. Perché il fallimento è un evento giuridicamente così grave da determinare un pregiudizio per il contribuente. Il rischio di fallimento rientra tra quei pregiudizi sufficienti per fondare la sospensione. Ma non è l’ unica ipotesi.

Si pensi al caso del contribuente che per far fonte al pagamento dell'imposta deve porre in essere degli smobilizzi immobiliari. Se sei costretto a vendere/svendere un immobile aziendale sotto l'esigenza e la pressione di pagare le imposte è sicuramente un pregiudizio grave da legittimare la sospensiva.

Supponiamo che il soggetto ha bisogno di liquidità per investire in determinati progetti. A seguito di un accertamento deve effettuare esborsi, si ha un impoverimento di risorse essenziali per l’ attuazione del programma industriale, magari essenziale per la sopravivenza dell’ impresa stessa.

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Si pensi agli accordi contrattuali, se non adempio a questi obblighi divento inadempiente, perdo il cliente e magari devo pure risarcire i danni.

12.5.2 La sospensiva nel secondo grado

Il problema che si pone riguarda la possibilità di chiedere la sospensiva in secondo grado. Dall'art. 47 emerge che la sospensiva si può chiedere solo in primo grado. Per la verità la dottrina si è divisa e anche la giurisprudenza che ha ritenuto possibile la concessione in qualche caso. Si è dedotta questa possibilità dal fatto che l’ atto di erogazione delle sanzioni può essere sospeso anche nel secondo grado. Ma si tratta solo di questo atto. Per la verità c’è stata anche una sentenza della corte costituzionale che, pur rigettando la questione di costituzionalità, ha respinto il giudizio con una sentenza in cui ha detto che il giudice avrebbe dovuto valutare se interpretando correttamente le norme del 546 in relazione al c.p.c. è possibile riconoscere la sospensiva in secondo grado. Cioè in pratica la corte dice che la norma non è incostituzionale perché interpretando avresti potuto ritenere sospendibile in secondo grado il provvedimento. Tu giudice dovevi risolvere il problema della sicura impossibilità di avvalerti, con l’interpretazione, della sospensione in secondo grado. Sulla scorta di questa sentenza gli interpreti ritengono che sia possibile richiedere la sospensiva anche in secondo grado.

12.5.3 La sospensione dei provvedimenti di rimborso

Sono sospendibili i provvedimenti di accertamento ma che ne è dei provvedimenti di rimborso? Può essere che il contribuente abbia diritto ad ottenere rilevanti rimborsi. Magari per destinarli ad iniziative contrattuali, investimenti ecc. E' possibile chiedere la sospensione del diniego del rimborso? Ovvero una erogazione provvisoria del rimborso. Questo meccanismo funziona se c'è una adeguata garanzia. Quindi si può dire che dal punti di vista tecnico è configurabile la sospensione cautelare del diniego di rimborso. La formulazione di art. 47 al riguardo non è particolarmente chiara.

12.6 Fasi successive alla sentenza di primo grado

12.6.1 Atto d'appello

La sentenza è soggetta ad impugnazione avanti alla commissione regionale. Se vinci, in primo grado ti restituiscono gli importi che eventualmente hai pagato. Se perdi integralmente, vengono posti in riscossione i 2/3 dell' imposta e i 2/3 delle sanzioni. Se perdi parzialmente, la riscossione provvisoria avviene nei limiti degli importi recuperati per effetto dell'accoglimento parziale delle ragioni dell'amministrazione. In nessun caso non si può andare oltre i 2/3.

Il procedimento d'appello è modulato sul procedimento di primo grado con alcune diversità che riguardano il trasferimento del fascicolo dalla commissione di primo grado alla commissione di secondo grado. La cassazione si è inventata che bisogna depositare copia dell'appello alla commissione di primo grado "a pena di inammissibilità". Proprio questa condizione si è inventata. Si impugna la sentenza nel termina di 60 giorni dalla notifica o 6 mesi dal deposito, i termini sono quelli del processo civile. Lo si fa con un atto d'appello notificato alla controparte con le stesse modalità del ricorso. Vi è corrispondenza dei contenuti. L'unica diversità è che essendo l'appello una fase devolutiva occorre esplicitare i motivi d'appello, i motivi per cui la sentenza di primo grado non è corretta. Divieto dei nova divieto di apportare nuove domande nel giudizio di secondo grado. Le domande rimangono cristallizzate così come formulate nel giudizio di secondo grado. Non si può proporre in appello nuovi motivi. Non si possono nemmeno produrre nuove prove, invece si possono depositare nuovi documenti. Nel processo civile è stato introdotto il divieto di produzione di nuovi documenti. L'appello si conclude con sentenza regionale impugnabile in cassazione. Le modalità del procedimento in cassazione sono quelle del processo civile a cui si rinvia.

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Nella riforma fiscale del governo Monti è previsto un codice del processo tributario, quindi ci si aspetta delle modificazioni.

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13 L’ imposta sul valore aggiunto

Altra grande imposta che fa sistema di cui ci dobbiamo occupare.

13.1 Elementi definitori

E' imposta indiretta in quanto colpisce manifestazioni indirette di ricchezza. La manifestazione indiretta colpisce il consumo, perché il consumo è manifestazione di ricchezza. E' anche imposta di

periodo come l'IRES o l' IRPEF. La commisurazione avviene sulla base in un periodo d' imposta che in linea di massima corrisponde con l' anno solare. Se dobbiamo dare una definizione della capacità contributiva colpita dobbiamo dire che il contribuente, colui che è chiamato a concorrere nelle pubbliche spese, è il consumatore finale. Vi è una tesi che individua la capacità contributiva colpita negli atti di scambio posti in essere dagli operatori economici; ma più condivisibile è la tesi in cui il soggetto, la cui capacità contributiva è colpita, è il contribuente inteso come consumatore finale. Perché i soggetti intermedi sono soggetti nei quali il peso del tributo non sussiste, si scarica sul consumo. Il meccanismo di funzionamento del tributo è tale per cui se ci sono soggetti che lo pagano nelle fasi laddove si innestano le operazioni rilevanti a fini IVA il meccanismo di funzionamento fa si che il peso sia scaricato al contribuente.

(29/5/2012-bis) IVA = imposta indiretta sui consumi e di periodo, armonizzata.

La disciplina dell’IVA la troviamo nel decreto 633/ 1972 ( che disciplina il tributo all’interno dell’ordinamento nazionale) e anche nelle direttive IVA emanate ed in particolare la 6° direttiva iva degli anni 70 che è stata oggetto di una profonda riformulazione con contestuale armonizzazione della disciplina.

Il tributo IVA va individuato come un’imposta comunitaria, cioè l’incidenza della legislazione comunitaria sull’applicazione dell’iva è un’incidenza centrale nel senso che l’IVA è un tributo

armonizzato nei quali si manifesta l’influenza comunitaria al punto che esiste un’apposita disciplina anche per gli scambi comunitari. Una parte considerevole dell’IVA è destinata come risorsa propria dell’ Unione Europea.

13.2 Meccanismo di funzionamento.

Il meccanismo di funzionamento del tributo prevede:

• un coinvolgimento diretto nell’adempimento del debito tributario da parte di diversi

operatori economici: c.d. soggetti IVA;

• il peso del tributo si scarica sul consumo ( finisce per gravare sul consumatore finale).

Quindi 2 figure coinvolte nel meccanismo di applicazione dell’ IVA : i soggetti IVA e il consumatore finale; entrambi sono coinvolti nella disciplina dell’applicazione del tributo però il tributo si scaricherà in maniera definitiva sul consumatore finale.

Come avviene questo meccanismo in forza del quale il peso del tributo si scarica sul consumatore pur coinvolgendo anche soggetti diversi? Si sviluppa sulla base di un principio chiave dell’ IVA: neutralità dell’ IVA per gli operatori economici cioè per i soggetti IVA.

Come si concretizza la neutralità dei soggetti IVA? 2 concetti: chi sono i soggetti IVA e come si può garantire loro la neutralità di cui stiamo parlando.

13.2.1 Soggetti IVA

I soggetti IVA sono essenzialmente gli tutti gli imprenditori e i professionisti; noi dobbiamo prendere in considerazione la nozione di impresa e lavoro autonomo estrapolata dal decreto IVA.

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Esercizio d’ impresa, si intende l’imprenditore (stesso soggetto visto per le imposte dirette) come soggetto che esercita attività rientrante nell’art 2195 del c.c. o attività diverse dal 2195 ma che sono comunque organizzate sottoforma d’impresa. Eccezione data dall’imprenditore agricolo che è soggetto iva diversamente dalle imposte dirette in cui gli imprenditori agricoli non sono considerati imprenditori. Professionisti = soggetti che esercitano arti o professioni.

13.2.2 L’ obiettivo di neutralizzazione

13.2.2.1 Iva a debito

Con quali modalità e regole si realizza l’obiettivo di neutralizzazione dell’iva per i soggetti.

Consideriamo un imprenditore commerciale che effettua una cessione dei beni mobili pari a 200. Il valore dell’operazione compiuta, il prezzo richiesto è 200. Su questo importo deve essere calcolata e applicata l’ IVA. Facciamo esempio dell’iva al 20% per comodità ma sappiamo che ora è al 21% e presto potrebbe arrivare al 23%. In questa operazione di vendita del bene va applicata l’iva con aliquota del 20%. Sull’ operazione di cessione il soggetto applicherà l’IVA ciò significa che l’ importo che dovrà essere versato dal cliente ammonta a 200 più IVA = 200 + 40. Quindi ci sarà un documento chiamato FATTURA nella quale sarà esposto il prezzo di vendita pari a 200 con l’ aggiunta dell’ IVA ( = 40).

Il cliente verserà al fornitore 240. Il fornitore espone in fattura un prezzo di 200 con l’iva di 40.

Per il fornitore quell’iva di 40 che lui ha addebitato in fattura al cliente è un’ iva a debito cioè deve essere pagata all’Erario. Succede che io emetto fattura, ottengo il prezzo e incasso anche l’iva dal mio cliente, ma quest’ iva è a debito quindi,poi, devo versarla all’erario.

Già da questo tassello vediamo il meccanismo di rivalsa. La rivalsa è un meccanismo attraverso cui il soggetto che è debitore dell’iva, si rivale sul suo cliente. La rivalsa in questo caso è anticipata perché io emetto la fattura con l’ IVA, incasso l’ IVA dal cliente e la verso all’erario.

13.2.2.2 Iva a credito

Torniamo al nostro imprenditore che ha fatto la cessione dei beni per 200. Sicuramente l’imprenditore avrà

effettuato degli acquisti per comprare la merce e produrre i vestiti. I tessuti comprati li ha acquistati a 100 e i

vestiti prodotti li ha venduti a 200. Guardiamo all’operazione di acquisto. L’imprenditore è cliente quando

acquista la merce per produrre e riceverà una fattura dove risulterà che dovrà pagare 100 più l’iva pari a 20.

Erogherà 120.

Quest’iva che lui ha pagato sull’operazione di acquisto delle materie prime è un’ IVA a credito , la

paga al suo fornitore ma nel momento in cui la paga nasce un credito rispetto all’Erario.

L’imprenditore ha quindi addebitato un’iva di 40 ( iva a debito) e ha un’iva a credito di 20. L’importo che l’imprenditore dovrà versare all’erario effettivamente sarà l’iva a debito ( 40) meno l’iva a credito ( 20). L’importo dell’iva versata dal nostro soggetto sarà 20 = IVA residuale.

Quanto ha ricevuto l’imprenditore dal cliente di iva? 40, ma 20 li ha pagati al suo fornitore di materie prime quando gli è stata fatta la fattura delle materie acquistate e 20 all’Erario.

Attraverso questo meccanismo si realizza una perfetta neutralità per l’operatore intermedio che detrae l’iva sugli acquisti dall’iva sulle vendite.

L’operazione attraverso cui l’operatore detrae l’iva sugli acquisti dall’iva a debito si chiama detrazione. La neutralità si realizza attraverso il meccanismo di rivalsa combinato con la detrazione.

In sintesi: iva sugli acquisti è un’iva a credito, io lo pago al cliente ma ho diritto ad un rimborso verso l’erario, quando faccio però un’operazione attiva, cioè incasso l’iva dal mio cliente, quell’iva che io incasso è un’ iva a debito e devo versarla all’Erario. Trovo così, attraverso la differenza tra iva su acquisti e iva sulle vendite, la neutralità dell’iva. Residua un debito di 20 – operazione completamente neutrale; ecco perché il tributo si chiama sul valore aggiunto

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perché tassa di fatto il valore aggiunto dell’operazione.

Nell’esempio fatto il valore aggiunto è 100 perché io ho apportato un valore di 100. Differenza tra prezzo pagato dal cliente 200 – 100 prezzo merce materia prima. Qual è l’iva pagata all’erario? 20. Il 20 % di 100 infatti è proprio 20. L’iva colpisce il valore aggiunto dell’operazione e realizza la neutralità che deriva dal meccanismo di rivalsa e detrazione.

L’iva funziona in tutte le sue dinamiche secondo questo schema.

13.3 La cartolarità

E’ una peculiare connotazione dell’IVA. Cartolarità: le operazioni descritte sono rappresentate da un’apposita documentazione che è essenziale: la fattura, che è il documento che rappresenta l’operazione iva ed è essenziale come titolo per la rivalsa e titolo per la detrazione per realizzare l’obiettivo della neutralità per l’operatore intermedio.

Andiamo al consumatore finale: soggetto che ha comprato il vestito e ha pagato il prezzo di 200 e ha pagato l’iva del 40 ma lui non è un soggetto iva e quindi per lui il meccanismo si ferma perché non ha la possibilità di esercitare la rivalsa su qualcun altro o la detrazione ed è inciso dal peso del tributo senza poter fare nulla.

L’operatore quindi intermedio è soggetto iva ma il vero soggetto colpito dal tributo è il consumatore finale il quale non potendo effettuare meccanismo di rivalsa o detrazione è completamente inciso dal peso del tributo.

(Ecco perché i beni di prima necessità hanno aliquota ridotta perché il soggetto colpito da tributo è proprio il consumatore finale e si cerca di favorirlo.)

Tutto il resto delle norme dettate dal decreto IVA servono per far funzionare il meccanismo di neutralità, sono delle tecnicalità tra le quali dobbiamo individuare quali sono le operazioni rilevanti ai fini iva cioè a quali operazioni si applicano i meccanismi descritti.

13.4 Operzioni rilevanti ai fini IVA

Sei categorie di operazioni IVA.

- Operazioni imponibili: comprendono due operazioni. Corrispondono a cessione dei beni e

prestazione di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio dello stato e sono operazioni alle

quali possono essere applicati i meccanismi descritti. Il legislatore agli artt. 2 e 3 del decreto IVA

prevede una serie di assimilazioni (operazioni fatte dal commissionario sono cessioni) ed

esclusioni (ad esempio gli scambi di denaro non sono considerate cessioni e non si applica l’Iva,

cessioni d’ azienda non sono cessioni perché sono sottoposte all’imposta di registro).

- Operazione intracomunitaria: non rientra in modo preciso nella disciplina vista. Se io sono un

consumatore finale e acquisto un bene in un paese straniero purchè comunitario viene applicata

l’iva del paese in cui compra in attuazione degli obiettivi del mercato comune che consente di

effettuare a qualunque soggetto acquisti in altri paesi applicando l’iva del paese d’origine del

bene ( questo vale solo per i consumatori finali, per i soggetti iva invece esiste un meccanismo

per cui l’iva non viene pagata all’estero dove il soggetto compra la merce ma poi arrivato in Italia

dovrà pagare l’iva italiana e versarla).

- Operazioni non imponibili: in linea di massima le operazioni non imponibili corrispondono alle

esportazioni verso paesi extra comunitari. Se invece l’operazione è fatta all’interno dell’area

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comunitaria è intracomunitaria (categoria precedente). Quando io esporto un bene fuori dal

territorio dello stato quell’operazione non è soggetta ad IVA, è non imponibile IVA.

L’imprenditore che vende i vestiti a 200 negli Usa, quando emetterà la fattura metterà prezzo di 200 non

imponibile IVA, senza applicazione iva.

Questo è coerente con il presupposto perché l’IVA colpisce il consumo nel territorio dello stato e non nel territorio dello stato estero dove non si ha sovranità. Se l’operazione è di esportazione non posso applicare l’iva, non è imponibile.

Il meccanismo può determinare dei rischi di disfunzione. Soggetto iva vende i vestiti a 200 in Usa e fattura non è imponibile ( IVA a debito = 0); il soggetto però ha comprato materie prime e ha pagato l’iva di 20 ( IVA a credito); 0- 20 = -20 ( credito). Questo soggetto ha diritto ad un rimborso del 20 da parte dell’erario ( esportazioni in senso stretto). Se io continuo ad esportare però e quindi sono esportatore abituale io mi trovo nella condizione di essere sempre a credito iva ma non ho mai iva a debito. Questa iva a credito può diventare molto pesante per l’Erario.

Nei confronti degli esportatori abituali anche le operazioni di acquisto sono senza iva per evitare questo credito sistematico di iva ( cessione agli esportatori abituali). La norma è più complicata ma a noi non importa, basta sapere che le operazioni non imponibili sono le esportazioni e le cessioni agli operatori abituali.

- Operazioni esenti: sono una categoria autonoma di operazioni iva che risponde ad una ratio

agevolativa. Sono disciplinate all’art. 10 del decreto iva: ci sono dentro operazioni bancarie e

determinati servizi di elevata rilevanza sociale (le prestazioni di servizi di cura, istruzione ed

educazione). Le operazioni esenti funzionano allo stesso modo delle operazioni non imponibili

sono senza iva. Se io vado dall’oculista che mi rilascia fattura lì ci sarà il prezzo della visita ma

l’operazione è esente da IVA. Qual è la differenza con le operazioni non imponibile? Colui che fa

l’operazione esente ( l’oculista) non può detrarre l’iva sugli acquisti. Emette una fattura senza iva e

non detrae l’iva sugli acquisti. Come se fosse un consumatore finale.

La disciplina è stata introdotta per agevolare il consumatore finale in particolare nelle prestazioni di cura ed istruzione. Il consumatore finale è agevolato perché paga solo il prezzo della prestazione e non l’iva. Problema è che per il soggetto che eroga la prestazione ( il medico) , l’iva sugli acquisti sarà un costo che non potrà detrarre; il soggetto ( medico) quindi tenderà a traslare il costo sostenuto sul prezzo della prestazione. Maggiora il prezzo della prestazione per recuperare l’iva pagata. Non si tratta più di un’agevolazione quindi perché sul consumatore viene traslata l’iva sottoforma di costo della prestazione.

Il meccanismo funziona quando la prestazione è ad alto valore aggiunto, cioè il contenuto dell’operazione resa è maggiore dei beni strumentali, degli acquisti fatti dal soggetto che eroga la prestazione, allora l’operazione sarà conveniente. Effettivamente le prestazioni mediche e d’istruzione sono ad alto valore aggiunto.

- Le importazioni: atti con i quali gli operatori nazionali importano beni da paesi stranieri anche in

questo caso extra comunitari. Se io importo un qualsiasi bene dagli stati uniti dovrei pagare l’iva

italiana solo al momento dell’importazione attraverso la linea doganale.

L’iva si applica perché l’importazione corrisponde ad un atto di consumo nel territorio dello stato. Soggetto iva per le importazioni è anche il consumatore finale diversamente da quello che accade

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nelle esportazioni. Le importazioni da chiunque ( sia dai soggetti iva sia dal consumatore finale) effettuate sono sottoposte a tassazione.

Se ci trovimo di fronte ad un’operazione che non rientra in nessuna di queste categorie si tratta di operazioni escluse o fuori campo IVA.

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Sommario

1 Considerazioni generali sulla rilevanza del diritto tributario nell’ordinamento ...................................................... 3 1.1 Le relazioni tra fiscalità e sviluppo dell’economia ...................................................................................................3

1.1.1 L’evasione fiscale..............................................................................................................................................4 1.2 Il rapporto tra evasione e sviluppo del sistema impresa .........................................................................................5 1.3 Le entrate di diritto tributario..................................................................................................................................7

1.3.1 Entrate derivanti da attività iure privatorum. ..................................................................................................7 1.3.2 Entrate derivanti da attività iure imperii. .........................................................................................................7

2 Disciplina costituzionale........................................................................................................................................10 2.1 Art.53 .....................................................................................................................................................................10

2.1.1 La capacità contributiva. ................................................................................................................................12 2.2 Il principio di progressività. ....................................................................................................................................21

2.2.1 La progressività dell’ordinamento tributario. ................................................................................................23 2.3 Principio della riserva di legge. Art. 23...................................................................................................................23

Art. 23 .......................................................................................................................................................................23 2.3.1 Le ragioni della sua esistenza. ........................................................................................................................24 2.3.2 La natura della riserva dell’ art 23..................................................................................................................25

3 Procedimento d’ imposizione................................................................................................................................26 3.1 Le teorie sul procedimento. ...................................................................................................................................26

3.1.1 Teoria dichiarativa..........................................................................................................................................26 3.1.2 Teoria costitutiva............................................................................................................................................26 3.1.3 Teoria procedimentale ...................................................................................................................................26

3.2 La dichiarazione dei redditi. ...................................................................................................................................27 3.2.1 L’ autotassazione............................................................................................................................................27 3.2.2 Natura di manifestazione di scienza. .............................................................................................................27 3.2.3 Rettificabilità ..................................................................................................................................................28 3.2.4 I modelli di dichiarazione dei redditi ..............................................................................................................29

3.3 Controlli formali, c.d. automatici. ..........................................................................................................................31 3.4 Controlli formali .....................................................................................................................................................31 3.5 I controlli sostanziali...............................................................................................................................................32 3.6 Rettifica della dichiarazione...................................................................................................................................33

3.6.1 Differenze tra rettificabilità e istanza di rimborso. ........................................................................................33 3.7 Caratteri dell’accertamento...................................................................................................................................35

3.7.1 La motivazione. ..............................................................................................................................................37 3.8 Il controllo della dichiarazione...............................................................................................................................38

3.8.1 I controlli formali............................................................................................................................................39 3.8.2 Controlli sostanziali sulla veridicità delle dichiarazioni. .................................................................................39 3.8.3 Controlli sostanziali documentali. ..................................................................................................................40

3.9 La selezione dei contribuenti. ................................................................................................................................40 3.9.1 L’ evoluzione dopo il 1995..............................................................................................................................41

3.10 I metodi di controllo sostanziale..........................................................................................................................42 3.11 Inquadramento generale. ....................................................................................................................................42 3.12 Metodi di art. 38 ..................................................................................................................................................43

3.12.1 Metodo analitico. .........................................................................................................................................43 3.12.2 Metodo sintetico..........................................................................................................................................43

3.13 Metodi di art. 39 ..................................................................................................................................................47 3.13.1 Accertamento analitico ................................................................................................................................47 3.13.2 Metodo induttivo .........................................................................................................................................50

3.14 Poteri di controllo. ...............................................................................................................................................53 3.14.1 Tipologia di poteri istruttori .........................................................................................................................54 3.14.2 Aspetti problematici.....................................................................................................................................57 3.14.3 Rapporti tra l’esercizio dei singoli poteri istruttori ......................................................................................59

3.15 Vizi procedimentali ..............................................................................................................................................61 3.15.1 Prima posizione (teoria dell’invalidità derivata) ..........................................................................................61 3.15.2 Seconda posizione (teoria dell’inutilizzabilità della prova) ..........................................................................61

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3.15.3 Terza posizione.............................................................................................................................................62 3.16 L’ avviso di accertamento.....................................................................................................................................63

3.16.1 I contenuti del provvedimento..................................................................................................................... 65 3.16.2 La motivazione dell’atto..............................................................................................................................66 3.16.3 L’accertamento come atto unico e globale..................................................................................................72 3.16.4 I termini di decadenza..................................................................................................................................75

3.17 L’ accertamento con adesione .............................................................................................................................77 3.17.1 Ragioni originarie dell’ introduzione dell’ istituto........................................................................................78 3.17.2 Elementi essenziali. ......................................................................................................................................78 3.17.3 Una questione di politica fiscale ..................................................................................................................81 3.17.4 La resistenza dell’accertamento con adesione ............................................................................................81 3.17.5 L’annullabilità dell’accertamento................................................................................................................. 83

3.18 L’autotutela..........................................................................................................................................................84 3.18.1 Disciplina dell’istituto: D.M. 37/1997...........................................................................................................85

4 Soggettività tributaria. ..........................................................................................................................................87 4.1 Responsabile d’ imposta ........................................................................................................................................87

4.1.1 Il notaio. .........................................................................................................................................................87 4.1.2 Il mandatario senza rappresentanza in dogana .............................................................................................89 4.1.3 Cessione d’ azienda ........................................................................................................................................90

4.2 Sostituzione d' imposta..........................................................................................................................................90 4.2.1 Banche e correntisti .......................................................................................................................................90 4.2.2 Datore di lavoro e dipendenti ........................................................................................................................91

4.3 Ipotesi patologiche della sostituzione d’imposta...................................................................................................92 4.3.1 Il pagamento al lordo. ....................................................................................................................................92 4.3.2 Caso di effettuata ritenuta e mancato versamento. ......................................................................................94

5 Studi di settore......................................................................................................................................................95 5.1 Definizione e ambito di applicazione .....................................................................................................................95 5.2 Il contraddittorio....................................................................................................................................................96

5.2.1 La natura degli studi di settore ......................................................................................................................97

6 Principi generali della tassazione reddituale. ......................................................................................................101 6.1 Presupposto generale: il possesso di reddito ......................................................................................................101

6.1.1 Le categorie reddituali e la nozione di possesso..........................................................................................102 6.1.2 Nozione tributaria di possesso ..................................................................................................................... 104 6.1.3 Casi in cui il possesso di reddito diventa l’elemento decisivo per la tassazione..........................................105

7 Le attività e i soggetti che producono reddito d’ impresa....................................................................................109 7.1 Attività commerciali ex art. 2195 c.c....................................................................................................................109 7.2 Attività diverse da quelle commerciali ex art. 2195 c.c. ......................................................................................109 7.3 Attività agricole svolte secondo determinate modalità.......................................................................................109

7.3.1 Le attività di coltivazione in serra.................................................................................................................110 7.3.2 Allevamento di bestiame .............................................................................................................................110 7.3.3 Attività c.d. connesse di trasformazione e commercializzazione dei prodotti del fondo ............................110

7.4 Attività minerarie .................................................................................................................................................111 7.5 Soggetti che producono reddito d’ impresa ........................................................................................................111

8 I principi fondamentali della determinazione del reddito d’ impresa ..................................................................112 8.1 Principio di dipendenza o di derivazione ............................................................................................................. 112

8.1.1 Perché si sceglie questo criterio del risultato di bilancio? ...........................................................................112 8.1.2 La derivazione parziale.................................................................................................................................113 8.1.3 Il significato del principio di dipendenza......................................................................................................118

8.2 Il principio di competenza....................................................................................................................................118 8.2.1 I momenti di rilevazione della componente reddituale ...............................................................................118 8.2.2 La maturazione del diritto............................................................................................................................120 8.2.3 I sottoprincipi di certezza ed obiettiva determinabilità ...............................................................................121

8.3 Principio di inerenza.............................................................................................................................................121 8.3.1 Casi sospetti di spese inerenti. .....................................................................................................................122 8.3.2 Il caso diesel spa (?)......................................................................................................................................123 8.3.3 La deducibilità delle sanzioni .......................................................................................................................129

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8.3.4 L’inerenza di tipo quantitativo, legata alla quantità della spesa..................................................................132 8.4 Principio della previa imputazione.......................................................................................................................134

8.4.1 Attenuazione della regola ............................................................................................................................134 8.4.2 Deroghe al principio di previa imputazione .................................................................................................135 8.4.3 L' inquinamento del bilancio civilistico ........................................................................................................135

9 Elementi positivi e negativi che concorrono a determinare il reddito d' impresa ................................................137 9.1 Principio di analiticità...........................................................................................................................................137 9.2 Elementi positivi...................................................................................................................................................137

9.2.1 Ricavi ............................................................................................................................................................137 9.2.2 Plusvalenze...................................................................................................................................................138 9.2.3 Le sopravvenienze........................................................................................................................................148

9.3 Elementi negativi .................................................................................................................................................150 9.3.1 Le sopravvenienze passive ...........................................................................................................................150 9.3.2 Le perdite su crediti......................................................................................................................................151

10 Elusione fiscale....................................................................................................................................................154 10.1 Il dividend washing.............................................................................................................................................154

11 Trust....................................................................................................................................................................156 11.1 Inquadramento civilistico...................................................................................................................................156

11.1.1 Soggetti, durata e atti.................................................................................................................................157 11.2 La tassazione del trust........................................................................................................................................157

11.2.1 Il momento della tassazione. .....................................................................................................................158 11.2.2 L’ effettiva presenza dell’ intento liberale. ................................................................................................158 11.2.3 Il soggetto passivo......................................................................................................................................159 11.2.4 Imposizione diretta dei trust. .....................................................................................................................159

12 Il processo tributario ...........................................................................................................................................162 12.1 La struttura del processo ...................................................................................................................................162

12.1.1 La struttura delle commissioni. ..................................................................................................................162 12.1.2 I gradi del processo ....................................................................................................................................164 12.1.3 I requisiti per accedere alla giurisdizione tributaria...................................................................................164

12.2 Il ricorso .............................................................................................................................................................166 12.2.1 Requisiti per l’ammissibilità del ricorso .....................................................................................................167 12.2.2 La notifica ...................................................................................................................................................167

12.3 La costituzione del giudizio ................................................................................................................................168 12.4 La trattazione della vertenza..............................................................................................................................168

12.4.1 Il reclamo o mediazione .............................................................................................................................169 12.5 Fase cautelare ....................................................................................................................................................169

12.5.1 Casistica......................................................................................................................................................170 12.5.2 La sospensiva nel secondo grado ...............................................................................................................171 12.5.3 La sospensione dei provvedimenti di rimborso .........................................................................................171

12.6 Fasi successive alla sentenza di primo grado .....................................................................................................171 12.6.1 Atto d'appello.............................................................................................................................................171

13 L’ imposta sul valore aggiunto.............................................................................................................................173 13.1 Elementi definitori .............................................................................................................................................173 13.2 Meccanismo di funzionamento..........................................................................................................................173

13.2.1 Soggetti IVA................................................................................................................................................173 13.2.2 L’ obiettivo di neutralizzazione .................................................................................................................. 174

13.3 La cartolarità ......................................................................................................................................................175 13.4 Operzioni rilevanti ai fini IVA .............................................................................................................................175


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