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B. Bauer, K. Marx, La Questione Ebraica

Date post: 24-Oct-2015
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Gli scritti di Bauer e di Marx sulla questione ebraica. Lingua italiana.
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1.0 s5561 5<y. BRUNO BRUER, KARL MAN LA QUESTIONE EBRAICA a cura di MASSIMILIANO TOMBA 4 14 W, 200Z
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Page 1: B. Bauer, K. Marx, La Questione Ebraica

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BRUNO BRUER, KARL MAN

LA QUESTIONE EBRAICA a cura di MASSIMILIANO TOMBA

4

14 W, 200Z

Page 2: B. Bauer, K. Marx, La Questione Ebraica

INDICE

2004 manifestolibri srl via Tomacelli 146 — Roma

In copertina: Elaborazione grafica da K. Malévitch, Uomo che porta un sacco, 1911

Cura e traduzione di Massimiliano Tomba

Volume pubblicato con la collaborazione dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli

ISBN 88-7285-332-X

Nota del traduttore 7

LA QUESTIONE EBRAICA: IL PROBLEMA DELL'UNIVERSALISMO POLITICO

di Massimiliano Tomba 9

1. Perché la Judenfrage 10 2. Critica del cristianesimo e dell'ebraismo: un «contributo alla

crisi del XIX secolo» 13 3. Riformulazione della questione ebraica 18 4. Emancipazione e liberazione 22 5. Dialettica dei diritti umani 28

LA QUESTIONE EBRAICA di Bruno Bauer

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Introduzione 43 I. L'esatta formulazione della questione 47

L'innocenza degli ebrei 47 La Spagna 48 La Polonia 49 La società civile 51 L'intraprendenza degli ebrei 52 La tenacità dello spirito del popolo ebraico 53 La vita sono l'oppressione 55 Il numero dei criminali 57 L'atteggiamento della conseguenza verso il suo presupposto 58 Il fervore e il carattere esclusivo dell'amore cristiano 59 I diritti dell'uomo e lo Stato cristiano 61 L'opposizione religiosa dell'ebraismo e del cristianesimo 63

II. Considerazione critica dell'ebraismo 67

È la legge mosaica o il Talmud? 67 del 73 L'incoerenza e l'ostinatezza della coscienza popolo ebraico

La vita conforme alla legge dell'ebreo 77 Il punto di vista etico del tardo ebraismo 83

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III. La posizione del cristianesimo verso l'ebraismo 87

IV. La posizione degli ebrei nello Stato cristiano 97

V. Conclusioni

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VI. Gli ebrei francesi in relazione alla religione della maggioranza dei francesi

105

VII. Dissoluzione dell'ultima illusione 117

L'ebraismo illusorio 117 Gli ebrei come «paladini della verità» 122 L'ebraismo e il cristianesimo disvelati 126 L'ebreo nello Stato assolutistico 129 L'illusione fondamentale 134 Dichiarazioni del juste milieu tedesco 139 Il grande sinedrio di Parigi 146 Conclusione 152

LA CAPACITA DI DIVENTARE LIBERI DEGLI EBREI E DEI CRISTIANI DI OGGI 155 di Bruno Bauer

SULLA QUESTIONE EBRAICA

173 di Karl Marx

I. La questione ebraica 175

IL La capacità di diventare liberi degli ebrei e dei cristiani di oggi 199

Note

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NOTA DEL TRADUTTORE

La scelta di pubblicare la Questione ebraica di Bruno Bauer assieme alla risposta di Karl Marx non richiede certo una giustifi-cazione, essendo lo scritto marxiano, nei fatti, la risposta allo scritto di Bauer. Quest'ultimo apparve con il titolo Die Juden-Frage nei «Deutsche Jahrbiicher fiir Wissenschaft und Kunst», 17-26 Novembre, 1842, nn. 274-282, pp. 1093-1126, e venne ripubblicato con l'aggiunta dei lunghi capitoli VI e VII nel 1843 per l'editore Otto Friedrich di Braunschweig. Nello stesso anno Bruno Bauer pubblicò negli «Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz», curati da Georg Herwegh (Ziirich und Winterthur, Verlag des Literarischen Comptoirs, 1843), Die Fiibigkeit der heutigen Juden und Christen, frei zu werden. Il giovane Karl Marx recensì entrambe le opere nel celebre scritto intitolato Zur Judenfrage ed apparso nei Deutsch-Franzdsische Jahrbúcher, pub-blicati a Parigi nel 1844 e curati da Arnold Ruge e dallo stesso Marx.

Gli scritti di Bauer non sono mai stati tradotti in italiano, e per quanto riguarda la Judenfrage non è nemmeno mai stata ripubblicata in lingua tedesca, nonostante sia molto probabil-mente l'opera che per prima introduce e rende popolare l'espres-sione "questione ebraica" nei paesi di lingua germanica. Diverso è naturalmente il destino dello scritto di Marx, che ha avuto nel nostro Paese diverse traduzioni, più o meno buone e più o meno azzardate. Ho in ogni caso cercato di tenere presente questa lun-ga tradizione di traduzioni della Questione ebraica.

Qualche parola in più merita sicuramente lo scritto di Bauer, il cui stile energico e appassionato rischia di perdere mol-to nel mero calco di una traduzione letterale. Ho però cercato, per quanto possibile, di riprodurre il più fedelmente possibile l'andamento discorsivo e la sintassi di Bauer al fine di riuscire a dare un'idea dell'innovazione stilistica della prosa baueriana nel contesto della letteratura posthegeliana.

Ma c'è anche un'altra ragione che mi ha indotto a rimanere entro gli steccati di una traduzione quanto più letterale possibile:

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la Questione ebraica di Bruno Bauer è stata ed è ancora uno scrit-to controverso. Innumerevoli sono infatti le critiche di antigiu-daismo ed antisemitismo rivolte contro quest'opera. Spero che questa traduzione non accenda una simile polemica anche in Ita-lia — sulla letteratura al riguardo sí veda l'Introduzione — ma serva invece, oltre che ad inquadrare lo scritto marxiano nel suo conte-sto teorico e storico-politico, a mostrare anche come la radicalità del discorso baueriano porti importanti elementi di complicazio-ne alla concettualità politica moderna, anche in relazione a pro-blemi contemporanei relativi al multiculturalismo e ai diritti umani.

Desidero ringraziare innanzitutto il Prof. Antonio Gargano per l'entusiasmo con il quale ha accolto questa traduzione, impe-gnando l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di. Napoli nel finanziamento di questo lavoro. Alexander Grasse e Petra Linz-bach mi hanno aiutato a risolvere alcuni "misteri" della prosa baueriana: a loro va un mio riconoscente grazie. Gli amici Luca Basso, Mario Piccinini, Gaetano Rimetta e Maurizio Ricciardi hanno avuto la pazienza di leggere il testo, dandomi preziosi consigli. Mi scuso con loro se non ho seguito tutti i loro suggeri-menti. In particolare il testo doveva contenere una postfazione del dott. Ricciardi; spero vivamente di poter presto discutere e vedere pubblicato il suo contributo.

Patrizia, oltre a seguirmi e a sopportarmi nel lavoro, mi ha aiutato a migliorare la forma del testo. A lei va il merito se la tra-duzione risulta un po' più leggibile, mentre solo mia è la respon-sabilità dei suoi limiti.

Dedico questo libro alla memoria dei miei genitori, venuti a mancare troppo presto.

Massimiliano Tomba Pordenone, 21.2.2004

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LA QUESTIONE EBRAICA: IL PROBLEMA DELL'UNIVERSALISMO POLITICO

Massimiliano Tomba

Sarebbe veramente poca cosa se questa traduzione italiana della Questione ebraica di Bruno Bauer servisse solo ad aprire o a riaprire discussioni e polemiche sul più o meno presunto antigiu-daismo di Bauer. Al riguardo molto è già stato scritto'. La que-stione che ci interessa mettere in evidenza riguarda piuttosto il modo ín cui la straordinaria consequenzialità dialettica con la quale Bruno Bauer affrontava le questioni del proprio tempo — si trattasse della questione della storicità dei Vangeli, del problema dell'emancipazione politica e dei diritti, o del giudizio da dare sulla Rivoluzione francese e sul 1848 — ci può essere d'aiuto oggi per far fronte a una nuova crisi, che però, per molti aspetti, affonda le proprie radici nella crisi del Vormiirz. L'intera riflessio-ne di Bauer ha infatti a che fare con categorie in stato di crisi2, ed egli si assunse il compito, attraverso la critica, di dispiegare la cri-si fino alle sue estreme conseguenze. Proprio questa sua radica-lità intellettuale lo portava a mostrare indifferenza rispetto ai giu-dizi morali e politici del tempo. Non solo attaccava i liberali con la stessa radicalità con la quale attaccava i conservatori, ma anzi, di fronte alla velleità delle richieste liberali di diritti universali e libertà, era portato a riconoscere maggiori ragioni ai conservato-ri. Con la stessa veemenza criticava la religione, sia l'ebraica sia quella cristiana. In ogni sua posizione mostrava indifferenza rispetto ai giudizi che lo colpivano. Questo suo cinismo si spiega a partire da un duplice ordine di ragioni: Bauer si identificava realmente con la Critica, e assumeva su di sé il destino di portare il vecchio mondo alla fine. Le critiche che gli venivano rivolte non erano altro, ai suoi occhi, che vagiti di un mondo in disfaci-mento e colpito a morte. Ma c'è anche un'altra ragione: la Critica di Bauer si innesta sulla crisi epocale, è compenetrata dalla crisi, si fonde con essa. Ma questa stessa crisi non può non trascinare con sé valori e morale, che vengono così a perdere ogni senso e riferimento per il giudizio. Se la crisi coinvolge anche il mondo

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morale, perdono senso vecchie dicotomie come bene e male, buono e malvagio, eccetera. Esse lasciano il posto alla sola che ancora merita di essere presa in considerazione: quella tra il vec-chio e il nuovo mondo. Qui anche il punto di arresto di Bauer. Egli non è un partigiano del nuovo mondo, ma lo è invece della Critica che, nelle sue mani, diventa avanzamento nella rovina del vecchio mondo, ricerca di quei conflitti e quelle contrapposizioni che ne accelerano la fine. Per Bauer non si tratta di negare Dio e lo Stato, ma di trovare la radice polemica della statualità moderna e del concetto di religione. È su questa strada che Bruno Bauer, anticipando Carl Schmitt3, coglie la natura essenzialmente pole-mica dei concetti teologico-politici.

È avendo ben presente questo problema che si deve leggere la Questione ebraica.

1. PERCHÉ LA JUDENFRAGE

Quando, agli inizi del XIX, secolo la parola francese "émancipation" prende cittadinanza nella lingua tedesca (Eman-cipation), essa viene immediatamente ad assumere un significato anticetuale. Il concetto di "emancipazione" viene ad occupare, nella crisi della compagine cetuale del Vormdrz, lo spazio lasciato vuoto dalla distruzione dei privilegi corporativi, esprimendo lo spirito del movimento di affermazione dei diritti civili e politici4. La dissoluzione cetuale e la separazione tra società e Stato diven-ta, come in Christian Wilhelm Dohm alla fine del XVIII secolo, l'orizzonte dí possibilità della libertà di culto e della realizzazione dell'eguaglianza giuridica degli ebrei'.

Sviluppo dell'economia capitalistica, affermazione del moderno Stato rappresentativo e crisi del sistema cetuale: è in questo contesto storico-sociale che prende forma la questione dell'emancipazione degli ebrei ed emerge l'esigenza di un nuovo elemento cementificante capace di tenere assieme la moltitudine atomistica che compone la società. Questi processi, pur affon-dando le loro radici nel XVII secolo, acquistano evidenza e giun-gono manifestamente alla coscienza con la Rivoluzione francese. La centralizzazione del potere nelle mani dello Stato e la forma-zione di una massa di lavoratori formalmente liberi costituiscono le forze che mandano in frantumi l'ordinamento cetuale, predi-

sponendo quello spazio che verrà progressivamente occupato dai diritti di cittadinanza. È all'interno di questo processo che il con-cetto di emancipazione si politicizza diventando un «concetto anticetuale (antisandischer Begriffl»6

Gli scritti di Bauer e Marx sulla questione ebraica si inseri-scono in questo contesto, cercando, ciascuno a proprio modo, di dislocare la questione nel punto di incrocio di un'emancipazione universale. Non si tratta della sola emancipazione degli ebrei, «anche noi» vogliamo essere emancipati, scriverà Bauer7. La que-stione dell'emancipazione è universale o non è, e la «questione ebraica è solo una parte della grande e universale questione alla cui soluzione lavora il nostro tempo»8.

Com'è noto, lo scritto marxiano Sulla questione ebraica9, pubblicato nel 1844, è divenuto talmente celebre da gettare nell'ombra le opere che doveva recensire. Si tratta dei due scritti di Bruno Bauer qui presentati: la Judenfrage e Die Fdhigkeit der heutigen Juden und Christen, frei zu werden10. Bauer ritornerà più volte sull'argomento", in parte perché sollecitato dalle critiche che gli venivano rivolte da parte conservatrice e liberale, ma, come cercheremo di dimostrare, anche perché l'argomento gli permetteva di precisare un concetto di libertà che egli andava maturando in polemica con i liberali. Attraverso un radicale ripensamento della concettualità politica e della filosofia della storia, aspetti che nel Vormdrz tedesco si presentano tra loro inscindibili, Bauer intendeva oltrepassare sia la posizione dei sostenitori dell'emancipazione sia quella dei suoi avversari.

La questione ebraica offriva a Bauer un'ottima occasione per mettere alla prova la teologia politica da lui stesso elaborata negli scritti di critica della storia evangelica fino a Lo Stato cristia- no e il nostro tempou . Proprio nella Questione ebraica Bauer può mettere in evidenza, con una forza mai raggiunta prima nei suoi scritti, la singolare convergenza tra determinazioni teologiche e politiche. La questione dell'emancipazione degli ebrei permette a Bauer di dare piena visibilità al nesso tra esclusione politica ed esclusione religiosa: gli ebrei sarebbero al tempo stesso contrap-posti alla chiesa in quanto nicht-Christen ed esclusi dallo Stato come nicht-Biirger. A Bauer interessa mettere a fuoco questa doppia esclusione: due facce della stessa medaglia.

Prima di inoltrarci nella Kritik baueriana è forse utile spen-dere ancora qualche parola sulla genesi della Judenfrage e le sue

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ripercussioni nei dibattiti dell'epoca. Come ricordavamo, la for-tuna dell'opera marxiana ha contribuito non poco a fare ombra sul testo di Bauer; ciò non riguarda solo lo scritto che specifica-mente Marx dedica alla questione ebraica, ma anche La sacra famiglia e l'Ideologia tedesca. Forse bisognerebbe sottolineare, più di quanto è stato finora fatto, che nel 1844 Marx ed Engels non avevano intenzione di confrontarsi con Bauer sul terreno della filosofia, ma su quello della politica; la polemica, essendo per lo più stata condotta in un lessico ancora filosofico, suonò però come un verdetto filosofico definitivo sulla Kritik baueria-na. Sia per Bauer che per Marx si trattava di fare i conti con la crisi del radicalismo politico degli anni '40, solo che le risposte del professore di teologia e del suo più giovane amico si configu-rarono non solo come divergenti, ma addirittura contrapposte". Per comprendere le intenzioni di Marx bastava leggere e prende-re alla lettera quanto scritto nella prefazione del settembre 1844 a La sacra famiglia, dove si dichiara che il nemico più pericoloso dell'umanismo reale in Germania è lo spiritualismo o l'idealismo speculativo che, al posto dell'uomo individuale reale, pone l'autocoscienza o lo spirito. Il linguaggio filosofico cela appena la contrapposizione tra il comunismo di Marx e la filosofia dell'autocoscienza di Bauer. E non a caso nel maggio del 1845 Engels definiva ancora Bauer e Stirner «gli unici seri avversari del comunismo»". Questo giudizio va però mediato con il fatto che Marx continuò ancora negli anni '50 a tenere d'occhio gli scritti di Bauer, ed Engels mostrò sempre interesse per i suoi scritti sull'origine del cristianesimo".

Ancora al tempo della marxiana Questione ebraica, pensata nel 1843 e apparsa nel febbraio 1844 nei Deutsch-Franzósiche Jahrbiicher, Marx ha parole di apprezzamento per l'opera di Bauer. La letteratura critica ha però spesso glissato su questi rico-noscimenti. Oltre agli apprezzamenti di Marx per uno scritto baueriano del 184216, nella stessa Questione ebraica Marx scrive che Bauer «ha posto in termini nuovi la questione dell'emancipa-zione degli ebrei, dopo aver fornito una critica delle precedenti tesi e soluzioni del quesito. (...) spiega l'essenza dello Stato cri-stiano, tutto ciò con arditezza, acutezza, spirito, profondità, con uno stile tanto preciso quanto robusto ed energico»17. Proprio la vicinanza di Marx a Bauer nei primi anni Quaranta" e la natura della polemica marxiana verso la Jundenfrage ci permettono di

leggere lo scritto marxiano come la risposta politica a uno scritto politico. Marx capisce che se la posizione di Bauer doveva essere superata, ciò era possibile solo sul terreno dell'universalismo". Insistere su questo aspetto significa aprirsi alla possibilità di cogliere il senso filosofico e politico dello scritto di Bauer, e quin-di il suo significato per il Vormiirz.

2. CRITICA DEL CRISTIANESIMO E DELL'EBRAISMO: UN «CONTRIBUTO

ALLA CRISI DEL XIX SECOLO»

Per affrontare la Questione ebraica di Bruno Bauer è neces-sario tenere almeno presente che egli scrisse la Judenfrage quasi contemporaneamente a Das entdeckte Christentum. In questa opera, censurata e distrutta prima ancora della sua pubblicazione20, Bruno Bauer raccoglie la provocazione che Werteimer lanciò agli ebrei sfidandoli a scrivere una risposta all'antisemita Das entdeckte Judentum di Eisenmenger21. Se la Judenfrage fosse apparsa assieme a Entdecktes Christentum, sarebbe risultato più chiaro il loro intento politico e polemico. Infatti, se si tiene presente Das entdeckte Christentum, la critica di Bauer alla religione cristiana non è meno dura di quella che egli rivolge alla religione ebraica. Anzi, probabilmente lo è anco-ra di più, perché con il cristianesimo le opposizioni religiose sarebbero diventate assolute. Lo rilevò Salomon che, pur non avendo avuto modo di leggere Das entdeckte Christentum, osservò che se Bauer avesse ragione, ciò non porterebbe alcun beneficio per gli ebrei, ma sarebbe anche peggio per i cristiani22. Vediamo che cosa significa.

Secondo Bauer il carattere universale dell'amore cristiano sarebbe determinato dal fatto che esso, a differenza della religio-ne ebraica, non fa alcuna distinzione tra i popoli. Ma Bauer pun- ta subito il dito su una contraddizione: il cristianesimo offre sì «a tutti i popoli il dono della fede», ma essendo la sua universalità ancora religiosa, «anche il suo fervore è universale in quanto esclude (ausschliefit) tutto ciò che contraddice ed è in contrasto con la fede»23. Se il cristianesimo viene considerato come il supe- ramento della religione ebraica, Bauer intende questo supera-mento come la forma cristiana del compimento del principio di esclusione (Ausschliefilichkeit) ebraico: se gli ebrei lasciavano

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sussistere gli altri popoli, il cristianesimo avrebbe innalzato quel principio di esclusione ad azione e si sarebbe diretto contro ogni differenza rispetto alla comunità cristiana'''. Lo sviluppo, il pro-gresso dall'ebraismo al cristianesimo, si denota insomma come accrescimento dell'intensità delle opposizioni polemiche racchiu-se nel principio di esclusione. Il progresso che Bauer delinea dall'ebraismo al cristianesimo non permette di considerare la condizione cristiana come maggiormente emancipata rispetto a quella ebraica; non è certo possibile attribuire a Bauer la posizio-ne secondo la quale l'emancipazione degli ebrei dovrebbe passa-re attraverso il preliminare «stadio cristiano», cioè il battesimo25.

L'universalismo cristiano sarebbe, secondo Bauer, sempre in procinto di ribaltarsi nel suo opposto: esso ha per oggetto non l'uomo, ma il cristiano, ed esclude necessariamente tutto ciò che non è cristiano. Scrive Bauer: «Che nel cristianesimo l'inumanità (Unmenschlichkeit) sia spinta più in alto che in ogni altra religio-ne, che sia addirittura spinta al suo apice, dipende unicamente e fu possibile solo perché esso aveva afferrato il concetto massima-mente illimitato di umanità e, rovesciandolo e deformandolo nel-la concezione religiosa, rese inumana (unmenschlich) l'essenza umana»26. Solo il cristianesimo infatti, assolutizzando il concetto di umanità e sovrapponendolo alla cristianità, ha potuto generare il concetto di inumanità (Unmenschlichkeit)27 . La dialettica di umano e non-umano non è per Bauer un corollario accidentale della religione, ma una «conseguenza necessaria della coscienza religiosa»28; ne segue che le sette, che si combatterono fino a ster-minarsi a vicenda, non avrebbero fatto altro che realizzare una determinazione immanente al concetto della religione cristiana.

C'è un punto in cui Feuerbach e Bauer sono d'accordo. Entrambi, seppur con accenti diversi, vogliono mostrare che gli atti estremi dell'intolleranza religiosa si iscrivono nel concetto di religione. I punti di convergenza non sono da ricercare in una critica del cristianesimo il cui esito sarebbe l'ateismo; è sulla poli-tica dell'Essenza del cristianesimo che bisogna puntare lo sguar-do. Anche Feuerbach rileva che fu il cristianesimo a produrre la radicalizzazione dell'opposizione polemica amico-nemico: «Chi non è con Cristo è contro di Cristo. Con me o contro di me. La fede conosce soltanto nemici o amici, non imparzialità; è presa solo da se stessa. La fede è essenzialmente intollerante»29. Scrive Bauer, rincarando la dose, che il tormento e lo sterminio (Zedlei-

schung und Vertilgung) cristiani non vanno inventariati tra i tragi- ci errori del passato, dovuti a una cattiva interpretazione dei testi sacri, ma sono invece determinazioni che avrebbero nella religio- ne la loro condizione di possibilità". Il cristianesimo, risolvendo il concetto di uomo nella fede, fa sì che ogni partito religioso cre-da di rappresentare la vera essenza umana, negando con ciò stes-so l'altro in quanto inumano (unmenschlich)31. La formula cristia-na «chi non è con me, è contro di me» (Mt. 12, 30) mostra, secondo Bauer, il carattf esclusivo (ausschliefilich) del cristiane-simo, il cui amore univeis.1 diventa odio contro gli altri popoli e divide l'umanità in battezzati e non battezzati, uomini e non-uomini". Bruno Bauer non poteva che sottoscrivere il riferimen-to feuerbachiano a san Bernardo, un cristiano conseguente quan-do scrive: «In morte pagani christianus gloriatur, quia Christus glorificatur»33. Bauer, ed è questa la differenza con Feuerbach, vuole sottolineare la valenza politica della concettualità cristiana facendone emergere il cuore nel principio di esclusione. Quando Bauer pensava ancora di poter collaborare con Feuerbach, lo esortava a sviluppare conseguentemente la propria critica nella politica. Proponendogli di collaborare alla Rheinische Zeitung, Bauer sottolineava l'urgenza di portare la critica della religione nella politica e invitava Feuerbach a continuare a écrasez

infcime, aggiungendo però che «d'infame è immortale se non vie-ne annientato (écrasiert) nella politica e nel diritto statuale»34. Senza la distruzione dei privilegi civili e politici non è possibile nemmeno annientare il pregiudizio religioso", il quale è sì la base di quello politico, ma nel senso che il privilegio religioso è la proiezione celeste di quello terreno, il quale, a sua volta, viene eternizzato in forza di quella proiezione celeste". Il privilegio civile e politico si consolida attraverso il privilegio religioso ed ecclesiastico, che in questo senso costituisce il suo fondamento. È questa dialettica del principio di esclusione che Bauer vuole mettere in evidenza.

La specificità di Bauer rispetto a Feuerbach andrebbe ricer-cata nella sua teologia politica, nel suo tentativo, che trova nella Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker un punto alto e ancora inesplorato, di indagare l'analogia strutturale tra catego-rie teologiche e politiche. È sotto questa luce che Bauer legge le narrazioni evangeliche, opere letterarie funzionali alla creazione della comunità cristiana e forgiate nel fuoco tipico di ogni feno-

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meno dell' origine37 . Gli evangelisti, in quanto protofondatori del-la comunità cristiana, erano alla ricerca di contrasti. Così quando si afferma «amate i vostri nemici» (Mt. 5, 44), il senso di questa frase è da ricercare, secondo Bauer, nel pragmatismo di Matteo, che intendeva rivolgersi polemicamente contro l'Antico Testa-mento". La questione della Feindesliebe è importante: secondo Bauer la frase non va intesa come espressione dell'amore univer-sale, come l'impossibile superamento del principio di esclusione che invece dà forza e tiene in vita la comunità cristiana. Quella frase ha senso solo se inserita nel suo contesto: è qui che il meto-do storico-formale inaugurato da Bauer dà i suoi frutti migliori". Il precetto evangelico «amate i vostri nemici» ha senso solo nel suo preciso contesto, e cioè come completamento di quanto lo precede immediatamente: «Voi avete udito che fu detto: "Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico"» (Mt. 5, 43). Il punto è che la frase «odia il tuo nemico» non trova riscontro nell'Antico Testa-mento; essa è un'invenzione funzionale alla costruzione di un parallelismo polemico tra l'Antico e il Nuovo Testamento. Quel-la frase è il prodotto di una riflessione posteriore, non di Gesù, ma del pragmatismo letterario dí colui che la chiesa nominò Mat-teo. Il quale, avendo Luca sotto gli occhi, vi aveva potuto trovare il comandamento dell'amore per i nemici (L. 6, 27): ciò che man-cava era la costruzione di questo precetto nella contrapposizione all'Antico Testamento. L'amore cristiano si pone come più uni-versale dell'amore ebraico perché non si limita all'amore per il prossimo, ma comprenderebbe anche il nemico. Bauer mostra però l'artifizio letterario di questa costruzione formale: l'ambre cristiano è universale solo in contrapposizione alla religione ebraica, come dimostrerebbe l'invenzione di un inesistente pre-cetto veterotestamentario di odiare il nemico. L'affermazione dell'amore cristiano per i nemici sarebbe dunque un'affermazio-ne polemica, che costruisce il parallelo con la legge mosaica per contrapporvisi. Attraverso l'esigenza cristiana di inventare con-trapposizioni polemiche funzionali alla costruzione dell'identità della comunità cristiana, Bauer spiega un luogo comune dell'antigiudaismo4°.

Riducendo tutta la storia evangelica a narrazioni, opere let-terarie frutto del pragmatismo degli evangelisti e funzionali alla fondazione dell'identità e della comunità cristiana, Bauer lavora alla dissoluzione della storicità della vita di Gesù e delle narrazio-

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ni evangeliche. Per Bauer non si tratta di mostrare se Gesù ha potuto fare un determinato miracolo, ma di mostrare che il Gesù storico, vale a dire ciò che è stato detto di lui e ciò che noi sap-piamo di lui, appartiene al mondo della «rappresentazione, e non ha nulla a che fare con un uomo del mondo reale»"; il fatto storico è così dissolto nella sua narrazione. Bauer non nega sem-plicisticamente l'esistenza di Dio, ma mostra il carattere storica-mente necessario della rappresentazione religiosa nella forma evangelica dell'autoestraneazione. In questo senso la filosofia dell'autocoscienza annuncia che «Dio è morto (Gott ist tot)»42. Analogamente a quanto scritto da Nietzsche qualche decennio più tardi — «La credenza in un ordinamento divino delle cose politiche, in quanto mistero nell'esistenza dello Stato è di origine religiosa: se la religione sparirà, inevitabilmente lo Stato perderà il suo antico velo di Iside e non susciterà più alcuna venerazione»" — Bauer lascia deflagrare sul terreno della politica la morte di Dio, come fine della trascendenza del potere e sua comprensione nella sfera di una radicale immanenza. La critica di Bauer al cristianesimo e all'ebraismo è dunque un capitolo del dispiegamento della crisi sul terreno della politica, come era annunciato nel sottotitolo di Das entdeckte Christentum: «un contributo alla crisi del XIX secolo (ein Beitrag zur Krisis des neunzehnten [Jahrhunderts])».

Intendendo gli evangelisti come creatori dei miti fondatori della comunità cristiana, e in quanto tali alla ricerca di contrap-posizioni polemiche in forza delle quali dare forma alla comunità cristiana, Bauer può concentrare la propria attenzione sulla tra-ma polemologica della narrazione evangelica. La contrapposizio-ne polemica da cui sorge il cristianesimo si svilupperebbe spa-zialmente dispiegando la polarità tra i battezzati e coloro che devono esserlo; il principio extra ecclesiam nulla salus non signifi-ca solo che al di fuori della chiesa non c'è salvezza", ma indica il principio in cui si dà la possibilità dell'esistenza giuridica della chiesa: i cristiani possono essere fra coloro che si salvano perché fanno parte della chiesa, di un'istituzione visibile la cui identità è data dalla contrapposizione verso i non-cristiani. L'amore cristia-no è universale nella misura in cui si rivolge non agli uomini in quanto tali, ma «all'uomo in quanto credente e in quanto può diventarlo, o piuttosto deve diventarlo e deve necessariamente diventarlo se non vuole essere dannato»". Così Bauer. L'esclusio-

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ne di alcuni è necessaria alla costituzione della chiesa, alla sua identità in quanto organizzazione giuridica. È un tema che ricor-re anche in Schmitt, là dove, in accordo con Peterson, sostiene che «la chiesa c'è solo perché gli ebrei non hanno accettato, per-ché non vivono nella fede»46. L'esclusione, e quindi l'opposizione polemica, diventa il principio costitutivo dell'esistenza della chie-sa visibile. Scrive Bauer che «ogni determinatezza deve necessa-riamente odiare le altre e non può sussistere senza di esse (fede Bestimmtheit mufi die andere hassen und kann doch ohne diessel-be nicht bestehen)»" . Perché la determinatezza di una comunità possa imporsi è necessario che un qualcuno venga escluso e ridotto all'alterità contro la quale far valere la propria identità. Bauer intende mostrare il principio di esclusione come l'atto ori-ginario a partire dal quale prende forma ogni identità politica. Sarebbe questa la logica che attraversa sia la religione che il poli-tico: la teologia politica di Bruno Bauer.

3. RIFORMULAZIONE DELLA QUESTIONE EBRAICA

Bauer decide di intervenire sulla questione dell'emancipa-zione degli ebrei, un tema per altro centrale nello scontro tra liberali e sostenitori del vecchio mondo cetuale e corporativo48, sollecitato dagli scritti che Carl H. Hermes pubblicò a partire dal luglio del 1842 nella Kalnische Zeitung49. Facendo leva sul con-cetto di Stato cristiano, di ascendenza stahliana e messo in essere dalla politica conservatrice di Federico Guglielmo IV, Hermes affermava l'impossibilità di concedere la cittadinanza agli ebrei. Negando l'effettualità di uno Stato razionale fondato su principi universali", egli riteneva impossibile che in uno Stato cristiano vi possa essere la piena eguaglianza civile (vollkommene biirgerliche Gleichstellung) tra cristiani ed ebrei", almeno fino a quando gli ebrei continueranno a contrapporsi in modo ostile (feindlich) al cristianesimo. Facendo propria la struttura dell'argomentazione di Hermes e Frànke152, Bauer ribadisce l'impossibilità dell'egua-glianza tra ebrei e cristiani in uno Stato che ha il cristianesimo come proprio fondamento. Bauer sembra condividere la posizio-ne degli avversari dell'emancipazione, ma solo in apparenza, per-ché egli intende superare anche questa posizione in quanto uni-laterale; gli avversari dell'emancipazione — questa la critica di

Bauer — presupponevano «lo Stato cristiano come l'unico vero Stato, senza sottoporlo alla stessa critica con la quale considera-vano l'ebraismo»". Bauer intende far valere contro i liberali l'impossibilità di emancipare gli ebrei nello Stato cristiano, e con-tro gli avversari dell'emancipazione l'unilateralità della loro criti-ca. Il passo successivo consisterà per Bauer nel togliere l'ultimo presupposto, e quindi sottoporre al vaglio della critica anche lo Stato cristiano, che sia i liberali sia i conservatori lascerebbero invece sussistere.

Bauer intende sottolineare che i sedicenti difensori della causa ebraica trattano la faccenda degli ebrei come una cosa a loro estranea, là dove invece la questione ebraica riguarda anche l'emancipazione dei cristiani. Non per il principio secondo il quale l'unione fa la forza e per il quale ebrei e cristiani, se voglio-no essere emancipati, dovrebbero lottare assieme, ma perché la loro causa è una e la stessa. Perché nessuno, né l'ebreo né il cri-stiano, è libero nello Stato cristiano. Per Bauer non si tratta di edulcorare le catene che opprimono l'ebreo attraverso il passag-gio al cristianesimo. Si tratta invece di mostrare la genericità dell'assoggettamento e la necessità di ripensare idea e pratica del-la libertà. Bauer critica quelle concezioni che, non vedendo il nesso tra emancipazione ebraica ed emancipazione universale, risultano incapaci di porsi all'altezza dei compiti posti dall'epoca moderna. L'emancipazione degli ebrei appare dunque come un momento di una più universale emancipazione, perché la sua realizzazione tocca da vicino la natura stessa dello Stato. Con il concetto di Stato cristiano Bauer intende esprimere la struttura logica che fa del principio di esclusione il momento costitutivo dello Stato. È questo il nocciolo teologico che Bauer evidenzia al cuore del politico. Ciò che i liberali erano incapaci dí vedere era la natura esclusiva dello Stato, cosicché ogni tentativo di chiede-re o esigere dallo Stato la cittadinanza universale risultava secon-do Bauer velleitario, perché è nella logica del politico che un qualcuno venga escluso. L'identità di una comunità politica può esistere solo in forza di un'esclusione.

Per Bauer la soluzione della questione ebraica, ovvero la questione dell'emancipazione, è «addirittura impossibile se l'opposizione viene compresa in modo puramente religioso, per-ché la religione è il principio stesso dell'esclusione, e due religio-ni, fintanto che vengono riconosciute come religioni e come ciò

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che è supremo e rivelato, non possono mai arrivare alla pace»54. Non è quindi esatto sostenere che per Bauer la questione ebraica sia una mera questione religiosa. Come tale, infatti, la questione sarebbe impossibile. Mentre la Kritik lavora alla sua soluzione. Solo in prima approssimazione Bauer disloca l'intera questione sul piano di uno Stato compiutamente laico, nel quale la religio-ne può sussistere come mera «faccenda privata»: «Ogni privile-gio religioso in genere, e quindi anche il monopolio di una chiesa privilegiata, dovrebbe essere abolito, e se un singolo o i più, o anche la stragrande maggioranza credesse ancora di dover adem-piere a doveri religiosi, allora un tale adempimento dovrebbe essere concesso loro come una mera faccenda privata (als eine reine Privatsache)»". Questa posizione, una concessione alle posizioni liberali dell'epoca, dirà Bauer poco più tardi, è però immediatamente mostrata nei suoi limiti.

Nei primi anni Quaranta Bauer dialogava con i liberali per radicalizzarli, per spingerli al di là di un orizzonte emancipativo ancora incernierato sul rapporto individuo-Stato. C'è una dupli-ce considerazione da fare. Da un lato bisogna tenere presente che la riflessione di Bauer è soggetta a una potente spinta accele-ratrice che lo portava a rivedere continuamente quanto scritto anche solo pochi mesi prima. Così la stessa Judenfrage andrebbe immersa in un flusso di pensiero che, ritornando incessantemen-te sugli stessi problemi, va compreso in un arco temporale che tenga almeno in considerazione gli scritti pubblicati nel '44 sulla Allgemeine Literatur-Zeitung, scritti che ben mostrano come ormai sorpassate le posizioni di un paio di anni prima. Questa accelerazione nella riflessione, questo farsi autocritica della critica, è per Bauer un modo, anzi il solo modo possibile, per essere all'altezza della crisi. È questo l'unico elemento di conti-nuità della sua riflessione. Ma c'è ancora una complicazione rela-tiva agli scritti degli anni Quaranta: si tratta della strategia politica di Bauer". Fintanto che Bauer dialoga con i liberali, collabora con Ruge e scrive nella Rheinische Zeitung, adotta la loro termi-nologia, pur non aderendovi totalmente'7. È tenendo presente questo duplice piano che va letta la Judenfrage e l'autocritica del '44: la contrapposizione tra Stato cristiano e libero e vero Stato sarà registrata tra gli «errori dell'anno 1842»58. Bauer la conside-rava un cedimento al liberalismo dell'epoca: «nonostante che

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essa [la critica] sottoponesse il liberalismo stesso a una critica dissolvente, la si è potuta ritenere una specie particolare di esso, forse il suo compimento estremo»". Così il fratello di Bruno, Edgar Bauer, rappresentò la posizione della critica nel 1842: essa «misurava l'opposizione mediante l'opposizione, confutava il popolo mediante il popolo libero, lo Stato mediante lo Stato libe-ro, confutava la libertà esigendo che il concetto di questa venisse universalizzato e venisse esteso sotto tutti i lati a tutte le istituzio-ni, a tutti gli individui. Confutava il concetto di diritto mediante l'esigenza dell'eguaglianza del diritto»60. Invischiata in tutte que-ste contraddizioni la Judenfrage risulta essere un testo politico addirittura nel senso dell'intervento politico. Circostanza questa che, anche per il confronto con Marx, risulta fondamentale per l'intelligibilità di entrambi gli scritti.

E fu questa sua particolare politicità a provocare la reazione sia dei liberali sia dei conservatori'''. In nome del "principio cri-stiano-germanico", Marcard affermò che scrittori come Bauer «sono, consapevolmente o meno, pagati o meno, i veri aratori dell'aurea seminagione dell'ebraismo»62. Dalla parte opposta gli si rimproverava da un lato di aver considerato l'ebraismo come un elemento estraneo allo sviluppo della storia63, e dall'altro di aver frainteso, se non addirittura falsificato, la religione, sottoli-neando il carattere esclusivo del cristianesimo e dell'ebraismo64. Ma tranne rarissime eccezioni, lo scritto di Bauer rimase incom-preso nel suo significato politico.

Mendel Hess, che fu rabbino a Weimer, pubblicò nello Israelit des neunzehnten Jahrhunderts, di cui era redattore, parte della Judenfrage di Bauer, a cui non risparmiò severe critiche°. Particolarmente interessante è un lungo colloquio, pubblicato nella rivista di Hess, tra un suo corrispondente e Bauer:

Trovai Bauer nella sua camera, che faceva da soggiorno, stanza per le visite e studio; era avvolto in una tale nuvola di fumo che, ovun-que volgessi lo sguardo, non vedevo altro che fumo; sembrava ci fosse una locomotiva. Il critico mi rimase a lungo nascosto e la sua presenza si manifestò solo attraverso il richiamo: "venga avanti". Alla fine fu aperta una finestra, il fumo dileguò, e incominciai a vedere l'uomo che con la sua penna aveva distrutto l'enorme edifi-cio costruito in milleottocento anni. Un uomo magro, l'aspetto di uno studioso, di statura media e con un'ampia fronte, uno sguardo penetrante e i capelli biondi. Complessivamente non appare molto

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invitante, ma parlando guadagna in cortesia (...). Se l'è presa parti-colarmente per il fatto che lo accusate [il corrispondente si rivolge a Hess. N.d.A.] di avere un pregiudizio contro gli ebrei. Disse che nella sua brossura sull'assemblea degli stati del Baden sosteneva gli ebrei, perché la verità e la natura della cosa lo porta-vano a far ciò (...). Egli sostiene di essere un critico, e di non aver nulla a che fare con i pregiudizi (...). Proseguì dicendo che, qui come altrove, si sarebbe espresso sulla religione cristiana non meno criticamente che su quella ebraica, offendendo il vetusto sentimento cristiano-teologico. (...) Se guardiamo la storia delle religioni e il loro concetto, troviamo che ogni religione è una casta che esclude dai suoi privilegi (von ihren Privilegien ausschliefit) la casta che le sta di fronte, alla quale nega e deve necessariamente negare i suoi diritti".

È quest'ultimo elemento ciò che maggiormente interessa a Bauer, perché è attorno al concetto di esclusione (Ausschl4ung) che ruota il politico e si pone il problema di una reale emancipazio-ne. Lo stesso Bauer sembra convinto che questa sia la sua acqui-sizione più importante. Ai suoi critici egli obietta infatti che, per criticarlo, avrebbero dovuto confutare la sua dimostrazione che lo Stato cristiano, «dato che il suo principio vitale è una religione determinata, non può concedere ai seguaci di un'altra religione determinata (...) la completa eguaglianza»67. Per Bauer l'esclusio-ne praticata in alcuni Stati cristiani non è frutto di un fraintendi-mento del cristianesimo, ma è connaturata alla sua essenza. Mostrando le condizioni teologiche di possibilità dell'esclusione politica, Bauer vuole riformulare la questione dell'emancipazione sopprimendo quella logica esclusiva.

4. EMANCIPAZIONE E LIBERAZIONE

Nel contesto del Vormdrz la questione dell'emancipazione degli ebrei si intrecciava con quella della loro cittadinanza. Bauer intende però riformulare il problema chiedendosi se è possibile che nello Stato cristiano si diano libertà e diritti universali68. È alla storia che Bauer guarda. Alla storia fatta di lotte e conflitti. Con questo spirito studia e interpreta gli avvenimenti della rivo-luzione di luglio, che, concedendo i diritti civili e politici agli ebrei francesi, sembrerebbe averli a pieno titolo elevati al rango di «liberi cittadini». Ma questa libertà, obietta Bauer, non è anco-

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ra reale; l'uguaglianza davanti alla legge è infatti negata nella vita quotidiana, dove l'ebreo deve smettere di essere ebreo se, ad esempio, nel giorno del sabato deve prendere parte a una riunio-ne della camera dei deputati. In questi riferimenti è certo possi-bile dare ragione di quelle critiche marxiane secondo le quali Bauer prenderebbe in considerazione non «l'ebreo di tutti i gior-ni», ma solamente «l'ebreo del shabbat»69. Ma per Bauer si tratta di mostrare come la presenza di una sfera religiosa istituzionaliz-zata infici la pretesa laicità dello Stato; come il riconoscimento statale di alcuni doveri religiosi, quali ad esempio il rispetto del giorno di festa, produca un torto verso i membri di un'altra reli-gione.

Secondo Marx, questa appare essere prima facie la critica, Bauer penserebbe l'emancipazione solo nella sfera politica, lasciando così sussistere la religione come una faccenda privata relativa alla società civile. Marx riconosce certo l'importanza dell'emancipazione politica, che considera «un grande progres-so», ma sottolinea che l'emancipazione non può dirsi compiuta senza l'emancipazione reale e pratica". Nel suo scritto, Marx accusa Bauer di trattare lo Stato teologicamente e la questione dell'emancipazione ancora in termini religiosi: secondo Marx l'emancipazione politica lascerebbe sussistere le diverse religioni come diverse concezioni del mondo, riducendole alla sfera priva-ta. In questo modo l'emancipazione politica non emanciperebbe l'uomo dalla religione, vale a dire dalla scissione, che è propria dell'individualità moderna, tra bourgeois e citoyen: «I membri dello Stato politico sono religiosi a causa del dualismo tra vita individuale e vita di genere, tra vita della società civile e vita poli-tica»". Il dualismo religioso tra mondo terreno e ultraterreno si duplica, trovando la propria base materiale, nella scissione tra uomo pubblico e uomo privato, una scissione nella quale, alla pari di quanto avviene nella religione, la vita dell'individuo è divisa in una vita celeste e una vita terrena: è.questa vita dimidia-ta, questa scissione dell'individuo moderno in bourgeois e citoyen, in membro della società civile e «membro immaginario di una sovranità fantastica», a costituire la «reale religiosità dell'uomo»". Togliere la scissione significa dunque togliere quel-la «universalità irreale» con la quale il singolo, «spogliato della sua reale vita individuale», viene riempito ed innalzato alle sfere celesti della politica. Ma quella «universalità irreale» può essere

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tolta solo attraverso una reale universalità: in ciò, e in nient'altro, consiste l'emancipazione reale evocata da Marx. La posta in gio-co è dunque l'universalismo come questione che, in Marx come in Bauer, si pone a partire dalla fine della compagine cetuale73. La fine del vecchio cemento sociale, costituito da una pluralità di appartenenze politiche a ceti e corporazioni, pone con forza la questione di una nuova forma di legame sociale, di ciò che può tenere assieme individui atomistici ostilmente contrapposti gli uni agli altri. Mostrata l'irrealtà della comunità politica statale, che riproduce incessantemente il dualismo tra bourgeois e citoyen e nella quale l'uomo conduce la propria vita collettiva solo nella forma di una parvenza, Marx nota come l'unico legame che tiene assieme gli individui sia la «necessità naturale, il bisogno e l'inte-resse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica»74. Ma proprio questo legame, in quanto è con-trapposto alla vita politica dell'individuo, in tanto mostra tutta l'irrealtà di quella universalità pensata come mondo separato del-la politica, del citoyen contrapposto all'uomo reale. E qui, nel modo di intendere l'universale, che si delinea la direzione nella quale Marx intende superare Bauer. Ciò che invece è discutibile è se Marx, con gli strumenti teorico-politici in suo possesso nei primi anni '40, fosse realmente in grado di compiere questo oltrepassamento. Nella sua replica alla Judenfrage di Bauer, Marx cerca nel lessico feuerbachiano una possibile alternativa alla comunità irreale dello Stato e ai rapporti tra le monadi egoistiche e conflittuali della società civile. Il problema riguarda la possibi-lità della vita dell'individuo all'interno di rapporti che non siano a lui ostili o fantastici, ma che siano la sua stessa esistenza di genere". II Gattungswesen è il termine provvisoriamente usato e presto lasciato cadere da Marx per indicare la conciliazione dell'individuo con il genere umano, cioè l'immersione dell'indivi-duo in rapporti che non gli stanno di fronte come una potenza ostile76, ma che egli riconosce come un proprio prodotto. Questo progetto è abbozzato nella seconda parte di Zur Jundenfrage, spesso trascurata a beneficio della prima, ma fondamentale ai fini dell'intelligibilità della critica a Bauer e per comprendere il profi-lo delle nuove alleanze marxiane". Poca attenzione è stata fatta su una particolarità della seconda parte di Zur Jundenfrage, la quale, invece di prendere in considerazione l'altro scritto di Bauer — La capacità di diventare liberi degli ebrei e dei cristiani di

oggi —, come sarebbe lecito aspettarsi, sposta totalmente la linea di analisi. È qui che l'ipotesi baueriana di un repubblicanesimo radicale viene avvertita come insufficiente, perché lascerebbe sussistere il dominio di un potere estraneo ed ostile, rispetto al quale l'individuo sarebbe un mero trastullo: il denaro. Questa estraneità è per Marx la radice ebraica del mondo moderno, da intendersi però solo e unicamente nel senso che i rapporti estra-niati della religione trovano qui il loro presupposto reale: nel rea-le dominio del denaro come potenza estranea agli individui. La seconda parte di Zur Judenfrage indica la vera linea di ricerca di Marx. Nel '43 Marx non ha ancora elaborato una via autonoma capace di mettere a fuoco le leggi che regolano quel potere estra-neo che incombe sugli individui, capisce però che la prospettiva di Bauer lambisce appena quei problemi che, nel momento stes-so in cui vengono posti, marcano una nuova, divergente linea di pensare l'universale.

È ormai chiaro. La polemica tra Marx e Bauer non riguarda il fatto che Bauer lascerebbe sussistere la religione come mera faccenda privata, mentre Marx lavorerebbe alla sua soppressione nei rapporti reali; la questione riguarda la forma religiosa di un dualismo che si configura da un lato nell'«universalismo irreale» dello Stato come potenza contrapposta all'individuo, dall'altro come dominio della potenza del denaro, e cioè di una forma di legame sociale inconsapevole e contrapposto ai singoli. In entrambi i casi la posta in gioco è un pensiero e una pratica dell'universalismo capaci di andare al di là di un orizzonte mera-mente giuridico, fosse anche quello dei diritti umani.

Per Bauer si tratta di pensare l'esclusione che necessaria-mente si produce nella forma Stato, non solo nello Stato cristia-no come gli rimprovera Marx, ma in ogni forma statale in quanto determinatezza e identità politica. Per questa ragione, scriverà Bauer, al centro del proprio interesse è la Staatsform, e non la Gesellschaft, che «non esclude nessuno (die niemanden aussch-eP)»". Ciò non significa separare le due sfere fino a fare della

società il regno della libertà realizzata. Al contrario, significa mostrare il modo in cui le ingiustizie di una sfera retroagiscono sull'altra. È al riguardo paradigmatico il modo in cui Bauer mette in rilievo la contraddizione fra l'eguaglianza dei culti di fronte alla legge espressa nella Charte del 1830, e la scelta della domeni-ca come giorno di riposo sancito dalla religione della maggioran-

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za dei francesi. Secondo Bauer sancire statualmente il giorno di festa, anche se questo corrisponde alla religione della maggioran-za, costituisce un privilegio che va a limitare la libertà di chi non si riconosce in quella religione. Questa illibertà «retroagisce sulla legge obbligandola a sanzionare la distinzione dei cittadini, in sé liberi, in oppressi e oppressori»79. La scelta della domenica come giorno festivo discriminerebbe il sabato ebraico ed obblighereb-be gli ebrei a festeggiare un giorno per loro privo di significato. Il problema non è risolvibile dichiarando anche il sabato giorno di festa accanto alla domenica, perché ogni politica del juste-mileu porterebbe necessariamente a un torto verso le minoranzen e non ha qui importanza la loro determinazione numerica. Anche se si trattasse di un solo musulmano, sarebbe comunque un tor-to. È la struttura contraddittoria di un modo di intendere i diritti che Bauer vuole mettere in evidenza: non è possibile distinguere tra vita (Leben) e legge (Gesetz), perché le illibertà che si danno in una sfera retroagiscono necessariamente nell'altra. L'uomo è eguale in quanto cittadino, è libero in quanto la sua libertà gli è riconosciuta dalla legge, ma nella vita reale la proclamata libertà di ogni cittadino viene negata, mostrando così un meccanismo esclusivo che opera anche al cuore del presunto universalismo della legge.

Commentando i dibattiti della camera francese del 1840 in materia religiosa, Bauer riporta la posizione di Luneau, il quale osserva che togliere dalla legge il riferimento alla domenica avrebbe significato dichiarare l'inesistenza della religione in Francia. Bauer glossa l'opinione di Luneau dicendo: «non c'è più religione se non c'è più nessuna religione privilegiata. Si tolga alla religione la sua forza di esclusione (ausschlieknde Kraft) ed essa non esiste più»81. Dai dibatti francesi intorno alla scelta del giorno festivo, emerge che la religione non è una «mera faccenda privata». Leben e Gesetz costituiscono le polarità del ragiona-mento di Bauer, i pilastri che gli permetto di mostrare il limite della situazione. La proclamazione dell'uguaglianza davanti alla legge non è tale se viene smentita nella vita, dove l'ebreo è costretto a festeggiare un giorno per lui privo di significato. Le disuguaglianze e il torto che si danno nel Leben, e che si danno in forza di legge, inficiano il preteso universalismo della legge. Non esiste una politica compromissoria, nessun juste milieu, in grado di risolvere la questione. Un intero modo di intendere

l'universalismo in termini di Stato, diritto e legge appare ora come limitato. Per Bauer la questione ebraica non si risolve in una qualche forma di coesistenza tra sfere che mantengono la loro particolarità82, una sorta di overlapping consensus tra le diverse concezioni del bene come base per la realizzazione di una convivenza pacifica entro coordinate "multiculturali"83.

Siamo ancora lontani dalla soluzione del problema, ma ini-zia a configurasi la necessità di pensare diversamente i diritti: non come ciò che è garantito dallo Stato a partire dalla definizione di una soggettività giuridica uguale perché astratta, ma come spazio di una politica il cui comune è l' incontro di soggettività concrete nelle loro, pratiche di liberazione e per i diritti. Per Bauer i diritti che lo Stato può concedere all'ebreo in quanto ebreo sono una sorta di privilegio, qualche cosa di eccezionale che, così come vie-ne concesso, può anche essere revocato. La stessa vita dell'ebreo nello Stato si configura come «una momentanea eccezione rispetto all'essenza e alla regola»84, perché il perseguimento della propria legge lo pone in contraddizione con i doveri verso lo Sta-to. Da una parte, quindi, non si possono dare diritti particolari, perché questi implicano esclusione e torto, dall'altra non è possi-bile l'emancipazione in nome di un interesse particolare o dell'attaccamento a una determinazione positiva.

Ma, ancora più radicalmente, non è possibile l'emancipa-zione in termini di diritti concessi dallo Stato: l'emancipazione non è qualcosa che può essere data, perché ciò porterebbe inevi-tabilmente ad un rapporto di dipendenza verso l'autore di quella liberazione. Si può essere solo soggetti della propria liberazione, e ín quanto tali, pienamente autonomi. Scrive Bauer che <d'ugua-glianza e la libertà che vengono solo concesse e non conquistate, equivalgono all'ineguaglianza e alla illibertà stessa perché lascia-no sussistere il privilegio e la schiavitù, che non sono soppressi nel lavoro e nella lotta reale (durch wirklichen Kampj)»85. In que-sto modo Bauer oltrepassa un modo meramente giuridico e sta-tale di pensare l'emancipazione, per dar forma a un nuovo modo di intendere l'universalismo politico. Non orizzonte giuridico, ma condizione di accesso al regno della politica. Non partecipazione allo Stato esistente, ma creazione di una nuova forma politica che viene incontro al principio della libertà universale86.

Non c'è per Bauer alcun soggetto predeterminato della rivoluzione: nessuno può portare la libertà agli altri. L'autoco-

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scienza, scrive Bauer, lascerà «ai non liberi la libertà di non essere liberi (den Unfreien die Freiheit lassen, unfrei zu sein)»87. È il sin-golo a doversi fare soggetto della propria liberazione, innanzitut-to lottando contro se stesso, contro il proprio interesse particola-re e il legame a una tradizione che si considera valida unicamente perché inveterata. Se l'universale è condizione di accesso alla politica, non può essere pensato nella dimensione di un'anodina neutralità, ma va invece pensato in termini polemici, come lotta, anche e prima di tutto, come «lotta contro le tradizioni storiche»88 e contro la positività dell'appartenenza a una qualche comunità. La strada indicata da Bauer è tutt'altro che semplice: «Può essere che essa sia realmente più dura: ma la mia unica preoccupazione è che essa sia vera; l'unica questione è se un male può essere realmente estirpato senza andare alle sue radici, e chi vuole lamentarsi, accusi solo la libertà, poiché essa esige non solo dagli altri popoli, ma anche dagli ebrei, il sacrificio di tradizioni invecchiate, e non che ci si consacri ad esse»89. L'ave-vamo già visto: per Bauer «la libertà non può essere né supplica-ta né donata, ma può solo essere conquistata»90.

5. DIALETTICA DEI DIRITTI UMANI

Da quanto finora detto, dovrebbe apparire chiaro che Bauer non intende negare la libertà agli ebrei, ma, mostrando i limiti di un modo di intendere la libertà all'interno della logica individuo-Stato, cercare una diversa declinazione di quel concet-to. Né gli ebrei né alcun singolo individuo viene escluso dal regno della libertà, e questo non in forza di una poco plausibile politica liberale di Bauer, bensì a partire dalle categorie politiche all'interno delle quali Bauer articola il proprio discorso. La criti-ca delle posizioni liberali favorevoli all'emancipazione porta pro-gressivamente Bauer a formulare una critica dello Stato tout court91. Critica i difensori dell'emancipazione perché incapaci di pensare l'emancipazione in modo conseguente; per essi l'emanci-pazione sarebbe la partecipazione a un privilegio che, secondo Bauer, non solo non ha nulla a che fare con la libertà, ma anzi riproduce quell'illibertà che essi verrebbero combattere. La criti-ca alle posizioni dei liberali non investe solo la loro inconsequen-zialità sul piano della politica, diventa critica di una posizione

che invece di lottare per la libertà, si trova schierata dalla parte dei suoi nemici. È lungo l'asse di questa riflessione che si eviden-zia «l'odio di Bauer verso il liberalismo politico», che già Bar-nikol92 mise in rilievo. La questione dell'emancipazione degli ebrei non è né la questione dell'estensione della cittadinanza né quella di una particolare concessione di diritti agli ebrei. Entram-be queste concezioni sono legate a un modo di considerare i diritti a partire dallo Stato; ma il potere che concede i dritti può sempre revocare quella concessione. Come, ricorda Bauer, è sto-ricamente avvenuto durante la Restaurazione. Secondo Bauer non si può nemmeno parlare di cittadinanza in uno Stato che conosce solo una generale sudditanza. Lo Stato moderno, nel quale il popolo è assurto al rango di sovrano, produce anche la più radicale insignificanza politica dei singoli, che tendono a spa-rire in una massa anonima.

La riflessione di Bauer trova nella logica diritti umani un ganglio di accumulo delle aporie costitutive del diritto moderno e del modo liberale di pensare il rapporto tra individuo e Stato. Se per Bauer i diritti umani non vanno pensati come concessioni da parte dello Stato, ancor meno devono essere considerati come diritti naturali ed eterni che lo Stato dovrebbe tutelare e garantire. Bauer rileva qui una profonda contraddittorietà in grado di lacerare e depotenziare la carica rivoluzionaria dei diritti umani. Se infatti, scrive Bauer nella Judenfrage, l'idea dei Menschenrechte «è stata scoperta dal mondo cristiano solo nel secolo scorso»", non è pensabile considerarli indipendenti dalla storia, vale a dire come droits naturales. In stato d'accusa sono le concezioni che considerano i diritti umani qualcosa di innato o di radicato nella natura, e quindi la stessa dichiarazione del 1789 che trasforma questi diritti in droits naturales et imprescriptibles de l'homme. Questa naturalizzazione ed eternizzazione dei diritti umani si rivela essere un'incauta strategia per disinnescare la loro origine, cioè la pratica politica nella quale sono stati forgiati e nella quale ha preso forma una soggettività politica. L'idea dei diritti umani non è sovrastorica, «non è innata nell'uomo, ma viene piuttosto conquistata nella lotta (im Kampfe) contro le tra-dizioni storiche»". I diritti umani non si inseriscono in alcun modo nel continuum naturale della storia, ma lo spezzano, sono il risultato di una lotta e di una frattura nei confronti di leggi e consuetudini consolidate.

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Seguendo la strada intrapresa nella critica teologica, e svi-luppata nella propria filosofia dell'autocoscienza95, Bruno Bauer intende mostrare che nessuna creazione dello spirito può avere valore assoluto e durata eterna. Bauer segna una cesura netta tra la sfera del diritto e la natura; ciò significa che il concetto di dirit-to, pensato e praticato nella crisi del sistema cetuale, va inteso come la negazione dei privilegi legati alla natura e alla nascita. Ogni richiamo alla natura, per quanto riguarda i diritti umani, non può che suonare equivoco e fuorviante. Separare l'uomo dalla natura, farne un prodotto storico, significa per Bauer fare dell'uomo il prodotto delle sue proprie lotte, della sua emancipa-zione e delle battaglie contro la tradizione: «l'uomo è un prodot-to della storia, non della natura, è il prodotto di se stesso e della sua propria azione, e necessitava delle moderne rivoluzioni, attraverso le quali vengono fatti valere i diritti umani (Menschen-rechte) contro gli istinti e le determinazioni naturali che governa-vano e dirigevano gli uomini nella vita cetuale (in dem stiindi-schen Leben), delle stesse rivoluzioni per mezzo delle quali giun-ge finalmente a se stesso e diviene uomo»96. L'uomo, il preteso titolare dei droits de l'homme, è esso stesso un prodotto storico, il risultato di una cesura dalla natura. I diritti umani, sorti dalla lot-ta contro ogni privilegio della nascita, restano prigionieri del principio da loro combattuto: la libertà appena conquistata diventa, assieme alla proprietà, alla sicurezza e alla resistenza all'oppressione, uno dei droits naturels et imprescriptibles de l'homme. Vengono così isolati dalle lotte nelle quali solamente hanno realtà, per essere, alla pari dei privilegi, radicati nella natu-ra. Per Bauer l'uomo non nasce né libero né uguale, ma lo diven-ta attraverso la lotta contro í privilegi e le tradizioni; solo nelle lotte in cui viene affermata la libertà e l'eguaglianza si produce il moderno concetto dí uomo. Sono queste le coordinate entro le quali Bauer costruisce la propria nozione di universalismo.

Rimarcando una concezione polemologica della storia e dell'universalità che gli è peculiare, Bauer fa convergere nella nozione dei diritti umani le proprie idee di storicizzazione e denaturalizzazione: «I diritti dell'uomo — scrive ancora — non sono quindi un dono della natura (ein Geschenk der Natur)», non sono portati in dote dalla storia passata, ma sono «il premio della battaglia (der Preis des Kampfes) contro l'accidentalità della nascita e i privilegi che la storia ha finora lasciato in eredità di

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generazione in generazione»". Ora, per quanto riguarda il confronto tra Marx e Bauer, va

detto che la questione al centro della Judenfrage non è se l'ebreo possa essere emancipato politicamente o possa ricevere i diritti uni-versali dell'uomo", perché secondo Bauer i diritti non sono né concessi né ottenuti per grazia, ma possono solo essere conquistati: sono solo il «premio di una battaglia». Troppo spes-so si è evinta la posizione di Bruno Bauer unicamente da ciò che Marx ha scritto polemicamente contro di lui, fraintendendo così non solo la posizione di Bauer, ma anche quella di Marx. Quanti marxisti, o presunti tali, si sono presi la briga di andare a dissot-terrare quel testo in gotico del 1843, da allora mai più ristampa-to, e al quale lo scritto di Karl Marx intendeva rispondere?

Quando Marx, nella sua replica, distingue i diritti dell'hom-me da quelli del citoyen, bisognerebbe interrogarsi sul senso di questa distinzione99. Per Marx essa riproduce quella tra il mem-bro della società civile e il membro dello Stato politico: nella sequenza delle scissioni — uomo e cittadino, società civile e Stato — Marx mostra la totalità sociale come intimamente lacerata, segnata da cesure e tensioni che pongono in forma di problema la possibilità stessa di una sintesi. Attraverso la critica a Bauer e attraverso un ripensamento dell'universalismo, Marx cerca di delineare un modo altro di superare la scissione dell'individuo moderno".

Ma è Bauer che, nell'immediato, fornisce i pezzi dí artiglie-ria più forti per una critica della Dichiarazione e dei limiti della concezione dei dritti umani. Vediamo cosa significa.

L'articolo dieci della Dichiarazione francese dell'89 recita: «Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche reli-giose, purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge» "1 Non solo la libertà di religione e di opi-nione trovano un limite nella legge, che ne determina sovrana-mente la sfera, ma quelle stesse libertà esistono solo in forza della legge. Non è della libertà dell'uomo, ma di quella del cittadino che parla la Dichiarazione, sottendendo così la completa sussun-zione del concetto di uomo nel concetto di cittadino; l'uomo, appena liberato dai vincoli cetuali, viene ripiegato nella condizio-ne di cittadino (Staatsbiirger), la cui libertà è determinata dalla legge. Nell'espressione Déclaration des droits de l'homme et du citoyen i due termini sembrano così definire non due realtà

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distinte, ma un'endiadi nella quale il primo termine è già da sem-pre contenuto nel secondo. Il concetto di uomo è radicalmente sussunto in quello dí cittadino: si può essere titolari di diritti umani solo attraverso la garanzia di un potere pubblico che li faccia rispettare. Si può quindi essere titolari di diritti umani solo in quanto si è cittadini di uno Stato: in questo senso l'homme del-la Déclaration è pienamente assorbito nel citoyen. Seguendo que-sta trama argomentativa emerge che solo l'appartenenza alla comunità politica, a uno Stato, definisce l'essenza dell'uomo e i suoi diritti". La logica dei diritti universali sembra quindi essere attraversata da una contraddizione di fondo: i diritti universali avrebbero vigore unicamente per il cittadino di uno Stato, pre-supponendo così implicitamente l'esclusione di chi non è cittadi-no, e cioè proprio di chi avrebbe più bisogno di quei diritti uni-versali". Ma c'è un problema ulteriore: se la validità dei diritti umani viene garantita ancorandoli alla cittadinanza, la natura esclusiva di quest'ultima spezza i diritti umani in una vocazione universalistica, che sopravvive nella morale, e in una realtà privi-legiata, legata al reale potere in grado di garantirli. Questa parti-colare dialettica dei diritti umani, sulla quale si fonda anche la loro indeterminatezza, li trasforma in qualcosa di subordinato aí reali rapporti di forza.

Per mettere in evidenza limiti e aporie dei diritti umani, Bauer cercherà di tracciare la loro genealogia nel contesto della Rivoluzione francese. Da una parte, come già accennato, Bauer mostra il loro carattere storico, il loro essere risultato di una con-creta battaglia storica, cosicché la pretesa eternizzazione dei dirit-ti umani si presenterebbe come un loro presupposto teologico da disinnescare. Dall'altro lato, intraprendendo contemporanea-mente un esame critico della Rivoluzione francese", cerca di delineare le conseguenze dell'eguaglianza sorta dalla distruzione dei privilegi operata dalla Rivoluzione.

In forza dei diritti umani la Rivoluzione produrrebbe una radicalizzazione del concetto di guerra che, da «guerra di una nazione contro altre nazioni, di un re contro altri re» diventereb-be «guerra di tutti i nemici della costituzione francese contro la Rivoluzione, e questi nemici sarebbero sia interni sia esterni»'°5. La Francia rivoluzionaria si autoproclama l'unica nazione libera e, nella difesa dei diritti umani e del principio della libertà, si sen-te autorizzata a dichiarare guerra a tutti i nemici dell'umanità.

L'inimicizia diventa assoluta: «non ci devono più essere re in Europa; un singolo re sarebbe sufficiente a mettere in pericolo la libertà universale»1°6. È questo il meccanismo innescato dall'assolutizzazione e ipostatizzazione di concetti universali in una nazione. È questo l'esito della particolarizzazione di un uni-versale: «i francesi volevano rovesciare le nazionalità privilegiate, soprattutto i popoli, per togliere loro la specificità popolare — nel fervore dei diritti umani credevano di essere legittimati a far ciò -e vinsero come nazione, vollero valere come nazione e dominare come la grande nazione, come il popolo unico ed esclusivo»". La lotta intrapresa in nome dei diritti universali porta prima ad un superamento della distinzione tra nemico interno e nemico esterno, poi ad una svalutazione delle altre nazioni europee e all'affermazione della nazione francese come la sola meritevole di avere una storia". Ecco le forme del dramma che Bauer vede dispiegarsi dall'innesto dei diritti umani sul concetto di guerra: «quando il concetto dei diritti universali dell'uomo fu messo in azione, immediatamente ai confini della Repubblica vennero completate tutte le forme del dramma»". Ecco l'assolutizzazio-ne dell'inimicizia: da una parte ogni principe, assieme a chiunque goda di immunità e privilegi, diventa un nemico dei rappresen-tanti della libertà universale; dall'altro lato chi attenta ai diritti universali dell'uomo non è più un semplice nemico, ma diviene un criminale da annientare. Come proclamerà nel 1794 Barère davanti alla Convenzione: «L'humanité consiste à exterminer ses ennemis»"°.

Mostrando il nucleo teologico della Dichiarazione Bauer mostra impietosamente tutte le conseguenze di quella teologia non disinnescata. Così pure, per quanto riguarda i rapporti inter-ni dello Stato, il soggetto della Dichiarazione appare ormai essere solo il cittadino, colui che è eguale in quanto egualmente soggetto alla legge. La Rivoluzione ha perciò sì distrutto le antiche diffe-renze cetuali e gli antichi privilegi, ma lo ha fatto assoggettando l'individuo allo Stato, che ha dissolto ogni differenza particolare in un'unica differenza universale: quella tra Volk e Regierungill L'eguaglianza è quindi solo eguaglianza davanti allo Stato, «rap-porto universale dei sudditi sotto la totalità dello Stato, che domina tutti allo stesso modo»"2. La Rivoluzione ha quindi libe-rato l'uomo, ma questa libertà, la libertà di cui parla la Dichiara-zione, è solo la libertà sancita dalla leggera: le illibertà e le ine-

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guaglianze sociali permangono come pendant necessario dell'eguaglianza politica114.

Negli scritti del Vormiirz Bauer delinea il campo dei proble-mi che ai suoi occhi si dischiude a partire dalla Rivoluzione fran-cese, e dalle rivoluzioni della prima metà dell'Ottocento. Il prin-cipio di esclusione, studiato da Bauer nella critica evangelica e poi nella forma politica – nella teologia politica dello Stato moderno – lo porterà ad affermare che il «pregiudizio politico e religioso sono indissolubilmente uno e lo stesso»115. Così, quan-do Bauer indaga lo Stato cristiano e la questione dell'emancipa-zione degli ebrei – le due cose sono tra loro connesse —, l'importanza della sua riflessione è data dalla ridislocazione con-cettuale di un coacervo di problemi non registrabile con gli stru-menti categoriali dei liberali del tempo. Bauer ridefinisce l'intera questione ponendone una sulla necessità logica, per lo Stato, di determinare la propria identità a partire da un'esclusione e, di conseguenza, sul carattere necessariamente universale dell'eman-cipazione. L'incrocio nel quale Bauer pensa libertà ed emancipa-zione diventa momento di apertura della forma politica statale.

Il problema è pensare la libertà, il suo imprescindibile uni-versalismo, al di là dell'orizzonte della libertà che lo Stato dovrebbe garantire ai singoli. Qui la forza, ma anche l'ambiguità di Bauer. In Das entdeckte Christentum, che Marx assieme a pochi altri ebbe modo di leggere, Bauer cercò di articolare, attra-verso il concetto di Gattung, l'elemento comune e generico di una pratica politica intesa come processo di liberazione. Quando Bauer afferma che il «pensiero è il vero processo generico (das Denken ist das wahre Gattungsprozefi)>>116, intende rilevare come la Gattung si definisca non sulla natura, ma come processo uni-versale del pensiero"'. L'universale (das Allgemeine) va inteso secondo Bauer non come «un oggetto dato al di fuori del pensie-ro e in sé conchiuso, ma, come puro universale, solo nell'attività del pensiero, come qualcosa di indifferenziato, senza soluzione di continuità e autosussistente. È l'atto (That), l'elevazione e l'essen-za dell'autocoscienza stessa»l". La libertà è per Bauer qualcosa che si manifesta nell'attività del pensiero: universalità e polemo-logia al tempo stesso. L'universalità, come attività del pensiero, non solo denuncia il torto di ogni esclusione di chiunque sia in grado di pensare, e quindi di chiedere ragione della propria esclusione, ma mostra anche che quell'universale non è il terreno

neutrale della tolleranza: esso coincide piuttosto con la posizione degli esclusi. Non c'è nessuna legge storica che garantisca l'uni-versalismo dei diritti, perché questo, secondo Bauer, è solo il risultato di una lotta tra gli esdusi e i detentori di privilegi. Que-sto significa però che l'universalità dei diritti umani emerge nei conflitti pratici (praktische Kiimpfe)1" come posizione di quella parte che non ha parte. L'universale si manifesta non in un qual-che interesse particolare di un determinato soggetto storico-sociale, ma nelle lotte degli esdusi per partecipare a quei godi-menti che sono loro preclusi:

Sì, vogliamo partecipare; ogni nuovo principio ha inquietato, con la sua brama di partecipazione, e ha definitivamente rovesciato le classi privilegiate. Quando questa brama è risvegliata non serve più a nulla che la classe privilegiata permetta solo ai capi di parte-cipare al privilegio — il suo privilegio deve necessariamente diven-tare diritto universale. Gli Hussiti non vollero lasciare il vino solo ai preti, la loro brama non era ancora placata che i sacerdoti lascia-rono prendere parte al rito del vino alcuni principi laici. Ma essi volevano che ognuno ne potesse godere, e non passò molto tempo che chiunque lo volesse poté bere. In tutta la storia ogni classe esclusa (fede ausgeschlossene Klasse) ha voluto partecipare (mitge-niefien), e finora non si è potuto negarlo a nessuna classe che lo volesse seriamente. Bevetene tutti, sta scrittom.

L'universale, per Bauer, e come sarà anche per Marx, non si dà come neutralità, ma come la posizione di una parte la cui pratica coincide con l'universale. Nei reali casi di esclusione l'universale non è un compromesso con gli esclusi, ma è invece la ragione che gli esclusi riescono a imporre ai detentori del privilegio, cioè a chi li vuole escludere togliendo loro la parola, neutralizzando lo spazio politico attraverso la privazione della possibilità di giudi-care circa l'ingiustizia di quella esclusione.

Il celebre apologo di Menenio Agrippa permette di vedere all'opera l'erosione egualitaria di differenze che pretendono esse-re naturali. Com'è noto, per convincere i plebei a ritornare al loro posto, Menenio Agrippa si serve di una metafora organici-stica secondo la quale, per il buon funzionamento dell'intero, è necessario che ciascuna parte compia il proprio dovere: se una parte viene meno al proprio dovere, a risentirne è 1' intero orga-nismo, e di conseguenza anche quella parte che ha preteso di far

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valere il proprio interesse particolare contro quello della totalità. L'apologo ha però la particolarità di diventare falso nel momento stesso in cui viene pronunciato, perché la secessione della plebe mostra che la pretesa necessità organica del tutto è venuta meno. La metafora organicistica mostra la propria falsità nel momento stesso in cui viene esplicitata; il suo contenuto di verità non sta nell'articolazione organica del tutto, ma in quella parte che, nella pratica dell'eguaglianza, fa valere la propria inclusione al discor-so sul giusto. La plebe romana partecipa, attraverso la propria lotta, a tale discorso, imponendo così a chi praticava l'esclusione il riconoscimento di un piano universale del logos121. È questo il contento di verità della falsità dell'organicismo; il discorso di Menenio Agrippa è la difesa di ciò che è già caduto attraverso l'imposizione del logos della plebe e della sua partecipazione alla questione della giustizia. La concezione polemica di universale delineata da Bruno Bauer, concezione che egli si limitò ad abboz-zare per abbandonare subito dopo, permette forse di porre alcu-ni problemi al nostro modo di pensare l'universalità: dall'incro-cio dell'universale con l'elemento escluso è possibile ripensare l'universale non come neutralità, ma come parte di un conflitto.

Ma, si diceva, il modo in cui Bauer pensa la libertà è attra-versato da un'ambiguità122 . Il nesso tra libertà e lotta per la libertà porta ad intendere la libertà come inscindibile dall'auto-coscienza del soggetto che si libera. L'aver saputo superare la contraddizione racchiusa nelle dottrine contrattualiste e poi esplosa nella Rivoluzione, avrebbe dovuto fare della Kritik una «forza epocale». Indicando i limiti di un modo di pensare la libertà che prende le mosse dalla coppia concettuale individuo-Stato, limiti che si palesano nell'idea russoiana della coazione alla libertà, Bruno Bauer cerca di indicare la soluzione in un'idea di libertà che lasci ad «ognuno la libertà di diventare ciò che vuole diventare»123, inclusa la «libertà di non essere liberi»124. Così, nel tentativo di oltrepassare l'orizzonte aporetico della concezione liberale della libertà, Bauer deve articolare la propria idea di libertà tra pratica di liberazione da un lato, e aristocratismo radi-cale, dall'altro. Se i diritti umani devono essere intesi come il «premio di una battaglia», ne segue che «li può possedere solo colui che se li è conquistati e meritati»125. Vi sono sorprendenti analogie con quanto scriverà Nietzsche qualche decennio più tardi126: «le istituzioni liberali cessano di essere liberali non appena

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si riesce ad ottenerle. (...) Fintantoché queste stesse istituzioni non vengono conquistate (so lange sie noci') erledmpft werden), produ-cono effetti del tutto diversi: in realtà, allora, promuovono possen-temente la libertà. (...) le comunità aristocratiche sul tipo di Roma e di Venezia, intesero la libertà in quello stesso preciso significato da me attribuito alla parola libertà: come qualcosa che si ha e non si ha, che si vuole, qualcosa che si conquista (das man erobert)»127.

Rilevare l'ambiguità della concezione baueriana della libertà e dell'universale non significa rigettare la complicazione di quei concetti, ma al contrario assumerne fino in fondo la radi-cale ambivalenza: il potenziale liberatorio che si esprime proprio nel momento di massimo rischio, nel momento in cui quei con-cetti si rovesciano nel loro opposto. Bauer mostra come la con-cettualità politica dispiegatasi con la Rivoluzione sia attraversata da un'ambiguità strutturale che, nel momento della massima libertà e dell'affermazione del principio repubblicano, rovescia questi concetti nell'assoggettamento universale (allgemeine Unterwerfung) e nel potere dittatoriale (dictatorische Gewalt) di Napoleonem. «La Rivoluzione è terminata nell'assolutismo», scrive Bauer nel 1846129, e con essa una nuova, inedita forma di dittatura ha fatto irruzione nella storia: la dittatura repubblicana.

Come ho sottolineato altrove130 la riflessione di Bauer si articola sulla crisi dell'ordinamento cetuale. Bauer coglie e radi-calizza questa crisi: da un lato registrando la dissoluzione di un'articolazione di rapporti concreti nei quali l'individuo trovava concretezza e senso di appartenenza a un comune; dall'altro dispiegando la crisi di ogni appartenenza comune fino alla teolo-gia, cioè fino alla crisi dell'Occidente cristiano, intendendo con questa espressione un comune riferimento ai valori cristiani. Quando Bauer mette in evidenza il carattere necessariamente esclusivo di ogni appartenenza, lavora alla dissoluzione della fon-dazione essenzialistica di un comune. In questo direzione sono da leggere i suoi attacchi sia alla comunità dei cristiani sia alla comunità degli ebrei. Bauer vuole mostrare che non è più possi-bile fare riferimento a un universo condiviso, perché, in uno Sta-to, la stessa religione cristiana, come appare evidente nelle discussioni rivoluzionarie francese, altro non può essere che la religione della maggioranza. Non quindi un comune, ma qualco-sa che appartiene ai più, e che quindi lascia fuori, esclude, chi è ebreo, musulmano o semplicemente deista. Una maggioranza

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non dà assolutamente luogo a un orizzonte comune condiviso, ma a sopraffazione verso chi non si adegua, come mostra bene il carattere equivoco della tolleranza. «Tolleranza, afferma un grand'uomo del secolo scorso, non è la parola che esprime la libertà religiosa, ma è invece, compresa esattamente, una parola offensiva e tirannica, poiché l'esistenza di un'autorità che ha il diritto di tollerare, proprio per il fatto che essa tollera, può anche non tollerare e violare la libertà di pensiero e di confessione»131.

La strategia di Bauer è così dispiegata: egli barra strade per renderle non più percorribili. Ecco, nuovamente, il suo «contri-buto alla crisi del XIX secolo». Dalla crisi dell'ordinamento cetuale alla critica di ogni pretesa appartenenza fondata su valori o religione comuni, che sono in realtà valori e religione di una maggioranza o, peggio ancora, di chi si pretende tale, Bauer pone, nel Vormiirz, il problema della rivoluzione a venire: quale comune o quale condivisione non esclusiva è possibile in un mon-do che ha distrutto sia gli antichi vincoli cetuali sia il comune senso di appartenenza alla cristianità? Bauer risponde, ripren-dendo nel '49 la questione ebraica, con la «liberazione universa-le»132. Con una liberazione che è all-gemein, comune a tutti e alla quale tutti partecipano. È questo il piano di una comunanza, come lotta comune, che Bauer individua nella crisi di ogni pree-sistente riferimento comune. È solo nella rottura nei confronti della propria appartenenza che è possibile la costruzione di un comune universalmente aperto, perché, al contrario, l'affermazio-ne della propria identità particolare porta inevitabilmente ad esclusioni e privilegi. E quindi, nuovamente, a tolleranza e sopraffazione: due facce della stessa medaglia.

I liberali del 1842, scrive Bauer sette anni più tardi,

volevano ottenere l'emancipazione degli ebrei supplicando il governo: io mostrai invece che il governo cristiano-germanico, che riposa sulla differenza di ceto (...) poteva tutt'al più conferire par-ticolari diritti corporativi, che i cristiani (...) non potevano dare la libertà agli ebrei, che la libertà non può essere né supplicata né donata, ma può solo essere conquistata (nur erobert werden k6n-ne), che anche i cristiani devono ancora lottare per la loro emanci-pazione (um ibre Emanzipation kiimpfen miifiten), che l'opera di liberazione è qualcosa di comune (ein gemeinsames)133.

I liberali del '42 pensavano che la libertà potesse essere con-

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cessa. A questa posizione Bauer obietta che una libertà concessa è tutt'al più un privilegio, che, così come viene concesso, può sempre essere revocato. Ma i liberali del '42 commettevano anche un altro errore: essi credevano che fosse possibile parlare della libertà degli ebrei e dei cristiani, come se su quelle apparte-nenze esclusive fosse possibile fondare una vera libertà e non invece, nuovamente, solo un privilegio. Bauer risponde affer-mando il carattere comune (gemeinsames) della pratica di libera-zione, vale a dire la produzione, nella lotta, di un comune che eccede ed erode ogni appartenenza pre-data. Nel 1842 egli cercò, in una concezione radicale di repubblicanesimo, di espri-mere la forma di comunanza che si dà non in una qualche forma politica, ma in una pratica che si presenta piuttosto come dispo-sitivo di apertura di quella forma. Dalle colonne del giornale di Arnold Ruge, con l'intenzione di strappare i giovani hegeliani al liberalismo, richiamandosi al «vero Hegel, quello da cui i giovani hegeliani hanno appreso l'ateismo, la rivoluzione, la repubbli-ca»134, Bauer indicava in questa triade una sequenza politica: l'ateismo costituisce la premessa della rivoluzione, e la repubblica la forma politica che non segue la fine della rivoluzione, ma ne fa un proprio momento costitutivo.

ll fallimento della rivoluzione del '48 immette però Bauer in un clima di generale Kulturpessimismus che lo porterà a radica-lizzare quell'aspetto della sua riflessione maggiormente sensibile alla faccia oscura della Rivoluzione e del livellamento. Il comune mancato nella liberazione viene prodotto da una nuova forza, da una forma inedita dí dittatura che tiene i singoli uniti nell'univer-sale assoggettamento. Ad esso Bauer cercherà di opporre un qualche freno, cercherà di essere egli stesso katechon. Ma in un'ambiguità di fondo, per cui, fino alla fine, cercherà di essere da un lato spinta acceleratrice, martello egli stesso del livellamen-to135, dall'altro continuerà a cercare una qualche barriera, fosse anche solo personale, al livellamento. Così, nel suo ultimo scritto annotava: «le doglie dell'epoca cesaristica coincidono con il risveglio della libertà e dell'azione personale. In mezzo alla batta-glia e alla confusione dei partiti a nessuno è impedito orientarsi nella ricchezza della storia e appropriarsi di ciò che gli è confor-me; nel timore della centralizzazione un autonomo tentativo di riforma non è vietato, — ma è oltremodo difficile»"6.

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LA QUESTIONE EBRAICA di Bruno Bauer

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INTRODUZIONE

«Libertà, diritti dell'umanità, emancipazione e riparazione di un torto millenario» sono diritti e doveri talmente importanti che anche solo appellandosi ad essi si può essere certi di fare breccia in ogni uomo per bene; le sole espressioni sono spesso sufficienti per rendere popolare la causa che si deve difendere.

Tuttavia accade troppo spesso di credere di aver già vinto una causa semplicemente utilizzando per essa delle espressioni ricoperte, per così dire, da un'aura sacrale alla quale nessuno può opporsi se non vuole essere considerato disumano, sacrilego o sostenitore della tirannia. In tal modo si possono avere dei suc-cessi momentanei, ma non si può né vincere la causa né superare le difficoltà reali.

Nei dibattiti attuali sulla questione ebraica capita spesso di sentire grandi espressioni, come "libertà, diritti umani, emanci-pazione", parole che vengono accolte con grande plauso; ma per quanto riguarda la causa, non l'hanno fatta avanzare di molto e sarà forse più utile usare meno spesso quelle espressioni e pensa-re invece più seriamente all'oggetto in questione.

Se la causa degli ebrei è divenuta una causa popolare, ciò non è un merito dei suoi difensori, ma sí spiega con il fatto che il popolo ha il presentimento del nesso esistente tra l'emancipazio-ne degli ebrei e lo sviluppo della nostra situazione complessiva.

I difensori dell'emancipazione degli ebrei non hanno esami-nato questo nesso e non lo hanno realmente descritto. In un'epo-ca in cui la critica si è rivolta contro tutto ciò che finora ha domi-nato il mondo, essi, per farla breve, hanno lasciato essere gli ebrei e l'ebraismo ciò che sono, o meglio: non ci si è mai chiesti che cosa sono e, senza indagare se la loro essenza si accorda con la libertà, li si vuole liberare.

Si grida addirittura al tradimento dell'umanità se la critica si accinge a indagare l'essenza dell'ebreo in quanto ebreo. Gli stessi che probabilmente ammirano soddisfatti la critica quando essa si rivolge verso il cristianesimo, o che considerano questa critica necessaria e addirittura la richiedono, quegli stessi sono pronti a

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condannare chi ora sottopone al vaglio della critica anche l'ebrai-smo.

All'ebraismo dovrebbe quindi essere concesso un privile-gio, proprio ora che i privilegi cadono sotto i colpi della critica e anche quando, in futuro, tutti i privilegi saranno caduti?

I difensori dell'emancipazione degli ebrei si trovano quindi in una posizione particolare: nel momento stesso in cui lottano contro i privilegi, concedono all'ebraismo il privilegio dell'immu-tabilità, dell'inviolabilità e della mancanza di responsabilità. Essi lottano con le migliori intenzioni a favore degli ebrei, ma manca loro il vero entusiasmo, poiché trattano la causa degli ebrei come una faccenda a loro estranea. Quando prendono partito per il progresso e il perfezionamento dell'umanità, escludono gli ebrei dal loro partito. Essi chiedono ai cristiani e allo Stato cristiano, ma non agli ebrei, di rinunciare ai pregiudizi ai quali non solo si sono affezionati, ma che costituiscono il loro cuore e la loro essenza. Non si deve insidiare l'ebraismo.

Il mondo cristiano deve ancora fare esperienza di grandi sofferenze per la nascita della nuova epoca in formazione: gli ebrei non devono patire alcuna sofferenza? Devono avere gli stessi diritti di chi ha lottato e sofferto per la nuova epoca? Come se ciò fosse possibile! Come se potessero sentirsi a proprio agio in un mondo che non hanno fatto, al quale non hanno apportato il loro contributo e che anzi contraddicono con la loro essenza immutata!

I peggiori nemici degli ebrei sono quindi quelli che non vogliono far sentire loro le sofferenze della critica che investe oggi ogni cosa. Senza essere passati attraverso il fuoco della criti-ca, nulla potrà entrare nel nuovo mondo che sta per sopraggiun-gere.

Non avete ancora nemmeno reso la causa degli ebrei una causa realmente popolare, una causa universale del popolo. Ave-te parlato delle ingiustizie dello Stato cristiano, ma non vi siete ancora domandati se queste ingiustizie e questa durezza non abbiano il proprio fondamento nell'essenza delle costituzioni sta-tuali finora vigenti.

Se l'atteggiamento dello Stato cristiano verso gli ebrei è connaturato alla sua essenza, allora l'emancipazione degli ebrei è possibile solo presupponendo una trasformazione totale di quell'essenza — nel caso cioè e nella misura in cui anche gli ebrei

abbandonino la loro essenza: ciò significa che la questione ebrai-ca è solo una parte della grande e universale questione alla cui soluzione lavora il nostro tempo.

Gli avversari dell'emancipazione degli ebrei sono stati fino-ra di gran lunga superiori ai loro difensori, poiché hanno real-mente preso in considerazione l'opposizione esistente tra l'ebreo come tale e lo Stato cristiano. Il loro unico errore fu quello di presupporre lo Stato cristiano come l'unico vero Stato, senza sot-toporlo alla stessa critica con la quale consideravano l'ebraismo. La loro concezione dell'ebraismo apparve dura e ingiusta solo perché non indagarono criticamente anche lo Stato che negava, e doveva necessariamente negare, la libertà agli ebrei.

Noi volgeremo la critica verso entrambi i lati dell'opposizio-ne: solo così e in nessun altro modo essa troverà la propria solu-zione. Può essere che la nostra concezione dell'ebraismo appaia ancora più dura di quella degli oppositori dell'emancipazione degli ebrei, concezione alla quale ci si era ormai abituati. Può essere che essa sia realmente più dura: ma la mia unica preoccu-pazione è che essa sia vera; l'unica questione è se un male può essere realmente estirpato senza andare alle sue radici, e chi vuo-le lamentarsi, accusi solo la libertà, poiché essa esige non solo dagli altri popoli, ma anche dagli ebrei, il sacrificio di tradizioni invecchiate, e non che ci si consacri ad esse. Che la critica appaia dura, o che lo sia realmente, è comunque certo che sarà essa e solo essa a portare la libertà.

Iniziamo col porre la questione in modo corretto e a sbaraz-zarci degli errori del passato.

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I. L'ESATTA FORMULAZIONE DELLA QUESTIONE

I difensori degli ebrei prendono generalmente le mosse da ciò con cui gli avvocati sono soliti concludere, cioè dal tentativo di commuovere i giud. i e il pubblico, non fosse altro che mostrando che i loro clier' hanno oltrepassato la retta via per-ché spinti dalla miseria. Essi si lamentano dell'oppressione sotto la quale hanno vissuto gli ebrei nel mondo cristiano, oppure, se ammettono ín parte alcuni dei rimproveri relativi all'atteggia-mento, all'indole e alla situazione degli ebrei, non fanno altro che rendere ancora più odiosa quell'oppressione, pensando che essa sia la sola responsabile di quell'indole e della misera condizione dell'ebraismo.

L'INNOCENZA DEGLI EBREI

Chi cerca di difendere gli ebrei in questo modo, pensando di salvarli, fa invece loro il più grande affronto e giudica perduta la loro stessa causa.

Si dice spesso che i martiri furono uccisi innocenti — non c'è offesa più grande che possa essere fatta loro. Non hanno fatto nulla di ciò per cui soffrirono? Ciò che hanno fatto non era in contrapposizione ai costumi e alle concezioni dei loro avversari? Tanto più grandi e importanti sono come martiri, tanto maggiore deve essere stata la loro azione contro l'esistente, cioè tanto più grande fu la loro colpa verso l'esistente.

Si vorrà almeno dire che gli ebrei hanno sofferto per la loro legge, per i loro costumi e per la loro nazionalità o che furono dei martiri? Ma allora furono anche responsabili dell'oppressio-ne subita, poiché l'hanno provocata con la fedeltà alla loro legge, alla loro lingua, alla loro intera essenza. Non si può opprimere

un nulla; ciò che sí opprime deve necessariamente aver provoca-to l'oppressione attraverso il suo intero essere e il suo carattere.

Nella storia non c'è nulla al di fuori della legge di causalità; gli ebrei non possono in alcun modo sottrarsi ad essa, poiché con

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la tenacia con la quale sono rimasti fedeli alla loro nazionalità e che i loro stessi difensori celebrano e ammirano in loro, attraver-so quella tenacia essi reagirono ai movimenti e ai cambiamenti della storia. La storia vuole sviluppo, forme nuove, progresso e trasformazioni; gli ebrei volevano restare sempre gli stessi e lotta-rono così contro la prima legge della storia — non provocarono dunque loro stessi la reazione dopo aver fatto pressione sulla più potente molla esistente?

Gli ebrei sono stati oppressi perché per primi hanno oppresso e perché si sono opposti al movimento della storia.

Se gli ebrei stessero al di fuori di questo gioco della legge della causalità sarebbero stati semplicemente passivi e non si sarebbero trovati a loro volta in tensione con íl mondo cristiano; verrebbe così a mancare anche quel vincolo che li lega alla storia e non potrebbero mai più entrare e intervenire nel suo nuovo sviluppo. La loro causa sarebbe completamente persa.

Riconoscete dunque agli ebrei l'onore di aver provocato l'oppressione che hanno subito a causa della loro essenza, di essere essi stessi la causa di quell'irrigidimento della loro essenza che l'oppressione ha cagionato, e fatene un membro, per quanto subordinato, di una storia bimillenaria, ma comunque un suo membro che ha la capacità ed infine il dovere di svilupparsi con essa.

Talvolta i difensori dell'ebraismo dimenticano persino di aver attribuito agli ebrei il ruolo meramente passivo di chi sop-porta, e celebrano improvvisamente in esso un influsso altamente benefico per la prosperità dello Stato.

Un esempio!

LA SPAGNA

Guardate! esclamano, ciò che è accaduto alla Spagna dopo che i sovrani ultracattolici condannarono all'esilio la laboriosa, operosa e colta popolazione ebraica!

Eppure la Spagna non è decaduta perché è venuta a manca-re la popolazione ebraica, ma perché il principio del suo governo era l'intolleranza, l'illibertà e lo spirito di persecuzione. Essa è decaduta per sua propria colpa, e doveva decadere sotto la pres-sione di quei principi, quand'anche l'intera popolazione ebraica

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fosse rimasta nel regno. La situazione della Francia si fece forse disperata perché la revoca dell'editto di Nantes spinse all'esilio schiere di ugonotti? No! l'arbitrio del suo governo, il rafforza-mento dei privilegi cetuali, l'assoggettamento dispotico del popolo, le esenzioni di cui godevano la nobiltà e il clero, questo e nient'altro che questo ha portato la Francia al punto che solo la Rivoluzione la poté salvare. Chi sa se i caparbi ugonotti avrebbe-ro portato un particolare contributo alla liberazione della loro patria: in breve, la Francia ha in ogni caso fatto a meno di loro.

La Spagna si è liberata dall'oppressione del governo ultra-cattolico anche senza il contributo degli ebrei; la questione è piuttosto se gli ebrei, qualora fossero rimasti in Spagna, avrebbe-ro partecipato in modo significativo a questa liberazione.

Se gli Stati cristiani sono loro stessi la causa della rovina e dell'ascesa del loro potere, e se anche quando gli ebrei entrano in gioco lo fanno nel modo prescritto dal principio dello Stato cri-stiano, allora, d'altro canto, li possiamo scagionare dal rimprove-ro di aver provocato la rovina di uno Stato come, ad esempio, la Polonia.

LA POLONIA

La costituzione che aprì un mostruoso abisso tra l'aristocra-zia al potere e la massa dei servi della gleba, permise agli ebrei di infilarsi in quello spazio in numero così considerevole come mai prima fu possibile; una costituzione, dunque, che aveva lasciato vuoto il posto che nell'Europa occidentale fu conquistato dal ter-zo stato e che per riempirlo aveva bisogno di un elemento estra-neo, questa costituzione ha portato la Polonia alla rovina.

La stessa Polonia è responsabile della sua sciagura ed è responsabile anche dell'insediamento di una popolazione stra-niera che contribuì solamente a rendere la piaga interna alla vita del popolo ancor più pericolosa e letale.

Se quindi la Polonia è essa stessa responsabile del suo desti- no, d'altra parte non gioca a favore degli ebrei il fatto che essi abbiano saputo crearsi una posizione, in numero quasi uguale a quello complessivo degli ebrei europei, solo nella statualità meno compiuta d'Europa. Quella posizione si può quasi definire come il complemento necessario ed essenziale di questo Stato; il fatto

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che poterono ammassarsi in uno Stato che meno di tutti è tale, costituisce una prova della loro incapacità di diventare membri di uno Stato reale; ancor più gioca contro di loro il fatto che uti-lizzarono l'imperfezione della costituzione polacca solo per il loro beneficio privato, che allargarono ulteriormente e consolida-rono la spaccatura della vita nazionale polacca invece di costitui-re il materiale atto a riempirla in modo organico o, meglio anco-ra, politico.

Un avversario dell'emancipazione degli ebrei osserva e deplora che «tutte le distillerie di acquavite della Galizia siano unicamente in possesso degli ebrei, e che tale possesso abbia messo nelle loro mani anche la forza morale degli abitanti». Come se gli ebrei fossero responsabili del fatto che la forza morale di un popolo è contenuta in un bicchiere di acquavite o può andare persa in questo bicchiere! L'avversario degli ebrei deve ammettere anche che il popolo polacco cerca nell'acquavi-te «la sola consolazione per tutte le pene della sua vita e per ogni sopruso del suo padrone». Ma allora ciò che il contadino rimprovera all'ebreo è l'oppressione della costituzione. È la miseria spirituale della vita che ha spinto il contadino a cercare il suo spirito in un bicchiere di acquavite e a trovare nella mano dell'ebreo, dal momento che questo possedeva tutte le distille-rie, la forza spirituale del popolo.

La costituzione ha conferito all'ebreo la sua grande impor-tanza e lo ha fatto entrare in possesso dello spirito del popolo -è tuttavia un merito dell'ebreo il fatto di essersi posto all'interno di una tale costituzione in modo tale da dare al contadino quel tanto di spirito che gli ha lasciato la costituzione? È un merito quello di spremere e distillare l'ultima conseguenza spirituale della costituzione? È un elemento a sua favore prestarsi ed anzi considerare come suo unico affare quello di opprimere ancora una volta la vittima della costituzione? La costituzione è respon-sabile in quanto gli porta il contadino sfinito, ma egli è respon-sabile in quanto trae dalla costituzione solo le conseguenze peg-giori.

Questo rapporto si riproduce in generale nella società civile.

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LA SOCIETÀ CIVILE

Il bisogno è la potente molla che mette in movimento la società civile. Ognuno utilizza l'altro per soddisfare il proprio bisogno e, allo stesso scopo, viene a sua volta utilizzato dall'altro. Il sarto utilizza il mio bisogno per mantenere sé e la sua famiglia; io utilizzo lui per soddisfare il mio bisogno.

Lo Stato cristiano ha limitato l'attività egoistica della società civile attraverso forme che tolgono a quell'attività la sua mostruosità e che l'hanno infine legata all'interesse dell'onore. I diversi modi per soddisfare il bisogno sono riuniti in ceti, ed il ceto in cui il bisogno del momento ha maggiore forza, il ceto del commercio, che anche nello Stato cristiano deve quindi mante-nere vivissimo l'egoismo, si è strutturato nella forma delle corpo-razioni. Il membro del ceto ha come tale il dovere di perseguire non solo il suo interesse personale, ma anche l'interesse generale del suo ceto; l'interesse di ceto pone all'interesse privato del sin-golo membro un limite necessario; in quanto membro di un ceto egli si sente onorato perché non provvede più solo al sostenta-mento del singolo, ma al bisogno della società civile in genere.

Ma dove regna il bisogno con i suoi capricci e le sue inclina-zioni accidentali, per di più il bisogno il cui soddisfacimento dipende esso stesso da eventi naturali contingenti, là il singolo può conservare il suo onore, ma non può far nulla per non finire in balia di un mutamento improvviso, imprevedibile e situato al di là del suo calcolo. Proprio il suo fondamento, il bisogno, che assicura alla società civile la sua esistenza e le garantisce la sua necessità, espone la sua stessa esistenza a pericoli continui, man-tiene in essa un elemento di insicurezza e produce quella mesco-lanza continua e sempre cangiante di miseria e ricchezza, indi-genza e prosperità, il mutamento in genere.

Gli ebrei non hanno creato questo elemento di insicurezza — esso è proprio della società civile — essi non sono responsabili della sua esistenza; un'altra questione è però se deve essere consi-derato come un merito il fatto che — attraverso l'usura — se ne servano e lo abbiano reso loro appannaggio esdusivo, cioè senza alcuna collaborazione con le altre cerchie della società civile.

Come gli dèi di Epicuro vivono negli intermondi, dove sono esentati dal lavoro specifico, così pure gli ebrei si sono inse-diati al di fuori di specifici interessi corporativi e cetuali, si sono

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stabiliti negli interstizi e nelle fessure della società civile e si sono accaparrati le vittime di cui necessita l'elemento di insicurezza della società civile.

I difensori dell'emancipazione ci ribattono che si è loro impedito di entrare nei ceti e nelle corporazioni, ma la questione è se essi, dal momento che si considerano come un popolo, pote-vano occupare una reale e sincera posizione in quelle cerchie, o se invece non si siano esclusi da sé e, poiché come popolo si col-locano in tutto e per tutto al di fuori degli interessi dei popoli, se non debbano anche necessariamente prendere posto al di fuori degli interessi cetuali e corporativi.

Come? Ci viene ancora obiettato, non volete riconoscere l'intraprendenza degli ebrei, la loro frugalità, lo zelo con cui si dedicano al loro guadagno, la loro capacità inventiva là dove si tratta di trovare nuove fonti di guadagno, non volete riconoscere questa infaticabile tenacia? Ma lo abbiamo appena fatto, e ci per-mettiamo ancora solo un paio di domande.

L'INTRAPRENDENZA DEGLI EBREI

Chí ha lavorato per milleottocento anni alla formazione dell'Europa? Chi ha combattuto le battaglie nelle quali è stata sconfitta una gerarchia che voleva affermare il proprio dominio al di là della propria epoca? Chi ha creato l'arte cristiana e moderna ed ha riempito le città europee di monumenti eterni? Chi ha sviluppato la scienza? Chi ha ragionato sulla teoria delle costituzioni dello Stato?

Non si può fare il nome di un solo ebreo. Spinoza non era più ebreo quando edificò il suo sistema e Moses Mendelsohn morì di dolore quando apprese che Lessing, l'amico morto, era diventato uno spinozista.

Ecco la seconda questione! Ebbene! I popoli europei han-no escluso gli ebrei dalle loro faccende universali. Ma ciò gli sarebbe stato possibile se gli ebrei non si fossero esclusi da sé? Può l'ebreo come ebreo, senza cessare di essere un ebreo, lavora-re per il progresso dell'arte e della scienza, lottare per la libertà contro la gerarchia, interessarsi realmente dello Stato e riflettere sulle sue leggi universali? Oppure l'arte e la scienza sono cose che possono essere vietate attraverso un divieto arbitrario o a

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causa della situazione accidentale in cui qualcuno viene a trovarsi per il fatto di essere nato in questa o quella comunità? Non sono piuttosto dei beni universali che non possono essere interdetti? Quanti fra coloro che hanno avuto un ruolo significativo nell'arte e nella scienza sono giunti dagli stati più bassi della società e han-no dovuto superare ostacoli straordinari per riuscire ad entrare nel campo dell'arte e della scienza? Perché gli ebrei non si sono fatti strada? Ciò deve risiedere nel fatto che il loro particolare spirito di popolo contraddice l'interesse universale dell'arte e della scienza.

L'intraprendenza degli ebrei è tale che essa non ha nulla a che fare con gli interessi della storia.

Opera in modo simile alla tenacia tanto esaltata nello spirito del popolo ebraico.

LA TENACITA DELLO SPIRITO DEL POPOLO EBRAICO

Non sarebbe crudele, ma semplicemente equo e giusto nominare ai nostri avversari le stirpi che, nonostante i tormenti della storia, sono comunque sopravvissute tra i popoli civilizzati, persino nella diaspora. Anche senza farlo, potremo nondimeno porre la questione con esattezza.

Costituisce forse un'onta per le stirpi, dalla cui fusione è sorto il popolo francese, il fatto che esse abbiano perso e abbiano rinunciato alla loro indipendenza? Certamente no! La loro rinuncia e la loro dissoluzione nel tutto dimostra solo la loro capacità di formazione storica e la loro capacità di contribuire alla formazione di questo determinato spirito del popolo nella storia.

Hanno conservato la loro precedente particolarità le stirpi confluite nella popolazione della grande, moderna repubblica dell'America del Nord? No! Ancora oggi i Tedeschi che vi afflui-scono fanno rapidamente proprio il carattere che contraddistin-gue il tutto, e ciò non torna certo a loro disonore; ciò mostra solo la loro capacità di orientarsi secondo la linea universale di quella vita nazionale e di adattarvisi.

I popoli europei permangono in quella tenacità che viene esaltata negli ebrei? Al contrario, essi cambiano il loro carattere e la storia esige questi cambiamenti.

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Invece di esaltare la tenacità dello spirito del popolo ebrai-co e di considerarla come un merito, ci si dovrebbe piuttosto chiedere che cosa essa sia in sostanza e da dove provenga.

Essa rappresenta la mancanza di capacità storica di svilup-po, fonda il carattere completamente astorico di questo popolo ed è a sua volta fondata nella sua essenza orientale. In Oriente è di casa questa essenza nazionale stazionaria poiché la libertà dell'uomo, e quindi anche la possibilità di sviluppo, è ancora limitata. In Oriente, in India troviamo ancora dei Parsi che ono-rano il fuoco sacro di Ormuzd e vivono nella diaspora.

L'individuo, e quindi anche il popolo che nel suo pensiero e nella sua azione segue delle leggi universali, si sviluppa anche da un punto di vista storico in quanto le leggi universali hanno il loro fondamento nella ragione e nella libertà e si sviluppano con i pro-gressi della ragione; questi progressi sono tanto più certi e facili da realizzare in quanto la ragione ha a che fare, nelle sue leggi, con i suoi stessi risultati, e se essa vuole cambiarli, non deve chie-dere il permesso ad alcun potere estraneo o ultraterreno.

In Oriente l'uomo non ha però ancora acquisito la consape-volezza di essere libero e razionale, quindi non ha ancora ricono-sciuto la libertà e la ragione come sua essenza, ma ha invece posto íl suo dovere essenziale e supremo nell'adempimento di cerimonie prive di senso e fondamento. L'orientale non ha quin-di ancora una storia, se storia merita di essere chiamato solo ciò che costituisce uno sviluppo della libertà umana universale. Star-sene sotto il fico e la vite rappresenta secondo l'orientale la mas-sima destinazione dell'uomo; egli esegue continuamente le sue cerimonie religiose e considera quelle celebrazioni sempre uguali come il suo più grande dovere, rincuorandosi del fatto che sono esattamente così e tali devono essere; di tutto ciò non sa addurre alcun'altra ragione se non il fatto che così è sempre stato e che così dev'essere secondo una volontà superiore e imperscrutabile.

Un carattere e una legge siffatti devono necessariamente conferire a un popolo una tenacia particolare, ma devono privar-lo anche di ogni possibilità di sviluppo storico.

Gli ebrei parlano a ragione del recinto della legge: la legge li ha esclusi dall'influsso della storia, e li ha tanto più isolati in quanto proprio la loro legge comandò fin dal principio la loro separazione dagli altri popoli.

Si sono conservati: ma la questione è se la legge possegga un

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valore tale da lodarli per il fatto di essere rimasti immutati rispet-to ad essa.

Le montagne sono forse più grandi e meritano maggior-mente il nostro riconoscimento e la nostra ammirazione rispetto al popolo greco perché ancora oggi giacciono lì, immutate, men-tre i Greci di Omero, Sofocle, Pericle e Aristotele non vivono più?

Moses Mendelsohn individuò il pregio della religione ebrai-ca nel fatto che essa non insegnerebbe verità universali, ma pre-scriverebbe solo leggi positive, delle quali non darebbe alcuna ragione universale. Egli chiariva inoltre — e certamente a ragione, dal momento che non ho potere su ciò che eccede il mio oriz-zonte e di cui non mi posso dare ragione — che per gli ebrei la legge manterrebbe la sua validità fino a quando Jehova non la sopprimerà con la stessa determinatezza e altrettanto espressa-mente di come l'aveva rivelata sul monte Sinai.

Questa fermezza è una gloria? Trasforma il popolo del qua-le preserva l'esistenza in un popolo storico? Essa non fa che pre-servarlo contro la storia.

LA VITA SOTTO L'OPPRESSIONE

Se un popolo non progredisce con la storia, se non si infiamma nemmeno dell'entusiasmo necessario alla battaglia per le nuove idee storiche e se non si lascia conquistare dalle passioni storiche, allora gli manca uno dei mezzi più importanti per l'innalzamento e la purificazione dell'eticità. Esso inoltre non si occupa più in alcun modo degli interessi universali dell'uomo, la cura del suo tornaconto privato diventa la sua unica occupazione ed il sentimento del vero onore è perduto.

Nell'oppressione sotto la quale vivevano gli ebrei, si rispon-de, era inevitabile che i nobili sentimenti venissero in loro soffo-cati. Si vuol rimproverare loro la mancanza di eticità quando li si è esclusi dalle faccende e dagli interessi che conferiscono uno slancio sempre nuovo allo spirito dei popoli europei?

Di contro, è già stato osservato che l'oppressione, in genere, porta piuttosto a un miglioramento degli uomini e a un rafforza- mento del loro sentimento dell'onore e dell'eticità. L'oppressione sotto la quale vissero i cristiani nei primi tre secoli della loro era,

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li ha ulteriormente incitati a perfezionare le virtù con le quali rovesciarono l'impero romano. Gli ebrei, però, durante l'oppres-sione sotto la quale hanno vissuto finora, non hanno trovato ed eretto nessun principio morale in grado di dare al mondo, o anche solo a loro stessi, una nuova forma.

Dunque, se l'oppressione non ha migliorato gli ebrei, toglietela, dategli completa e illimitata libertà e vedrete se non diventeranno migliori senza l'oppressione!

Un'altra ragione ancora dovrebbe spingere a questo passo e a questo tentativo. Non è vero che l'oppressione migliori real-mente ed apra la strada alla reale eticità. Essa irrigidisce soltanto, isola l'uomo, gli recide la via verso la vera eticità rendendogli impossibile la partecipazione alle faccende pubbliche della vita statuale; conferisce inoltre alle virtù private un carattere rude, oppure le trasforma in cura egoistica per gli affari privati che vengono sbrigati fra le pareti domestiche. Non si può certo defi-nire etico il fatto che i primi cristiani si occupassero solo di loro stessi e si preoccupassero solamente delle loro anime — fosse anche per la beatitudine di esse —, e fossero invece incuranti delle faccende generali dell'impero romano, o addirittura attenti ad ogni soffio d'aria per cercare di capire se era il prodromo di una tempesta in grado di porre fine ad esso.

Tanto più urgente è quindi la necessità di togliere l'oppres-sione sotto la quale hanno finora vissuto gli ebrei!

Fermi! Ci si chieda prima se gli ebrei, in quanto ebrei, non debbano necessariamente isolarsi dagli altri popoli, se non hanno essi stessi voluto che il carro della storia gli passasse sopra.

Quando come popolo erano ancora indipendenti, ebbero forse un respiro più libero, il loro petto era tanto ampio da essere capace di sentimenti umani universali, si sentivano meno oppressi?

No! Neanche quando ritenevano di essere il popolo oppresso per eccellenza, e lo erano realmente, perché le pretese che costituivano la loro vera essenza dovevano necessariamente sempre rimanere insoddisfatte. Secondo la loro concezione fon-damentale, essi volevano e dovevano essere l'unico popolo, vale a dire il popolo accanto al quale gli altri popoli non avrebbero il diritto di essere un popolo. Ogni altro popolo, in rapporto ad esso, non era un vero popolo; in quanto popolo eletto essi erano l'unico vero popolo, il popolo che doveva essere tutto e impa-dronirsi del mondo.

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Ma per il fatto che esistono in generale dei popoli, essi furo-no oppressi; l'esistenza, la prosperità, la buona sorte e lo svilup-po degli altri popoli costituì la sua sofferenza. Ciò significa che la loro esistenza fu esclusiva, e quindi sempre tormentata, poiché l'esistenza degli altri popoli escludeva a sua volta l'essenza della sua esistenza — l'esclusività —, la negava e la scherniva.

Gli si dia allora la piena indipendenza, ed essi la continue-ranno a negare fino a che rimangono ebrei e continuano a consi-derarsi come l'unico popolo eletto e legittimo. L'idea di legitti-mità che hanno di se stessi non viene solo minacciata dalla realtà e dalla storia reale, ma è completamente negata; essi vengono così necessariamente oppressi e la loro sofferenza è incurabile.

Da quanto detto siamo anche in grado di valutare con pre-cisione l'osservazione, spesso ribadita, secondo la quale ci sareb-bero in proporzione tra gli ebrei meno delitti di quanti non ve ne siano tra i cristiani in mezzo ai quali essi vivono.

IL NUMERO DEI CRIMINALI

La questione non riguarda il numero, ma il tipo di delitti; non la valutazione giuridica dei crimini corrispondente al grado della pena, ma il loro giudizio etico, rende conto del nesso tra il crimine e i rapporti sociali.

Da un punto di vista giuridico un crimine può essere con-siderato molto piccolo e però testimoniare un profondissimo decadimento della costituzione etica interiore; da un altro punto di vista, un giudice può infliggere una pena molto grave, ma chi prende in considerazione anche la motivazione, giudica quel cri-mine come la soluzione violenta di un profondo conflitto etico che il criminale comune non era in grado di risolvere.

La questione riguarda inoltre l'ambito degli interessi giuri-dici ed etici in cui sono commessi i crimini.

Là dove si incrociano i più svariati interessi, come ad esem-pio quelli dei diversi ceti, dove delle leggi obsolete sono ancora in conflitto con nuove esigenze, possono essere commessi più delitti di quanti ve ne sono in un ambito in cui non confliggono interessi così importanti e dove ci sono quindi anche meno occasioni per un conflitto; tuttavia il maggior numero dei delitti commessi non rovescia il principio secondo il quale in mezzo

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alla massa di questi delitti si costruisce un nuovo e più elevato ordinamento etico. Di contro, può essere che là dove vengono commessi meno crimini e di minore gravità, non solo manchi la forza e l'occasione per compierne di più gravi, ma manchi anche la forza in grado di creare nuovi rapporti sociali. -

Porremo la questione con esattezza nella misura in cui valu-teremo il ruolo del cristianesimo e dello Stato cristiano.

L'ostilità del mondo cristiano verso gli ebrei è stata dichia-rata addirittura inesplicabile. L'ebraismo è certo la madre del cri-stianesimo e la religione mosaica costituisce la preparazione di quella cristiana; da dove proviene allora l'odio cristiano verso gli ebrei? Da dove proviene questa inaudita ingratitudine della con-seguenza verso il suo fondamento, della figlia contro la madre?

L'ATTEGGIAMENTO DELLA CONSEGUENZA VERSO IL SUO PRESUPPOSTO

Perché il fiore fa a pezzi il bocciolo? Perché il frutto fa cadere i petali del fiore? Perché il seme maturo fa scoppiare la capsula? Perché non può esserci successore se continua a sussi-stere il precedente; perché esso non apparirebbe mai se dipen-desse da ciò che lo precede.

Nei rapporti storici e dello spirito il presupposto continua realmente a sussistere e vuole senz'altro sussistere nonostante la presenza della sua conseguenza. Esso nega dunque alla conse-guenza proprio il suo significato, vale a dire che essa è la conse-guenza che ha puntualmente espresso, sviluppato e compiuto la sua essenza; esso contesta alla sua conseguenza il diritto di sussi-stere. Non è la figlia ad essere ingrata verso la madre, ma è la madre che non vuole riconoscere la figlia. La figlia ha in sostanza un diritto superiore perché è la vera essenza di ciò che sta prima e che, non appena è apparsa la sua conseguenza, ha perso la sua vera essenza. Volendo definire egoiste entrambe le parti, si può dire che il susseguente è egoista in quanto vuole sé e lo sviluppo, mentre l'antecedente vuole sé ma non lo sviluppo.

L'antecedente ha il germe dello sviluppo, ma nella lotta con la sua conseguenza non vuole riconoscere lo sviluppo in favore di altro ed entrare così nello sviluppo. Ha «la chiave della conoscenza ma non vi entra, ed impedisce l'accesso a ciò che vuole entrare»137.

L'ostilità del mondo cristiano verso gli ebrei è così piena-

mente spiegabile e fondata nei loro essenziali rapporti reciproci. Nessuno dei due può riconoscere l'altro e lasciarlo sussistere; se sussiste uno, non vi è l'altro; ciascuno dei due crede di essere la verità assoluta, cosicché, se riconosce l'altro, si smentisce, nega di essere la verità.

Ma, si ribatte, questa carattere esclusivo del cristianesimo non contraddice l'amore che esso dichiara essere il suo princi-pio? Vedremo.

IL FERVORE E IL CARATTERE ESCLUSIVO DELL'AMORE CRISTIANO

Il cristianesimo professa la legge dell'amore, ma deve anche osservare la legge della fede. L'amore cristiano è appassionato e vasto, ma solo nell'interesse della fede. Esso fa riferimento al mondo intero, ma solamente per offrirgli la ricchezza della fede. Esso non fa riferimento all'uomo in quanto tale, ma all'uomo in quanto credente e in quanto può diventarlo, o piuttosto deve diventarlo e deve necessariamente diventarlo se non vuole essere dannato.

Se è scritto che Dio, in quanto Dio dell'amore, non ha riguardi personali ma apprezza, in ogni nazione, colui che lo teme e gli rende giustizia138, ciò significa solo che Dio non fa dif-ferenza tra le nazioni, ma accoglie nel suo regno chiunque voglia ricevere la vera fede.

L'amore cristiano è universale perché non riconosce alcuna differenza tra le nazioni, ed anzi offre a tutti i popoli il dono della fede. Dunque anche il suo fervore è universale in quanto esclude tutto ciò che contraddice ed è in contrasto con la fede.

La religione cristiana costituisce il superamento dell'ebrai-smo, e quindi anche del carattere esclusivo dell'ebraismo. Ma essa costituisce questo superamento solo in quanto è il compi-mento dell'ebraismo e del suo carattere esclusivo.

L'ebraismo nega il diritto degli altri popoli, ma li lascia ancora sussistere. Il suo fanatismo e il suo carattere esclusivo non erano ancora diventati azione, la sua parola non si era ancora fat-ta carne, il fuoco della religione esclusiva non era ancora stato gettato nel mondo.

«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, si legge nel Van-gelo; e come vorrei che fosse già acceso !»"9.

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Il cristianesimo ha preso sul serio il carattere esclusivo dell'ebraismo, lo ha trasformato in azione e lo ha rivolto contro ogni differenza tra i popoli.

Il fervore della fede non è nient'altro che l'atteggiamento esclusivo del principio cristiano o il fuoco dell'amore cristiano. Questo fuoco attraversa l'intera storia della chiesa cristiana ed erompe in epoche particolari per conferire loro un particolare splendore. Agostino, ad esempio, lo attizzò contro gli scismatici dell'Africa del Nord; alla luce di esso scrisse quei passi dei suoi scritti in cui ordinava la persecuzione degli eretici; quello stesso fuoco, come una nuova colonna di fiamme, indicò ai crociati il cammino per l'Oriente; fece luce agli Spagnoli durante le guerre per convertire i popoli dell'America; brillò nella notte di San Bartolomeo e nella violenza dei dragoni di Luigi XIV contro gli ugonotti.

Nel fatto che ora il fervore cristiano si rivolga anche contro l'ebraismo non c'è nulla di inesplicabile; l'ebraismo non ha ragio-ne di lamentarsi di ciò. La religione cristiana ha ereditato dall'ebraismo il fervore, il carattere esclusivo e l'orientamento polemico contro tutto ciò che la contraddice. Il fervore cristiano è solo il compimento, la conseguenza e la realizzazione grave e oggettiva di quello ebraico; se perciò si rivolge anche contro l'ebraismo, quest'ultimo è semplicemente colpito dalla sua con-seguenza; è nella natura della conseguenza rivolgersi contro ciò da cui è scaturita. Se perciò il cristianesimo si dirige contro l'ebraismo, ciò significa solo che il fervore compiuto si dirige contro il fervore ancora limitato o privo di energia.

Da parte cristiana ed ebraica si è osservato che se «ci sono alcuni ebrei e cristiani che si odiano reciprocamente, ciò non è colpa della loro religione, ma di un'incomprensione della loro religione». Un'espressione straordinariamente indulgente questo «alcuni»! Erano dunque solo «alcuni» gli ebrei e i cristiani che si sono odiati, perseguitati ed oppressi per milleottocento anni? Hanno tutti frainteso la loro religione? No, essi si odiavano per-ché avevano realmente ancora una religione, sapevano che cos'è la religione e osservavano realmente i comandamenti della loro religione.

Se dopo una bimillenaria dimostrazione del contrario, alcu-ni affermano che l'odio dei partiti religiosi poteva sorgere solo da un malinteso, ciò dimostra piuttosto che essi non si intendono

più di religione. Se l'odio reciproco si è realmente affievolito, ciò è possibile solo per un cedimento del vero fervore religioso, e cioè, dal momento che la religione deve necessariamente essere infervorata, perché la religione stessa ha perduto la sua forza.

Se si pensa però di poter mettere fine all'esclusione recipro-ca e si ritiene tuttavia possibile che la religiosità di entrambe le parti possa sussistere immutata, la pace che si concluderebbe su un tale fondamento non solo sarebbe incerta, ma anche falsa; non sarebbe praticamente una pace, perché anche un'accidentale corrente d'aria potrebbe attizzare la più debole scintilla del fer-vore, sempre necessariamente contenuto nella religiosità, e svi-lupparla in una lingua di fuoco.

L'illusione nella quale si sono finora trovati sia i propugna-tori ebraici sia quelli cristiani dell'emancipazione degli ebrei, ci si mostra massimamente quando domandano perché mai il fatto che gli ebrei «vivono in continua separazione dai cristiani per quanto riguarda la religione e i costumi può essere addotto a ragione per privarli dei diritti umani e civili».

I DIRITTI DELL'UOMO E LO STATO CRISTIANO

La questione è piuttosto se l'ebreo, in quanto tale, vale a dire l'ebreo che riconosce che la sua vera natura lo costringe a vivere eternamente isolato dagli altri, sia capace di ricevere e di concedere ad altri i diritti umani universali. La sua religione e í suoi costumi lo obbligano a una continua separazione: perché? Perché costituiscono la sua essenza. Ma in quanto costituiscono questa essenza contraddicono, sono contrapposti ed escludono ciò che ritengono essere per essenza diverso. La sua essenza fa di lui non un uomo ma un ebreo, così come, allo stesso modo, l'essenza che anima gli altri non ne fa degli uomini, ma dei cri-stiani e dei maomettani.

Ebrei e cristiani possono considerarsi e trattarsi reciproca-mente da uomini solo se abbandonano l'essenza particolare che li divide e li obbliga a un'«eterna separazione», se riconoscono l'essenza universale dell'uomo e la considerano come la loro vera essenza.

L'idea dei diritti dell'uomo è stata scoperta dal mondo cri-stiano solo nel secolo scorso. Essa non è innata nell'uomo, ma

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viene piuttosto conquistata nella lotta contro le tradizioni stori-che nelle quali l'uomo era finora cresciuto. I diritti dell'uomo non sono quindi un dono della natura, un dono della storia pas-sata, ma il premio della battaglia contro l'accidentalità della nascita e i privilegi che la storia ha finora lasciato in eredità di generazione in generazione. Sono il risultato della formazione, e li può possedere solo colui che se li è conquistati e meritati.

Finché, in quanto ebreo, vive in continua separazione dagli altri e finché deve addirittura dichiarare che gli altri non sono realmente il suo prossimo, può l'ebreo possedere realmente i diritti umani? Finché resta ebreo, l'essenza limitata che ne fa un ebreo deve separarlo dai non-ebrei e vincere sull'essenza umana che lo dovrebbe unire come uomo agli uomini. Con questa sepa-razione egli dichiara che l'essenza particolare che fa di lui un ebreo è la sua vera e suprema essenza, dinanzi alla quale l'essenza dell'uomo deve piegarsi.

Allo stesso modo il cristiano, in quanto cristiano, non può concedere i diritti umani.

Ciò che nessuna delle due parti possiede, essa non la può dare all'altra, né la può ricevere dall'altra.

Ma gli ebrei possono però diventare cittadini? Possono dunque essere loro concessi i diritti del cittadino?

La questione è piuttosto se nello Stato cristiano in quanto tale ci siano diritti universali e non solamente privilegi particolari: infatti una somma più o meno grande di privilegi, e quindi di diritti parti-colari, sono solo per alcuni un diritto, mentre per altri sono un non-diritto. D'altra parte ciò non costituisce un'ingiustizia dal momento che questi ultimi hanno a loro volta dei diritti particolari che man-cano agli altri; si dovrebbe quindi dire che la somma dei diritti par-ticolari corrisponde alla somma delle violazioni del diritto, o che la mancanza del diritto universale è l'ingiustizia universale.

Gli ebrei vogliono diventare "cittadini" nello Stato cristia-no? Ci si chieda prima se in esso vi sono cittadini e non invece solo sudditi; se il ghetto è una contraddizione laddove i sudditi sono distinti in base ai privilegi dei ceti particolari; se si può con-siderare così rilevante il fatto che agli ebrei sia prescritto un abito particolare o un contrassegno particolare quando i ceti, allorché si presentano come tali, devono anch'essi distinguersi per mezzo del loro particolare abito.

Ci si richiama alle concessioni che lo Stato cristiano ha fatto

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in momenti di emergenza — concessioni la cui vastità era tale da sfiorare quasi l'uguaglianza degli ebrei con i cristiani. Ma ci si dovrebbe chiedere prima se in quei momenti proprio lo Stato cristiano non si trovasse in una situazione di emergenza e in peri-colo di vita, se non fece delle concessioni agli ebrei solo perché, per non andare completamente in rovina, doveva esso stesso fare delle concessioni a una più alta idea di Stato. Non ci si lamenti però solo del fatto che le concessioni fatte agli ebrei nei momenti di emergenza furono successivamente ridimensionate e in parte revocate! Sono solo gli ebrei a soffrire? La loro condizione non è forse generale? Se essi sono condannati a un'esistenza meramen-te privilegiata, o se lo devono nuovamente essere, ciò non deriva unicamente dal fatto che il privilegio è divenuto universalmente dominante o che deve diventarlo? Si chieda piuttosto che cosa hanno fatto nel frattempo, in che modo avrebbero abbandonato la mera esistenza privilegiata!

Dobbiamo ancora formulare con esattezza una domanda. La soluzione risulterà estremamente difficile, addirittura

impossibile se l'opposizione viene compresa in modo puramente religioso, perché la religione è il principio stesso dell'esclusione, e due religioni, fintanto che vengono riconosciute come religioni e come ciò che è supremo e rivelato, non possono mai arrivare alla pace.

L'OPPOSIZIONE RELIGIOSA DELL'EBRAISMO E DEL CRISTIANESIMO

Gli ebrei, si dice, non ritengono che Gesù sia il Messia; essi non riconoscono ciò che di più alto il cristiano riconosce e ciò che per egli vale come l'unico vero vincolo di ogni unità; essi non possono quindi mai entrare con lui in una relazione sincera. Dal momento che essi ritengono una menzogna e un inganno ciò che vi è di più alto per i cristiani, ogni comunità con loro è proibita da Dio stesso. Il cristiano non può intrattenere nessun tipo dí relazione con l'anticristiano.

Tuttavia: quando l'ebreo si oppone al Vangelo nega real-mente un'essenza superiore all'umanità? Lotta realmente per il proprio onore? Nella sua resistenza non ha a che fare con un'essenza divina alla quale l'uomo non può opporsi senza doversi aspettare per questo la dannazione eterna? La sua man-

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canza non consiste proprio nel fatto che egli non riconosce uno sviluppo puramente umano della storia, uno sviluppo della coscienza umana e quindi uno sviluppo della sua propria coscienza della legge? L'opposizione non è in fondo solo l'oppo-sizione tra i diversi livelli dello sviluppo dello spirito umano? Non si tratta in fondo di un'opposizione religiosa solo per la coscienza dei due partiti, vale a dire un'opposizione imposta da un'essenza ultraterrena suprema e posta oltre la storia? L'opposi- zione non viene significativamente sfumata e la possibilità della sua soluzione data qualora venga riconosciuta come un'opposi-zione semplicemente umana e storica, cessando così di essere un'opposizione religiosa?

Se l'opposizione non è più religiosa, se è diventata scientifica ed ha assunto la forma della critica, l'ebreo mostra allora ai cristia- ni che la sua concezione religiosa è solo il prodotto storico di que- sti e quei fattori; l'opposizione è allora sciolta, poiché essa non è fondamentalmente più possibile se non in una forma scientifica. Non appena cioè l'ebreo rivolge contro il cristianesimo la critica reale e scientifica, e non più solo la rozza critica religiosa, egli deve, per prima cosa, o contemporaneamente alla critica del cristianesi- mo, criticare anche l'ebraismo, perché deve concepire il cristiane- simo come il prodotto necessario dell'ebraismo. Per quanto i due partiti si volgano l'uno contro l'altro, e quindi contro se stessi e contro la critica scientifica, essi sono una cosa sola per la scienza; il pregiudizio religioso non li divide più e le differenze si risolvono nella scienza per mezzo della scienza stessa.

La soluzione dell'opposizione consiste nel fatto che essa viene interamente soppressa e gli ebrei possono cessare di essere ebrei senza che sia necessario che diventino cristiani, o piuttosto devono cessare di essere ebrei senza dover diventare cristiani.

Ma che cosa hanno fatto per rendere possibile ed attuare la soluzione di questa opposizione? Hanno mosso delle critiche? Hanno rivolto la critica contro l'ebraismo e il cristianesimo, con-tro ogni religione? Hanno trasformato l'opposizione religiosa in un'opposizione dello sviluppo storico?

O criticando realmente la storia sacra come fantasia, come prodotto deteriore dell'opposizione religiosa, hanno confutato la favola secondo la quale essi sarebbero in possesso di informazio-ni segrete su Gesù e il suo tempo, una favola della quale ancora oggi qualche ebreo si vanta?

In che misura sono capaci di elevarsi alla libertà del punto di vista nel quale viene risolta l'opposizione religiosa?

Se l'ebreo, com'è nella natura dell'illuminismo che contrap-pone una religione all'altra, ritiene che il Vangelo sia un inganno, il cristiano replica religiosamente a questo argomento afferman-do che l'infausta situazione in cui egli si trova dal declino del suo Stato è una conseguenza della maledizione divina, che incombe-rebbe sugli oppositori del Messia. Ma in cosa consiste la sciagura degli ebrei? Forse solo nel fatto che sono perseguitati e oppressi dai cristiani? Come se i martiri non fossero anche loro persegui-tati e oppressi! Come se l'oppressione e la persecuzione non fos-se anche il destino di quelli che, in nome di un'idea superiore, contestano il proprio tempo e devono attendere dal futuro, con piena certezza, la loro giustificazione. In che modo dunque sono stati oppressi e perseguitati gli ebrei sotto il dominio del cristia-nesimo? Non come martiri di un'idea superiore, non come mar-tiri del futuro, ma come martiri di un passato di cui non ricono-scono lo sviluppo — quello stesso sviluppo in cui loro stessi vivo-no. La cosiddetta maledizione divina altro non è che la conse-guenza naturale di una legge che, già in sé chimerica e incapace di formare l'anima di una reale vita nazionale, contraddice e vuo-le tenersi lontano dallo sviluppo che solo poteva ancora darle qualche appoggio. La presunta maledizione divina non è altro che la conseguenza naturale della contraddizione, nella quale gli ebrei si sono andati a infilare, tra l'intera storia e la loro legge.

Un deputato del Wiirttemberg (nel 1828) volle vedere un segno della maledizione che incomberebbe sugli ebrei persino nel fatto che la stessa oppressione, sotto la quale essi hanno fino-ra vissuto, non diventa la loro salvezza: «è un esclusivo beneficio del cristianesimo il fatto che i suoi seguaci vengano migliorati e nobilitati per mezzo dell'oppressione, un beneficio di cui non godono gli ebrei».

Tuttavia, se si ammette realmente che l'oppressione nobiliti e migliori — il che non è, per quanto lo si voglia romanticamente credere —, ciò non necessita di una spiegazione sovrannaturale e del ricorso a una volontà sovrannaturale dal momento che l'oppressione non ha in un caso le conseguenze che invece avreb- be nell'altro? Dobbiamo trasformare la questione in un enigma insolubile attraverso la sua risposta religiosa? Dobbiamo eterniz-zare l'opposizione per mezzo della sua luce religiosa? È vero,

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l'oppressione può elevare, rafforzare, stimolare allo sviluppo; ma se non ha aiutato gli ebrei, ciò dipende dal fatto che, a differenza dei cristiani, essi non erano il partito che rappresentava il pro-gresso e al quale era legata la possibilità del progresso della storia universale; l'oppressione infatti, se può in generale aiutare attra-verso il rafforzamento dell'elasticità, può favorire solo questa possibilità.

Abbiamo dato alla questione la sua esatta formulazione, la formulazione che farà emergere la risposta come una necessità inconfutabile.

Andiamo ora a rispondere.

II. CONSIDERAZIONE CRITICA DELL'EBRAISMO

Si potrà facilmente valutare il livello di uno Stato qualora vengano considerati uomini di Stato coloro che osano continua-mente affermare che gli ebrei, che non osservano la loro antica legge e si propongono dei rinnovamenti nella loro religione, per-dono di considerazione presso i cristiani. Se si vuole finalmente arrivare alla questione, allora la domanda è se gli ebrei possono seguire la loro antica legge, se il loro attuale rapporto con la legge eleva la loro eticità, se la legge può in generale essere etica; la questione è addirittura sapere qual è la loro legge.

È LA LEGGE MOSAICA O IL TALMUD?

In generale gli ebrei elogiano l'attaccamento alla religione dei loro padri come una prova della loro grande capacità di restare fedeli al Sacro. Se capita loro di dover ribattere all'oppo-sitore che ritiene impossibile la loro emancipazione, allora senza esitare indicano la loro religione come il saldo sostegno delle virtù sociali e civili: ma qual è questa religione? Secondo il loro presupposto la legge mosaica racchiude la più pura dottrina eti-ca; essi si considerano servitori della legge mosaica e, se messi alle strette, se i loro avversari utilizzano le idee e i comandamenti del Talmud come armi contro di loro, ma anche se attaccati dall'illuminismo che ha guastato loro i precetti talmudici, essi per lo più dichiarano che il ritorno a un puro o depurato mosaismo sarebbe sufficiente, ma anche necessario, per elevare l'infima condizione del loro popolo.

Ma che cos'è il «puro mosaismo»? Questa determinata costituzione che prescrive questo determinato rito sacrificale, questo ordinamento sacerdotale, e questi rapporti di proprietà che solo a Canaan, solo con il presupposto della sovranità del popolo, erano possibili, e che oggi sono assolutamente impossi-bili.

Ma da che cosa si vuole "purificare" il mosaismo? Da tutto

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ciò che riguarda i riti sacrificali, l'antica disposizione sacerdotale e i rapporti di proprietà prescritti dalla legge? Bisogna poi vede- re cosa resta del tutto! Quelle disposizioni non sono solo una parte determinata, non sono nemmeno solo una parte cospicua della cosiddetta costituzione mosaica, sono piuttosto il centro al quale fanno riferimento tutti gli altri comandamenti, il fonda-mento che essi devono necessariamente avere se non vogliono essere sospesi in aria, il sostegno senza il quale cadono.

E non vogliamo nemmeno parlare del fatto che la legge mosaica contiene di principio e nelle sue disposizioni più essen-ziali tutto il rigore del rabbinismo, un rigore che né il ritorno alla sua purezza né la sua purificazione, se non vuole interamente dissolversi, può realmente liberare dai precetti del Talmud.

In breve, la legge mosaica non può più in alcun modo esse-re osservata. L'elogio che le vien fatto è punito dalla sterilità di quella stessa menzogna. Quale elogio! che vien fatto in modo così poco serio da essere praticamente smentito nella vita di tutti i giorni. Quale dottrina etica! che resta senza alcuna influenza sulla vita reale e i cui comandamenti non vengono minimamente seguiti. Quale principio morale! inapplicabile se solo oltrepasso i confini del Paese nel quale unicamente può essere osservato.

Poiché gli ebrei celebrano il mosaismo come la dottrina eti-ca più pura, come il robusto sostegno delle virtù sociali e civili, queste stesse virtù vengono a trovarsi decisamente a mal partito: come minimo esse devono cavarsela da sole e fare affidamento sulla loro perfezione interna, perché da molto tempo ormai la storia ha spezzato il loro "saldo sostegno" e, ancora per molto, non vi è alcuna possibilità che esso possa essere nuovamente restaurato.

Ma i politici più saggi, quelli che rispettano l'ebreo solo quando questo è legato alla legge dei suoi padri, vorrebbero nuo-vamente riunire a Canaan tutti gli ebrei, vorrebbero che essi riac-quistassero l'antica fede e che vivessero nelle stirpi, in mezzo alle quali viene stimolato e tenuto vivo il loro fanatismo. Non fornen-do agli ebrei questa loro antica esistenza storica e non essendo in grado di procuragliela nuovamente, le loro chiacchiere sulla fedeltà al Vecchio sono tanto vuote quanto quelle degli ebrei sul culto delle cose sacre adorate dai loro padri.

L'idea che l'ebreo viva nell'obbedienza a una legge alla qua-le di fatto non obbedisce né può più obbedire, è, nel migliore dei

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casi e a dir poco, fantasiosa. Si tratta di un autoinganno e di un'illusione che può sussistere solo perché si prescinde dalla massa dei comandamenti che ora come ora sono inapplicabili. Se i singoli comandamenti divenuti impossibili vengono realmente osservati e se si deve pensare al modo illusorio e apparente in cui possono essere eseguiti, ciò non può dar luogo che a una sofistica infinita. La sofistica, la casistica, l'accumulo di innumerevoli distinzioni e la loro suddivisione in nuove piccolissime differenze diventa infine il surrogato della reale osservanza della legge o, piuttosto, l'unica — e, come vedremo, l'unica corretta — sua osser-vanza. La legge diventa la legge di un mondo chimerico e assume essa stessa una forma chimerica.

La legge mosaica divenuta chimerica, il mosaismo idealizza-to, cioè il mosaismo fantastico e sospeso per aria, che vive solo nella testa del sofista, è attualmente l'unico mosaismo adeguato.

Questo mosaismo non ha nemmeno bisogno di essere inventato: è già dato nel Talmud. ll Talmud rappresenta lo svi-luppo della legge mosaica e dell'intero Vecchio Testamento, ma uno sviluppo chimerico, illusorio e inconsistente. Questo svilup-po è illusorio perché è una mera scheggia del Vecchio, una con-trattazione e un mercanteggiare con il Vecchio, una sua ripetizio-ne annacquata, e non una nuova creazione. Esso è inconsistente e chimerico perché non osa arrivare alla rottura con il Vecchio, con quel Vecchio diventato oltretutto impossibile; esso deve rinunciare alle sostanziali condizioni di vita del Vecchio, ma ciò nonostante non ha il coraggio di creare un nuovo mondo a parti-re da un nuovo principio. Esso non lotta neppure contro il Vec-chio: ma dove mai si è avuto uno sviluppo energico e vivificante che non avesse dato la sua forma e prodotto riconoscimento a un nuovo principio se non nella lotta contro il Vecchio? Il Talmud non rompe la forma del Vecchio per dare spazio al contenuto dello spirito, ma è solamente una raccolta dei frammenti e dei pezzi nei quali si era disgregato il Vecchio dopo essere stato man-dato in frantumi dallo spirito alla ricerca di una nuova forma. Lo sviluppo del Vecchio Testamento nel Talmud non è assolutamen- te un atto di libertà, non è uno di quegli atti eroici della storia che testimoniano la forza e la capacità di sviluppo creativo dello spirito umano; i rabbini hanno solo raccolto i frammenti dopo che una rivoluzione storica, non provocata da loro, ha distrutto il Vecchio. Al massimo hanno ulteriormente sminuzzato e polveriz-

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zato completamente i frammenti. ll mosaismo reale è diventato una cosa impossibile. L'ebreo

che intende obbedire semplicemente alla legge mosaica, vive in un'illusione. Il Talmud è il mosaismo divenuto privo di fonda- mento. Hanno perciò ragione quegli ebrei che non ne vogliono sapere di un ritorno al mosaismo, anche se solo nella misura in cui non vogliono riconoscere un tale ritorno: quando indicano ciò che vogliono mettere al posto del mosaismo e quando, al tempo stesso, hanno intenzione di andare al di là del Talmud, allora non fanno altro che ritornare al mosaismo illusorio, che costituisce il punto di unione di tutti i partiti ebraici.

«Il ritorno al Vecchio Testamento, si dice "nell'istanza del 1831 dei seguaci di fede ebraica al Duca Wilhelm von Braun- schweig", non sarebbe altro che un regresso culturale. Il Talmud rappresenta il perfezionamento sempre maggiore di Mosé e dei Profeti, il passaggio nell'attuale ebraismo compreso nel suo eter- no progresso. La prospettiva nella quale si trova ora la nostra religione è di gran lunga superiore a quella del cosiddetto mosai-smo».

Superiore lo è realmente, ma solo perché si è levata più in alto nelle regioni celesti del mondo chimerico. Di contro, elevan- dosi più in alto, non ha piantato più profondamente le proprie radici nel mondo reale, non si è legata più saldamente agli inte-ressi etici dell'umanità. È l'innalzamento sul pregiudizio, ma al tempo stesso l'elevamento del pregiudizio a categoria astratta. Il pregiudizio è morto, ma è risorto in questa posizione superiore come immortale vita uniforme. Ha perso i suoi elementi grosso-lani, ma conduce ormai una vita vacua.

In questa posizione superiore, come illustrato ad esempio dal Sig. Salomon nella sua "Missiva al Sig. Frankel" (1842)"°, «Israele» ha rinunciato all'idea di «indipendenza nazionale», non associa più la sua salvezza al «possesso di un angolo di terra», ed ha addirittura rinunciato ad una futura liberazione ad opera del Messia. Il suo «tempo messianico» sarebbe giunto piuttosto con l'emancipazione e la sua attesa messianica non sarebbe altro che il suo desiderio di essere liberato «dalla schiavitù politica e dall'oppressione politica».

A queste condizioni — ed esse sono realmente presenti, quelle «dichiarazioni», fatte nel nome di Israele, sono sincere, e da questo punto di vista Israele non pensa realmente più all'indi-

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pendenza nazionale, a Canaan e al Messia — sembrerebbe che l'emancipazione possa essere realizzata immediatamente se solo gli Stati nei quali vivono gli ebrei realizzassero a loro volta le con-dizioni necessarie a questo compito. Tuttavia proprio nel punto in cui la nazionalità degli ebrei e tutto ciò che li rende ebrei sem-bra essere svanito, proprio qui si mostra in tutta la sua forza l'essenza ebraica: essa sa rimaner salda proprio nella sua perdita, e quindi, anche se in genere rende l'emancipazione impossibile, nell'istante in cui sembra essere più vicina all'emancipazione, si allontana massimamente da essa.

La possibilità dell'emancipazione dovrebbe essere stabilita unicamente dalla costituzione politica o dal futuro degli Stati in cui vivono gli ebrei, dal loro rapporto con essi e dalla loro capa-cità di sviluppo. Tuttavia anche dal punto di vista dell'ebraismo illuminato, gli occhi sono così poco aperti ai reali rapporti di questo mondo che lo sguardo rimane orientato solo verso l'alto, verso la prerogativa chimerica, religiosa e politica di Israele. «La divinità, si dice ora, ha grandi progetti per gli ebrei» — come se la questione non fosse invece di sapere quanto manca allo sviluppo dei rapporti statuali e alla cultura degli ebrei affinché possa esse-re eliminata la barriera che attualmente divide gli ebrei dai sud-diti dei governi cristiani, cioè come se la questione non dipendes-se dal fatto che la barriera venga superata da entrambe le parti. Inoltre, da questo punto di vista, si dice che «non è da conside-rarsi impossibile che il nome degli ebrei appaia nuovamente libe-ro e indipendente» — sarebbe dunque questa l'emancipazione alla quale aspira l'ebreo illuminato, sarebbe questa la vera inte-grazione negli interessi statuali, l'uguaglianza civile con i concit-tadini o addirittura la genuina partecipazione agli interessi uni-versali dell'umanità? Che l'ebreo riesca a far sì che il suo nome appaia nuovamente libero e indipendente? Se l'ebreo, senza saperlo, al posto dell'emancipazione reclama piuttosto l'esistenza autonoma del suo popolo — quindi l'assurdità di poter iniziare nuovamente daccapo la sua storia, vale a dire una fatica inutile, dal momento che la sua seconda storia sarebbe la stessa e termi-nerebbe esattamente come la prima — allora deve ancora conce-dere alla sua coscienza ebraica la soddisfazione di tirare le conse-guenze ultime del suo particolarismo. Ad esempio Salomon, nel-la missiva già citata, dice che la religione ebraica sarebbe la reli-gione universale, quindi la religione che deve superare la super-

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bia e l'alterigia delle religioni positive: ciò significa che il caratte-re esclusivo dell'ebraismo riuscirà finalmente ad escludere tutte le altre religioni esclusive — ma ogni religione deve necessaria-mente essere esclusiva.

Tutte le garanzie, anche quelle dell'ebreo illuminato, relati-ve al fatto che egli non penserebbe ad una nazionalità autonoma «del suo popolo», sono, per quanto possano essere sincere, illu-sorie. Nel momento in cui le esprime, nello stesso istante e con le stesse parole con le quali le espone, egli deve revocarle e negarle. Fintanto che vuole rimanere ebreo, non può e non gli è concesso negare la sua essenza, l'esclusività, l'idea della sua destinazione particolare, il dominio assoluto, per farla breve la chimera del più mostruoso privilegio. Tanto peggio per lui se, nell'istante stesso in cui protesta contro questa chimera, continua a salva-guardarla e parteggia per essa — è la prova che l'idea del privile-gio è cresciuta assieme alla sua essenza.

E, per quanto ciò non sia possibile, volendo egli fare atten-zione e tenersi verbalmente lontano da ogni frase contraria alle sue assicurazioni — ma, ancora una volta, ciò non è possibile! -egli confuterebbe certamente con le sue azioni i suoi più bei discorsi di umanità e di uguaglianza, poiché egli dichiara impuri tutti quelli che non sono ebrei e, in quanto ebreo, deve necessa-riamente dichiararli tali. Le sue leggi alimentari sono la dichiara-zione che tutti quelli che non sono ebrei non sono suoi eguali, non sono suoi simili.

In breve, il mosaismo ha finora sempre saputo affermare il suo dominio tra gli ebrei. Come mosaismo divenuto sofisma, esso domina nel Talmud ed è un'illusione se alcuni illuministi credono di poter ritornare al puro mosaismo; e per quelli che credono di essere già molto vicini all'eguaglianza con i sudditi dei governi cristiani o con i cittadini dei liberi Stati, l'illusione è andata tanto in là che essi cercano ancora di conservare il privile-gio che il mosaismo gli conferisce, mentre pensano di averlo abbandonato. Qui tutto è illusione!

Ma ancora di più! Il mosaismo era un'illusione anche quan-do il popolo era ancora indipendente e aveva una vita storica.

Ne daremo una piccola dimostrazione mostrando il modo inconseguente con cui la coscienza del popolo ebraico agisce ver-so le conseguenze del suo sviluppo storico, cioè come riduce ad illusione il suo proprio sviluppo.

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L'INCOERENZA E L'OSTINATEZZA DELLA COSCTFNZA DEL POPOLO EBRAICO

Per ogni passo che si vuol fare nelle discussioni religiose bisogna tener conto che il pregiudizio teologico si sforzerà di impedirlo. Così per il passo che siamo ora in procinto di compie-re abbiamo a che fare con teologi cristiani ed ebrei che lottano per affermare che la legge veterotestamentaria insegnerebbe l'amore umano universale e la moralità.

Nelle mie lettere sul Signor Dr. Hengstenberg (Berlin,

1839)141 ) questa faccenda è stata trattata in modo tale da rendere impossibile ogni obiezione; esse sono una sentenza contro quelli che vogliono trasformare ad ogni costo la legge in una legge

morale. Per la questione che ci interessa in questa sede sono suffi-

cienti le seguenti osservazioni. Per l'ebreo solo il suo connazionale è fratello e prossimo,

tutti gli altri popoli al di fuori di esso sono e devono — secondo la legge devono necessariamente apparirgli come privi di legittimità

e senza diritto. Se gli altri popoli non hanno nessun diritto di esistere

accanto ad esso, allora la differenza tra essi e il popolo che sola-mente è in possesso di ogni diritto e di tutta la verità deve scom-parire, i membri della nazione estranea, che si trovano all'interno della vera e unica nazione, devono sparire. Ciò è in parte accadu-to con gli stranieri di cui spesso parla la legge. Si presuppone che essi si pieghino all'essenza della legge del popolo e, proprio in ragione di questa inclinazione a piegarsi, che restino in mezzo ad esso. Così, in parte, non sono più degli estranei e, nella misura in cui non lo sono più, vengono raccomandati alla benevolenza del popolo. Ma nel momento stesso in cui la legge sembra essere più vicina all'idea dell'amore umano universale, si allontana da esso e ritorna nuovamente nei limiti della nazionalità esclusiva. La cle-menza, o piuttosto le buone azioni che si devono compiere verso lo straniero, gli sono concesse in quanto è straniero. Egli è e rimane uno straniero, e se l'ebreo entra in rapporto con esso, non si rapporta a lui come l'uomo con l'uomo; se gli fa del bene, non glielo fa come uomo verso il suo simile: l'ebreo resta ebreo e lo straniero straniero. Egli rimane uno straniero così come il popolo — la legge fa addirittura esplicitamente menzione a un tale rapporto — era parimenti straniero in Egitto.

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Non serve a nulla che lo straniero si pieghi all'essenza della legge del popolo, alla fine non serve a nulla nemmeno l'obbligo della legge stessa a considerare la differenza tra il popolo e i popoli come un'apparenza che non dovrebbe neppure esistere: piuttosto, se essa non smette di considerare lo straniero come uno straniero, ristabilisce continuamente la differenza. Essa non sarebbe più la legge, la quale considera quella differenza come un'apparenza illegittima, se non ponesse e consolidasse conti-nuamente quella stessa differenza.

Questa contraddizione diventa enorme quando si dice che Jehova — nel tempo del Messia — si rivelerà come il Dio dei popo-li e li accoglierà nella sua comunità. Nella stessa contraddizione cade la dichiarazione che Jehova avrebbe piacere dell'amore, e non del sacrificio.

Tutte queste opinioni e dichiarazioni si propongono niente di meno che la difesa dell'onore dell'ebraismo: a questo fine le hanno volute utilizzare gli apologeti cristiani ed ebrei. Esse ser-vono piuttosto a rendere ancora più grande la sua colpa e a far conoscere, nel loro assoluto rigore, il suo rigore.

Si tratta di offese contro lo specifico principio dell'ebraismo della legge — concezioni che si formarono nella lotta contro il fanatismo, la limitatezza e l'esteriorità della legge — tentativi che l'ebraismo ha fatto per oltrepassare i suoi limiti originari, quindi inconseguenze dell'ebraismo verso se stesso.

Ma restano inconseguenze. L'essenza dell'ebraismo consiste nel suo essere inconseguente. La sua consequenzialità consiste nell'essere e rimanere inconseguente.

Quelle dichiarazioni sono delle offese contro l'esistente, un attentato contro ciò che ha valore nel popolo; gli uomini che si sono resi colpevoli di queste offese, sono perciò stati abbandona-ti, rinnegati, perseguitati e lapidati dal popolo.

In quanto inconseguenze, concezioni particolari, esse sono state ripudiate e sconfessate dall'intero, dallo spirito dominante della legge, dal positivo e da ciò che è realmente vigente.

Tutta la storia ebraica le ha trattate come delle inconseguen-ze; nel corso del suo sviluppo storico, cioè, lo spirito del popolo ebraico fu talmente inconseguente che non pensò ad attuare le concezioni riformatrici che gli si erano offerte. Anche se si affer-mava che Jehova voleva accogliere tutti i popoli, continuava però a sussistere, non affievolita, l'esclusività della legge e della vita del

popolo; l'idea che a Jehova piacerebbe l'amore e non il sacrificio non incitò nessun ebreo a porre la legge dell'amore al posto del culto del sacrificio.

Sull'inconseguenza vinse invece la consequenzialità del principio di esclusione, della limitatezza e del meccanismo senza anima, nel quale doveva ricadere tutta l'essenza esteriore del sacrificio.

Questa potenza della consequenzialità si spinge tanto in là da conquistare anche la coscienza individuale nella quale si erano formate quelle concezioni superiori. Lo stesso autore che espres-samente e ripetutamente supera ogni differenza tra gli ebrei e i popoli, ad esempio, l'artefice della cosiddetta seconda parte di Isaia, è capace dell'inconseguenza di riprodurre questa differen-za nel modo più duro e di dire che, in futuro, i popoli saranno gli schiavi degli ebrei.

Non esiste spirito del popolo più insicuro e inconseguente di quello ebraico: — esso si sviluppa in contrapposizione alla sua limi- tatezza e si abbandona in concezioni che dovrebbero superare la sua legge, ma non prende il progresso seriamente, non procede realmente in avanti, rimanda ad un lontano futuro ciò che gli appare essere l'autentica verità, lasciandola così inalterata nel pre- sente; ma, al tempo stesso, fa sì che anche in futuro la verità non sia presa seriamente e che la vittoria sia piuttosto riservata alla limi- tatezza — ciò significa che non c'è nessuno spirito del popolo più conseguente di quello ebraico: nel progredire, esso non progredi-sce realmente, nello sviluppo non si sviluppa e, nonostante le idee superiori che gli si sono imposte, resta ciò che è.

Questa consequenzialità non è altro che ostinazione egoisti-ca, che nega le vere conseguenze dello sviluppo storico e le per-seguita come inconseguenze.

Se la religione ebraica rappresentava la fede di questo determinato popolo nella sua unicità, il suo sviluppo storico doveva avere come esito la mancanza di fedeltà in se stesso del popolo; poiché credeva di essere in possesso della verità univer-sale, doveva anche porre la verità come un possesso universale di tutti e distruggere la sua limitatezza nazionale. In quanto ebreo, nella misura in cui vuole rimanere ebreo e vuole in generale rimanere il popolo che è in possesso della verità, il popolo non può raggiungere questo fine del suo sviluppo storico e non può ammettere che esso sia raggiunto. La sua storia non può venire a

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capo di se stessa. La sua fede in se stesso impedisce all'ebreo di avere una storia; se l'ebreo non può in ogni caso sfuggire allo svi- luppo storico, allora, quando questo sopraggiunge, deve negarlo. La sua fede in se stesso, cioè la sua religione, che lo porta neces-sariamente alla mancanza di fede in se stesso, gli impone al tem-po stesso di rimanere ciò che è.

Ma in queste circostanze egli non è più ciò che era (l'ebreo che era capace di questo determinato sviluppo, che aveva questo sviluppo davanti a sé e doveva necessariamente porlo): dopo lo sviluppo e dopo averlo negato, egli è piuttosto l'ebreo che esiste contro l'intento della sua storia e, quindi, anche nonostante la storia. È l'ebreo che esiste in opposizione alla sua destinazione -in breve, è l'ebreo antistorico.

L'ebreo è ostinato e conseguente, ma solo nell'incoerenza e nell'inconseguenza. Dato che deve essere così ostinato e incoe-rente, poiché non può più essere l'ebreo della legge, l'ebreo dell'esclusione, vale a dire l'ebreo reale, se realizzasse le idee alle quali lo portano la sua storia e la sua fede in se stesso, trasforme-rebbe la sua intera essenza in una contraddizione, la sua esistenza in un'esistenza patologica e addirittura in un torto.

Dal momento che egli persiste nel suo carattere esclusivo e si attiene alle minime prescrizioni della legge come fossero comandamenti supremi ed eterni, a dispetto del fatto che fu rico-nosciuta la falsità del suo carattere esclusivo e della sua essenza legale, egli degrada le verità dei suoi profeti a falsità; i profeti stessi, poiché la loro sensibilità e le loro parole sono conformi allo spirito del popolo ebraico e non stanno al di fuori del loro popolo, rimandano al futuro l'attuazione di quelle verità.

Quali verità! Che in quanto divine devono necessariamente essere eterne, già ora valide, e che invece dovrebbero valere solo nel futuro! Quali idee! Che non possono pretendere di avere alcuna influenza sulla vita del popolo se il privilegio del popolo non dev'essere abbandonato! Il popolo doveva soffrire una con-traddizione a causa della quale sarebbe infine andato in rovina.

Lo sviluppo etico di un popolo può consistere solo nel fatto che esso compia seriamente le più alte idee sorte nella sua coscienza, che lavori con passione per esse e che addirittura, al caso, si sacrifichi per esse. Il popolo ebraico si è ribellato allo svi-luppo e quando fu eccitato dalla passione — ciò accadde molto spesso e poté accadere in modo molto forte — ciò ebbe luogo

solo per un privilegio, e se infine si sacrificò come popolo, esso soffrì solo perché voleva affermare un punto di vista contrasse-gnato come falso dal risultato del suo proprio sviluppo.

E se esso ha a che fare con delle idee superiori, idee alle quali la coscienza ebraica si era elevata, la questione è sapere se l'esistente, il positivo e la legge potevano rendere etico quel popolo.

LA VITA CONFORME ALLA LEGGE DELL'EBREO

Dopo i chiarimenti forniti dalla critica moderna circa il modo in cui si sviluppano i popoli e le comunità religiose, la for- mulazione esatta della questione consiste piuttosto nel sapere se un popolo, che ha prodotto una legge come quella mosaica, poteva possedere e conoscere una vera eticità.

Le leggi religiose sono l'espressione, scaturita dai popoli stessi, di ciò che essi ritengono essere la loro vera essenza; un'espressione che essi hanno riprodotto nella storia sacra, come ad esempio quella dei patriarchi, dei profeti e dei re, nella forma dell'esposizione ideale della loro essenza. Nelle loro leggi e nella loro storia sacra i popoli hanno portato alla luce la loro intimità, l'hanno rivelata ed espressa, e se tale espressione della loro essen-za retroagisce su di loro, le conseguenze sono da considerare sol-tanto o come un loro merito o come una loro colpa.

Che cosa sono dunque gli ebrei secondo le loro dichiarazio-ni quali le possediamo nella loro legge e nella loro storia sacra?

Innanzitutto un popolo non libero. Essi non sapevano ancora che le leggi esprimono la natura dei rapporti e valgono come le leggi interiori e naturali di questi rapporti. Non poteva-no quindi dare ragione di ciò che chiamavano legge. Nel momento in cui presso di loro prese forma qualcosa che noi, se abbiamo in mente la nostra idea di una legge relativa ai rapporti secolari solo impropriamente possiamo chiamare legge, quella legge era per loro qualcosa di estraneo, di inesplicabile e assolu-tamente sproporzionato: era la volontà di Jehova. Per farla breve si trattava di una determinazione che non aveva assolutamente nulla a che fare con la natura dei rapporti per i quali essa doveva essere una legge. La legge è semplicemente arbitraria e loro sono i suoi schiavi, che devono obbedire senza sapere il perché e addi-

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rittura senza che sia loro nemmeno permesso chiedere il perché. Uno spirito del popolo che si dà leggi e si pone in relazione

con esse in questo modo, è interiormente cupo e chiuso. Esso si sviluppa, ma senza sapere come; il suo sviluppo è senza libera coscienza e quindi anche senza un contenuto umano universale. Esso esce dalla propria chiusura per esprimere ciò che gli sembra essere giusto e vero, ma solo per un istante, per chiudere subito dopo nuovamente gji occhi di fronte a ciò che ha espresso. La sua propria opera è per esso la volontà e l'azione di una potenza estranea, cioè della potenza divina.

Da un'interiorità così ristretta e chiusa non possono sorgere delle verità universali. Se capita eccezionalmente che nel Vecchio Testamento siano stabiliti dei precetti universali, come ad esem-pio il "dovete essere santi, perché io sono santo"142, anche questi precetti sono ugualmente gettati là in modo arbitrario: essi sono sconnessi, caotici, privi di ogni sviluppo, di fondazione interiore e di ogni connessione — perché ad esempio il popolo dovrebbe essere santo se Jehova lo è? Qual è il legame essenziale fra i due? Perché è proprio questo popolo a dover essere santo dal momen-to che Jehova lo è? — per farla breve, questi stessi precetti univer-sali sono arbitrari.

Quindi, da questo punto di vista, tutte le leggi sono arbitra-rie e il loro contenuto è il più accidentale. Che per esempio sia l'olio il mezzo con il quale viene conferita la santità a una perso-na non deriva né dalla natura dell'olio né dall'essenza della san-tità — (non ci soffermeremo qui sul fatto che la santità costituisca in genere la separazione arbitraria tra gli interessi naturali e spiri-tuali degli uomini e che quindi l'arbitrio stesso possa arbitraria-mente scegliere i mezzi con i quali esprimere questa separazione: qui intendiamo la santità in genere come la determinazione uni-versale, così come la presuppone il Vecchio Testamento) — ma che poi l'olio santo debba addirittura essere composto con questi e questi altri ingredienti, che addirittura gli ingredienti debbano essere scelti in queste determinate quantità, che gli abiti di certe persone debbano essere confezionati con questi determinati tes-suti, e che questi tessuti debbano essere esattamente di questo o quel colore, che i peccati vengano espiati attraverso l'uccisione di animali privi di ragione, che in certi casi ben definiti gli animali debbano essere questi determinati animali, che in casi particolari debbano essere bruciate queste o quelle parti di animali, tutto

ciò non è altro che arbitrio. La scienza contemporanea comprende questo arbitrio. La

critica sa interpretare i riti e le cerimonie del culto ebraico; essa ha cioè scoperto come sono sorti, che senso e che rapporto abbiano le singole parti con l'idea spirituale del tutto. Per prima cosa va però detto che ci sono certamente dei riti totalmente arbitrari e assolutamente indecifrabili; ci sono poi delle usanze la cui interpretazione è possibile in quanto espressione assoluta-mente inadeguata dei .,ntimenti e delle faccende interiori dell'uomo: il loro legame n l'intimità dell'uomo si limita a un accordo assolutamente oscuro con esso; infine, all'ebreo che si conforma alla legge, non è assolutamente lecito interpretare o voler sapere interpretare le prescrizioni della legge.

La vera vita consiste per lui nell'osservanza di riti arbitrari e incomprensibili. L'elemento arbitrario è per lui l'essenziale e la sua stessa essenza; questa o quella parte degli abiti, questo o quel loro colore sono per lui questioni essenziali.

Non è permesso trattare ciò che è arbitrario e accidentale come arbitrario e come accidentale. D'altra parte non c'è qui alcuna distinzione tra ciò che è accidentale e ciò che è necessario. L'elemento accidentale è il vero e il necessario, e l'elemento essenziale è il futile e l'indifferente. La costruzione di una casa, la sua riparazione, l'uso delle posate, eventuali malattie, la scelta degli alimenti, tutti questi elementi arbitrari sono sottratti all'arbitrio, alla sua propria natura e carattere, per essere elevati nel mondo dell'unico essere, che costituisce l'unico contenuto di quel mondo. La guarigione dalle malattie non avviene attraverso la medicina, la scelta dei cibi non è oggetto della dietetica, la pulizia delle pentole non è un affare domestico, ma tutte espri-mono la più alta faccenda della vita, una faccenda religiosa.

L'ebreo dimostra la stessa illibertà e la stessa dipendenza da ciò che in sé è indifferente nella sua idea che l'anima e lo spirito umano possono essere alterati dalla natura, che ad esempio pos-sono essere resi impuri da determinati cibi, da certi sviluppi naturali del corpo, dal contatto con dei cadaveri. Quando lo spi-rito teme la natura ed è convinto di poter essere contaminato da essa, esso non sí è ancora completamente distinto dalla natura o, in altre parole, la natura ha per esso un valore immediatamente spirituale e rappresenta addirittura una superiore potenza spiri- tuale.

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L'ebreo fu incapace di arte e di scienza perché mancavano al suo spirito la liberalità e l'estensione necessarie per iniziare un rapporto libero ed umano con altri popoli, per occuparsi libera-mente e teoricamente della natura e degli interessi umani. La sua intera essenza è limitata, contratta e, infine, imprigionata nelle faccende più strane, futili e insignificanti: nelle pentole, nelle posate, negli abiti e nei contenitori dell'unguento.

La gerarchia, l'ordinamento a caste è solo uno dei modi determinati nei quali si è assoggettato lo spirito ebraico del popolo. C'è gerarchia ovunque lo spirito del popolo, in tutti i suoi membri, non ha ancora la forza, la liberalità, la mobilità o la capacità di svilupparsi. All'interno del popolo esso necessita di un particolare popolo per ottenere la sua esistenza specifica, vale a dire per ottenere l'esistenza ristretta e vincolata che corrispon-de al misero grado della sua formazione e, all'interno di questa esistenza ristretta, esso sceglie il gran sacerdote, oppure lascia che sia la natura e la nascita ad assegnare quel ruolo ad un unico individuo, nel quale solamente esso acquista la sua vera e propria esistenza. Questo solo è il popolo vero e in senso proprio.

L'essenza suprema dell'ebreo della legge — o piuttosto di colui che nella sua esistenza esclusiva, particolare e accidentale le è vincolato — questa essenza suprema è in se stessa inconsistente poiché non dimostra la sua universalità nell'azione, ma si interes-sa piuttosto solo delle miserie e si manifesta nell'arbitrio. Essa è la contraddizione stessa e, per affermarsi, deve affaticarsi e infer-vorarsi. Il suo fervore non è perciò uno sviluppo razionale del suo significato universale, ma ha la forma dí un'improvvisa e brusca esternazione, della vendetta che si mostra repentinamente capace di una dimensione teoretica solo quando si tratta di esse-re creativa nello stabilire le pene corporali. C'è qui teoria solo per il codice penale.

Il popolo esprime in tutta la sua storia; nella sua lingua e in tutto il suo carattere, questa incoerenza della sua essenza. Esso vuole essere il Tutto, l'Unico, l'Uno, l'Universale. Ma esso è qual-cosa di unico solo in quanto ha legato la sua intera essenza in questo unico apice, con una violenza tale che non v'è più posto per alcun interesse universale, e quindi tutto ciò che è altro da questo unico apice deve essere negato e scansato come ingiusti-zia, idolatria e peccato.

La superbia e la boria di un popolo che crede solo in se

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stesso e che, in quanto l'Unico popolo, vuole essere tutto, sono provocate e sostenute dal fatto che ci sono comunque dei popoli, ma, per lo stesso motivo, sono anche rese instabili e incerte. L'Unico popolo non è ciò che deve essere, Uno, Unico e Univer-sale, quando ci sono altri popoli. Esso si inganna sul proprio conto se ci sono dei popoli felici e possenti, e, per non abbattersi completamente, per non disperarsi, deve restare tanto più ener-gicamente fedele all'idea della sua Unicità ed inebriarsi nella pro-pria convinzione che gli altri popoli sono ingiusti — ma essi sono ingiusti per il solo fatto di esistere come popoli, di esistere cioè sotto l'apparenza dell'essenza del popolo, il cui principio spetta invece solo al popolo Uno e vero.

La durezza, la rozzezza, la ferocia e la crudeltà erano e dovevano essere le caratteristiche specifiche di questo popolo nelle sue guerre, poiché esso combatteva contro popoli che, ai suoi occhi, erano assolutamente privi di legittimità.

Si è parlato del valore militare degli ebrei: ma il valore mili-tare, cioè la calma e la tranquillità nel mezzo della battaglia, la coscienza di combattere per uno scopo che si sa essere garantito e illeso anche nel caso in cui si soccomba come singoli o qualora la sorte decida sfavorevolmente l'esito di una battaglia — questo valore militare si ritrova solo tra i Greci e i Romani. Ciò che è stato chiamato il valore militare degli ebrei non era altro che uno slancio selvaggio contro un'opposizione ingiustificata, furore dell'annientamento, il fuoco divoratore dello spirito animale, uno slancio senza ritegno e smisurato, al quale, in caso di cattiva sorte e insuccesso, segue un avvilimento altrettanto senza ritegno, e quindi, di nuovo, un altrettanto energico levarsi all'idea della prerogativa esclusiva del popolo.

Da nessuna parte, quindi, e in nessun rapporto si possono trovare eticità, contegno etico e vera umanità! — una mancanza che si mostrerà in tutta la sua chiarezza quando prenderemo in considerazione il rapporto del popolo con la sua legge.

Sarebbe venuta meno la prima condizione di una tranquil-lità interiore e del consolidamento dello spirito del popolo se la realtà, l'esistenza accanto ad altri popoli, fosse stata smentita e fosse passata in secondo piano rispetto all'idea che questo Un popolo doveva essere l'unico popolo reale. Incessantemente ogni movimento della storia costituiva una prova che il popolo era infinitamente lontano dalla sua idea; la stessa esistenza nazionale

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del popolo costituiva una continua negazione della sua idea. Ma se ora esso si sente realmente un popolo, che vive le

passioni di un popolo e si apre ai sentimenti naturali propri dei popoli, in tal caso contraddice di fatto la sua idea secondo la quale esso dovrebbe essere santo, dovrebbe sottrarsi ai sentimen-ti naturali degli altri popoli e quindi condurre una vita totalmen-te ritirata e solitaria. Potendo sentirsi come un popolo reale e lai-co solo a scapito della sua idea, questo sentimento di sé, poiché era isolato e separato da ogni idea e da ogni legge universale, doveva essere solo qualcosa dí confuso, di caotico, di cupo, una macchinazione oscura e ingarbugliata, un conflitto interiore. Gli ebrei non hanno mai potuto portare il popolo a unità, a una tota-lità statale e a un ordine interno.

La loro legge era dunque già in sé la negazione di sé. Se, nel momento in cui sorge, essa appare e si presenta al popolo come qualcosa di estraneo, come una volontà imposta, allora è essa stes-sa a sottrarsi dalla vita del popolo e a separarsi dal cuore nel quale dovrebbe risiedere. Nel momento in cui sorge, respinge da sé il popolo e questo, da parte sua, agisce allo stesso modo, cioè respin-ge la legge. La storia ebraica racconta solo di un'ininterrotta serie di rivolte contro la legge, apostasia dopo apostasia; solo per un istante la legge fu in qualche modo riconosciuta, e cioè quando costituì l'occasione per dare inizio alla ribellione del Nuovo.

Gli ebrei sono dunque l'unico popolo nella storia del mon-do che non si è mai potuto conciliare con la propria legge: esso la seguiva solo quando cessava di essere un popolo ed aveva perso la sua indipendenza nazionale. Questo era scontato e non ci si poteva aspettare nulla di diverso dal momento che la legge non poteva sussistere che nell'estraneità rispetto all'essenza del popo-lo; essa non poteva stabilire alcun rapporto razionale con le reali faccende del popolo, poiché il suo compito era piuttosto solo quello di porre la totalità dei rapporti politici sulla testa.

Questa è la legge — se la si può ancora chiamare legge — che regna in un mondo fantastico. L'uguale ripartizione della pro-prietà, che la legge prescrive e presuppone, è impossibile e non ha mai avuto luogo tra gli ebrei; le disposizioni del Pentateuco per mantenere questa uguaglianza sono puri postulati e fumose invenzioni aritmetiche; un anno del giubileo, come voluto dalla legge, è impossibile e, così come la legge lo prescrive, non è mai stato celebrato. L'intero rapporto della vita del popolo con il

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Sacro, com'è richiesto dalla legge, non ha mai avuto luogo e non solo è impossibile — solo in un modo fantastico, ad esempio, tutti gli uomini di un popolo, per tre volte l'anno e nello stesso momento, lasciano le loro abitazioni e, mentre celebrano le gran-di feste davanti al tempio, lasciano impunemente indifesi i confi-ni del Paese — ma la maggior parte delle leggi qui menzionate sono addirittura cavillosamente ricavate e poste nel loro nesso ideale solo quando il tempio, del quale presuppongono l'esisten-za, non esisteva ormai più da molto tempo.

Popolo e legge erano semplicemente opposti e dovevano esserlo, senza mai poter colmare o appianare la contrapposizio-ne. La legge si faceva beffe dei rapporti politici e mondani, il popolo la considerava come la sua essenza, il suo destino di non essere un popolo reale, cioè un popolo accanto ad altri popoli. Esso voleva essere il popolo del miracolo, possedeva quindi la legge del miracolo e non poteva minimamente integrarsi in que-sto mondo e nelle sue reali leggi etiche.

Se esso deve rimanere fedele alla legge e se l'ebraismo vuole preservarsi come tale, allora il rabbinismo è la vera forma della legge, e la segregazione è il vero compimento della legge. Il popolo ebraico non volle essere un popolo come gli altri, un popolo in senso proprio, un popolo accanto ad altri. Ebbene! è divenuto ciò che voleva essere: un popolo come nessun altro. Esso non è più realmente un popolo tra i popoli, e non per que-sto ha cessato di essere un popolo. È diventato realmente il popolo del miracolo, il popolo dell'illusione e della chimera. Pro-prio per questo la legge è divenuta compiutamente ciò che fon-damentalmente fu sempre stata: la legge di un mondo fantastico, assolutamente contrapposto al mondo reale nel quale vivono i suoi servitori — la legge dell'illusione, della chimera, di un calcolo e di una combinazione fantastica e sofistica.

La domanda relativa al punto di vista etico del tardo ebrai-smo ha con ciò già avuto risposta. Non dobbiamo far altro che ripresentare concisamente quella risposta.

IL PUNTO DI VISTA ETICO DEL TARDO EBRAISMO

La legge resta nell'impossibilità e nell'incapacità di dare al popolo un sostegno etico interiore.

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Poiché essa consta di disposizioni arbitrarie e non prende in considerazione la natura dei rapporti reali nei quali il popolo vive, essa gli conferirà una straordinaria durezza e farà sì che esso possa restare immutato in mezzo agli altri popoli; ma la legge raggiungerà questo suo scopo solo impedendo al popolo di pren-dere parte agli interessi degli altri popoli o anche solo di farsi un'idea di ciò che muove la sua vita storica.

L'obbedienza verso l'intera legge, poiché è di fatto impossi-bile — com'è sempre stato — non potrà essere che un'obbedienza teorica: elucubrazione, casistica e sofistica. La durezza e la vio-lenza di questa sofistica è tanto più grande in quanto essa non ha a che fare con determinazioni relative ai rapporti umani univer-sali, ma con disposizioni riguardanti questo popolo particolare, addirittura questo popolo in questa particolare situazione in Ter-ra Santa (in un contesto di popoli che erano ancora dipendenti dalla natura e legati alla religione naturale, più simili a degli spiri-ti animali che a spiriti di popoli), il rapporto di questo popolo con la santità della legge.

Solo alcune disposizioni della legge — quelle cioè che si rife-riscono alla sfera esterna, ad esempio all'osservanza di determi-nati periodi, alla cura religiosa del corpo, ai cibi, a tutti quei casi dunque che, dal territorio della Terra santa, possono essere dislo-cati in qualsiasi altro territorio — solo tali disposizioni possono essere seguite dagli ebrei in esilio.

Ma no! Non è possibile. Il loro rispetto è diventato una vuota apparenza, poiché il loro senso autentico, la loro opposi-zione alla religione naturale, e quindi anche il loro rapporto con essa, è ormai andato perduto. Ad esempio il precetto riguardante la pulizia e la conservazione di certi cibi ha il suo senso solo in un mondo nel quale sia quelli che vi si attengono, sia quelli che devono essere posti in contrapposizione dall'osservanza di quel precetto, vedono nella natura un nemico dello spirito, il male e un regno del peccato. In Europa esso ha perduto il suo senso ori-ginario.

Per tenere in piedi la vuota apparenza si deve infine ricorre-re all'ipocrisia. Come se egli non fosse responsabile di ciò che il servitore fa su suo ordine o per il suo piacere, ad esempio, nel giorno del sabato, l'ebreo ha bisogno di servitori cristiani che tengano acceso il fuoco nella sua casa.

Ma proprio ora che l'adempimento di quelle disposizioni è

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divenuto privo di senso e mera parvenza, quelle usanze isolano più che mai l'ebreo, in particolare dagli altri popoli; tanto più che il suo falso zelo, privo di ogni fondamento e ridotto a una mera parvenza, deve necessariamente porre l'ebreo, che vede in questa apparenza la sua vera e suprema essenza, nonché l'essenza del suo stesso popolo, in contrapposizione con la serietà con la quale i popoli europei si occupano delle loro faccende importan-ti. Questa contrapposizione è ancora più radicale di quella che, nel trascorso adempimento di queste usanze, lo aveva contrap-posto alle orde dei Cananei.

Oggi che egli risiede in mezzo ad altri popoli, non solo la forza di esclusione dell'ebreo ha più che mai l'occasione di dare prova di sé, ma ha anche raggiunto il suo apice. Egli è ancor sem-pre il membro del popolo eletto; ed è per questo che il mondo continua ad esistere, che il sole sorge e tramonta, in attesa che giunga il suo tempo, il tempo che lo porterà a dominare. L'attua-le vita in segregazione è solo un periodo di prova, che finirà con l'avvento del Messia.

Quelli che, subito e senza preamboli, vogliono vedere attua-ta l'emancipazione degli ebrei, ad esempio Mirabeau, hanno det-to che l'attesa del Messia avrebbe impedito loro di essere dei buoni cittadini tanto poco quanto l'attesa del futuro Cristo avrebbe reso incapaci i primi cristiani di esserlo. Ma prima avrebbero dovuto dimostrare che i primi cristiani, nonostante le loro attese, erano reali cittadini di questo mondo, che la loro attesa del Signore non li ha resi indifferenti verso le faccende dell'Impero romano — e di fatto non erano indifferenti a tali fac-cende, essi prestavano attenzione ad ogni movimento per capire se si trattava del segno premonitore del Giudizio che avrebbe posto fine al Regno di questo mondo. I difensori dell'emancipa-zione dovrebbero quindi prima dimostrare, cosa assolutamente impossibile, come una comunità, che vede solo nel futuro o nel cielo il tesoro caro al proprio cuore, possa partecipare seriamente e sinceramente alle faccende dello Stato e alla storia di questo mondo. Può il cuore essere devoto a due signori? Può essere contemporaneamente sulla terra e in cielo? Se è in cielo, in terra si troverà solo l'involucro senza cuore e inanimato del corpo.

Gli ebrei in quanto tali non si possono amalgamare con i popoli e non possono confondere la loro sorte con quella di que-sti ultimi. Come ebrei devono attendere un futuro particolare, un

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futuro che è destinato unicamente a loro, dal momento che è destinato a questo determinato popolo e gli garantisce la signoria sul mondo. In quanto ebrei essi credono solo al loro popolo, e questa fede è la sola di cui sono capaci e alla quale sono tenuti: gli altri popoli gli paiono empi, e questa empietà è necessaria e prescritta affinché non venga meno la fede nel loro privilegio. La loro fede in sé soli deve costantemente infiammarsi dell'empietà con la quale essi considerano gli altri popoli.

Per il modo in cui abbiamo considerato la questione — e l'abbiamo semplicemente considerata per come è stata conside-rata dalla totalità della storia fin'ora compiuta e per come doveva essere considerata secondo la natura dell'oggetto — la vicenda degli ebrei sembra essere diventata pressoché disperata.

La sua soluzione non apparirà più semplice nemmeno se ora specificheremo la posizione del cristianesimo rispetto all'ebraismo e dimostreremo che l'ebraismo, colpito dal cristia-nesimo e dallo Stato cristiano, è stato colpito dalle sue proprie conseguenze in quanto conseguenze realmente compiute.

Ma se c'è una soluzione, la si può trovare solo là dove la dif-ficoltà ha raggiunto il proprio apice.

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III. LA POSIZIONE DEL CRISTIANESIMO VERSO L'EBRAISMO

Da molto tempo la dottrina ortodossa ha considerato l'ebraismo come la preparazione del cristianesimo e questo come il compimento di quello. Si troverà quindi giusto dire che il cri-stianesimo è l'ebraismo compiuto e quest'ultimo è il cristianesi-mo ancora incompiuto e inconcluso.

L'ebraismo si era posto come fine l'avvento del Messia, la cessazione dei riti sacrificali e la nobilitazione della legge a legge interiore della moralità e intimo convincimento. Ma non ebbe il coraggio di raggiungere questo fine.

La comunità cristiana — per questa affermazione diamo per presupposta la correttezza della dimostrazione della critica moderna — sorse con la dichiarazione da parte dell'ebraismo che esso avrebbe terminato il proprio corso e raggiunto i suoi limiti. Essa è l'ebraismo che dice a se stesso: punto! il fine è raggiunto. Sono ciò che dovevo essere ed ho ciò che dovevo avere. La comunità, l'ebraismo che tracciò questa immane riga, si è quindi spinta fuori e si è separata dall'ebraismo che voleva rimanere ciò che da lungo tempo era, ma che non voleva raggiungere il suo fine e la sua fine.

Ma se il cristianesimo è l'ebraismo compiuto, non è suffi-ciente che esso dichiari che il fine è raggiunto, che il Messia è arrivato e la legge portata a termine, deve anche produrre il con-tromodello di quello sviluppo senza fine nel quale l'ebraismo vede la propria essenza e la propria destinazione. Deve quindi, al tempo stesso, dichiarare che il fine non sarebbe raggiunto e la vera venuta del Messia, diventata ora la sua seconda venuta, il secondo avvento, sarebbe ancora da attendere. Il Messia è certo stato presente, ma la sua vera rivelazione, quella rivelazione nella quale Egli si manifesterà nella sua vera magnificenza e inizierà il dominio universale, deve ancora venire. La comunità non è quin-di ancora diventata ciò che dovrebbe essere, essa non ha ancora ciò che dovrebbe avere — come l'ebraismo essa deve attendere tutto dal futuro.

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L'ebraismo accusa gli altri popoli e i rapporti tra popoli di essere empi; esso è perciò inconseguente se ha ancora fede in questo Un popolo e se tenta di fondarsi su rapporti in seno al popolo.

Il cristianesimo supera questa inconseguenza. Esso rende universale l'accusa di empietà ai popoli, non escludendo dalla sua accusa nemmeno l'Un popolo e rivolgendo la sua rivoluzione contro tutti i rapporti dello Stato e del popolo. Per amore del Vangelo si devono lasciare «casa, fratelli, genitori, moglie e figli»143, per riottenere poi tutto centuplicato. Ma la patria, i geni-tori, i fratelli, la moglie e i figli che si ottengono centuplicati, non sono più una reale e terrena patria, non sono più fratelli, genitori e figli reali, la moglie centuplicata non è più la moglie reale. Ciò che si ottiene centuplicato è solo l'apparenza di ciò che si è perso e a cui si è rinunciato: il suo riflesso celeste. Il cristianesimo ha fatto ciò che l'ebraismo ha fatto solo in modo incompleto e non conseguente; ha cacciato l'uomo dalla sua casa, dalla sua patria, dai suoi rapporti e legami terreni, ed anche dai legami con lo Sta-to e il popolo, per riconsegnargli tutto ciò che ha perso per amo-re del Vangelo in una forma fantastica: una patria fantastica, una casa fantastica, un padre fantastico, una madre fantastica, figli fantastici, fratelli fantastici, una moglie fantastica.

Il cristianesimo sopraggiunse quando i popoli ebbero perso la fede in se stessi e disperavano della loro vita politica. Esso è l'espressione religiosa della miscredenza che i popoli avevano diretto contro se stessi: è la dissoluzione dei rapporti politici e civili nel loro fantastico contromodello.

Il popolo ebraico fu il popolo che propriamente non fu un popolo, il popolo della chimera e, anche riguardo ciò, ancora inconseguente, poiché voleva esistere come un popolo reale. Il cristianesimo supera questa inconseguenza, questa falsa apparen-za dell'esistenza del popolo e crea il popolo fantastico, il popolo sacro, il popolo del «sacerdozio regale»144.

Il cristianesimo superò i limiti del popolo e fondò la comu-nità universale, ma portò a compimento l'ebraismo anche sotto l'aspetto del compimento e dell'universalizzazione del particola-rismo e dell'esclusività. L'ebraismo escludeva solo gli altri popoli dall'Unico popolo: la comunità cristiana esclude invece ogni popolo in quanto tale e ogni nazionalità, orientando il suo fervo-re contro ogni popolo che volesse credere in se stesso e che, con

questa fede e fiducia nel proprio diritto, volesse darsi delle leggi. Esso esclude in genere chiunque conti su se stesso e su quei dirit-ti che egli possiederebbe in quanto uomo: esclude quindi chiun-que conti sui diritti dell'umanità. Esso non vuole l'uomo reale, ma l'uomo privato della sua vera umanità, l'uomo della resurre-zione, l'uomo fantastico.

Secondo la legge ebraica l'uomo non può sfuggire al desti-no di contaminarsi in svariati modi. La natura nella quale vive lo insidia, è il suo nemico e la fonte di impurità, dalle quali egli deve sempre liberarsi attraverso sacre abluzioni.

Il cristianesimo prende sul serio l'inevitabilità della conta-minazione ed innalza la natura impura, nella quale l'uomo vive, a natura universale, alla natura dell'uomo in genere. L'uomo è per natura impuro; egli necessita quindi di un'abluzione che non toglie singole macchie, ma l'impurezza ín quanto tale. A questo serve il battesimo.

L'ebraismo distingue tra alimenti particolarmente puri e ali-menti particolarmente impuri, non vedendo che hanno tutti Una e la stessa origine. Perciò il cristianesimo consente tutti gli ali- menti, in quanto sono prodotti dalla natura; solo così esso può portare a compimento la distinzione tra alimenti puri e impuri: ai cibi quotidiani della natura esso contrappone l'Unico, il vero, l'autentico alimento veramente nutriente, l'alimento santo e miracoloso offerto in comunione.

Le leggi igieniche e alimentari separano l'ebreo dagli altri popoli; il battesimo e la comunione isolano il cristiano da tutti gli altri uomini. Esso è miracolosamente puro, tutti gli altri vivono nell'impurità che, secondo la fede ebraica, inerisce alla natura umana. Per esso è l'uomo in quanto tale ad essere impuro.

Il popolo ebraico non ha potuto produrre alcuna reale leg-ge dello Stato e del popolo; esso fu solo un insieme di atomi. Questo isolamento è fondato nell'essenza dell'ebraismo; esso doveva quindi giungere a compimento nel cristianesimo diven-tando un dovere e la suprema destinazione dei fedeli. L'essere fedele deve trasformarsi in una faccenda privata e questa deve diventare la sua suprema occupazione. Egli non deve curarsi di nulla più che di se stesso, della sua anima e della sua beatitudine, e questa deve essere tenuta in così alta considerazione che, in caso di necessità, tutto ciò che ha valore tra gli uomini ed è rite-nuto essere di estremo valore, deve essere sacrificato ad essa.

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In un atteggiamento continuamente ipocondriaco l'ebreo deve fare attenzione a non diventare per un qualche caso impu- ro, e deve domandarsi se non lo è forse già diventato realmente. Il cristiano vive in una natura assolutamente impura — nella natu-ra umana corrotta dal peccato; egli ha perciò ancor più ragioni per rimuginare ed essere ipocondriaco. La sua unica preoccupa-zione, il suo unico interrogativo, consiste nel chiedersi se è o non è puro, se è eletto o abietto. Non ha nient'altro da domandarsi, nient'altro di cui preoccuparsi.

In nome di questo isolamento ipocondriaco, il sacro popolo miracoloso della comunità degli eletti è un popolo ancor meno reale di quanto non lo sia il popolo ebraico. Nemmeno esso è un popolo, non lo è per mezzo di sé, non lo è completamente e inte-ramente; in se stesso non è assolutamente nulla. Esso è realmente presente solo nel suo sommo sacerdote, nella testa che pensa per esso, che decide e delibera in ogni faccenda — nel Messia.

Se il popolo come tale non è nulla e tutto accade solamente nel sommo sacerdote e per mezzo di lui, allora le disposizioni morali e universali, che si sono formate in questo popolo miraco-loso, non hanno valore perché il popolo vi ha dato la propria adesione e vi vede la propria volontà, e nemmeno perché sono in se stesse vere e perché devono valere di per sé, ma hanno valore unicamente per il fatto che sono prescritte e rivelate da colui che solo pensa e decide per il tutto. Cessano così di essere morali e costituiscono piuttosto l'apice sul quale si è potuta erigere la natura positiva dell'ebraismo.

Nell'ebraismo l'arte e la scienza erano impossibili: ancor più nella sua conseguenza, perché in essa tutto ciò che nell'ebrai-smo rendeva impossibile là libera e schietta attività con il mondo e le sue leggi universali, è compiuto e portato al suo punto estre-mo. L'arte e la scienza sono possibili solamente se la preoccupa-zione per il bisogno personale non è la sola richiesta agli uomini. Ma nella comunità l'uomo non deve mai pensare che potrebbe liberarsi dalla preoccupazione per i propri bisogni, egli deve essere assolutamente e completamente pieno di bisogni, in se stesso vuoto e insignificante, in una parola non deve mai liberarsi dalla preoccupazione per se stesso: l'arte e la scienza, che d'un sol colpo lo eleverebbero al di sopra della sua insignificanza e porrebbero fine alla sua egoistica e ipocondriaca preoccupazione per se stesso, sono perciò impossibili o severamente vietate.

In breve, se la nuova legge è l'ebraismo compiuto e la rea-lizzazione della vecchia legge, allora essa rappresenta anche il compimento della contrapposizione nella quale si trovava rispet-to al mondo e ai suoi rapporti reali.

Inoltre, se la vecchia legge era la contraddizione con se stes-sa, se la sua consequenzialità consisteva nel revocare e negare i suoi elementi di consequenzialità, riducendoli così a qualcosa di inconseguente, quella contraddizione raggiungerà il proprio api-ce nella nuova legge. Essa dovrà eliminare le conseguenze alle quali doveva portare la sua generalità e universalità, e le dovrà eliminare con tanta maggiore forza in quanto la sua universalità è sostanzialmente solo il principio di esclusione portato a compi-mento.

L'esatta applicazione della vecchia legge è la casistica. Vediamo ora in che cosa consiste l'applicazione della nuova. La questione ebraica ci fornisce l'occasione migliore per farlo.

Noi assicureremo la nostra imparzialità davanti agli occhi di tutti se, al nostro posto, faremo parlare un uomo al quale si deve riconoscere il merito di aver spiegato con esattezza la legge evan-gelica.

Nel suo scritto Die Unmeiglichkeit der Emancipation der Juden im christilichen Staate (1842)145, il proselito Frànkel affer-ma: «il cristianesimo non contrasta in alcun modo l'emancipazio-ne mondana degli ebrei in quanto uomini, al contrario il cristia-nesimo predica e insegna l'amore per il prossimo, e le miserie umane, se un ebreo deve guadagnarsi il pane e, per mangiare, deve fare il funzionario, l'insegnante, il commerciante o il mendi-cante, tali miserie stanno realmente molto al di sotto della sua grandezza».

Ma importante è soprattutto sapere se questa grandezza è la grandezza che si dimostra nell'eliminare qualcosa, o se invece è la grandezza che l'uomo mostra quando, in quelle diverse circo-stanze della propria esistenza, resta un uomo libero e consapevo-le della sua dignità e riconosce come uomini gli uomini che si trovano in quelle diverse circostanze. Il cristianesimo dovrebbe riconoscere l'ultimo tipo di grandezza per quella autentica, poi-ché esso, come osserva il signor Frànkel, non si oppone all'ebreo in quanto uomo ma predica in generale l'amore per il prossimo.

Mette però anche in pratica le sue dottrine? Agisce confor-

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memente a come predica? Riconosce poi realmente l'uomo in quelle differenze casuali nelle quali si viene a trovare? Qualora distingua l'uomo dalle determinatezze accidentali nelle quali vive, lo rispetta realmente come qualcosa di più elevato della sua esistenza contingente? Oppure gli lascia scontare la sua condizio-ne accidentale? Non revoca il proprio amore per l'uomo a causa delle differenze nelle quali egli vive? O si scorda dell'uomo al di sopra dell'ebreo, del turco e del pagano?

Il signor Frànkel ci dà la risposta esatta: «il cristianesimo non contrasta l'emancipazione mondana dell'ebreo in quanto uomo, ma combatte l'emancipazione dell'uomo qualora egli, come ebreo, voglia far valere la verità della sua religione al di fuori di Cristo»; ciò significa che esso distingue tra l'uomo e l'ebreo, l'astratto e il concreto, la chimera e la realtà; in ciò che è astratto, irreale, nel mondo chimerico dei pensieri, esso è amore; nel concreto, nella realtà, là dove dovrebbe dimostrare che pren-de sul serio l'amore per l'uomo, lo revoca. L'uomo paga per l'ebreo. O meglio, l'uomo non è ancora realmente presente, non è ancora riconosciuto. C'è solo l'ebreo, e non può esigere, non può avere ciò che sarebbe garantito all'uomo se esistesse real-mente. Ma egli non esiste ancora. L'ebreo non è ancora un uomo, non è nemmeno un ebreo e un uomo, ma è solo e nient'altro che un ebreo, cioè un'essenza altra da quella del cri-stiano, un'essenza con la quale il cristiano in quanto tale non può avere nulla in comune.

Ma perché l'amore deve negarsi e l'uomo passare in secon-do piano rispetto all'ebreo? «Perché secondo la dottrina di Cri-sto, risponde il signor Frinkel, al di fuori di Cristo non c'è alcu-na salvezza per l'uomo». Dal momento che il cristiano è in pos-sesso di questa salvezza, deve considerare tutti gli altri, che non la posseggono, come estranei. L'amore che in quanto cristiano ha promesso agli altri, proprio in quanto cristiano lo deve revocare. Deve farlo: infatti, osserva il signor Frinkel, «l'egoismo del mon-do deve piegarsi e infine si piegherà davanti alla tensione cristia-na verso l'unità» (vale a dire al santo egoismo, all'unico egoismo giustificato).

«Ora, prosegue il signor Rinke', le idee liberali del tempo (di cui fa parte anche l'idea di emancipazione) sono identiche all'egoismo del mondo ed hanno un fondamento comune al di fuori di Cristo, mentre invece il cristianesimo predica un amore

che è radicato solo in Cristo e ricava il suo miracoloso alimento da questa eterna sorgente del diritto, della verità e dell'ugua-glianza». Questo amore alimentato in modo miracoloso, e quindi esso stesso miracoloso, non si fonda sulla natura del rapporti umani, non trae il proprio stimolo e il proprio alimento dal con-tenuto di questi rapporti e dalle loro implicazioni; esso non trae l'impulso di uguaglianza da una viva simpatia verso tutto ciò che è umano (homo sum, nihil humani a me alienum puto) — ma trae il suo alimento al di fuori dell'umanità reale; non è un amore umano, ma sovraumano, sovrannaturale, e l'uguaglianza alla qua-le tende è un'uguaglianza fantastica, che può scandalizzarsi delle differenze esistenti in questo mondo senza poterle però realmen-te superare: non può cioè riconoscere l'uomo che vive in queste differenze.

Gli ebrei si considerano come un popolo particolare; «ma il cristianesimo, osserva di contro con precisione il signor Ffinkel, non riconosce alcun'altra nazionalità che quella radicata in Cristo Gesù». Le nazionalità reali sono invece normalmente radicate nelle disposizioni naturali dell'umanità e si sviluppano storica-mente. Se i popoli si escludono e si combattono, lo fanno perché i loro interessi sono entrati in conflitto; stipulano la pace non appena riconoscono reciprocamente i loro interessi; si uniscono per delle imprese comuni se li unisce un'idea superiore che, per realizzarsi, necessita di questa unione di disposizioni naturali. Nello Stato reale e nella storia degli Stati l'ebreo in quanto tale dovette sempre rimanere un elemento estraneo, non perché ha una particolare nazionalità, ma perché la sua nazionalità è chime-rica, non reale, in una parola incapace di fraternizzare o di fon-dersi con le nazionalità reali. Dal punto dí vista cristiano la que-stione è completamente diversa: qui tutte le nazionalità reali sono qualcosa di nullo e insignificante, pure chimere, e la nazionalità ebraica è solo una chimera particolare che conta tanto poco quanto le altre, poiché essa, come le altre nazionalità, ha una radice diversa da quella dell'unica nazionalità che è riconosciuta dal cristianesimo e che è l'unica e la sola «radicata in Cristo Gesù». Il cristianesimo non vuole alcuna nazionalità reale, non vuole nemmeno questa determinata chimera della nazionalità della quale vanno fieri gli ebrei: esso vuole solo Una, solamente Una nazionalità fantastica, cioè quella nella quale è sprofondata ogni nazionalità reale e ogni altra nazionalità chimerica.

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«Gli ebrei si richiamano alla loro eticità, al progresso della cultura e della civilizzazione, ma — fa osservare loro il signor Friinkel — il cristianesimo pone l'amore cristiano al di sopra di ogni sapere» — la questione può essere posta in modo molto sem-plice e non c'è bisogno di indagare se l'eticità della quale vanno fieri gli ebrei sia una reale eticità, se sia cioè quell'eticità che ren-de capaci di condurre una vita politica: sí tratta piuttosto solo di mettere fin dal principio l'amore in conflitto con la cultura, per conferirgli subito la vittoria.

«Gli ebrei adducono come pretesto il fatto di credere ín Dio»; si è spesso sostenuto che la fede in un Unico e medesimo Dio dovrebbe unire gli ebrei e i cristiani, ma, osserva giustamen-te il signor Friinkel, «il cristianesimo dichiara ogni spirito che non riconosce che Gesù Cristo s'è fatto carne, come lo spirito dell'Anticristo». Il Dio dei cristiani è un altro Dio rispetto a quel-lo degli ebrei. Gli ebrei negano il Dio dei cristiani e questi non possono costituire alcuna comunità con chi nega il loro Essere supremo.

«Gli ebrei, prosegue il signor Frànkel, sono caritatevoli e riconoscenti verso chi è di religione diversa, ma Cristo dice "chi non è con me è contro di me" 146» — ciò significa che l'amore cri-stiano è e resta esclusivo, incorruttibile, ostinato, inesorabile.

Quindi non è di alcun aiuto per gli ebrei il fatto di avvici-narsi «ai costumi e agli usi dei cristiani, di essere d'accordo con i cristiani per quanto riguarda opinioni politiche, letteratura laica, arte e scienza, di intrattenere con loro rapporti commerciali o addirittura di fare il servizio militare assieme» — tutto ciò non li aiuta assolutamente, infatti «tutti questi attributi, queste qualità e aspirazioni», osserva il signor Frànkel, «sono solo di questo mon-do, e anche se il mondo vi presta attenzione; anche se di fatto deve prestarvi attenzione», l'apostolo Paolo ci dice come dobbia-mo considerare e come dobbiamo rapportarci a tutto questo quando, in Rom. 12:2, ci mette «in guardia dal conformarci a questo mondo».

L'unico vero rapporto nel quale possono reciprocamente trovarsi ebrei e cristiani è perciò la reciproca esclusione. Gli ebrei si sono già rapportati in modo esclusivo: ciò che loro hanno fatto ai popoli, i cristiani glielo hanno pienamente restituito. Nel comportamento dei cristiani essi vengono colpiti dal loro stesso principio di esclusione, principio che i cristiani hanno ereditato

da loro e semplicemente perfezionato. Lo Stato cristiano non può porre ebrei e cristiani in nessun

altro rapporto che non sia quello imposto dalla loro essenza reli-giosa e confessione.

Non rimarrà alcun dubbio circa la nostra imparzialità se lasceremo che sia un ebreo a stabilire come deve essere collocato il suo popolo all'interno dello Stato cristiano.

«Lo Stato non vince attraverso la soppressione delle nostre qualità particolari, dice un altro Frànkel che parla a nome degli ebrei (Die Cultus-Ordnung der Juden in Preussen, 1842)147, ma piuttosto per mezzo della loro conservazione, perché chi giura fedeltà alla sua religione, non può negare obbedienza nemmeno ai suoi superiori, perché chi riconosce la santità della sua fede, non la rifiuterà nemmeno ai diritti umani e alle leggi dell'uma-nità. La religione è ciò che comprende tutto, ciò che si estende a tutto, la totalità, e chi l'accoglie in sé e le è fedele, deve tenere in alta considerazione anche il singolo, il particolare, l'individuale e la moralità».

La moralità, l'eticità, i rapporti umani, tutto ciò che è uma-no in genere, i diritti umani e la legge dell'umanità — tutto ciò è quindi solamente qualcosa di singolare, individuale, particolare -sarebbero una particolarità? L'uomo è solo qualcosa di particola-re mentre l'elemento religioso è l'universale? Perché parlarne ancora! Dal momento che l'elemento religioso esprime la sua vera essenza, esso dice anche che l'elemento umano, l'umanità non è più la sua essenza, ma solo qualcosa di particolare, che deve passare in secondo piano rispetto all'elemento essenziale al quale esso stesso si richiama e che deve completamente negarsi in caso di conflitto.

Ebbene! l'ebreo vuole che la sua religione sia mantenuta; essa è la sua essenza e la sua totalità. Egli vuole far dipendere il riconoscimento dei diritti umani dal riconoscimento e dalla san-tità della religione. Ebbene, dunque! Lo Stato cristiano fa ciò che l'ebreo stesso vuole. Agisce secondo le sue parole: egli stesso è quindi la causa del proprio destino nello Stato cristiano. Qui come altrove è colpito dalle proprie conseguenze e non può quindi nemmeno più lamentarsi.

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IV. LA POSIZIONE DEGLI EBREI NELLO STATO CRISTIANO

Lo Stato cristiano fa ciò che l'ebreo vuole avere, ciò che ha cercato di fare lo stesso ebreo fintanto che esisteva la sua teocra-zia: egli proclama la religione essenza e fondamento dello Stato, solo che lo Stato cristiano proclama sua propria essenza la conse-guenza dell'ebraismo.

Lo Stato cristiano evangelizza o, come dice il proselito Fraikel, «nello Stato cristiano l'evangelizzazione viene conside-rata e praticata come un — noi aggiungiamo: come il primo -comandamento divino». Se quindi il Vangelo è il compimento della legge, allora anche lo Stato cristiano è la piena realizzazione dí ciò che la teocrazia della legge considera come proprio ideale; nella sua costituzione non viene tralasciato o soppresso un solo iota della legge.

Recentemente, per dimostrare l'impossibilità o la non esi-stenza di uno Stato cristiano, si è fatto molto spesso riferimento a quei precetti del Vangelo che non solo non vengono seguiti dallo Stato odierno, ma che esso non può nemmeno seguire se, in quanto Stato, non vuole dissolversi completamente.

Ma la faccenda non può essere liquidata così semplicemen-te. Che cosa impongono quei precetti evangelici? La sovrannatu-rale rinunzia a se stessi, la sottomissione all'autorità della rivela-zione, l'allontanamento dallo Stato, la soppressione dei rapporti secolari. Ebbene, lo Stato cristiano richiede e mette in opera tutto questo. Esso si è appropriato dello spirito del Vangelo, e se non lo rende con gli stessi termini del Vangelo, ciò dipende dal fatto che esprime questo spirito nelle forme dello Stato, vale a dire in forme prese a prestito dallo Stato e da questo mondo, che però, nella rigenerazione religiosa che devono subire, sono ridotte a mera parvenza. Lo Stato cristiano è l'allontanamento dallo Stato, allon-tanamento che, per attuarsi, si serve delle forme statali.

Il popolo rinato ha il dovere di tenersi alla larga da tutti i rapporti reali del popolo, ha il dovere di trasformarsi in un non-popolo. Esso non ha alcuna volontà propria, non è sufficiente a

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se stesso, per se stesso deve piuttosto essere un nulla. Esso è il «popolo della proprietà», ma la proprietà di un altro. La sua vera esistenza si trova solo nel vertice e nel capo al quale è sottomes-so, che però, originariamente e secondo natura, gli è estraneo, nel senso che è stabilito da Dio e gli viene assegnato senza il ben-ché minimo intervento da parte sua. Le sue leggi non sono opera sua, ma rivelazioni positive, alle quali deve obbedire incondizio-natamente e senza poterle criticare in alcun modo. La potenza e il potere che costituiscono il popolo in senso proprio, o quanto meno il tutto, richiedevano una serie di mediazioni che le rap-presentassero sempre e ovunque come il non-popolo, il popolo fittizio, cioè il popolo minorenne. Questo ceto di intermediari costituisce una prerogativa, un privilegio assegnato dalla natura e dalla nascita, oppure è accordato arbitrariamente per grazia dal potere, o ancora è legato alla prestazione di certe condizioni che non hanno bisogno di stare nel benché minimo rapporto o nesso interno con l'ufficio di quegli intermediari. Poiché infine la mas-sa del popolo fittizio è semplicemente la massa che non ha alcun diritto universale e alla quale non è permesso avere alcuna coscienza universale, essa si frantuma in una miriade di cerchie particolari, determinate e messe in forma dal caso, cerchie che si differenziano per interessi, passioni particolari, pregiudizi, e che, in quanto espressione del privilegio, hanno il permesso di chiu-dersi reciprocamente le une alle altre, prendendosi così cura dei loro interessi particolari — in questa massa non ci sono che inte-ressi particolari. Esse non hanno affari universali, non possono e non devono averli; poiché non hanno nemmeno intenzione di avere affari universali, nella cura delle loro faccende particolari viene concessa loro autonomia e autorità privata, cosicché nessu-na cerchia riceva dei diritti che possano conferirle un qualche potere sulle altre.

Il signor Hermes148 aveva perciò pienamente ragione quan-do, nella Kanische Zeitung, affermava che lo Stato cristiano non dovrebbe essere edificato secondo principi universali, ma che le «sue istituzioni dovrebbero essere valutate sulla base di passioni e pregiudizi».

Quando invece il signor Philippson, nella Rheinische Zei-tung, osservava che «poiché gli uomini sono pieni di passioni e pregiudizi, proprio perciò la legge dovrebbe essere superiore ad essi» — nella misura in cui si tratta del concetto di legge, egli ha

ragione, ma ha torto se le leggi, invece di costituirsi per aria, esprimono i rapporti reali, se sono l'essenza e le leggi dell'esisten-te e se, in generale, si guarda al mondo reale. La legge esprime sempre e solamente ciò che nella realtà è essenziale. Se ora è il pregiudizio a godere di questo onore, se esso cioè vale come qualcosa di essenziale, la legge non può essere nient'altro che la sanzione e la legittimazione del pregiudizio. Se l'ebreo si ritiene qualcosa di particolare rispetto al cristiano — allora anche la legge lo tratta come qualcosa di particolare. Il pregiudizio dell'ebreo è che certi alimenti e certi contatti lo renderebbero impuro. Egli ritiene che la propria essenza consista nel mantenersi puro da queste macchie: la sua essenza lo isola dunque anche da ogni non-ebreo — la legge non deve allora prendere in considerazione l'essenza dell'ebreo, non deve essere l'espressione di questa essenza, il compimento del pregiudizio dell'ebreo, non deve cioè isolarlo dagli altri? Essa fa soltanto ciò che egli vuole. Per l'ebreo l'essenza universale dell'uomo non vale ancora come qualcosa di più e di superiore rispetto alla sua essenza particolare — può la legge imporgli un'essenza diversa da quella che vuole avere?

Il signor Philippson dice che la religione non sarebbe che «il manto dell'ipocrisia, il pretesto dell'oppressione dell'uomo, il vincolo della coscienza». Come? Forse Philippson considera la legge veterotestamentaria relativa ai cibi e alla pulizia un «prete-sto» per isolarsi dagli altri per secondi fini? Egli non lo conce-derà, né noi sosterremo una tale assurdità. Ugualmente non si dovrebbe dire che lo Stato cristiano si serve della religione solo come «pretesto dell'oppressione». No, l'ebreo si isola perché non considera l'essenza dell'uomo superiore alla sua essenza par-ticolare, perché non considera ancora l'essenza dell'uomo in genere come la sua propria essenza; ed è per la stessa ragione che lo Stato cristiano non riconosce che l'esclusione violenta, l'ordine gerarchico dei funzionari e delle corporazioni, perché esso e i suoi membri riconoscono come loro essenza solo il potere e la corporazione.

Come il signor Hermes, anche Frànkel ha chiarito con pre-cisione l'essenza dello Stato cristiano quando afferma: «non vi è il minimo dubbio — (certo che no!) — che il governo abbia il dirit-to di subordinare la concessione di certe prerogative — (che quin-di sono legittimamente presupposte come prerogative) —, privile-gi e uffici a certe condizioni, quali ad esempio il giuramento sulla

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verità degli scritti del Nuovo e del Vecchio Testamento». E non si dica invece che la celebrazione di «certe cerimonie

ecclesiastiche non darebbe allo Stato alcuna criterio e la benché minima garanzia riguardo all'affidabilità dei suoi membri». Se ciò che, secondo la propria natura, sarebbe un diritto universale e un dovere per l'universale, da accordare e assumere in quanto tali, viene invece presupposto, concesso e posseduto come privilegio e prerogativa, allora la condizione per la quale viene concesso e fat-to proprio può essere casuale ed arbitraria; essa non abbisogna di alcuna relazione con la particolare essenza di chi pratica quella concessione, allo stesso modo delle cerimonie di investitura che, nel Medioevo, il vassallo doveva eseguire in particolari momenti. Quelle condizioni dovevano addirittura restare arbitrarie e poste al di fuori dell'ambito dell'oggetto, cosicché la concessione del privilegio fosse riconosciuta e indicata come grazia.

Il privilegio più universale, e quindi anche quello più esclu-sivo, è la fede. La fede — è essa stessa che, a ragione, vuole che la si consideri in questo modo, perché non è una libera azione, ma l'espressione e la conseguenza della sofferenza — la fede, l'uomo non se la dà da solo, non la sviluppa a partire dalla ragione, non può disporne in modo arbitrario e determinarla come vuole; essa è piuttosto un dono della grazia, che la concede arbitrariamente ed elegge chi vuole ad una condizione di grazia. Il cristiano deve quindi, senz'ombra di dubbio, riconoscere il suo privilegio, con-siderarlo come linea guida della sua vita e regolare, conforme-mente ad esso, i rapporti, il modo di comportarsi, l'amore e le sue buone azioni. «Lasciateci fare del bene, ci dice il Santo Apo-stolo, e il signor Frànkel a ragione si richiama a questo versetto: lasciateci fare il bene a chiunque, ma preferibilmente ai fratelli di fede! 149»

Esattamente come íl miracoloso popolo dei credenti, anche il popolo di Israele si vanta di avere un privilegio particolare. Un privilegio sta di fronte all'altro: l'uno esclude l'altro. Lo Stato cri-stiano è costretto a considerare, salvaguardare e coltivare i privi-legi; il suo intero edificio è appoggiato su di essi. L'ebreo consi-dera la sua essenza come un privilegio: l'unica sua posizione pos-sibile nello Stato cristiano è quella privilegiata: La sua esistenza non può che essere quella di una corporazione particolare.

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V. CONCLUSIONI

La richiesta di emancipazione da parte degli ebrei e il soste-gno che essa ha trovato tra i cristiani sono il segno che le barriere che li dividevano reciprocamente iniziano ad essere spezzate da entrambe le parti. L'ebreo ortodosso non dovrebbe in alcun modo desiderare l'emancipazione, perché se fosse realmente concessa ed egli ne beneficiasse realmente si verrebbe a trovare all'interno di rapporti e situazioni nei quali non sarebbe più in grado di osservare la sua legge. Quando il cristiano si esprime a favore dell'emancipazione dell'ebreo, egli dà prova del fatto, ne sia consapevole o meno, che l'uomo ha preso il sopravvento sul cristiano. Che poi anche singoli Stati — durante le guerre rivolu-zionarie — abbiano fatto importanti concessioni agli ebrei e siano arrivati quasi a concedere loro la piena cittadinanza, o quanto meno a promettergliela, tutto ciò fu possibile solamente perché, nelle bufere di quel periodo, la forma dello Stato cristiano non reggeva più e, nell'immediato, almeno una parte dei privilegi doveva essere sacrificata.

Nel periodo della Restaurazione le cose andarono diversa-mente: le concessioni promesse furono ritrattate, quelle già rea-lizzate limitate. I privilegi furono ristabiliti e gli ebrei nuovamen-te perseguitati. Non furono però i soli a soffrire: tutto dovette soffrire in quel periodo: la ragione, il sano intelletto umano, i diritti universali dell'uomo.

Doveva accadere. Questa epoca doveva diventare un'epoca di sofferenza universale perché precedentemente era stato com-messo l'errore di ritenere possibile l'emancipazione lasciando in piedi i privilegi delle barriere religiose o addirittura riconoscen-doli nell'emancipazione stessa. Furono così fatte delle concessio-ni all'ebreo in quanto ebreo, lasciandolo anche in seguito sussi-stere come ebreo, vale a dire come un'essenza che deve escludere tutte le altre da sé, rendendo così impossibile la vera emancipa-zione. Tutto soffre a causa di questo errore, perché nessuno ebbe ancora il coraggio di essere uomo. Se in quel periodo furono sacrificati singoli privilegi, era però rimasto il privilegio supremo,

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il privilegio originario, il privilegio del cielo, sovrannaturale e divino, quel privilegio che deve sempre riprodurre tutti gli altri privilegi.

L'emancipazione degli ebrei è possibile in modo completo, efficace e certo, solo se essi non vengono emancipati in quanto ebrei, cioè come un'essenza che deve necessariamente rimanere sempre estranea ai cristiani, ma se diventano invece essi stessi uomini, in modo tale che nessuna barriera, nemmeno quelle fal-samente ritenute essenziali, li possa separare dal loro prossimo.

L'emancipazione non può quindi nemmeno essere vincolata alla condizione che essi diventino cristiani — una condizione per la quale sarebbero comunque dei privilegiati, solamente in modo diverso da come lo erano prima. Un privilegio verrebbe sempli-cemente sostituito con un altro. Il privilegio permarrebbe anche se fosse esteso alla maggioranza, permarrebbe addirittura se fos-se esteso a tutti — a tutti gli uomini.

La questione dell'emancipazione, per ogni suo aspetto fino ai singoli punti qui discussi, è stata perciò concepita finora in modo sostanzialmente sbagliato poiché la si è considerata solo unilateralmente, e cioè come mera questione ebraica. In questo modo non la si è certo potuta risolvere né teoricamente né la si potrà mai risolvere praticamente.

Chi non è egli stesso libero non può neanche aiutare gli altri a diventare liberi. Il servo non può emancipare. Un minore non può liberare gli altri dallo stato di minorità. Un privilegio può ben limitare l'altro, può cioè, pur limitandolo, riconoscerlo e ren-derlo noto come privilegio, ma non potrà mai, a meno che non neghi se stesso, porre al posto del privilegio il diritto universale dell'uomo.

La questione dell'emancipazione è una questione universa-le, la questione della nostra epoca in generale. Non solo gli ebrei, ma anche noi vogliamo essere emancipati. Poiché nulla fu libero e poiché finora hanno dominato minorità e privilegio, nemmeno gli ebrei poterono essere liberi. Noi ci escludemmo tutti a causa della nostra limitatezza; tutto fu limitato e le caserme di polizia nelle quali siamo schedati rasentano necessariamente il ghetto.

Non solo gli ebrei, neanche noi vogliamo più accontentarci della chimera; anche noi vogliamo diventare un popolo reale, dei popoli reali.

Se gli ebrei vogliono diventare un popolo reale — non lo

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possono però diventare nella loro nazionalità chimerica, ma solo nelle nazioni storiche e capaci di storia della nostra epoca -devono abbandonare la prerogativa chimerica che, fintanto che viene conservata, li separerà continuamente dai popoli e li ren-derà estranei alla storia. Prima di essere anche solo lontanamente in grado di prendere parte, sinceramente e senza celate riserve, alle faccende della nazione e dello Stato, essi devono sacrificare la loro mancanza di fede nei popoli e la loro fede esclusiva nella loro inconsistente nazionalità.

Prima di poter pensare di essere e rimanere dei popoli reali e degli uomini reali all'interno della vita della nazione, dobbiamo però abbandonare la mancanza di fede nel mondo in genere e nel diritto dell'uomo, dobbiamo cioè abbandonare la fede esclu-siva nel monopolio e nello stato di minorità.

È impossibile che le azioni della più recente critica e il grido universale di emancipazione e liberazione dallo stato di minorità siano destinati a restare senza successo anche nel futuro più prossimo. L'estensione di questo successo per il futuro dipende da eventi la cui portata e il cui primo risultato decisivo non può essere valutato in anticipo. Una cosa è però certa: finché non sarà messo in pratica l'unico mezzo necessario, ogni altro mezzo rimarrà un palliativo, alimenterà i dissidi e, in nome di quella stessa questione, sarà occasione di nuove battaglie. Quest'unico mezzo consiste nella totale mancanza di fede verso l'illibertà, nel-la fede nella libertà e nell'umanità. Questa fede dimostrerà infine il proprio fervore — un fervore che sarà tanto grande e invincibi-le, così come l'uomo è più grande del monopolio e del privilegio.

«Questo è radicale! Troppo radicale!» dirà forse qualcuno. Ebbene si dia allora ascolto alla saggezza del juste milieu!

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VI. GLI EBREI FRANCESI IN RAPPORTO ALLA RELIGIONE DELLA MAGGIORANZA DEI FRANCESI

Lasciamo che le cose seguano il loro corso: è questa l'espressione consolatoria del punto di vista che, pur non volen-do certo mantenere per sempre l'incertezza e la noia del presen-te, non può nemmeno risolversi a compiere delle scelte radicali e decisive: lasciamo che le cose seguano il loro corso e tutto si compirà da sé. Soprattutto non crediate di poter ottenere qual-siasi cosa con la teoria. La teoria è crudele, è ingegnosa nelle cru-deltà e il suo maggiore piacere è dar forma a dei conflitti a parti-re dalle più piccole difficoltà, concentrare le più semplici compli-cazioni fino a strangolare entrambe le parti, spingere in genere tutto al massimo e all'estremo. La vita è invece ricca di mezzi per aggirare le difficoltà, per smussarle e renderle prive di rischi; essa placa l'eccitamento e il fuoco della teoria, getta dell'unguento nelle ferite aperte dalla teoria.

Così anche alla nostra esposizione si rimprovererà di aver inutilmente esagerato le difficoltà e di aver trascurato tutte quelle mediazioni di cui la vita dispone e che essa utilizza sempre felice-mente al momento opportuno: la teoria presenta invece la situa-zione come talmente pericolosa da portare a credere che, da un momento all'altro, stia per iniziare la più buia delle tragedie.

Noi non disprezziamo assolutamente la vita ordinaria, ma non si deve nemmeno far troppo conto su di essa se dobbiamo tenere in considerazione solo ciò che si rapporta liberamente e onestamente alla propria legge, vale a dire ciò che si dà la legge che esprime la propria coscienza più alta e che realmente supera quella legge che di fatto la misconosce; se quindi è in genere degno di considerazione solo ciò che riconosce la propria legge.

In questo senso, la cosiddetta vita ordinaria, alla cui forza taumaturgica fanno appello gli avversari della teoria radicale, non è degna di stima; essa porterà sempre al punto in cui deve essere massimamente disprezzata.

Con i suoi rimedi anestetizzanti essa non placa solo la tre-menda e violenta teoria, non placa solo la teoria del pensatore,

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ma placa anche la sua propria teoria. Il cristiano può così mostrarsi benevolo, caritatevole e filantropo verso l'ebreo, può cioè sconfessare la sua teoria che, in quanto cristiano, lo obbliga a non avere alcuna comunità con gli ebrei; può riconoscere nell'ebreo l'uomo, può cioè mostrarsi non come cristiano, ma come uomo. La vita ordinaria è però così inconseguente da non riuscire a superare anche nella legge, e con piena coscienza, la teoria e il presupposto che essa supera nella realtà. Non osa ele-vare a teoria vigente l'azione con la quale supera quella teoria incompleta. Lascia sussistere la legge che nega all'ebreo i diritti universali dell'uomo, vale a dire che é essa stessa ancora incapace di riconoscere come legge il diritto universale dell'uomo; solo momentaneamente e nella contingente eccitazione della compas-sione umana, essa conferisce all'ebreo il valore di uomo, altri-menti, nella legge vigente e nei rapporti giuridici (i quali, dal momento che riguardano l'interesse di tutti e non solo quello di qualche singolo animo sensibile, non possono essere regolati solo secondo l'impeto contingente del sentimento e neppure possono essere abbandonati alla sua eccezionale magnanimità), mantiene la teoria tremenda, abbattendosi e demoralizzandosi per il fatto che non può decidersi ad essere così tremenda e a superare quel-la teoria della crudeltà.

La vita ordinaria può quindi essere contrapposta alla teoria solo nella misura in cui, di tanto in tanto e solo momentanea-mente, si sottrae superficialmente alla sua dura teoria. Ma in fon-do, nel suo corso ordinario essa è dominata dalla sua teoria, la quale può essere superata solo dalla teoria vera e crudele, vale a dire dalla teoria che ha il coraggio di porre fine alla crudeltà.

La vita ordinaria si contrappone momentaneamente alla propria teoria, mentre si contrappone continuamente alla vera teoria, dal momento che essa stessa, quando supera occasional-mente la sua teoria, ha paura di riconoscere questo superamento come una legge e come la vera teoria.

Quanto più la vita ordinaria è considerata elevata e quanto più è libera, tanto più sarà barbara e rozza la sua teoria se non vuole riconoscere la libertà, secondo la quale essa vive, come la sua legge suprema.

In tal caso essa non risolverà le complicazioni in cui viene a trovarsi, perché non innalzerà la libertà a legge, ma mediterà sui mezzi che limitano la libertà vigente nella vita.

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La legge, che deve risolvere i conflitti, negherà la libertà dominante; ma una libertà che si lascia schernire in questo modo è solo una parvenza, anche se sembra dominare nella vita ordinaria.

Non è la teoria ad escogitare le contraddizioni di cui soffre la vita ordinaria, ma è la vita che le rende molto palpabili; non è la teoria a rendere il conflitto pericoloso, ma la vita ordinaria, perché non confessa a se stessa le proprie contraddizioni e non le vuole risolvere nella vera teoria; apre le sue ferite senza bendarle e si vede costretta ad ammettere che, fino a quando teme la radi-cale e crudele teoria, le manca il balsamo per alleviare e porre fine al proprio dolore.

Per quanto riguarda la questione ebraica — così come in tut-te le altre questioni politiche a partire dalla rivoluzione di luglio —, la Francia ci ha recentemente offerto lo spettacolo di una vita che è libera, ma che revoca la propria libertà nella legge, dichia-randola quindi un'apparenza e, dall'altra parte, negando nei fatti la sua libera legge.

La rivoluzione di luglio ha soppresso la religione di Stato in quanto tale, ha emancipato lo Stato dalla chiesa, lo ha liberato da ogni influenza ecclesiastica ed ha reso indipendente dalla confes-sione religiosa o ecclesiastica la partecipazione a tutti i diritti politici e civili. Gli ebrei francesi sono dunque diventati a pieno titolo liberi cittadini e, ad esempio, hanno acquisito la capacità di rappresentare in parlamento i loro concittadini senza differenze di religione. Il signor Fould è divenuto celebre in quanto mem-bro della Camera dei deputati ed il conflitto, che impegna la nostra teoria e la nostra prassi in Germania, sembra con ciò esse-re risolto.

Ma non è ancora realmente così, né nella legge né nella vita. L'ebreo, ad esempio, dovrebbe aver cessato di essere ebreo

qualora non si faccia ostacolare dalla sua legge nell'adempiere ai suoi doveri verso lo Stato e i suoi concittadini, come ad esempio recarsi alla Camera dei deputati o prendere parte ai pubblici dibattimenti nel giorno di sabato. Ogni privilegio religioso in genere, e quindi anche il monopolio di una chiesa privilegiata, dovrebbe essere abolito, e se un singolo o i più, o anche la stra-grande maggioranza credesse ancora di dover adempiere a dove-ri religiosi, allora un tale adempimento dovrebbe essere concesso loro come una mera faccenda privata.

Nemmeno in Francia la libertà universale è ancora legge; la

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questione ebraica non è perciò ancora risolta perché la libertà legale — (secondo la quale tutti i cittadini sono uguali) — viene limitata nella vita, che è ancora dominata e lacerata dai privilegi religiosi; questa illibertà della vita retroagisce sulla legge obbli-gandola a sanzionare la distinzione dei cittadini, in sé liberi, in oppressi e oppressori.

Le discussioni della Camera dei deputati riguardo alla legge che doveva regolare l'orario di lavoro dei bambini nelle fabbri-che furono l'occasione per portare alla luce, in tutta la loro com-plessità, conflitti irrisolti. Nella seduta del 26 dicembre 1840, quando venne discusso il quarto articolo della proposta di legge secondo la quale i bambini al di sotto dei sedici anni non poteva-no essere fatti lavorare la domenica e nei giorni festivi legalmente riconosciuti, il signor Luneau propose la seguente stesura: i bam-bini al di sotto dei sedici anni possono essere fatti lavorare solo sei giorni alla settimana.

Questa stesura era imposta dai principi della rivoluzione di luglio. Quali potevano essere, dopo questa rivoluzione, i giorni festivi riconosciuti per legge? O vengono riconosciuti tutti o nes-suno in particolare: in entrambi i casi significa che la legge statale non prescrive alcun giorno festivo, subordinandoli tutti all'inte-resse dello Stato e lasciando alla volontà privata la facoltà di por-re tutti i giorni festivi che vuole, purché non entri in contrasto con l'interesse universale dello Stato.

«È necessario stabilire un giorno di riposo, afferma il Jour-nal des Débats del 27 dicembre; tuttavia può la legge spingersi tanto in là da determinarlo? perché scegliere la domenica e il giorno di festa del culto cattolico? Non è meglio lasciare alla libertà di ciascuno la scelta del giorno di riposo? In Francia sono riconosciuti tutti i culti "discordanti" — si faccia attenzione: "discordanti", dissidens! — e godono colà della stessa libertà: per-ché allora obbligare il padrone a chiudere la sua fabbrica la domenica, se il suo giorno festivo è il sabato?».

Secondo il Journal des Débats, la Camera ha giustamente respinto l'emendamento del signor Luneau: «benché infatti tutti i culti siano uguali davanti alla legge, benché non ci sia più alcu-na religione privilegiata, c'è pur sempre una religione della mag-gioranza che non può essere sacrificata all'ebreo. Cancellare dal-la legge il riferimento alla domenica significherebbe dichiarare che in Francia non vi è più religione».

Esatto! non c'è più religione se non c'è più nessuna religio-ne privilegiata. Si tolga alla religione la sua forza di esclusione ed essa non esiste più.

1.1 signor Martin du Nord, esplicitamente lodato dal Journal des Débats per aver combattuto l'emendamento del signor Luneau, osservò che l'articolo della Commissione non era in contraddizione con la Carta del 1830 e che esso non conteneva nulla che fosse contrario alla libertà di religione dei cittadini. Se nella legge si fa riferimento alla domenica, nessuno è costretto a lavorare in un giorno in cui, secondo gli obblighi della sua reli-gione, dovrebbe fare festa. Potendo gli ebrei non lavorare in un determinato giorno della settimana, la legge non impedisce loro in alcun modo di astenersi dal lavoro.

Resta però il fatto che essi sono obbligati a fare festa la domenica e nei giorni festivi cristiani, che per loro non sono gior-nate religiose. Essi devono attenersi a ciò che prescrive la religio-ne cristiana, la religione della maggioranza dei francesi, la religio-ne professata dalla quasi unanimità dei Francesi.

La libertà concessa agli ebrei si limita dunque al fatto che essi non sono obbligati a violare la legge che ordina di santificare íl sabato — se vogliono, possono lavorare anche nel giorno di sabato — ma la legge della religione cristiana, che lo Stato ricono-sce espressamente come norma delle sue leggi, li obbliga a festeg-giare anche altri giorni al di fuori dei loro giorni festivi. La legge non li costringe ad alcuna effettiva violazione della loro legge religiosa, ma, qualora debbano festeggiare il loro sabato, altret-tanto coscienziosamente di come i cristiani festeggiano i loro giorni festivi, li pone in una condizione sfavorevole rispetto ai cristiani per quanto attiene ai loro interessi mondani. Lo Stato ritiene la legge della religione cristiana l'unica degna di essere protetta attraverso le proprie leggi — con ciò, come afferma il signor Martin du Nord, la religione non correrebbe alcun rischio e quelli che vogliono continuamente minare le fondamenta della religione non avrebbero alcun aiuto dalla legge: la domenica e i giorni festivi cristiani devono essere espressamente menzionati nella legge —, nell'interesse del cristianesimo lo Stato non ritiene invece di doversi dare da fare affinché anche chi professa un'altra religione, ad esempio gli ebrei, possa adempiere ai dove-ri imposti dalle sue leggi religiose. Lo Stato si prende cura solo del cristianesimo, non delle altre religioni e delle loro celebrazio-

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ni: certamente! non si possono servire due padroni, dicono le Sacre Scritture, infatti uno lo si deve amare e l'altro odiare. Il cri- stiano deve essere religioso — così vuole la legge dello Stato - l'ebreo può comportarsi come vuole: come se, qualora l'ebrai-smo venisse abbandonato al proprio destino e fosse lasciato libe- ro di godere di questa libertà, non si dovesse temere alcun incon-veniente per la religione, non si dovesse temere, quanto meno da parte dello Stato, che anche al cristianesimo possa essere lasciata un'uguale libertà.

Ma perché il cristianesimo deve avere il privilegio di essere espressamente tutelato e difeso dallo Stato affinché, qualora i giorni festivi comandati non siano espressamente autorizzati dal-la legge, non si debba temere il declino della religione in genere? Perché solo il cristianesimo ha il privilegio di veder conciliata con i suoi usi ecclesiastici una legge che originariamente aveva il solo scopo di evitare il logoramento fisico dei bambini nelle fab-briche?

Perché gode di questo beneficio? Perché è privilegiato rispetto all'ebraismo?

Perché è la religione della maggioranza; perché i Francesi, nella quasi unanimità, la professano.

La libertà di religione non consiste nel fatto che tutte le reli-gioni hanno uguali diritti, non consiste nell'uguaglianza delle diverse religioni, ma nel monopolio di una religione che è presso-ché l'unica e la sola religione di tutti. Coloro i quali, al confronto dei tutti, sono "infinitamente" pochi, non vengono nemmeno presi in considerazione, e lo svantaggio che subiscono, l'oppres-sione e il pregiudizio che patiscono, non è nulla, il decreto che li annienta di fronte allo Stato non è un'ingiustizia, dal momento che sono così infinitamente pochi. Essi non soffrono e non devo-no lamentarsi a causa dell'intero, o piuttosto a causa della stra-grande maggioranza dei privilegiati, perché l'oppressione che patiscono è compensata dal vantaggio della maggioranza.

Nello Stato cristiano, che si professa tale e qualifica la reli-gione cristiana come religione di Stato, ciò che opprime gli ebrei è un diritto, anche se è solo il diritto, e quindi l'ingiustizia, del monopolio. Ma se una religione, in quanto religione della mera maggioranza, danneggia le altre, allora al posto della parvenza del diritto è subentrata la pura violenza, il diritto della massa più numerosa; al posto del diritto è subentrato il semplice fatto che i

cristiani francesi sono più numerosi degli ebrei e che questi, nei casi di conflitto, devono sottomettersi a quelli.

È dunque questa la tranquilla soluzione che, dopo le edifi-canti lodi del juste milieu, pone continuamente la vita in situazio-ni di conflitto? Si può considerare come una soluzione della con-troversia se la minoranza, dei diritti della quale si sta trattando, fosse brutalmente oppressa? Non si getterebbe semplicemente dell'olio sulle ferite se alla minoranza venisse detto che essa non avrebbe nulla di cui larr starsi dal momento che la libertà spet-terebbe fin da sempre sole alla stragrande maggioranza? Ma ciò significa piuttosto riaprire le ferite e prendere in giro il paziente che voleva lamentarsi dei suoi mali.

La rivoluzione di luglio era diretta contro i privilegi, quindi anche contro la chiesa di Stato. Quando perciò nella Carta rive-duta si dice che la religione cristiana è la religione della maggio-ranza dei Francesi, con questa frase viene solo enunciato un fatto che non può ledere, nella sua partecipazione ai diritti dello Stato, chi professa un'altra religione.

Nessuno più osava, dopo la rivoluzione di luglio, parlare ancora di una religione privilegiata.

Non si aveva però il coraggio di affermare la libertà conqui-stata nella rivoluzione: ma poiché una libertà che non si dichiara apertamente non è una libertà, non si aveva nemmeno il coraggio di essere liberi. Si tremava di fronte alla chiesa di Stato, e la piena libertà non appariva meno tremenda: si scelse così una via d'usci-ta apparentemente senza pericoli, cioè prendere semplicemente atto del fatto che la maggioranza dei Francesi apparteneva a una determinata religione.

Ora, nella vita ordinaria, domina senza dubbio la libertà: ad esempio l'ebreo che professa la religione della minoranza non incontra alcun ostacolo se vuole prendere parte ai diritti di tutti, perché la maggioranza in quanto tale e in relazione al numero non possiede alcun diritto particolare. Ma semplicemente non incontra alcun ostacolo; non è però autorizzato in modo esplicito dalla legge, ma lo è solo tacitamente, come conseguenza del fatto che la pura espressione "chiesa di Stato" è cancellata e la mag-gioranza ha la bontà di lasciare da parte il vantaggio datole, o quanto meno che potrebbe esserle dato, dal numero.

Ma non appena gli interessi della maggioranza e della mino-ranza iniziano a divergere — e dipende dall'arbitrio della maggio-

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ranza, nessuna legge glielo può impedire, se essa vuole affermare il proprio interesse particolare e distinguerlo da quello della minoranza — solo la maggioranza ha il diritto, mentre la minoran-za deve necessariamente sottomettersi alla sua volontà.

Se quindi la vita è libera — là dove ad esempio l'ebreo passa per essere un libero cittadino — quella libertà si fonda solamente su un'arbitraria convenienza della prassi sociale, che ha però nel-la teoria, nella legge e nella categoria della maggioranza il suo nemico imbattuto — un nemico che in ogni conflitto — ma può far scaturire un conflitto in ogni momento e da ogni cosa — può dimostrare la propria superiorità.

Che cosa può fare dunque la minoranza? Se fosse audace e fosse consapevole di essere dalla parte della ragione, non potreb-be essere soddisfatta di un destino che la assegna alla prepotenza di una maggioranza che non è neppure espressamente garantita dalla legge. Se la legge le è avversa e se è culturalmente così pro-gredita da non volere nessun privilegio, neanche a proprio bene-ficio, allora deve esigere la soppressione della legge e combattere quella maggioranza privilegiata che vuole esistere solo in quanto privilegiata e in forza del privilegio. Se invece il nemico non è privilegiato in modo esplicito dalla legge, ma lo è solo velatamen-te, in tal caso essa lo caccerebbe dal suo nascondiglio ed esige-rebbe una modifica della legge.

Ma se non è ancora sicura di se stessa e chiede di poter beneficiare di un privilegio religioso che non può far valere solo perché è minoranza, allora si sottometterà in silenzio e si conso-lerà del fatto che essa subisce ora ciò che avrebbe inflitto agli altri se solo si fosse trovata nei panni della maggioranza.

Non avendo infine né la risolutezza di opporsi a tutti i privi-legi né il coraggio di confessare a se stessa che dipende ancora da un privilegio religioso, ed essendo la stessa imperfezione che caratterizza la maggioranza anche la sua propria essenza, essa osserverà le forme della buona società, sopporterà in modo decoroso l'ingiustizia che le viene fatta, farà come se non fosse successo nulla e, per nobiltà d'animo, si guarderà dall'importu-nare la maggioranza con lamenti o proteste, evitando di spingere la questione tanto in là da esprimere realmente il conflitto. Essa farà tutto — alla fine dovrebbe negare se stessa — per nascondere la cosa, nella speranza e certezza che, in seguito, si lascerà che tutto vada secondo l'indecisione e l'irresolutezza che hanno

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dominato fino ad ora, e che, per quanto è possibile, tutti si guar-deranno dal dare luogo a dei conflitti.

Il signor Fould ha recitato l'ultimo atto: «in modo decoroso e con nobiltà d'animo», come lo loda il Journal des Débats, egli ha rifiutato l'occasione offerta dal signor Luneau di discutere seriamente la questione.

«In quanto minoranza della nazione», afferma il signor Fould, gli ebrei «non vogliono dare disturbo alla coscienza di trentatré milioni di abitanti della Francia. La domenica è un gior- no festivo per la maggioranza: e per i miei correligionari deve quanto meno essere un giorno di riposo. Essi sono soddisfatti della situazione concessa loro. Non chiedono niente di più. Si è detto che ciò equivarrebbe a costringerli a festeggiare due giorni della settimana. E un errore. È vero che essi devono adempiere ai loro doveri religiosi in un giorno diverso dalla domenica. Ma un'ora gli dovrebbe bastare e una tale tolleranza non sarà negata loro in nessuna fabbrica».

Il Journal des Débats riferisce l'esito della discussione: il signor Fould, «in nome della religione israelitica», ha respinto come inutile e superfluo l'aiuto offerto loro; il Journal avrebbe però anche dovuto riferire se il signor Fould ha presentato delle credenziali che lo accreditavano come persona autorizzata a fare una dichiarazione così ufficiale, ed infine avrebbe dovuto infor- mare i suoi lettori su come poteva essere possibile che il signor Fould presentasse una dichiarazione il cui senso, se preso sul serio, equivaleva a dichiarare niente di meno che l'inesistenza della religione dei suoi correligionari. Ma il signor Fould non è stato eletto solo dagli ebrei, non è stato eletto come ebreo, non parla come rappresentante degli ebrei e non ha il mandato di rappresentare e di interpretare la volontà e le opinioni dei suoi correligionari; egli è invece stato eletto e inviato alla Camera in quanto deputato della Francia. Egli non ha quindi assolutamente il diritto unilaterale di dichiarare che per gli ebrei francesi il saba-to non esiste più — esso non ha più alcun valore se viene soppres- so il comandamento del riposo completo e se il giorno di riposo viene limitato al riposo di una sola ora — egli non ha nemmeno il diritto di dichiarare che l'ebraismo in Francia avrebbe cessato di esistere. Così come il signor Martin du Nord, nel progetto di tra-lasciare dalla legge il riferimento alla domenica, scorgeva la pro-posta di dichiarare che il cristianesimo aveva cessato di esistere,

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per la stessa ragione (e questa ragione è pienamente fondata), dichiarare che la legge del sabato non sarebbe più vincolante per gli ebrei, equivarrebbe a proclamare la dissoluzione dell'ebrai-smo. Il signor Fould non aveva però alcun diritto di fare questa dichiarazione unilaterale; come deputato della Francia aveva solo il dovere di tenere presente l'interesse generale del Paese e, in caso di conflitto, esporlo chiaramente: nel caso un partito — fosse anche il partito della stragrande maggioranza — volesse privilegia-re una religione e subordinare la legge al privilegio, aveva il dove-re di protestare e di proporre la soppressione del privilegio reli-gioso. Così come rinunciò all'ebraismo di fronte alla legge, aveva anche il dovere di proporre la piena separazione del cristianesi-mo dalla legge dello Stato e dichiarare che il cristianesimo, non meno dell'ebraismo, dovrebbe essere abbandonato al giudizio privato di ogni singolo come una mera faccenda privata, con la clausola restrittiva dell'inviolabilità degli interessi statali.

Non poteva però agire in questo modo perché non aveva alcun diritto per farlo, sapeva di non trovarsi dalla parte del buon diritto, non poteva cioè credere sul serio che la legge del riposo del sabato non sarebbe più stata vincolante per gli ebrei francesi. Se fosse stato veramente convinto che per i suoi correli-gionari questo obbligo avrebbe cessato di esistere, allora avrebbe agito diversamente, avrebbe messo certamente in imbarazzo la cristianissima Camera potendo esigere da essa, e l'avrebbe certa-mente richiesto, il giusto controsacrificio per il sacrificio del pri-vilegio ebraico.

Ma egli operava nello stesso spirito della maggioranza quando essa respingeva l'emendamento del signor Luneau in quanto rappresentante del juste milieu. Egli credeva nello spirito di questo sistema e sacrificò sé e i suoi correligionari a un privile-gio: nello stesso spirito la maggioranza pretese ed accolse il sacri-ficio.

ll juste milieu è la reazione contro lo Stato cristiano, contro il privilegio religioso ed ecclesiastico, contro il dominio della reli-gione in genere, ma non rischia ancora il tutto e per tutto per la libertà contro le restrizioni religiose: esso rimane fermo a metà strada, non può fare altrimenti perché rappresenta solo l'illumi-nismo nella religione, ma non la libertà dalla religione e dal privi-legio: il monopolio rovesciato viene sempre di nuovo restaurato, ma in una forma rozza e priva di legittimità — poiché esso non

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riconosce il vero diritto, il diritto esclusivo della religione. La vita nel juste milieu è libera, infatti il monopolio è

distrutto ed ogni cittadino ha uguali diritti — ma la legge non è libera, essa non ammette la libertà e contrappone una stragrande maggioranza, che per la sua confessione religiosa è specificamen-te diversa dalla minoranza, come una forza minacciosa contro questa minoranza.

11 juste milieu è libero nella legge, infatti, per quanto riguar-da la legge fondamentale, è in sé assolutamente indifferente che la stragrande maggioranza si differenzi dalla minoranza per la sua confessione religiosa; nella prassi, nella vita, e quando vengo-no fatte valere alcune leggi determinate, esso non é però libero e sacrifica la minoranza alla maggioranza.

In linea di principio il juste milieu non ammette la possibi-lità di un conflitto tra gli interessi religiosi e quelli civili e politici: nella prassi esso nega il conflitto solo perché la minoranza è tal-mente esigua da poter appena definire torto un torto che le viene fatto.

Le vittime del juste milieu, che devono soffrire in nome del principio e nella consapevolezza del principio che esse stesse ser- vono, si porgono reciprocamente il pugnale con le parole non dolet, consolandosi all'idea che in realtà non v'è alcun conflitto, poiché non solo esse sono la minoranza, ma non possono in alcun modo dare luogo a un conflitto. Nella prassi, però, e nella vita quotidiana, esse preservano il principio che le distingue spe-cificamente dalla maggioranza e che deve sempre di nuovo dar luogo a un conflitto; infatti, alla pari della maggioranza, non osa-no mettere in discussione se ciò che le divide ha realmente il diritto di dividerle e se ciò sia in generale legittimo in rapporto alla legge statale.

In breve, entrambe le parti hanno rinunciato ai loro privilegi, ma dimostrano in ogni punto di rilievo, là dove doveva mostrarsi, che in realtà hanno entrambe conservato i loro privilegi.

Nessuna delle due parti osa seriamente attaccare il privile-gio dell'altra perché teme che ciò comporti un pericolo per il proprio e che, di fatto, dovrebbe rinunciare ad esso prima di poter attaccare con successo quello dell'altra. L'arte del juste milieu consiste quindi nel fatto che si lasciano andare le cose come vogliono, a prescindere dalla contraddizione esistente tra la teoria e la vita ordinaria; se sopraggiunge un conflitto lo occulta

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ipocritamente e cerca conforto nella speranza che non soprag-giunga subito un nuovo conflitto; così fino al giorno in cui que-sto comportamento ipocrita non sarà punito, fino al giorno del giudizio, quando dominerà la vera e onesta teoria.

Lo Stato cristiano sostiene apertamente il privilegio nella teoria, e resta tale nella prassi, quando concede agli ebrei un'esi-stenza privilegiata. Il juste milieu rappresenta invece la contrad-dizione appena delineata tra la libertà nella teoria, che nega se stessa nella prassi, e la libertà nella prassi, che si nega nella teoria e nella legge. Esso non ha perciò ancora potuto risolvere il con-flitto rispetto al quale la cosiddetta questione ebraica è solo una parte.

La mancanza di coraggio, alla quale fu finora abituata l'umanità, questa mancanza di coraggio, per cui l'uomo ha paura di confessare a se stesso che è un uomo, che è libero e che vale di più di ogni privilegio; la codardia con la quale tenta di nascon-dersi il fatto che la religione che ancora professa e che vuole assolutamente professare ha già ricevuto, già per il modo in cui è ammessa, il colpo mortale; l'incertezza che giace nella lotta unila-terale contro un determinato tipo di oppressione, mentre non si pensa alla illibertà universale e all'oppressione che grava ancora sull'umanità, proprio questo incubo universale viene preservato da coloro che combattono solo un determinato tipo di oppres-sione — questa mancanza di coraggio e la codardia di questa illu-sione hanno fatto sì che la questione ebraica, così come la que-stione dell'emancipazione universale della nostra epoca, non potessero ancora trovare una risposta. Per formulare esattamente la giusta risposta liquideremo l'ultima illusione e metteremo fine all'ultima possibilità di tutte le illusioni.

VII. DISSOLUZIONE DELL'ULTIMA ILLUSIONE

La prima e l'ultima illusione è e resta quella per cui l'ebreo, quando professa la sua religione, che si trova all'ultimo stadio della dissoluzione, crede di essere ancora sinceramente religioso, crede di essere ancora ebreo. È vero — e l'esposizione finora com-piuta fornisce la dimostrazione di questa affermazione, una dimostrazione che proseguirà e giungerà a compimento alla fine del nostro lavoro — la religione raggiunge proprio nell'ultimo sta-dio della sua dissoluzione il suo compimento; l'ebreo che, con il suo illuminismo, con le sue pretese di far parte della società, vuo-le, nelle circostanze attuali, essere soprattutto ancora ebreo, è il vero ebreo e mostra massimamente la solidità e la verità dell'ebraismo. Ma l'illusione consiste nel fatto che questo compi-mento della religione, questa illusione compiuta, non viene con-siderata come la dissoluzione della religione, non viene ricono-sciuta senza tanti riguardi come tale.

Può l'autoinganno spingersi più in là di quanto non lo sia ad esempio nelle seguenti espressioni dell'ebraismo?

L'EBRAISMO ILLUSORIO

Non serve a nulla sostenere, come ad esempio fa Mirabeau assieme ad innumerevoli ebrei e cristiani, che l'attesa del futuro Messia non può impedire agli ebrei di diventare dei buoni citta-dini. E non serve neppure credersi più scaltri se, come ad esem-pio ha fatto il signor Schlaier durante la seduta della Camera dei deputati del Wiirtemberg nel 1828, si afferma che «gli ebrei resteranno dei buoni cittadini solo fino all'arrivo del Messia». Questa percezione della furbizia cristiana, che crede di essere al sicuro dal Messia degli ebrei, non metterà mai termine alla que-stione se quelli che sperano di diventare dei veri cittadini solo nel futuro, in uno Stato celeste o in uno Stato terreno meraviglioso, possono essere in questo mondo dei veri uomini e, nello Stato secolare, dei cittadini con anima e corpo. Il cristiano crede di

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essere sicuro e di aver posto fine a quella questione quando, come cristiano, si crede al sicuro dalla venuta di un Messia ebrai-co. Ma per lo Stato, per la libertà, per l'umanità è assolutamente indifferente se il Messia un giorno fonderà veramente il regno universale degli ebrei o se è solo l'idea di questo regno ad estra-niare gli ebrei dal mondo, dalla storia e dagli interessi umani.

La questione resta sospesa, e rimane aperta fino a quando non si risponde risolutamente di no, cioè fino a quando non si riconosca con decisione che quelli che attendono da un futuro meraviglioso la loro vera società, non possono sentirsi a casa loro nella reale società umana.

Solo così, e non invece come tentano abitualmente di fare gli ebrei moderni, la questione può essere decisa una volta per tutte.

Scrive ad esempio l'autore dello scritto Die Juden in Oster-reich (1842)15°, II, p. 185: «Quando nelle preghiere degli ebrei ci sono dei passi che danno spazio alla speranza messianica e al desiderio della Terra santa, quei passi non sono in realtà quelli che al giorno d'oggi vengono recitati col massimo ardore»; con ciò viene per il momento solo espressa la contraddizione nella quale si trova l'ebreo moderno rispetto a se stesso e all'ebraismo. Tale contraddizione è però solo espressa, non tolta. Essa è tolta solo se viene riconosciuta come tale: l'ebreo non è e non può più essere ebreo se solo smette di riconoscere la conseguenza ultima della sua religione, la conseguenza nella quale è compiuta l'essen-za della sua religione e nella quale viene a trovarsi la conciliazio-ne (religiosa) delle sue contraddizioni. Significa forse salvare e decidere la causa dell'ebraismo se si considerano i suoi adepti come degli uomini il cui cuore non è più riposto nelle loro pre-ghiere, che con la bocca ripetono dogmi che in cuor loro negano, e che addirittura, come si azzarda a dire l'autore di quello scritto, «si spaventerebbero se solo fossero chiamati» a prendere posses-so dell'eredità promessa? Se quelle speranze non sono più vive, dovrebbe almeno costituire un argomento a favore di quelle pre- ghiere «la loro venerabile età, dal momento che molte ne sono sorte dal tempo della seconda distruzione del tempio, e il ricordo di un'epoca sacra e gloriosa»? «Voi ipocriti! ha ben detto e pre-detto contro di voi Isaia: questo popolo si avvicina a me con la bocca e mi onora con le sue labbra, ma il suo cuore è lontano da me>>151.

Una speranza sorta dalla più alta manifestazione di forza della coscienza ebraica e che è l'ancora che lega il popolo ebraico al tempo e all'eternità, per la quale «non è stata intrapresa o tra-lasciata alcuna azione efficace» (ivi, p. 186), una speranza che è sprofondata in questa umiliante nullità non dovrebbe essere chiaramente, nettamente e apertamente rigettata su due piedi da ogni uomo onesto come la cosa più ignominiosa?

L'ebreo moderno ha rinunciato a questa speranza pur tutta-via mantenendola: non osa abbandonarla. Il fatto che sia antica gliela rende troppo venerabile. No! egli la preserva ancora, distinguendo ancora il suo destino da quello dell'umanità; egli vuole ancora starsene per conto proprio, quanto meno in modo vago, e riservarsi per ogni evenienza la possibilità di un destino particolare: perciò egli si chiede (p. 186) «se il servo che attende di prendere un nuovo servizio è per questo incapace di ricoprire fedelmente quello attuale»?

La storia ha già risposto a questa domanda. Se una religione è prossima alla dissoluzione, se sente avvi-

cinarsi la propria fine e raccoglie ancora una volta le forze per sopravvivere, allora è capace di compiere i più terribili sacrifici. Ma se, con sforzi disperati, riesce a sollevarsi dal proprio letto di morte, cade a terra in modo ancora peggiore. Essa non fa che esaurire le sue ultime forze tra gli spasmi. Nelle sue convulsioni si dibatte contro se stessa.

Ogni tentativo intrapreso dai difensori degli ebrei appartie-ne al genere di queste convulsioni mortali.

Che cosa c'è di più tremendo e orribile del tentativo degli ebrei di separare la propria causa e quella del proprio popolo da quella del suo presunto legislatore?

Nello scritto Die Juden in Osterreich si dice che «per accu-sare l'ebraismo di una profonda immoralità, non si è temuto risa-lire sino alle gravi prescrizioni mosaiche relative alla repressione — si dovrebbe dire all'eliminazione! — delle popolazioni dei Cana-nei, un'accusa che senz'altro non riguarda tanto il popolo (e ancora meno i suoi posteri), quanto piuttosto il suo grande Capopopolo».

Per il critico l'intera trama dei racconti relativi alle peregri-nazioni dei patriarchi, del popolo e dell'invasione di Canaan, non è nient'altro che l'espressione mitica e fantastica del sentimento dell'estraniazione, dell'esasperazione e della struggente passione

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con la quale le orde ebraiche si rapportavano alle orde di origine comune dei Cananei; per il critico il precetto della legge di ster-minare i Cananei è solo il risultato o l'esito estremo della batta-glia nella quale la coscienza monoteistica dell'ebreo si separò dal-la dipendenza dalla natura dei suoi vicini, con i quali condivide-vano l'origine comune, senza però essere in grado di poter vince-re i suoi avversari altrimenti che con il ferro e il fuoco; per il criti-co e per l'uomo, per il quale solamente esiste un'umanità e una storia, le leggi, che per un popolo valevano realmente come l'espressione del suo dovere supremo, erano anch'esse scaturite dalla vita stessa del popolo, erano cioè la dichiarazione di ciò che il popolo riteneva essere la propria destinazione, così come la storia sacra non è che l'espressione di come al popolo piacerebbe veder realizzata la propria destinazione, se solo non fosse ostaco-lato dalle leggi naturali e dalla potenza di altri popoli.

In questa visione della storia tutto è chiaro, semplice, uma-no e coerente. Ma l'ebreo illuminato, che crede ancora alla storia sacra e chiama Mosè il legislatore, è capace di rendersi colpevole di un rigore mostruoso e di affermare che il legislatore avrebbe dato allo spirito del popolo una direzione per la quale esso sareb-be stato assolutamente incolpevole. L'ebreo si congeda dal legi-slatore, ma è ancora un ebreo fintanto che riconosce Mosè come il legislatore, come colui che annuncia la verità e come il fondato-re di un nuovo e supremo principio etico. Ma se Mosè è il legi-slatore — può l'ebreo rinnegarlo sprezzantemente? Ma egli lo nega anche quando non vuole riconoscere che c'è un'unica leg-ge. Chi si vergogna degli esiti estremi della legge, si vergogna anche di tutta la legge,, poiché è negli estremi che sí muovono i più forti spiriti vitali. E per mezzo di ciò che' è estremo che si mantiene la legge.

L'ebreo non nega quindi solo una parte insignificante della legge quando ne sconfessa i suoi estremi, le sue pudende: così facendo egli nega invece l'intera legge. Perché? Perché ciò che è estremo, il pudendum, non è altro che l'alter ego della legge e ne esprime la natura. La passione, la durezza e la brutalità animale che si esprime in quel comando di annientare i Cananei, anima l'intera legge.

L'ebreo moderno esprime questa vergogna sotto forma di lode per la purezza del principio etico della legge mosaica — cioè, da quando la storia ha valicato i confini di Canaan, schernendola

e ridicolizzandola come qualcosa di superfluo e insignificante. L'ebreo, qualora voglia restare ed essere ancora tale, può

essere ebreo solo in modo illusorio, perché non dispone più della vera legge, abbraccia solo una falsa ombra della legge, vergo-gnandosi addirittura di ciò che in essa vi é di estremo, delle sue parti caratteristiche.

Ma egli vuole essere ancora ebreo, ed è di fatto e in senso pieno un ebreo. Nella sua illusione, con la quale si copre gli occhi riguardo all'intera storia dell'umanità, addirittura nel suo illusorio ebraismo, egli è il vero ebreo. Egli nega la storia e il suo progresso, conduce una guerra all'ultimo sangue contro la storia, spacciando il suo ebraismo illusorio per il principio supremo dell'eticità — e questa guerra all'ultimo sangue è un crimine più grave della guerra che i suoi antenati dovettero condurre contro le orde di Canaan. È una guerra contro l'intera umanità — ma in quanto tale è la verità e il compimento dell'ebraismo.

L'ebreo moderno è capace di autoabnegazione appellandosi a delle testimonianze che singoli cristiani hanno fatto in favore della legge per metterla al riparo dalle presunte "ingiurie" che essa subirebbe. L'ebraismo è rovinato se si abbassa a farsi rila-sciare dal cristianesimo un attestato di perfezione; ha rinunciato a se stesso se lascia (ivi, I, p. 218) che siano dei prelati cristiani -non solo l'arcivescovo di Canterbury, ma ogni vero teologo gli fa questo favore — ad attestare che «la sua legge morale e sociale è la stessa identica legge morale e sociale del cristiano».

Ma l'ebreo conserva ancora se stesso anche in questo momento estremo, là dove sembra aver rinunciato a se stesso, perché proprio quei cristiani, alle cui testimonianze egli si appel-la, sono tanto poco critici quanto lo è egli stesso, e rappresentano all'interno del mondo cristiano, nella misura in cui ciò è possibile all'interno di quel mondo, l'essenza ebraica che tanto, o piutto-sto che solamente, sta a cuore all'ebreo.

È vero, il cristianesimo è il compimento dell'ebraismo, la sua morale è la morale ebraica conseguentemente realizzata, la sua visione del mondo e della società umana è la conseguenza di quella ebraica — ma in quanto è questo compimento, esso è, come abbiamo già dimostrato, al tempo stesso e necessariamente la negazione della specifica essenza ebraica. Ma quei teologi cri-stiani negano questa negazione, la perenne negazione dell'essen-za veterotestamentaria, perché non vogliono ammettere che la

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Rivelazione divina, nel suo progresso nella storia universale, non è mai progredita ed ha spezzato in un punto il filo della continua uniformità. Questi cristiani ebrei non vogliono alcuno sviluppo, nessuna storia, nessuna negazione del Vecchio, ed è per loro asso-lutamente indifferente che l'ebraismo diventi cristiano o il cristia-nesimo ebraico. Ciò è indifferente perché ín ogni caso non fanno altro che trasformare il cristianesimo in un cristianesimo ebraico, quindi in un cristianesimo incompiuto, in breve — secondo quanto detto sopra — solo nell'ebraismo, nel cristianesimo illusorio.

L'ebreo che si concepisce come uno solo con il cristiano, non è più ebreo, perché ha rinunciato al suo privilegio esclusivo; ma nel suo ebraismo illusorio egli è diventato per la prima volta e in senso pieno ebreo, perché egli stesso, nell'illusione di aver rinunciato al suo privilegio, lo avrebbe conservato. Se egli fosse una cosa sola con il cristiano, lo sarebbe solo in quanto non vuo-le avere alcuna storia, alcuno sviluppo, alcun serio superamento del Vecchio.

A partire da queste considerazioni andremo ora a vedere che cosa dobbiamo pensare del fatto che il nome degli ebrei e quello di chi combatte per la verità ci vengono presentati come sinonimi.

GLI EBREI COME «PALADINI DELLA VERITÀ»

Poiché gli ebrei, per rimanere fedeli alla fede dei loro padri, hanno sacrificato tutto, patria e beni, alla loro «confessione», poiché «si sono inflitti secoli di tormenti e umiliazioni fino ai nostri giorni, perciò, dice l'autore del suaccennato scritto (ivi, I, 248), hanno equiparato il nome degli ebrei a quello dei paladini della verità». Ma se il nome dei Parsi, che ancor oggi in India sono legati alla religione dei loro padri, non deve ottenere lo stes-so onore, allora bisognerebbe dimostrare che la legge ebraica è ancora oggi, per sempre, per l'eternità e in modo assoluto nient'altro che la pura verità.

Come se ci fosse una verità esclusiva, come se ci fosse una verità incrostata in alcuni precetti, una verità che, pietrificata, possa essere lasciata in eredità per secoli o possa conservarsi come un'anticaglia sempre fresca — che contraddizione! — e piena di vita.

Una verità è vera una volta sola — e specificamente quando sorge alla coscienza e fintanto che combatte con lo spirito della storia, fintanto che è parte integrante di esso, cioè fino a quando è criticata e, nella sua dissoluzione, è divenuta il fertile terreno sul quale sorgerà una nuova forma della verità.

Anche il culto del fuoco dei Parsi fu verità! Anche la legge di Jehova!

Ma la verità non è, cioè non è affatto qualcosa come lo è una pietra, una montagna, un pianeta o il sistema solare — e di queste cose non si può neppure dire che esse sono, nel senso che si manterrebbero sempre e ininterrottamente uguali — la verità non è, essa diviene solamente, essa esiste quindi solo nella storia e per mezzo della storia, nella critica e per mezzo della critica. La storia non ha finora prodotto alcuna verità che non sia caduta sotto il fuoco della critica; la verità suprema che essa — per mezzo della critica — è in procinto di produrre, l'uomo, la libertà, l'auto-coscienza, è una verità che meno di tutte si fossilizzerà, si chiu-derà in sé e si separerà dalla critica e dallo sviluppo della storia, poiché essa non è nient'altro che lo sviluppo finalmente libero.

Anche l'ebraismo fu una verità — ma quante verità la storia ha da allora messo sul tappeto! — quante verità vi si devono aggiungere alla somma totale, e quante devono quindi essere dis-solte affinché la più recente verità, la verità odierna, l'uomo, la libertà, possa diventare possibile!

I paladini della verità sono solo gli eroi che scoprono, espri-mono e diffondono una nuova verità e che, per mezzo di una verità superiore, dissolvono, trasformandola nell'humus nel qua-le mette radici la nuova verità, la precedente verità di livello infe-riore, che, solo se confrontata con ciò che è nuovo, diventa la fal-sità contro cui il Nuovo combatte.

I paladini della verità sono dei creatori e devono perciò combattere e rifiutare il Vecchio.

Ma gli ebrei hanno combattuto? In particolare, hanno com-battuto — intendiamo dopo l'affermazione del cristianesimo — per una verità che avesse innalzato l'umanità e la storia al di sopra di una verità più antica?

Essi hanno sofferto, ma non lottato. Hanno sofferto per una verità, ma per una verità che da lungo tempo aveva cessato di essere vera — hanno lottato solo per la loro verità privata, non per una verità universale dell'umanità.

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L'autore dello scritto Die Juden in Ústerreich ci fornisce un lungo elenco di ebrei che si sono distinti nelle arti e nella scienza. Questi nomi sono interessanti per la storia privata degli ebrei -per la storia in generale, per la storia universale del mondo (il concetto di mondo è assolutamente ignoto all'ebreo), non hanno alcun interesse.

Nessuno degli ebrei menzionati dall'autore del suddetto scritto ha portato un contributo creativo alla storia dell'umanità. Nessuno di loro può essere menzionato quando si tratta di sco-perte che ci hanno fatto luce sulle leggi dell'universo naturale e spirituale.

Quegli ebrei non hanno attuato né realizzato alcuna scoper-ta od opera universale.

Non sono mai intervenuti creativamente nella storia del loro popolo. Da quando il Talmud è compiuto — la qual cosa non sarebbe d'altra parte stata possibile senza l'influenza della chiesa sulla Sinagoga — gli ebrei non hanno più storia. Dall'inizio del Medioevo fino ad oggi il popolo ebraico era costituito da una massa di atomi determinati dalle stesse regole e dalla stessa con-trapposizione alla storia; mancava ad esso l'unità della coscienza che è propria solo delle nazioni storiche e che è necessaria per formare nuovi interessi e nuove concezioni. Perciò non si è mai potuto riunire in un uomo che gli desse, nella sua totalità, come popolo, un nuovo impulso, un nuovo slancio e un superiore — e quindi universale e pervasivo — sentimento di sé.

Moses Mendelsohn ha influenzato parte dei suoi connazio-nali — ma anche questa influenza fu improduttiva, un gioco inuti-le, poiché non aveva a fondamento una nuova idea di uomo. Egli non ha prodotto alcun popolo nuovo, — se gli dovessimo menzio-nare degli esempi a lui vicini di creazioni nelle quali e per mezzo delle quali i popoli si sono istituiti e perfezionati, allora dovrem-mo raccontare la storia del secolo aperto da Voltaire e conclusosi con gli eroi della rivoluzione politica e scientifica. E con cosa ha operato Mendelsohn? Con i futili resti di una filosofia da lungo tempo in declino, una filosofia che dovette ricevere da Kant lo sconvolgimento che scosse la coscienza universale dell'epoca spingendola in una nuova direzione — con i resti della filosofia popolare wolffiana. Con un tale dono non poteva aiutare né l'umanità né il suo proprio popolo, il quale dovette riporre le proprie speranze in un tempo in cui Jehova, con la stessa chiarez-

za ed esattamente come avvenne millenni prima sul monte Sinai, avrebbe detto al popolo che doveva essere liberato dal giogo dei suoi precetti.

L'altro Mosè — Maimonide — con la sua sofistica oscura, confusa e servile può essere solamente oggetto di curiosità, lad- dove gli esponenti cristiani della scolastica — e quante sono tra loro le stelle di prima grandezza! — appartengono per sempre alla storia universale. Quale chiarezza nelle loro questioni e nelle loro deduzioni rispetto al borbottio dei dialettici ebrei! Che costru-zioni colossali, elaborate con estrema precisione fin nei più pic-coli dettagli sono le loro opere, lontane dal poter essere parago-nate ai confusi mucchi di sabbia nei quali Maimonide racimola e sparpaglia i precetti assolutamente insignificanti della tradizione!

L'esponente cristiano della scolastica è un idealista, la sua opera è un ideale in sé; ben lungi dal poter essere paragonato a un esponente ebraico della scolastica e alle monetine che costi-tuiscono il materiale e il guadagno della sua insulsa recita.

Il cristiano lotta e combatte con un oggetto che è in sé l'intera umanità, l'uomo in genere. Questa battaglia vale la fatica e una storia millenaria. Questa lotta è in sé già una vittoria; nel momento dell'indecisione, se paragonata al rimuginare su migliaia di vuoti precetti, è il trionfo della luce; è la scuola dell'idealità compiuta che diviene padrona dell'oggetto estraneo trasformandolo in qualcosa di umano, vale a dire in ciò che esso è in sé.

La storia del mondo cristiano è la storia della suprema bat-taglia della verità, perché in essa — e solo in essa! — è in gioco la scoperta dell'ultima, o della prima, verità — quella riguardante l'uomo e la libertà.

All'ebreo manca questa idealità. Manca la sua stessa possi-bilità, perché nei suoi precetti non è racchiusa l'umanità, ma solo una nazionalità chimerica, ed infine nemmeno più questa, ma solo una somma di individui atomistici.

Da questa mancanza di ogni idealità si capisce anche che l'ebreo non può criticare il cristianesimo con successo, lo può a malapena criticare — se per critica di un sistema religioso si inten-de qualcosa di più rispetto a delle menzogne grossolane e a uno scherno sconsiderato — egli è infatti ben lungi dal poterlo cono-scere e dallo scoprirne l'essenza.

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L'EBRAISMO E IL CRISTIANESIMO DISVELATI

È una vuota e impotente minaccia quella sollevata dall'autore dello scritto Die Juden in dsterreich nel momento in cui rilancia la questione che già altri avevano precedentemente posto, e cioè che si può ben dubitare (I, p. 225) che un «Eisen-menger ebreo, leggendo da cima a fondo, con la medesima logica satanica e con lo stesso amore diabolico, la letteratura del cristia-nesimo, non sia in grado di esporre nella galleria delle opere let-terarie, accanto all'ebraismo disvelato, un pendant dal titolo: Cri-stianesimo disvelato?»152.

Ma si dovrebbe pensare che gli ebrei hanno avuto tempo a sufficienza per compiere questo disvelamento, se fosse stato loro possibile o concesso dalla storia! Perché non hanno nemmeno fatto i primi preparativi per compiere una tale impresa? Dove si può trovare, tra loro, anche solo il primo abbozzo di un'opera come "il cristianesimo disvelato"?

Essi non sono in grado di fare quest'opera, che è il più grande di tutti i disvelamenti, perché non posseggono la libertà dello spirito, l'idealità dissolvente e l'interesse teorico necessari a farla.

Essi non hanno bisogno di compiere questo disvelamento perché è già stato fatto. Dal tempo dell'Examen de la Religion di de La Serre'53 e del Christianisme dévoilé di Boulanger'54 — non suona quest'ultimo come "cristianesimo disvelato"? — dal tempo di questi audaci e già felicissimi tentativi di disvelamento sono seguiti diversi tentativi e diversi disvelamenti, finché, ai nostri giorni, possiamo proclamare in tutta verità e per sempre che il cristianesimo è "disvelato", la sua essenza è svelata, la sua origine chiarita: le Christianisme est dévoilé!

Non si può menzionare alcun ebreo che abbia seguito que-sto lungo corteo di disvelatori e conquistatori o che, nel caso avesse perso la via, gli avesse indicato la direzione giusta o avesse anche solo fatto una scoperta in grado di portare all'ultimo e decisivo disvelamento.

Ancora oggi l'ebreo illuminato mostra che questo disvela-mento, così come il suo primo presupposto, non gli è possibile. Lo studio di un sistema in tutte le sue parti, e quindi e a maggior ragione nelle sue parti caratteristiche — cioè lo studio del cristia-nesimo nei suoi fenomeni più significativi: negli scritti dei Padri

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della chiesa, negli Annali delle crociate, nelle cronache dell'Inquisizione, negli scritti dei teosofi e dei mistici, questo stu-dio, che considera l'essenza del cristianesimo proprio nelle epo-che in cui esso è intervenuto con decisione nella storia, all'ebreo illuminato sembra possibile solo per «amore diabolico» verso l'oggetto. Anche il naturalista si lascia guidare da una «logica satanica» e da un «amore diabolico» verso l'oggetto del suo stu-dio quando stabilisce la natura di un animale a partire dalle unghie, dagli artigli e dalle zanne con i quali si impone nel suo mondo!

L'ebraismo non ha mai potuto produrre una rappresenta-zione coerente di se stesso. La sua essenza gli è rimasta ignota e, nella sua limitatezza, gli rimane ignota. Essa potrebbe rappresen-tare se stessa qualora si concepisse come presupposto del cristia-nesimo; la sua essenza gli diverrebbe comprensibile solo se si riconoscesse come cristianesimo incompiuto; la sua autentica dis-soluzione è possibile solo se viene dissolta e disvelata nel e con il cristianesimo, nel e con il suo compimento.

L'ebreo in quanto ebreo non è in grado di relazionarsi teori-camente al cristianesimo; egli si può rapportare ad esso solo in modo pratico, religioso, e solo con la sua limitata religiosità, che, nella sua ristrettezza, può sfogarsi solo mediante insulti, menzo-gne e imprecazioni.

Anche nella lotta con la critica l'ebreo non può comportarsi scientificamente. È da molto che Eisenmenger resta inconfutato, e l'ebreo non lo confuterà mai, fino a quando, contro questa opera fondamentale, continuerà a citare — teologicamente — solo singoli passi del Talmud. Eisenmenger sarà confutato solo quan-do sarà realmente riconosciuto, cioè quando sarà chiarita la mise-ra contraddizione teologica tra i singoli passi del Talmud e la falange delle testimonianze ebraiche da lui presentate.

L'ebreo, così come il cristiano in quanto cristiano non sono capaci di interesse scientifico e atteggiamento scientifico perché considerano ogni tentativo di disvelare la loro essenza come un'offesa personale, come un attacco, come un'arrogante viola-zione. Noli me tangere! è il loro motto. Di fatto ogni conoscenza riguardo alla loro essenza è un attacco al loro privilegio, un atten-tato alla loro beatitudine e una noia, perché la loro essenza consi-ste nel soddisfare i loro bisogni personali; essa è loro possesso personale e non viene mai considerata come essenza, come

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un'essenza libera e universale per sé, separatamente dall'ansia e dalla necessità della cura della propria persona. Essi non sono liberi, perché non lasciano mai libera la propria essenza.

L'autore dell'ormai più volte menzionato scritto fa doppia-mente confusione quando dice (II, p. 184) che «gli scrittori ebrei non si sarebbero mai lasciati andare alle manifestazioni di odio verso il cristianesimo fatte nella nostra epoca da un cristiano» -Goethe, specificamente nella sua nota poesia a Suleika. La pole-mica ebraica verso il cristianesimo e la critica — sia essa la critica artistica o quella scientifica — che è stata esercitata da quegli uomini che hanno attraversato la cultura cristiana, si distinguono non solo quantitativamente ma anche nella sostanza. L'attacco religioso degli ebrei al cristianesimo è limitato, maligno, avvilito, la battaglia di un privilegio contro l'altro, un attacco egoistico; il suo unico successo, a causa della sua inefficacia per quanto riguarda la causa dell'umanità, consiste solo nel generare discor-dia da entrambe le parti, senza accennare al fatto che, da parte degli ebrei, è solo la battaglia di un pregiudizio di più basso livel-lo contro uno di gran lunga superiore.

E se invece gli ebrei rappresentassero il punto di vista nel quale è possibile la battaglia di un Goethe e della critica contro il cristianesimo, la battaglia della libertà contro ciò che la limita, dell'umanità contro l'umanità deturpata! In questo caso essi non sarebbero più ebrei, non sarebbero più particolarmente privile-giati, essi disvelerebbero l'essenza del cristianesimo, e quindi anche quella dell'ebraismo, e la libertà, o quanto meno l'ingresso nel regno della libertà che sarà istituito dalla storia a venire; sarebbe garantita loro.

Se capissero che cosa è il cristianesimo e lo Stato cristiano, non vorrebbero nemmeno essere emancipati; essi punterebbero piuttosto alla loro vera libertà. Continuano ad ingannarsi se pen-sano che lo Stato cristiano rifiuti loro non solo le libertà essenzia-li ma la libertà in genere, o che essi siano gli unici a soffrire e ad essere oppressi nello Stato cristiano.

L'autore dello scritto Die Juden in Ústerreich, in un capitolo specifico, ha esaminato come le privazioni dei diritti sofferte dagli ebrei in Austria e l'oppressione che grava su di loro siano in contraddizione con le riconosciute disposizioni giuridiche vigenti in Austria.

Mostreremo che gli ebrei non dovrebbero essere il solo

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oggetto di tutte le sue lamentele, ma piuttosto che se gh ebrei soffrono, tutti gli altri soffrono allo stesso modo; l'ebreo si illude enormemente se crede che, appena tolta la particolare oppressio-ne che grava su di lui, diverrà libero. Tutto, piuttosto, è privo di libertà nello Stato assolutista; l'ebreo è privo di libertà solamente in un modo particolare. L'ebreo, se solo considera esattamente la questione, non ha da reclamare o sperare nell'eliminazione della sua miseria particolare, nel superamento della sua illibertà parti-colare: piuttosto è la fine di un principio che deve reclamare.

L'EBREO NELLO STATO ASSOLUTISTICO

L'ebreo, dice l'autore di quello scritto che si occupa degli ebrei in Austria, è privo di veri diritti di cittadinanza. Ma chi, in uno Stato assolutista, ha veri diritti di cittadinanza? Chi? Nessu-no! Non solo in questo Stato ci sono anche dei paria cristiani, ma anche coloro ai quali, per nascita o per particolare grazia, sem-brano essere concessi diritti di cittadinanza, neanche loro sono sottratti alla miseria generale. La loro miseria è lucente, ma pro-prio per questo più miserabile.

L'impiegato, che nel suo ufficio compila le voci del suo libro contabile, voci che gli vengono continuamente assegnate e mai una volta decise da lui stesso, non può essere definito real-mente libero e, fintanto che la sua intera essenza è assorbita nella compilazione di quelle rubriche, non è in possesso di veri diritti di cittadinanza.

Il privilegiato, lo sia per nascita o per i suoi beni, può al massimo esprimere un'opinione alla Dieta regionale, ma ha dirit-ti di cittadinanza se la sua opinione non ha la benché minima influenza sullo sviluppo dello Stato? Ha una qualche influenza qualora la sua opinione rimanga e debba rimanere solo un'opi-nione personale? Per l'intero, così come per lui stesso, può essere del tutto indifferente che egli esprima la sua opinione all'interno delle mura domestiche o che, nel caso abbia ancora la ridicola pretesa di attribuire a sé e alla propria opinione un'importanza più grande di quanta ne abbia, intraprenda addirittura un viag-gio per esprimere il suo punto di vista in un locale più ampio di casa sua, sommandolo ad altre opinioni altrettanto insignificanti.

Non si può parlare di diritti di cittadinanza là dove lo Stato

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non è ancora uno Stato e la sua unica fatica è quella di non diventare Stato, di non diventare cioè una faccenda universale riguardante tutti. Anche i moti supremi di un tale non-Stato, come la guerra e la conclusione dei trattati, non vengono condot-ti in base a un'idea che avrebbe un proprio contenuto positivo, ma sono provocati solo dalla reazione alle idee reali di altri Stati ed hanno come unico scopo l'isolamento dallo sviluppo storico dell'idea di Stato.

«Gli ebrei sono gravati da oneri straordinari oltre agli ordi-nari doveri dei cittadini».

Ma anche noi lo siamo. Se le imposte e le tasse dovessero essere i nostri unici o i

principali doveri verso lo Stato e se i doveri fossero in un giusto rapporto con i diritti, allora, al di là di ogni giusto rapporto e in maniera spropositata, avremmo doveri esorbitanti dal momento che non abbiamo alcun diritto universale.

Oppure, se chiamiamo «ordinari doveri del cittadino» ciò che i ceti inferiori devono pagare nella proporzione esatta di ciò che pagano i ceti superiori, anche in questo caso sarebbero anco-ra una volta i primi a doversi sobbarcare un peso eccezionale.

«Gli ebrei, nelle diverse Province, sono soggetti a leggi diverse». Anche noi! La monarchia assoluta non conosce alcun diritto territoriale generale, alcuno Stato, ma tutt'al più solo Stati o Province che possiedono i loro diritti particolari come contee, ducati, principati e margravi che, a loro modo, appartengono a uno solo.

In Galizia il culto ebraico, fin nei suoi più piccoli dettagli, è soggetto a un'imposta che viene riscossa con estremo rigore. L'ebreo, ad esempio, deve pagare una tassa per i lumi della festa del sabato anche se, a causa della sua povertà, non ne avesse mai potuti comprare.

Ma la nostra situazione è ancora peggiore. Noi dobbiamo pagare un tributo per il sostentamento della chiesa, dobbiamo farci battezzare e confermare per il matrimonio anche se non abbiamo più alcun legame con la chiesa. Veniamo costretti a compiere atti religiosi.

«I disagi degli ebrei sono in contraddizione con i principi giuridici universalmente riconosciuti ín Austria».

I cristiani devono però rilevare gli stessi disagi, perché que-sti sono una conseguenza necessaria dell'intera costituzione.

Lo Stato assolutistico deve fare dei sacrifici ai tempi moder-ni e porre al vertice del diritto territoriale o di altri patti e trattati dei principi giuridici universali riguardanti il benessere dell'inte-ro e i diritti umani, ma, nelle singole disposizioni e nei singoli paragrafi, quanto più si entra nei dettagli, sempre di più esso limita questi principi universali, paralizzandoli con delle clausole, fino a quando non sono completamente annullati. Se ad esempio in generale vale il principio secondo cui i diritti devono essere in accordo con i doveri, nella realtà e nei casi particolari riesce faci-le al privilegio più forte rimuovere questo principio, oppure il privilegio fa semplicemente irruzione e, senza pudore, dichiara che, per il suo bene, quel principio deve tacere. In un codice che stabilisce come norma generale l'equilibrio tra diritti e doveri può poi essere detto senza esitazione che se un nobile e un bor-ghese di eguali capacità aspirano alla stesso posto, il primo deve avere la preferenza. Questa legge può facilmente restare inconte-stata, può addirittura compiacersi del fatto che al borghese, per quanto superiore, venga comunque preferito il nobile. L'ebreo non si deve lamentare solo per il fatto che, sul suo lungo cammi-no, prima ancora che il principio del necessario accordo tra dirit-ti e doveri giunga a lui, esso sia già diventato così flebile e privo di energia da non essere più in grado di proteggerlo da particola-ri soprusi e angherie.

«Nel codice generale è dichiarata la non colpevolezza della confessione religiosa». Bene! Anche al cristiano, a tutti nel moderno Stato assoluto è garantita la libertà di coscienza; nessu-no deve essere penalizzato per le sue concezioni religiose. Ma fate venire una o più persone e lasciatele dichiarare che si allon-tano da ogni religione, e che quindi non possono più adempiere gli atti religiosi, proprio qui, nel caso particolare, dove quel prin-cipio della libertà di coscienza dovrebbe mostrare che fa sul serio, smette invece di dare buona prova di sé.

«Nel codice il pregiudizio è espressamente dichiarato come una cosa senza valore». Ma, come già dimostrato, esso continua a valere ed è il principio sommamente regolativo nelle disposizioni dei rapporti interni dello Stato cristiano.

L'autore dello scritto Die Juden in Ústerteich si richiama inoltre alle promesse e agli impegni generali che, diverse volte, sono stati fatti agli ebrei. Ma come in ogni altro caso e come tutti quelli che si sono finora impegnati a favore degli ebrei, egli ha

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commesso un gran torto, perché non ha pensato ai suoi compagni di sventura, ai cristiani. Anche a noi sono state fatte delle promes-se, ma la loro realizzazione è andata per le lunghe e nel frattempo sono seguite delle dichiarazioni che, al contrario, ci fanno ben capire che, fino alla fine dei tempi, quelle promesse non devono essere prese sul serio. A ragione aggiungiamo che non siamo ancora maturi, non siamo ancora uomini nel senso pieno e vero del termine, siamo ancora senza coraggio, codardi, intimamente schiavi — vogliamo essere schiavi. Il modo in cui l'ebreo dovrebbe esprimersi sarà chiaro ad ognuno dopo quanto è stato detto fino-ra. «Gli ebrei austriaci delle province assoggettate durante le guerre rivoluzionarie francesi hanno perso molti dei vantaggi e dei diritti posseduti sotto il governo straniero». Ma sono solo ed esclusivamente gli ebrei ad avere storicamente ottenuto e perso qualcosa? Non ci sono altri popoli interessati dalla storia o che hanno fatto esperienza di qualcosa? Sempre e solo gli ebrei! Se fossero stati solo gli ebrei ad aver fatto quelle amare esperienze, potrebbero attendere ancora a lungo perché sia posto rimedio alla loro sciagura! Se stanno da soli, saranno abbandonati; la loro causa è di fatto una causa infelice e disperata fino a che, in tutti i loro pensieri e sentimenti, continuano ad isolarsi e a non ricono-scere che la loro causa può essere portata avanti solo se e nella misura in cui essa fa tutt'uno con la causa dell'umanità e della sto-ria. In tutta Europa il potere assolutista fu persuaso che il domi-nio realizzato ed esercitato per un quarto di secolo dalla potenza della libertà fosse stato qualcosa di estraneo, ed agì di conseguen-za. Con un tratto di penna, con un decreto, esso dichiarò nulle e senza valore quelle leggi "straniere" e, poco a poco ma incessante-mente, lottò e strappò aí suoi sudditi le disposizioni più importan-ti e più liberali del codice "straniero". Gli ebrei non sono i soli ad aver subito la restaurazione, e proprio nel fatto che non sono soli consiste l'unica possibilità della loro salvezza. Noi, i popoli storici, ci salveremo in quanto — tutti i lavori della critica e della scienza hanno mirato a ciò — dimostreremo che i principi che dall'inizio del secolo hanno cambiato l'aspetto dell'Europa non ci sono asso-lutamente estranei, che essi appartengono piuttosto alla natura umana e sono diventati tutt'uno con essa. A ciò che è estraneo togliamo l'aspetto dell'estraneità, quell'aspetto che certo aveva all'inizio per l'intera Europa — perciò dovette essere realizzato con violenza e per mezzo di una lunga serie di guerre contro chi recal-

citrava — quell'aspetto che solo può giustificare le contromosse della restaurazione in modo storicamente comprensibile.

In queste circostanze — accanto a noi e con noi, da parte sua e assieme ai nostri sforzi — ciò che l'ebreo deve fare non è più una questione riguardante la sua volontà di essere realmente libero o la sua volontà di non perdersi in illusioni che lo tengono eternamente lontano dalla libertà. Egli deve dimostrare che i principi che, durante il rivolgimento di tutti gli Stati europei,, facevano anche il suo interesse e per un istante gli hanno dato respiro, non gli sono estranei, e che i loro benefici non furono una concessione accidentale. Ma ha veramente il coraggio di sostenere apertamente il principio della libertà dal pregiudizio? Deve trasformare la causa universale dell'umanità nella propria, e la propria in quella universale. Ma può farlo se continua a lotta-re solo per sé, in quanto ebreo? Può farlo se non vede che può diventare libero solo abbandonando completamente il pregiudi-zio di poter stare per sé e la pretesa di ottenere la libertà per sé? Egli deve estirpare fino alla radice l'idea che egli solo sia oppres-so; la radice che deve strappare è l'idea che il suo destino nello Stato cristiano sia un'inconseguenza e una violazione dei principi di quello stesso Stato. Deve convincersi che il suo pregiudizio di voler essere, in quanto ebreo, qualcosa di particolare, è solo uno dei pregiudizi, solo il completamento dei pregiudizi che determi-nano la forma dello Stato assolutistico.

Egli si è finora ingannato sulla sua posizione, ma questo autoinganno fu qualcosa di universale. Noi tutti, fino ad ora, ave-vamo le idee confuse su noi stessi e sulla nostra posizione nel mondo.

È giunto il tempo della disillusione perché il potere, il pre-giudizio religioso che finora ci ha ingannati, o che era frutto del nostro stesso autoinganno, è chiarito, compreso, decifrato e pri-vato del suo potere assoluto. Finora credevamo che il pregiudizio religioso fosse un potere ultraterreno al di fuori della nostra potenza, un potere che governava, regolava e determinava la nostra condizione — ed esso non è nient'altro che un'espressione particolare, una formula per rapporti che noi stessi abbiamo creato. È solo il velo che gettiamo su tutti i nostri pregiudizi, pensando così di nasconderli, abbellirli o giustificarli.

Quest'ultima illusione è ora dileguata. Il velo è logorato dagli anni e i pregiudizi appaiono in tutta la loro miseria.

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L'ILLUSIONE FONDAMENTALE

Nel 1831, nel corso dei dibattimenti della Camera bavarese sulla condizione degli ebrei, i deputati, tra le altre cose, hanno osservato che solo «l'odio religioso» — un ostacolo della cui sop-pressione potrebbe andar fiero l'illuminismo contemporaneo -ostacola, in qualche circoscrizione, la liberazione degli ebrei dalla loro oppressione.

Ma com'è che l'odio religioso tace quando l'ebreo è costret-to a versare il proprio sangue allo Stato nelle vesti di un comune soldato, per ridestarsi solo quando l'ebreo deve diventare ufficia-le?

Si tratta di odio religioso se la corporazione viennese dei mugnai e dei fornai cospira per non ammettere tra i suoi membri alcun ebreo? Perché l'odio religioso scorda il suo primo dovere e non fa nulla per opporsi se il primo mulino a vapore di Vienna viene costruito dagli ebrei e se la concorrenza, dai ristretti limiti della corporazione, viene estesa in un ambito nel quale si può muovere con la massima libertà e può conseguire successi straor-dinari?

E ancora, si trattò solo di una momentanea debolezza dell'odio religioso, che a Vienna vorrebbe eternamente negare all'ebreo l'ingresso nella corporazione dei trasporti, fu solo per un suo momento di debolezza che un ebreo intraprese la costru-zione della prima grande ferrovia austriaca, sopraffacendo alla grande la corporazione dei trasporti che negava al proprio popo-lo la partecipazione ai miseri guadagni?

E per finire, è sempre l'odio religioso ad impedire ai bor-ghesi, che al pari dei nobili sanno versare il proprio sangue e il cui amore per la patria può spesso essere definito disinteressato, dal momento che il loro sacrificio viene ricompensato in misura minore ed è meno esposto al sospetto di rafforzarsi o di accre-scersi attraverso il godimento di particolari privilegi — per finire, insomma, è solo l'odio religioso che rende difficile o impossibile al borghese diventare ufficiale o alto ufficiale? È infine un parti-colare odio religioso a rendere addirittura impossibile al borghe-se vedersi attribuire un reggimento nel Gardecorps? Forse l'odio religioso ha delle ragioni particolari per andare contro i propri principi quando capita di fornire ufficiali all'artiglieria?

Giusto! È così! L'odio religioso spinge i nobili a isolarsi dal

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ceto borghese. È sull'odio religioso che riposa la separazione tra possidenti e poveri, i quali possono fare affidamento solo sulla loro misera intelligenza. Il signor Biillow-Cummerow trovò l'esatta espressione religiosa ed ecclesiastica per definire questo rapporto statale quando definì l'elemento dello Stato che rappre-senta l'intelligenza solo qualcosa che viene sopportato e tollerato.

È passato il tempo in cui può essere dichiarata la separazio-ne in caste, l'isolamento dei privilegiati dai non-privilegiati o dei privilegi particolari gli uni dagli altri, e quindi anche l'oppressio-ne subita dagli ebrei per motivi genericamente religiosi o pura-mente religiosi. Anche nel Medioevo, quando ancora si credeva o si poteva credere nella fede, poiché non le si facevano mancare eccellenti rivelazioni, le città e le sue corporazioni, se escludeva-no o perseguitavano gli ebrei, oppure se si facevano attribuire o si arrogavano esse stesse il privilegio di non introdurre al loro interno nessun ebreo, non agivano solo nell'interesse della reli-gione, ma anche per i loro interessi cetuali e corporativi. Il pre-giudizio religioso era al tempo stesso un pregiudizio a favore del-la corporazione, il privilegio religioso era solo la sanzione sopran-naturale di quello civile, il principio di esclusione religioso non era che il presupposto, il modello e l'ideale di quello civile e poli-tico.

In nome della sola religione gli uomini non hanno ancora fatto nulla di storico, non hanno intrapreso nessuna campagna militare, non hanno condotto nessuna guerra. Se credevano di agire e soffrire solo in nome di Dio, noi, in virtù della visione moderna delle «faccende divine», possiamo dire non solo che essi avrebbero piuttosto agito e sofferto solo in ragione della loro rappresentazione dí ciò che l'uomo deve essere e diventare, ma che in tutti gli sviluppi religiosi, tutte le imprese, le battaglie, le tragedie, le azioni più o meno degne di essere menzionate, erano sempre gli interessi politici, o i loro echi, o i loro primi motti a determinare e guidare l'umanità.

Considereremmo la religione in modo sbagliato, cioè come essa stessa vuole essere considerata, se pensassimo che essa abbia a che fare con la conoscenza di un mondo divino ultraterreno. Questo mondo ultraterreno è piuttosto solo il mondo degli inte-ressi umani elevato nell'al di là, cioè il mondo estraniato da se stesso; la disposizione di questo mondo è l'ordine fantastico della società umana, le lotte degli eretici non sono nient'altro che il

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tentativo di introdurre con la violenza e in modo ancora capovol-to la ragione degli interessi mondani in questo mondo chimerico.

La vera fede del passato era l'espressione tortuosa, cioè ottenuta innalzandosi ad un mondo ultraterreno, della illibertà e del pregiudizio che regnavano in tutti i rapporti reali, il fuoco dell'entusiasmo della fede era solo il fuoco, dipinto in modo cele-stiale, nel quale si scontravano i privilegi.

Non è l'odio religioso che si contrappone all'emancipazione degli ebrei, ma la validità dei privilegi. Non è la loro religione che rende impossibile agli ebrei di diventare liberi, ma la loro idea di essere particolarmente privilegiati, di essere privilegiati per nasci-ta, per il solo fatto di essere qua.

Ma i privilegi possono valere solo fino a quando non è spez-zato il pregiudizio naturale dello spirito; essi sono quindi validi solo là dove regna il pregiudizio religioso, si fondano necessaria-mente sul presupposto religioso dominante. Anche la concezione dell'ebreo di essere particolarmente privilegiato, o addirittura l'unico privilegiato, è possibile solo per mezzo della sua religione e sotto il suo presupposto.

Se l'ebreo fuoriesce dai limiti della sua religione, se ricono-sce il mondo e la società umana, e nella misura in cui li ricono-sce, abbandonerà anche la superbia del suo privilegio e, così facendo, abbandonerà lo stesso privilegio.

Se l'universale pregiudizio e l'illibertà del mondo cristiano si apre alle concezioni e alle impressioni della società umana e oltrepassa le barriere della chiesa, i privilegi sono minacciati dal primo all'ultimo.

Il pregiudizio religioso e la separazione religiosa devono senza dubbio cadere e venir meno se le caste e i privilegi civili e politici dovessero cessare di esistere. Il pregiudizio religioso è la base di quello politico e civile, ma la base che quest'ultimo, anche se inconsapevolmente, ha dato a se stesso. Il pregiudizio civile e politico è il nucleo che il pregiudizio religioso semplice-mente racchiude e salvaguarda.

Il metodo della lotta contro l'oppressione civile e politica, come è stata finora praticata nella storia e come viene ancora praticata fino ai nostri giorni, consisteva perciò nell'attaccare e annientare i presupposti religiosi di quella oppressione. Se gli ordini religiosi e il presupposto religioso del pregiudizio civile e politico sono divenuti instabili, incerti, se sono stati abbattuti,

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allora anche il pregiudizio mondano è divenuto incerto di se stesso; e se questo, eccezionalmente, è così sfacciato da espri-mersi e manifestarsi senza fronzoli nella sua pura mondanità, ciò non è nient'altro che l'espressione della ricerca del suo vantag-gio privato. Esso tenterà nuovamente di darsi il fondamento religioso ed ecclesiastico che precedentemente gli assicurava una durata eterna.

Questo tentativo di restaurare i privilegi, la dichiarazione che il pregiudizio religioso, la segregazione religiosa e il senti-mento religioso della dipendenza sarebbero la garanzia per la sussistenza dell'esistente — come se il Vecchio sussistesse real-mente quando coloro che sono ancora in possesso del potere concesso loro ragionano e riflettono sul modo per poter sorreg-gere il Vecchio! —, la furia violenta e l'intenzionalità con la quale viene favorito, evocato e sempre spinto in avanti il pregiudizio religioso, tutti questi mezzi estremi rivelano solo l'arcano che si era celato dietro la spregiudicatezza dei tempi passati. L'arcano del pregiudizio religioso consiste nel suo essere il riflesso, posto dallo stesso uomo, dell'impotenza, dell'illibertà e del pregiudizio della sua vita civile e politica o, meglio, del suo sogno.

Il pregiudizio politico e religioso sono indissolubilmente uno e lo stesso.

L'ebreo è meno di tutti nella condizione di rovesciare que-sta asserzione. Se egli è senza pregiudizi, se cioè è senza pregiudi-zi all'interno del pregiudizio, egli confermerà nondimeno questa asserzione. Richiamandosi alla perfezione della sua religione, alla purezza e alla santità dei suoi costumi e rivolgendosi a un mondo dove in genere regna ancora il pregiudizio, egli può fare affida-mento solo sull'ascolto e l'accettazione. Che autoillusione, che idea del suo unico diritto, cioè del suo privilegio, è insita nella speranza di raggiungere un qualche successo tra coloro che, da parte loro, hanno un altro privilegio e credono ugualmente di essere gli unici privilegiati! Egli fa appello al pregiudizio e spera di poter far valere quello proprio! Un pregiudizio deve sempre escludere l'altro, l'uno deve isolarsi dall'altro. Ciascuno crede di essere legittimato da se stesso e per se stesso; è quindi assoluta-mente impossibile una comunanza tra i due. L'ebreo, in quanto ebreo, per la superiorità della sua vera e suprema essenza, crede di avere nel mondo un diritto a tutto, ma in quanto ebreo è spe-cificamente diverso da tutti gli altri che professano un'altra

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essenza e si considerano di un'altra essenza: egli li esclude e viene da loro escluso. Quanto più egli diventa privo di pregiudizi, tan-to più la sua essenza perde determinatezza, quanto più ribadisce di essere solamente e soprattutto un ebreo e di avere, in quanto ebreo, dei diritti, tanto più svela, da parte sua, che il suo privile-gio religioso è solamente la pura e astratta rappresentazione del privilegio in genere.

Quando, nel 1831, durante i dibattimenti degli stati di Han-nover, venne momentaneamente posta all'ordine del giorno anche la questione ebraica, il signor Stiive espresse l'opinione che il vuoto e insulso deismo degli ebrei colti darebbe allo Stato ancora meno garanzie di quante non ne dia la religione positiva degli ebrei privi di cultura.

Ma se si pensa che la religione sia una garanzia per lo Stato, e se si riflette inoltre su questa garanzia comparando le diverse rappresentazioni religiose per quanto darebbero maggiori o minori garanzie, allora si dovrebbe anche essere conseguenti e interrogarsi su quali siano le garanzie che la religione contrappo-sta alle legge mosaica darebbe allo Stato. Tale questione è tanto più importante in quanto la storia recente, dopo le migliaia di risposte dei tempi passati, ha fornito una nuova risposta.

La rappresentazione religiosa fornisce senz'altro delle garanzie allo Stato. Ma a quale Stato? A quale tipo di Stato? La storia ha risposto, ed ha risposto anche per il signor Stiive.

E íl deismo? II "vuoto e insulso" deismo? Perché esso non dovrebbe dare alcuna garanzia allo Stato? Nemmeno a una determinata forma di Stato?

Il deismo è addirittura il sistema religioso attualmente dominante e non dominerà che in una forma determinata dell'attuale Stato.

Nel deismo la rappresentazione religiosa è talmente debole da diventare fondamentalmente solo la rappresentazione della religione, il postulato della religione, l'idea della sua utilità e della sua indispensabilità. Da esso dovremo perciò attenderci la più decisa autoconfessione dello Stato religioso circa la sua essenza e le sue massime. In esso sí può vedere se agiscono solo in base al privilegio religioso, se il loro interesse è solo religioso, se íl privi-legio religioso e il pregiudizio sono solo espressione del carattere esclusivo della religione e dello zelo religioso.

In una parola si mostrerà se l'esclusività religiosa dell'essen-

za dello Stato sia qualcosa d'altro dalla teoria e dal postulato del-la sua imperfezione e assenza di libertà.

Nelle discussioni del 1831 dei deputati della Camera del Baden troveremo una risposta soddisfacente.

DICHIARAZIONI DEL JUSTE MILIEU TEDESCO

Due e due sole dichiarazioni sono caratteristiche dei tipici rappresentanti del liberalismo per quanto riguarda la trattazione della questione ebraica; questi rappresentanti del liberalismo enunciano entrambe queste dichiarazioni con il pathos e l'auto-compiacimento del Reichsanzeiger der Deutschen; la decisione alla quale pervengono infine i rappresentanti del juste milieu e nella quale si uniscono attraverso queste stesse formulazioni, non è altro che una segno eloquente di ciò che essi intendono per libertà.

Nel 1831 la Camera dei deputati del Baden fu invasa dalle petizioni delle comunità israelitiche che chiedevano l'equipara-zione civile e politica con i cristiani. Quando Rotteck presentò la posizione dei cittadini della comunità israelitica di Karlsruhe, colse l'occasione per fare una di quelle due dichiarazioni. Ei dichiarò che «in questa come in ogni altra occasione, egli avreb-be agito secondo un duplice principio: in primo luogo secondo il principio di ricercare con il massimo zelo e la massima onestà ciò che fosse conforme al diritto, all'umanità e al bene dello Stato, ma anche, in secondo luogo e compatibilmente al diritto in senso stretto, tenendo conto dei desideri, degli stati d'animo e delle idee dei suol committenti, cioè della parte più giudiziosa di essi -(che offesa per l'altra parte!) — e del popolo del Baden in genera-le». Quel «ma», che costituisce il passaggio alla seconda parte di questo duplice principio, è però molto pericoloso. Esso presup-pone che il principio dell'umanità e del diritto non coincide completamente con i desideri, gli stati d'animo e le idee del popolo del Baden. Non rimprovereremo subito a un popolo di trovarsi in un tale disaccordo qualora esso non si opponga risolu-tamente alla storia e alla legislazione che lo vogliono liquidare e sopprimere. Rotteck vuole il disaccordo, che egli presuppone e supera; vuole, per quanto è possibile, conciliare il diritto con la considerazione per lo stato d'animo dei suoi committenti. Ma

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secondo quale diritto dovrebbe aver luogo la conciliazione? In conformità a quale principio vuole mediare? Secondo quale nor-ma dovrebbe aver luogo il juste milieu? Come deve essere tolto il conflitto? Non attraverso una norma universale conosciuta in anticipo, quanto meno non attraverso una norma fondata sull'essenza della libertà e dell'umanità; il mediatore è perciò orientato verso il proprio arbitrio o piuttosto — poiché in ciò con-siste tutta la saggezza di quel duplice principio e il significato nascosto di quel «ma anche» — è legato alla considerazione, per la quale egli è chiaramente responsabile, dei desideri e degli stati d'animo a lui noti dei suoi committenti, dovessero anche essere in contraddizione con il diritto e l'umanità. Questi desideri e questi stati d'animo si contrappongono però all'emancipazione. Ci si deve vantare quindi solo in teoria per le declamazioni e le assicurazioni riguardanti la bellezza e lo splendore dell'umanità, per trascurare poi, in questo caso determinato, l'umanità, e par-teggiare per il popolo.

Così fece, quando la questione venne discussa (il 3 giugno), il signor Mittermaier. Nella prima metà del suo discorso, prolisso e pieno di assicurazioni, egli fa sentire all'assemblea la «voce dell'umanità e della civiltà», ma nella seconda parte del discorso la saggezza gli consiglia di «prestare ascolto alla voce del popo-lo», di avere riguardo per lo stato d'animo del popolo. «Il popo-lo conosce da sempre gli israeliti come una casta unita e molto isolata per via dei suoi costumi, che vietano agli ebrei di conside-rare i cristiani come loro fratelli». Secondo la prospettiva del signor Mittermaier questa opinione popolare è solo un pregiudi-zio, ed egli, invece di subordinare la legge al pregiudizio, avrebbe piuttosto dovuto pensare a una norma che, attraverso la legge, mandasse in frantumi il pregiudizio.

Se il popolo considera ancora gli ebrei una casta estranea, non si può però neanche parlare di un semplice pregiudizio. In quanto ebrei essi sono una casta estranea. Il compito del legisla-tore sarebbe perciò stato quello di vedere se il popolo ha ragione di considerare gli ebrei come una casta, e se così non fosse, il suo primo dovere sarebbe allora quello di elevare il popolo al punto di vista dal quale può rapportarsi umanamente agli ebrei. Gli ebrei in quanto tali sono una casta; ma per quanto riguarda i limiti all'interno dei quali gli ebrei si rinchiudono, il popolo cri-stiano è in parte sensibile; esso è infatti sensibile nei loro con-

fronti solo nella misura in cui, entrando in contatto con gli ebrei, diventa consapevole dei limiti nei quali esso stesso vive. Esso non è umanamente sensibile alle limitazioni degli ebrei, non è vera-mente al di sopra delle limitazioni degli ebrei, dal momento che, nella coscienza della propria libertà, non è ancora in possesso della libera e vera critica di quelle limitazioni. Il compito del legi-slatore non è quindi più quello di consolidare i limiti dell'uno contro l'altro, ma di dare al popolo quella libertà che gli permet-te di dare agli ebrei la possibilità della piena libertà, verificando così se sono realmente capaci di libertà o se invece, nella libertà universale, devono scomparire e biasimare se stessi.

Ma dal punto di vista che è proprio del liberalismo, il popo-lo non conosce né possiede una tale libertà, i suoi rappresentanti privilegiati non ritengono essere un torto il fatto che una tale libertà gli venga negata.

Con una formulazione di principio, il signor von Itzstein assicura che «prendendo le mosse dalla prospettiva dell'uomo e del cittadino, egli non conosce alcuna distinzione tra il ricco e il povero, l'ebreo e il cristiano». Ma a ragione Rotteck, che aveva parlato prima di lui, ha fatto notare che nello Stato nemmeno i poveri hanno diritti politici, senza che possano, o sia permesso loro, lamentarsi del privilegio concesso ad alcuni fortunati. Così il governo non commetterebbe alcuna ingiustizia nel non conce-dere agli ebrei tutti i diritti.

Rotteck infatti, dopo aver anche tenuto conto del «punto di vista dell'umanità e della giustizia», cioè dopo aver fatto un passo indietro rispetto ai «desideri e agli interessi dei suoi committenti ragionevoli e colti», è stato così onesto da dire pubblicamente che, per quanto riguarda la concessione dei diritti politici, la volontà generale ha una totale libertà d'azione (al contrario, se essa stessa è ancora limitata, un margine d'azione molto ristret-to). «Essa assegna i diritti a questa o quella classe, li limita o li nega a seconda che, con ragioni più o meno convincenti (che onestà!), lo ritenga vantaggioso, utile o svantaggioso per se stessa (!)». In breve egli si appella all'arbitrio con il quale un determi-nato censo distingue l'intero elettorato in attivo e passivo, l'arbi-trio che sottomette un'enorme maggioranza o addirittura una maggioranza sproporzionata dell'intero — il 99% — a un numero esiguo di privilegiati: l'arbitro del monopolio e del privilegio. Questo arbitrio del privilegio, nei confronti del quale, nello Stato

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cristiano, non c'è altra consolazione che quella dell'al di là, l'arbi-trio che permea tutti i rapporti, che domina ogni rapporto fino alla famiglia, assoggettando la donna alla rozzezza e alla barbarie dell'uomo, questo arbitrio del privilegio è sovrano e irresponsa-bile quando esclude gli ebrei dai diritti pubblici. Questo privile-gio è infatti universale e gli ebrei non sono i soli a soffrire, e non dovrebbero lamentarsi in modo particolare se soffrono.

Il liberalismo costituzionale è il sistema dei privilegi, della libertà limitata e interessata. La sua base è ancora il pregiudizio e la sua essenza è ancora religiosa.

Una conclusione adeguata di queste discussioni è offerta dal signor Rindeschwender quando, dopo che i suoi colleghi ebbero fatto riferimento al pregiudizio popolare come ultimo argomento, diresse il loro sguardo verso l'alto e li fece giurare di rimanere fedeli ai loro principi. Egli ha ridotto il risultato delle discussioni alla forma religiosa ed ecclesiastica, vale a dire alla forma giusta.

«Lo Stato europeo», proclamò il signor Rindeschwender, «è uno Stato cristiano; tutte le istituzioni sono più o meno fonda-te sul cristianesimo o addirittura ( 0 sono giustificate da esso. Fate a meno di sostenere lo Stato cristiano, e tutto è perduto! O solo innalzate qualcosa d'altro al posto del cristianesimo; ma questo deve legare assieme altrettanto saldamente il cielo e la ter-ra; dovete trovare un sicuro contrappeso alla natura egoistica dell'uomo, ma sarete in grado di trovarlo solo se ristabilite la san-tità dello Stato». Amen!

Che cosa questi signori intendano per santità dello Stato, lo hanno detto pubblicamente e nemmeno il signor Rindeschwen-der lo ha taciuto: si tratta di un termine altisonante — un termine altisonante in senso proprio perché fa sì che esso salti, con quella frase, dalla terra a una regione superiore, un termine ipocrita per designare il carattere esclusivo degli interessi privati e dei privile-gi. E voi chiamate questo principio dell'egoismo un «contrappe-so alla natura egoistica dell'uomo»? L'egoismo dovrebbe porre un argine all'egoismo? Per qualche tempo la legge può certa-mente garantirgli i suoi privilegi nei confronti dell'egoismo non privilegiato. Ma non c'è solo l'egoismo al mondo, bensì anche una storia, che farà valere il diritto dell'interesse universale dell'umanità e della libertà contro l'egoismo del privilegio.

Il signor Rindeschwender ci dà inoltre la possibilità di porre

«qualcosa d'altro al posto del cristianesimo», a patto che questo altro «leghi assieme il cielo e la terra» altrettanto saldamente del cristianesimo? Ma noi pensiamo che sarebbe piuttosto l'ora di porre qualcosa che leghi l'uomo all'uomo.

Veniamo ora alla seconda delle dichiarazioni fatte dai depu-tati per respingere le richieste degli ebrei. La critica di questa dichiarazione è racchiusa nel motto della pagliuzza e della trave. Il signor Paulus utilizzò quella formulazione già nello scritto che egli aveva indirizzato a1' Camera in relazione all'invio del suo memoriale sulla segregane , degli ebrei dalla nazione.

«Anche il migliore liberalismo», scrive Paulus, «ha i suoi pericoli». Non bisogna spingersi troppo in là. Anche gli ebrei devono fare qualcosa, soprattutto devono migliorarsi. «Il giogo della loro legislazione estranea, tutto il rabbinismo talmudico-farisaico deve assolutamente essere superato».

È così? Solo gli ebrei devono fare qualcosa? Ma anche il razionalismo più illuminato considera come

suo più sacro dovere tormentare l'intelletto ed uno scritto estra-neo alla nostra cultura, cioè la "Sacra" Scrittura; considera suo dovere tormentare l'intelletto fino a che, per salvarsi da questa tortura, non si assoggetta al giogo di uno scritto divenutogli ancora più estraneo in forza di quella spiegazione razionalistica'". Se già prima era qualcosa di estraneo, diventa ora ancora più estraneo a causa della violenza insensata del razio-nalista, che lo banalizza.

Quando il cristiano attribuiva al battesimo il suo magico potere e credeva veramente di consumare, con la comunione, il corpo del Salvatore, allora aveva ancora un senso far battezzare i figli e cercare nella comunione il proprio vero alimento. Ma se il razionalismo ha tolto al battesimo il suo potere e alla comunione il suo contenuto miracoloso — e poiché la sua concezione di que-gli antichi sacramenti è ora quella dominante — allora quegli usi hanno perso ogni significato e la legge che li prescrive assoggetta lo spirito al giogo «di una legislatura estranea».

Il rapporto della Commissione, accolto a maggioranza dopo i dibattimenti del 3 luglio, ha attuato pienamente la formulazione che troviamo nello scritto del signor Paulus. «Gli ebrei», dichiara Paulus, «possono certamente diventare sudditi sottomessi, giuri-dicamente anche utili e riconoscenti, ma non potranno mai diventare membri sinceri delle nazioni nelle quali ora vivono, e

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ancor meno potranno essere entusiasti della loro costituzione e dell'onore di appartenervi». Quali condizioni che essi devono primariamente adempiere se vogliono diventare membri effettivi della nazione e partecipare con entusiasmo all'onore della nazio-ne e alla costituzione, il rapporto della Commissione indica quanto segue.

Essi devono rinunciare: 1) alla loro lingua nazionale e fare addirittura in modo che

«venga totalmente soppresso il suo insegnamento ai giovani». Indubbiamente anche le fonti della nostra dottrina religiosa sono scritte in una lingua straniera, ma noi «non erigiamo l'insegna-mento in questa lingua a norma imprescindibile dell'insegna-mento elementare nelle scuole pubbliche». Con ciò non abbiamo però migliorato la questione, l'abbiamo al massimo occultata con dei sofismi, inchiodando i primi pensieri, l'anima e il corpo di quelli che devono diventare cittadini dello Stato, a dei libri estra-nei alla cultura moderna e all'umanità e contrapposti a ogni inte-resse politico e sociale.

«Essi devono 2) rinunciare ai segni caratteristici della loro nazionalità per

quanto riguarda i loro futuri figli». Perché deve permanere il battesimo se la pratica della cir-

concisione deve cessare? Il battesimo non ci separa già fin dai primi giorni della nostra vita dallo Stato, dal mondo e dal resto dell'umanità, e addirittura senza che perciò si attenda il nostro consenso?

«È noto», osserva il rapporto della Commissione, «che il simbolo della circoncisione prende a tal punto possesso di colui che con tutto il suo corpo si consegna alla nazione, che egli stes-so, se si converte pubblicamente e con onestà ad un'altra religio-ne, non cessa di appartenere alla nazione degli Israeliti, non si libererà mai da essi e in ogni istante, senza recedere formalmen-te, può comportarsi e considerarsi come uno della loro comu-nità».

Esattamente come accade da noi! La cerimonia, attraverso la quale fin dalla prima infanzia ci consegniamo con il nostro cor-po alla chiesa, prende a tal punto possesso di noi che noi stessi, se abbiamo affatto rinunciato alla fede, non cessiamo di apparte-nere al miracoloso popolo della comunità, non siamo affrancati dalla chiesa e dobbiamo vedere quanti esseri deboli, alla sola

memoria del simbolo che portano impresso nel corpo, sono costretti, pieni di paura, a scappare indietro, verso quella cerchia alla quale appartengono per mezzo della loro seconda nascita.

Gli ebrei devono infine rinunciare 3) «alle loro leggi particolari riguardanti i cibi e la conviven-

za con i loro futuri connazionali». E noi dovremmo quindi avere il diritto esclusivo di isolarci

da essi e da tutti i nostri simili attraverso il piacere della nostra miracolosa e celestiale pietanza?

«Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratel-lo, e non t'accorgi della trave che è nel tuo?

«O, come potrai tu dire a tuo fratello: "Lascia che io ti tolga dall'occhio la pagliuzza", mentre la trave è nell'occhio tuo?

«Ipocrita, togli prima dal tuo occhio la trave, e allora ci vedrai bene per trarre la pagliuzza dall'occhio di tuo fratello»"6.

Ogni discussione con gli ebrei, afferma il rapporto della Commissione, deve essere considerata impossibile se prima non riconoscono le richieste indicate — alle quali va ancora aggiunta una quarta, e cioè che facciano cadere il loro giorno di riposo nello stesso giorno dei cristiani.

Ma dato che all'istante nessuno, per il fatto che qualcuno lo richieda o perché è egli stesso ad esigerlo, può saltar fuori dalla propria pelle, per la stessa ragione gli ebrei non potevano adem- piere alle richieste che venivano poste loro! Dal momento che potevano giudicare la propria pelle in modo più adeguato di chi non si trovava nei loro panni, non poterono mai riconoscere quelle richieste. Non si getta via l'intera pelle come un pezzo di stoffa inutile; all'ebreo non é ancora stato dimostrato che tutto ciò che lo riguarda è ferito e malato, e difficilmente glielo poteva dimostrare chi si sbagliava di grosso sul proprio presunto stato di buona salute.

I deputati del Baden non potevano dare agli ebrei la libertà che essi stessi non possedevano. E diritto, per il quale anche essi lottano contro gli ebrei, è solo il diritto del privilegio, il privilegio di cui essi stessi fanno esperienza quando altri privilegi lottano contro di loro, allo stesso modo di come essi hanno lottato con-tro gli ebrei.

Non abbiamo qui a che fare con delle situazioni nelle quali il singolo come tale o anche solo come singolo è responsabile dei discorsi, delle azioni e del loro risultato. Responsabili sono fon-

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damentalmente gli ambiti di vita nei quali i singoli si muovono, il principio al quale obbediscono e sono soggetti, ricevendo dalla storia il loro compenso e la loro punizione. Possiamo perciò affermare, senza irritare nessuno e senza temere il benché mini-mo fraintendimento, che la punizione per quel carattere esclusi-vo sancito dalla parzialità costituzionale e dal privilegio è rintrac-ciabile nell'insuccesso con il quale i deputati combattono un altro privilegio. Se avessero il coraggio di abbandonare il proprio privilegio e di dedicarsi totalmente all'idea del diritto dell'uomo, allora rovescerebbero ogni altro privilegio, ed anche se ciò non riuscisse su due piedi, certamente lo svergognerebbero comple-tamente prima che la sola onnipotente e invincibile storia ponga fine ad esso.

Lo Stato religioso non può e nemmeno osa dare la libertà agli ebrei. La sua sofistica più o meno brutale combatte solo a favore dei privilegi, e se concede dei diritti agli ebrei, questi non sono altro che preferenze e privilegi.

Ci rimane ancora da illustrare la sofistica degli ebrei, quella sofistica che rende loro impossibile ricevere sinceramente la libertà anche quando essa dovesse essergli data.

Le discussioni del grande sinedrio che ha avuto luogo sotto Napoleone ci danno l'occasione di conoscere questa sofistica.

IL GRANDE SINEDRIO DI PARIGI

Il decreto dell'Assemblea nazionale del 27 febbraio 1791, che conferiva agli ebrei tutti i diritti civili nel caso prestassero giuramento alla costituzione, non ebbe grande influenza per lo sviluppo della loro situazione. Essi rimasero, come lo erano stati fino ad allora, al di fuori della nazione e dei suoi grandi interessi; la storia della Rivoluzione gli passò accanto senza avere alcuna influenza su di loro; nessuno di loro ha preso in qualche modo parte alla Rivoluzione e ha legato il proprio nome alla sua storia; íl solo significato che per essi aveva la Rivoluzione consisteva nell'occasione di praticare impunemente l'usura.

Le lamentele per l'usura — in particolare nel Dipartimento del Reno — divennero infine talmente minacciose che Napoleo-ne decise di ricorrere a un mezzo risolutivo. Convocata a Parigi un'assemblea di deputati ebrei, sottopose loro, tramite i suoi

funzionari, diverse questioni relative al fatto se, conformemente alla loro legge, fosse loro permesso considerare le leggi del popolo nel quale vivevano anche come proprie leggi e i membri del popolo come loro fratelli, adattandosi di conseguenza al loro modo di vivere. Dopo la risposta affermativa dei deputati, Napoleone, nel 1807, convocò un grande sinedrio, in modo che, con le sue sentenze, le decisioni dei deputati ebrei ricevessero forza di legge.

I deputati e il sinedrio assunsero il proprio compito come un compito apologetico. Essi non potevano e non gli era conces-so dire — non erano né critici né puri teoreti — che l'ebraismo considera il mondo e i suoi rapporti in questo e quest'altro modo; non era loro possibile l'onestà del critico, perché avevano un determinato scopo pratico e credevano che questo scopo, l'integrazione nella comunità dello Stato, fosse conciliabile con i loro principi religiosi. In quanto apologeti e teologi apologeti -di nuovo, non erano né critici né puri politici — dovevano perciò sforzarsi di dare un'immagine dei loro principi religiosi non solo compatibile con il riconoscimento delle leggi politiche francesi, ma che assicurasse anche a quei loro principi religiosi di non essere, per quanto riguarda la loro originaria natura, in contrap-posizione con le leggi.

Un'impresa disperata! Nel suo discorso di chiusura il nassì — (il presidente) — del

sinedrio affermò: «Avete riconosciuto le disposizioni religiose e politiche, ma avete anche dichiarato che oltrepassare i confini delle prime significa disordine, offesa a Dio e sacrilegio».

Se questa frase fosse stata enunciata come una disposizione costitutiva, indipendentemente e senza alcun riferimento alla sto-ria, allora, forse la si potrebbe lasciar sussistere come il prodotto delle buone intenzioni, nonostante sia, anche in questo caso, fal-sa: al principio religioso è infatti connaturato l'oltrepassamento dei suoi sedicenti o presunti limiti e la tendenza all'autocrazia. Ma se la frase — com'è il caso in questione — intende essere al tempo stesso l'autentica interpretazione della legge veterotesta-mentaria, allora essa è doppiamente falsa, e la via d'uscita teolo-gica che essa dovrebbe aprire viene immediatamente richiusa.

La dichiarazione del sinedrio non è niente di più e niente di meno che un'accusa nei confronti della legge di Jehova, la quale avrebbe oltrepassato quei confini che ogni disposizione religiosa

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dovrebbe rispettare. L'autentica legge di Jehova, la legge messa per iscritto dalla mano di Dio, si è resa colpevole di sacrilegio. La legge, che deve la propria origine direttamente al Santo, si è resa colpevole di un sacrilegio. Nell'ebraismo tutto è divino, nulla umano; tutto è religione, e la politica, se non deve essere nient'altro che religione, non può essere politica, allo stesso modo della pulizia delle pentole che, se è considerata una faccen-da religiosa, non può essere considerata come una faccenda domestica.

«Avete riconosciuto», prosegue il nassì, «che il rango di un sovrano racchiude in sé il diritto di stabilire certe disposizioni politiche; avete riconosciuto la posizione del Principe e coman-dato l'obbedienza».

Secondo la legge c'è però un solo sovrano — Jehova — e se, a causa della debolezza dei suoi sudditi, tollera un principe secola-re, essa è ben lungi dal concedere ad esso la sovranità e i pieni poteri del Legislatore sovrano.

«Avete riconosciuto la piena validità di certe costituzioni civili (atti civili); avete al tempo stesso confermato la loro indi-pendenza dalle faccende della religione».

In sé cosa buona e lodevole! Ma abbastanza grave se, al tempo stesso, deve anche essere preservata l'unità con una legge per la quale tutte le faccende e gli affari civici sono faccende e affari religiosi e secondo il cui principio non esistono affatto fac-cende meramente civiche.

Nella dichiarazione con la quale i deputati risposero alle questioni poste loro, rassicurano che «la loro religione li obbliga a considerare la legge del signore territoriale, sia nelle faccende civiche sia in quelle politiche, come la legge suprema». La loro religione? Quella religione che non è nulla al di fuori della legge e nient'altro che la legge stessa? Che sussiste solo e con la legge e solo fino a che la legge esiste come legge, come unica e suprema legge?

I deputati e il sinedrio si richiamano — si tratta di una for-mulazione utilizzata innumerevoli volte dagli ebrei — alla lettera spedita da Geremia ai prigionieri di Babilonia. Quando il Profeta scrive: «Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene»"7; la motivazione è in primo luogo puramente egoi-stica. L'ordine si riferisce solo a qualcosa di provvisorio e, nono-

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stante tutte le preghiere per la città nella quale i servi di Jehova si trovano a vivere fino al momento della liberazione, permane comunque la certezza che Babilonia deve essere distrutta.

I deputati osservano che quella esortazione del Profeta ha trovato un'«accoglienza» tale che solo in pochi, solo la «gente della classe bisognosa» ha approfittato della concessione fatta da Ciro di ritornare a Gerusalemme e ricostruire il Tempio.

Ma proprio perciò questi pochi vengono lodati, mentre i ricchi, che rimangono, sono biasimati per la loro mancanza di zelo verso la legge. I pochi che fecero ritorno a Gerusalemme furono «destati dallo spirito di Dio».

L'ebreo che distingue tra disposizioni civiche e religiose cre-dendo ancora di essere ebreo, è ebreo solo in modo illusorio.

Ma si scoprirà presto come l'ebraismo illusorio divenga il vero ebraismo e l'ebreo si immortali nella sua illusione.

«Avete riconosciuto», afferma il nassì del sinedrio nel suo discorso conclusivo, «che l'uomo, nei rapporti sociali, deve adempiere a diversi tipi di doveri: doveri verso il Creatore, dove-ri verso il creato, sottomissione, obbedienza e ossequio al princi-pe».

Ma l'ebreo non riconosce alcun rapporto sociale — come già osservato, per lui non c'è alcun concetto di mondo e di società umana —, l'ebraismo non ammette quella differenziazione di doveri, esso conosce — e a ragione, sino a quando per esso l'uomo non conta nulla! — solo doveri verso Dio.

Il nassì dirà immediatamente la stessa cosa: la dirà addirit-tura nell'istante stesso ín cui parla di quella differenziazione dei doveri.

«Avete riconosciuto la nullità della creatura di fronte al Creatore».

Quindi l'uomo non è nulla! Quindi non ci sono doveri ver-so gli uomini — quanto meno non verso gli uomini come tali e in nome dell'uomo! Quindi ci sono solo doveri verso Dio, di fronte al quale la creatura non è niente e, di fronte a quest'ultima, non ci sono doveri che in nome di Dio: solo lungo il cammino che passa attraverso il rispetto di Dio e su questo cammino viene fat-ta esperienza che l'uomo non è propriamente nulla e di per sé non è vincolato ad alcun dovere.

«Pervasi da un sacro rispetto per la sua opera — in che cosa consista questo rispetto è già stato detto — vi siete guardati

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dall'accettare una qualsiasi rappresentazione indegna e dissa-crante, una rappresentazione che contenesse la benché minima violazione dei suoi comandamenti».

Questa menzogna — infatti il sinedrio ha senz'altro distolto l'attenzione dal «creatore» dichiarando che una parte della legge non sarebbe più vincolante e dovrebbe passare in secondo piano rispetto alle prescrizioni degli uomini — questa celata — se le paro-le hanno un senso e non sono pronunciate a vanvera — questa velata provocazione nei confronti del cristianesimo, del sua cul-to, anche se di un solo uomo, contro la moderna concezione del-la società umana, paga il proprio giusto scotto nello stesso discorso del nassì.

«E tu, Napoleone, si dice nelle conclusioni, tu, conforto del genere umano, padre di tutti i popoli, Israele erige a te un tem-pio nel suo cuore!».

Bella osservanza del precetto secondo il quale la creatura non sarebbe nulla davanti al creatore!

È indifferente che il tempio che Israele erige a Napoleone, al padre di tutti i popoli, venga eretto in pietra o in nessun mate-riale sensibile. Questo tempio è in ogni caso la prova della caduta dell'unico Dio, del vero — secondo la prospettiva ebraica — e dell'unico vero Padre di tutti i popoli.

Ma la coscienza religiosa ed ebraica si salva da questa incoe-renza ed appare tanto più grande e forte quanto la virtù, innalza-tasi al di sopra del suo peccato, appare di valore maggiore. Un peccatore penitente è gradito a Dio più di cento uomini giusti che non sentono il bisogno di fare penitenza"8.

Così il grande sinedrio dichiara che il matrimonio tra ebrei e cristiani stipulato secondo le leggi del Codice civile è valido e vincolante dal punto di vista civile, ma non può ricevere una for-ma ecclesiastica. Ovviamente, in questa differenza, vi è il presup-posto che il matrimonio, che ha solo validità civile, manca di quella consacrazione che sola fa di esso un vero matrimonio. Come hanno dichiarato i deputati ebrei, un tale matrimonio è, «secondo le leggi della chiesa, privo di efficacia».

Non è solo íl grande sinedrio a concepire il matrimonio in questo modo. E neanche in altre circostanze è solo, perché anche in un altro sistema ecclesiastico, gli atti più importanti vengono compiuti in una lingua che li distingue dalla vita ordinaria e li fa apparire in una luce particolare.

Nel sinedrio, i discorsi più importanti vengono tenuti in ebraico e vengono successivamente letti in una traduzione fran-cese. Il modo in cui questi uomini vogliono diventare cittadini francesi è qui caratterizzato con precisione. L'ebraico è l'origina-le, la fonte, l'elemento autentico, il vero, il nocciolo, mentre il francese è la traduzione, la brutta copia, l'inautentico, l'apparen-za, il guscio.

Ma l'elemento spiccatamente ebraico si mostra nelle sue conclusioni, quando il sinedrio non può fare a meno di parlare dell'«infamia con la quale si è voluto finora ricoprire Israele» e gettare una luce piena di astio sul «pregiudizio popolare» che mostra i «dogmi ebraici come non socievoli». Loro, gli ebrei, stanno soli con il loro eterno tesoro di verità in un mondo che non fa che svilirli, che li giudica falsamente, ma che non poteva impedire la loro vittoria finale.

Esso, l'ebraismo, è «il fedele gregge di Dio». Dio l'ha sem-pre protetto e gli ha dimostrato in modo particolare la sua prote-zione facendogli vivere il momento attuale. Ora è in gioco la «futura felicità di Israele» — sempre Israele! sempre solo Israele! Israele resta per sé sempre qualcosa di particolare — nelle discus-sioni del sinedrio non sono in gioco gli interessi universali dell'uomo, non la Francia e i Francesi, ma sempre e solo Israele!

«La nostra assemblea, dice il nassì del sinedrio nel suo discorso conclusivo, è un'immagine vivente del venerabile tribu-nale la cui origine si perde nella notte dei tempi — (che vuota elo-quenza!) —, rivestito esattamente degli stessi diritti, animato esat-tamente dallo stesso spirito, dallo stesso zelo, dalla stessa fede».

Un elogio molto pericoloso — a prescindere dalle chiacchie-re che renderebbero sorprendentemente noto un istituto la cui storia ed organizzazione è ancora molto oscura. Se ai Francesi della Costituente e della Convenzione fosse venuto in mente di elogiare la loro assemblea affermando che essa sarebbe animata dello stesso spirito, dello stesso entusiasmo e della stessa fede delle assemblee degli antichi Franchi e Galli — spetterebbe solo a loro il privilegio di essersi resi ridicoli?

Questa autoammirazione religiosa del sinedrio, il modo in cui esso, nella sua magnificenza, guarda a Dio e fa ammirare alle deputazioni degli ebrei stranieri lo spettacolo della propria magnificenza, l'immagine che l'assemblea ha di sé, in quanto «circondata di gloria, rispetto e solennità», diversamente

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dall'«ingiuria» precedentemente fatta ad Israele, è, nella sua incessante ripetizione, estenuante e alla fine nauseante.

La Costituente e la Convenzione non avrebbero, come invece hanno fatto, creato nuovi concetti, nuove leggi, nuove essenze ed uomini se fossero rimaste sempre ad ammirarsi e se, «con un sacro brivido nel cuore», avessero visto nel loro splen-dore la mano o le dita di Dio.

CONCLUSIONE

Nel modo in cui ha tentato di farlo il sinedrio, il servitore della legge mosaica non può essere aiutato ad essere libero. La differenza tra precetti religiosi e politici nella legge rivelata, la dichiarazione che solo i primi sono vincolanti in modo assoluto, mentre gli altri perderebbero la propria forza all'interno di rap-porti sociali mutati, è in sé un attentato alla legge veterotesta-mentaria. Essa ammetterebbe l'esistenza di una contraddizione tra le concezioni e i precetti contenuti nella legge e la nostra rap-presentazione della società umana. Ma una tale ammissione vie-ne in realtà ritrattata, poiché si afferma che ogni accusa sinora mossa contro la legge riposa su pregiudizi ed è un'ingiuria mossa al Santissimo. La sofistica e il gesuitismo di una rozza esegesi rie-scono ad esempio a mostrare che la legge non intendeva diffe-renziare e separare gli Israeliti e gli stranieri, come invece hanno finora sostenuto gli "avversari" dell'ebraismo.

Alla stessa menzogna si giunge distinguendo nella legge i precetti religiosi da quelli politici. In questa distinzione sí ammette che il servitore di una legge, qual è quella mosaica, non potrebbe vivere nel mondo reale e non potrebbe prendere parte ai suoi interessi. Ma se solo l'ebreo facesse ora in modo chiaro, franco e deciso una tale concessione e dichiarasse: poiché inten-do rimanere ebreo, voglio preservare della legge quel tanto che mi sembra costituire il suo elemento puramente religioso, mentre espungerò e rinuncerò a tutto ciò che riconosco essere antisocia-le! Invece di dire così egli si convince e vuole convincere gli altri che con questa distinzione tra precetti politici e religiosi egli rimarrebbe in armonia e in unità con la legge, poiché sarebbe la legge stessa a porre e a riconoscere questa distinzione. Invece di rompere con una parte della legge, egli rimane servo del tutto, e

come tale deve nuovamente rinunciare a quella distinzione ed estraniarsi, per mezzo della propria coscienza religiosa, dal mon-do reale.

La menzogna non può aiutare l'ebraismo a rimettersi in pie-di e non può conciliare l'ebreo con il mondo.

Ma nemmeno la coazione lo può liberare dal suo chimerico tiranno, la legge, né può restituirlo al mondo, se una tale coazio-ne proviene da degli schiavi che obbediscono allo stesso tiranno.

Come si può aiutare? Dobbiamo noi stessi diventare liberi prima di poter pensare

di offrire ad altri la libertà. Dobbiamo prima togliere la trave dai nostri occhi se vogliamo avere il diritto di segnalare al fratello la pagliuzza che ha nel suo occhio. Solo un mondo libero può libe-rare gli schiavi del pregiudizio.

La menzogna della sofistica ebraica è un chiaro segno che anche l'ebraismo va incontro alla propria dissoluzione.

Ma non è che una falsità se, in teoria, vengono negati all'ebreo i diritti politici, mentre nella prassi dispone di un potere enorme ed esercita en gros l'influenza politica che gli viene inve-ce ridotta nel dettaglio. L'ebreo, che ad esempio a Vienna è sem-plicemente tollerato, determina, con la sua potenza finanziaria, il destino di tutto l'impero. L'ebreo, che nel più piccolo Stato tede-sco può essere senza diritti, decide le sorti dell'Europa. Mentre le corporazioni e le gilde si chiudono all'ebreo o non sono ancora ben disposte nei suoi confronti, la temerarietà dell'industria si fa beffe della caparbietà degli istituti medievali. È da molto tempo che i limiti del Vecchio sono superati dal nuovo movimento e la loro esistenza può essere definita solo teorica. La potenza del Vecchio consiste ormai solo in una teoria sofistica, di fronte alla quale sta la teoria della sincerità e l'enorme superiorità di una prassi il cui valore si può già vedere nella vita quotidiana.

L'ebraismo ha seguito il cristianesimo nella sua conquista del mondo ricordandogli sempre la sua origine e la sua vera natura. Esso è il dubbio esistente circa l'origine celeste del cri-stianesimo, il nemico religioso della religione che si annuncia come la sola legittima e compiuta religione, e che mai poté oltre-passare la piccola schiera di quelli per mezzo dei quali è venuta alla luce. L'ebraismo fu la pietra di paragone nella quale la cultu-ra cristiana provò nel modo migliore che la sua essenza consiste nel privilegio.

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Entrambe poterono certo schernirsi per due millenni, deri-dersi, tormentarsi e rendersi la vita difficile, ma non vincersi.

La grossolana critica religiosa esercitata dall'ebraismo, e quindi lo stesso ebraismo, sono finalmente divenuti superflui ad opera della libera critica umana, la quale ha deciso la questione del cristianesimo e, avendo anche mostrato che l'ebraismo è un lusso medievale, una semplice aggiunta alla storia del cristianesi-mo e qualcosa di infondato, ha dimostrato che essa poteva sorge-re solo dal centro della cultura cristiana.

La teoria non ha fatto che adempiere al proprio dovere riconoscendo e dissolvendo le contrapposizioni che hanno finora regnato tra l'ebraismo e il cristianesimo; essa può serenamente attendere che la storia esprima la sentenza definitiva su opposi-zioni che non hanno più ragione di esistere.

LA CAPACITA DI DIVENTARE LIBERI DEGLI EBREI E DEI CRISTIANI DI OGGI

di Bruno Bauer

La questione dell'emancipazione è una questione universa-le: ebrei e cristiani vogliono essere emancipati. Quanto meno la storia, il cui scopo finale è la libertà, deve tendere e tenderà a far incontrare ebrei e cristiani nella richiesta e nel desiderio di eman-cipazione, dal momento che fra loro non vi è alcuna differenza e, rispetto alla vera essenza dell'uomo, rispetto alla libertà, devono entrambi dichiararsi schiavi. È per questo che l'ebreo viene cir-conciso e il cristiano battezzato, affinché nessuno dei due si trovi a dover riconoscere la propria essenza nell'umanità, affinché, anzi, rinuncino all'umanità, si dichiarino servi di un'essenza estranea e si comportino sempre come tali in ogni faccenda della loro vita.

Quando diciamo che entrambi devono incontrarsi e unirsi nella richiesta di emancipazione, con ciò non vogliamo esprimere la banalità secondo la quale l'unione delle forze è più forte delle singole forze disperse, né tanto meno vogliamo affermare che i movimenti e le discussioni scaturiti dalla richiesta di emancipa-zione degli ebrei siano serviti a suscitare anche nei cristiani la richiesta di libertà, o addirittura che i cristiani dovrebbero fare affidamento sull'agitazione e sull'aiuto degli ebrei se vogliono diventare meritevoli di stima e liberarsi dallo stato di minorità nel quale hanno finora vissuto: con quella frase volevamo solo dire che l'opera di emancipazione, dell'emancipazione in quanto tale, dell'emancipazione in genere, è possibile e sarà certamente realizzata solo se viene universalmente riconosciuto che l'essenza dell'uomo non è la circoncisione, non è il battesimo, ma la libertà.

Al momento abbiamo piuttosto intenzione di indagare come gli ebrei si rapportano allo scopo ultimo della storia, uno scopo che la storia inizia a porsi con la risolutezza dell'aut aut e cioè in modo tale che si dica «ora o mai più»; dobbiamo cercare di capire se essi hanno contribuito a far sì che la storia acquisisse

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il coraggio di questa risolutezza, se sono più vicini dei cristiani alla libertà o se per essi deve risultare più difficoltoso di questi ultimi diventare uomini liberi e capaci di vivere in questo mondo e nello Stato.

L'appello degli ebrei al carattere superiore della loro dottri-na etica religiosa, cioè alla loro legge rivelata, per dimostrare che sarebbero capaci di diventare dei buoni cittadini e che avrebbero diritto di partecipare a tutte le faccende pubbliche dello Stato, questa loro richiesta di libertà ha per il critico lo stesso valore della richiesta del moro di diventare bianco, o meno ancora. È la richiesta di rimanere non-liberi. Chi vuole che gli ebrei siano emancipati come ebrei, non solo si fa carico della stessa inutile fatica che impiegherebbe nel voler sbiancare un moro, ma, nel suo inutile strazio, si ingannerebbe: è come se cercasse di insapo-nare il moro con una spugna asciutta. Non riuscirà nemmeno a bagnarlo.

Bene! Si dice, ed è lo stesso ebreo a dirlo, che l'ebreo deve essere emancipato non in quanto ebreo, non perché è ebreo, non perché possiede un principio tanto eccellente e universalmente umano dell'eticità, piuttosto l'ebreo passerà in secondo piano rispetto al cittadino e sarà egli stesso cittadino, nonostante il fatto che egli sia ebreo e voglia rimanere ebreo; ciò significa che egli è e resta ebreo, sebbene sia cittadino e nonostante viva all'interno di rapporti universalmente umani: la sua essenza ebraica e limita-ta vince sempre e senza eccezione sopra i suoi doveri umani e politici. Il pregiudizio permane nonostante sia sormontato da universali principi fondamentali. Ma se permane, è esso a sor-montare piuttosto ogni altra cosa.

Solo per un sofisma, solo in apparenza, l'ebreo può rimane-re ebreo nella vita dello Stato; qualora egli volesse rimanere ebreo, la mera parvenza trionferebbe e diverrebbe l'essenziale, cioè la sua vita nello Stato diventerebbe mera parvenza, una momentanea eccezione rispetto all'essenza e alla regola.

Gli ebrei ad esempio si sono richiamati al fatto che la loro legge non gli avrebbe impedito di prestare, accanto ai cristiani, gli stessi servizi nelle guerre di liberazione e di combattere anche nel giorno del sabato. È vero, nonostante la loro legge, essi han-no prestato servizio militare ed hanno combattuto; la loro Sina-goga e il rabbino gli hanno addirittura dato espressamente il per-messo di sottostare a tutti gli obblighi del servizio militare, anche

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qualora fossero stati in contraddizione con le disposizioni della legge; ma con ciò è anche detto che il lavoro e il sacrificio per lo Stato nel giorno del sabato è concesso solo in via eccezionale, che la Sinagoga e i rabbini, che in quell'occasione hanno eccezional-mente fatto loro qualche concessione, stanno fondamentalmente al di sopra dello Stato, che ottiene qui solo un aiuto provvisorio, un aiuto che, in base alla suprema legge divina, non dovrebbe essergli concesso.

Si tratta di un servizio prestato allo Stato con una coscienza tale che, in realtà, in quello stesso servizio dovrebbe intravedervi un peccato (se in quell'occasione non vi scorse alcun peccato fu solo per via della dispensa data e pronunciata dal rabbino -dispensa che, in un'altra occasione, non è detto venga pronun-ciata, dal momento che propriamente non dovrebbe mai essere pronunciata) e secondo la quale invece, in quel caso specifico, non vi sarebbe peccato. Ma un tale servizio, dal momento che rinnega la coscienza, non è etico; è incerto, poiché la legge lo vie-ta e quindi lo può anche sempre di fatto vietare. Perciò, in ogni comunità etica, dovrebbe anche essere realmente disapprovato. Solo un'epoca confusa riguardo a se stessa lo può concedere come qualcosa di particolare: un'epoca che conosce e vuole finalmente rientrare in possesso dell'intera umanità, lo respingerà invece come un'infinita ipocrisia. Se coloro che menano gran vanto di quel servizio non vogliono convincersi della futilità della loro causa, la possono compiangere come il triste lascito e il sacrificio di un passato via via sempre più intimamente falso.

Ma che cosa hanno fatto gli ebrei per elevarsi al di sopra di un punto di vista che li costringe ad essere ipocriti? Cosa hanno fatto per colmare l'abisso che blocca loro la strada verso le altez-ze della vera e libera umanità? Finché vogliono rimanere ebrei e restano dell'idea di poter diventare, come tali, degli uomini libe-ri, non hanno fatto nulla.

Che rapporto hanno avuto con la critica che i cristiani han-no rivolto alla religione in genere per liberare l'umanità dal più pericoloso degli autoinganni, dall'errore originario? Hanno pen- sato che questa lotta riguardasse solo il cristianesimo, e poiché pensavano solo alle sofferenze e alle pene che il cristianesimo aveva inflitto loro, si eccitarono enormemente quando la critica -a partire da Lessing, cioè da quando iniziarono a prendere atto delle sue azioni — parlò male del cristianesimo. Nel loro compia-

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cimento per i mali altrui erano talmente ottusi da non considera-re che l'eventuale caduta del cristianesimo, cioè dell'ebraismo compiuto, sarebbe dovuta passare attraverso la caduta della loro religione; non si sono ancora accorti di ciò che avanza intorno a loro; sono così apatici e indifferenti verso le faccende universali della religione e dell'umanità che non fanno nulla contro la criti-ca, sono così servilmente aggiogati nell'illusione della religione che non hanno ancora mai combattuto nelle schiere scese in campo contro la gerarchia e la religione. Nessun ebreo ha dato un contributo decisivo alla critica, nessuno ha prodotto qualcosa contro di essa. I fanatici cristiani, che invocano il cielo e la terra contro la critica, sono più umani di quanto non lo sia l'ebreo che si anima in modo particolare nel sapere che si parla male del cri-stianesimo; la loro opposizione alla critica prova che anch'essi, anche se in rapporto conflittuale, sono fondamentalmente coin-volti in quella critica; essi credono di dover combattere contro di essa in quanto percepiscono che in questa battaglia è in gioco la causa dell'umanità; l'ebreo si crede al sicuro nel suo egoismo, pensa solo al suo nemico, il cristianesimo, e non ha ancora com-piuto nulla di decisivo contro di esso.

Egli non poté realizzare alcunché contro il cristianesimo perché gli mancò la forza creatrice necessaria a una tale battaglia. Contro la religione compiuta può lottare solo quella potenza che è in grado di porre al posto della religione il riconoscimento dell'uomo nel vero e pieno senso della parola. Egli è l'unico che può combattere contro il cristianesimo, poiché quest'ultimo, anche se in una forma religiosa, racchiude in sé il concetto uni-versale dell'essenza umana, cioè il suo proprio nemico. L'ebrai-smo non ha a contenuto della religione l'uomo nel pieno senso della parola, l'autocoscienza sviluppata, cioè lo spirito che non percepisce più alcun limite che lo opprime, ma una coscienza soggiogata e ancora in lotta contro i suoi limiti, addirittura con-tro i suoi limiti sensibili e naturali. Il cristianesimo afferma: l'uomo è tutto, è Dio, è ciò che comprende tutto e l'onnipotente. Solo che esso esprime questa verità in modo ancora religioso quando dice: solo Uno, Cristo è l'uomo che è tutto. L'ebraismo, di contro, soddisfa solo l'uomo che ha ancora a che fare con il mondo esterno, con la natura; in particolare soddisfa il suo biso-gno in forma religiosa quando afferma che il mondo esterno è sottomesso alla coscienza, cioè che Dio ha creato il mondo. Il cri-

stianesimo soddisfa l'uomo che vuole rivedere se stesso in tutto, nell'essenza universale di ogni cosa e — detto in forma religiosa -anche in Dio; l'ebraismo soddisfa solo l'uomo che vuole vedersi indipendente dalla natura.

La battaglia contro il cristianesimo fu perciò possibile solo da parte cristiana, dal momento che esso stesso, e solo esso, ave-va compreso l'uomo e la coscienza come l'essenza di tutte le cose; si trattava solo di dissolvere questa rappresentazione reli-giosa dell'uomo. Una rappresentazione che in realtà negava l'intera umanità, dal momento che per essa solo Uno è Tutto. L'ebreo era invece ancora troppo impegnato a soddisfare i suoi bisogni naturali, che lo vincolavano ai suoi impegni sensibili e religiosi, come lavare, fare le pulizie, scegliere e curare religiosa-mente i suoi cibi quotidiani. Come se potesse pensare che l'uomo sia in genere riducibile a queste cose. Egli non poteva combattere contro il cristianesimo perché non sapeva neppure qual era la posta in gioco di questa battaglia.

Ogni religione è necessariamente connessa all'ipocrisia e al gesuitismo: essa impone all'uomo di considerare come oggetto di adorazione, come qualcosa di estraneo, ciò che esso è in senso proprio, di fare quindi come se in sé non fosse niente del genere, come se fosse un nulla, un assoluto nulla; ma l'umanità non si lascia completamente soggiogare e cerca ora di farsi valere a sca-pito dell'oggetto adorato, che deve però certamente continuare a sussistere.

Dopo quanto è stato appena detto sul contenuto di entram-be le religioni, ci si può fare un'idea di quanto diversi devono essere il gesuitismo cristiano e quello ebraico, e, a maggior ragio-ne, l'attuale gesuitismo ebraico!

Il gesuitismo cristiano è un atto universalmente umano ed ha contribuito a creare l'attuale libertà; il gesuitismo ebraico, che sussisteva accanto al cristianesimo, è fin dal principio ottuso, sen-za conseguenze per la storia e l'umanità in genere. E solo la fissa-zione di una setta che vive appartata.

L'ebreo vede nella religione il soddisfacimento del proprio bisogno e la libertà dalla natura; nel giorno del sabato la sua con-cezione religiosa deve anche farsi azione, la sua libertà e il suo sottrarsi alla natura diventano esperienza reale: ma poiché i suoi bisogni non sono realmente appagati nella religione, lo tormenta-no anche nel giorno del sabato. La vita reale, prosaica e piena di

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bisogni, è in contraddizione con la vita ideale, nella quale non deve più preoccuparsi di soddisfare i propri bisogni; escogita così uno stratagemma, una via d'uscita per soddisfare i propri bisogni senza violare l'apparenza di continuare a seguire la legge, cioè senza violare l'apparenza di essersi elevato al di sopra dei bisogni. Il gesuitismo ebraico è la mera furbizia dell'egoismo sen-sibile, la scaltrezza comune e, ciononostante, dal momento che ha a che fare solo con bisogni naturali e sensibili, è rozza e gros-solana ipocrisia. Esso è talmente grossolano e odioso che lo si può solo scansare con disgusto, ma non lo si può mai combattere seriamente. Se ad esempio nel giorno del sabato l'ebreo si fa accendere il lume da un domestico o da un vicino cristiano, è soddisfatto di non averlo fatto da sé, anche se la luce torna solo a suo vantaggio; se fa riscaldare la stanza da un servitore straniero per non morire assiderato, nonostante il comandamento divino gli vieti di accendere qualsiasi fuoco, pensa che gli garantisca anche di non gelare e di non morire assiderato; se pensa di non violare la legge del sabato limitandosi agli affari passivi della bor-sa, come se poi non ne facesse di attivi nel momento in cui, per venirne a conoscenza, si reca in borsa e vi si impegola; se infine ha dei soci o dei commessi cristiani che per lui portano avanti gli affari nel giorno del sabato, come se íl loro lavoro non tornasse a beneficio della sua azienda e del suo tornaconto personale —: si tratta di un'ipocrisia contro la quale un uomo serio non può nep-pure lottare.

Ma se il cristiano deve comprendere in forma religiosa, e perciò invertita, il concetto di spirito e l'autocoscienza, e la reale autocoscienza reagisce contro questa inversione senza poterla superare, allora il gesuitismo che sorge da tale circostanza è qual-cosa di completamente diverso: una battaglia scientifica è allora non solo possibile, ma anche necessaria e costituisce addirittura il presupposto per la nascita ed il sorgere della suprema libertà umana.

Il gesuitismo ebraico è la furbizia con la quale si soddisfa il bisogno sensibile dal momento che non può bastargli la soddi-sfazione fittizia comandata dalla legge. Si tratta solo di un'astuzia animale. Il gesuitismo cristiano, invece, è il tremendo lavoro teo-retico dello spirito che lotta per la propria libertà, la battaglia della libertà reale con quella storpiata e fittizia, vale a dire con l'illibertà; si tratta certo di una battaglia nella quale la reale

libertà in lotta, fintanto che lotta, e tanto più fino a che lotta in modo ancora religioso e teologico, si degrada sempre di nuovo a íllibertà; ma questo terribile e crudele gioco desta infine l'uma-nità e la spinge a conquistare seriamente la propria reale libertà.

Anche l'autentico gesuitismo, il gesuitismo dell'ordine ecclesiastico, fu una battaglia contro gli ordinamenti religiosi, lo scherno della frivolezza, un atto dell'illuminismo, disgustoso, o addirittura osceno solo perché l'illuminismo e la frivolezza si pre-sentavano in forma puramente ecclesiastica, e non nella libera forma umana.

Quando il casista ebreo, il rabbino, domanda se è permesso mangiare l'uovo deposto da una gallina nel giorno di sabato, esprime con ciò la semplice sciocchezza e l'infame conseguenza della parzialità religiosa.

Quando invece l'esponente della scolastica domandava se Dio, analogamente a come diventò uomo nel grembo della Ver-gine, potesse ad esempio diventare anche una zucca, quando luterani e riformati litigavano sulla questione se il corpo del Dio fattosi uomo potesse nello stesso momento essere presente in luoghi diversi, tutto ciò è certo ridicolo, ma solo perché la con-troversia sul panteismo era espressa in forma religiosa ed eccle-siastica.

I cristiani si trovano quindi ad un livello superiore perché hanno sviluppato il gesuitismo religioso, questa illibertà che si annienta da sé, fino al punto in cui è in gioco tutto, dove l'illi-bertà avvinghia tutto e la libertà e l'onestà dovevano essere la necessaria conseguenza del suo potere assoluto. Gli ebrei stanno al di sotto di questo livello di ipocrisia religiosa, e quindi anche al di sotto di questa possibilità di libertà.

Il cristianesimo sorse quando lo spirito virile della filosofia greca e della cultura classica, ín un momento di debolezza, si unì con l'ebraismo pieno di passione. Dopo aver dato il suo frutto, l'ebraismo, che rimase ebraismo, scordò questa unione e questo abbraccio amoroso. Non volle mai riconoscere il suo frutto. Invece l'ebraismo che serbò sempre nel ricordo e con piacere la gloriosa figura della filosofia atea e terrena, non poté mai scor-darla e portò sempre con sé il ricordo della bella figura umana del senza Dio, fino a quando non morì del ricordo, e al suo posto si presentò nuovamente la filosofia reale — questo ebraismo mor-to del suo amore e dell'unione pagana è il cristianesimo.

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Che nel cristianesimo l'inumanità sia spinta più in alto che in ogni altra religione, che sia addirittura spinta al suo apice, dipende unicamente e fu possibile solo perché esso aveva afferra-to il concetto massimamente illimitato di umanità e, rovesciando-lo e deformandolo nella concezione religiosa, rese inumana l'essenza umana. Nell'ebraismo l'inumanità non è ancora spinta così in alto; l'ebreo in quanto ebreo ha ad esempio il dovere reli-gioso di far parte della famiglia, delle tribù, della nazione, cioè di vivere per determinati interessi umani; questa priorità è però solo apparente e fondata sulla mancanza per cui l'uomo, nella sua essenza universale, vale a dire l'uomo in quanto è qualcosa di più del semplice membro della famiglia, della tribù o della nazione, non era ancora noto all'ebraismo.

L'illuminismo ha perciò la propria vera sede nel cristianesi-mo. Qui può mettere radici più profonde, qui è decisivo e, dopo che anche i Greci e i Romani ebbero il loro illuminismo e attra-verso la dissoluzione della loro religione fornirono l'occasione per la nascita di una nuova religione, è decisivo per sempre e per l'intera umanità. L'illuminismo dei Greci e dei Romani poteva far cadere solo una religione determinata, una religione ancora incompiuta, cioè una religione che non era ancora completamen-te tale ed era invece ancora legata a interessi politici, patriottici, artistici e, per così dire, umanistici. Il cristianesimo è la religione autentica e compiuta, nient'altro che religione; l'illuminismo che esso produce, e dal quale viene distrutto, è quindi decisivo per la questione della religione e dell'umanità in generale. Per due ragioni, che in realtà sono una sola, esso doveva dar luogo a que-sto illuminismo decisivo: perché costituisce l'apice dell'inuma-nità e perché costituisce la rappresentazione religiosa della pura, illimitata, onnicomprensiva umanità.

Per la stessa ragione si capisce perché furono necessari così tanti secoli affinché l'illuminismo e la critica potessero raggiunge-re la perfezione e la purezza nelle quali furono in grado di costi-tuire realmente una nuova epoca della storia dell'umanità. Pro-prio perché il cristianesimo racchiude in sé una concezione così comprensiva dell'umanità, esso poté resistere così a lungo agli attacchi contro la sua inumanità. Gli attacchi furono così difficol-tosi, timidi ed incerti — tutt'oggi lo sono in quelle regioni dell'illu-minismo nelle quali ancora si tessono le lodi del comandamento cristiano dell'amore universale per gli uomini, della legge cristia-

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na della libertà e dell'uguaglianza —, perché ci si faceva impres-sionare dal comandamento religioso dell'amore fraterno, e solo con difficoltà fu possibile scoprire che proprio questo comanda-mento, in quanto religioso, limita e nega l'amore con la fede, fa nascere odio e smania di persecuzione, ha messo in movimento la spada e acceso i roghi. Le religioni secondarie poterono cadere prima perché gli ostacoli che esse opponevano allo sviluppo dell'umanità si fecero sentire prima, cioè perché fin dall'inizio poggiavano su una concezione limitata dell'essenza dell'uomo e spinsero molto prima l'illuminismo a diventare irreligioso. Ma questo illuminismo non fu ancora decisivo per la religione in genere poiché rovesciò solo qualcosa di determinato, solo un limite, e non il limite, non la limitatezza e l'illibertà in genere. Questo illuminismo non fu decisivo, anche perché non poteva neppure dissolvere la religione determinata e non ancora com-piuta chiarendone con esattezza l'illusione, la genesi e l'origine umana. Solo l'illuminismo che chiarisce e dissolve l'illusione in genere e la religione per eccellenza chiarirà esattamente anche l'illusione e l'origine delle forme di religione secondarie.

Lo stesso cristianesimo ha fornito una prova per questa affermazione. Per i cattolici fu più facile che per i protestanti liberarsi dall'influenza della religione, ma più difficile e quasi impossibile dissolvere la religione in generale e chiarire con esat-tezza la sua origine. L'influenza religiosa era più rude ed esterio-re, di conseguenza offriva degli appigli esterni più comodi per essere attaccata e, dal momento che non era ancora giunta nel profondo dell'animo e non coinvolgeva ancora l'uomo nella sua totalità, poteva essere rigettata e respinta con maggiore facilità. Al tempo stesso essa venne però spiegata in modo sbagliato, accusata in quanto rozzo e scaltro inganno; la vera fonte della religione, l'illusione e l'autoinganno dei soggiogati continuavano a sussistere, potevano quanto meno continuare a sussistere e l'illuminato, che si era liberato solo da un'illusione determinata, e neanche da questa in modo perfetto, poteva assoggettarsi nuova-mente e perfino ingannare nel suo illuminismo. Nel protestante-simo, invece, l'illusione è diventata completa e assoluta: essa riguarda l'uomo nella sua totalità, dominandolo non esterior-mente per mezzo del potere dei preti, della gerarchia o della chiesa in genere, ma a partire dalla sua stessa interiorità. Nel pro-testantesimo il sentimento di dipendenza in quanto tale, nella sua

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purezza e nella sua assoluta universalità, cioè nella sua totale e assoluta limitatezza, è elevato a principio. Qui, dove esso costi-tuisce l'essenza dell'uomo e l'uomo, al di fuori del fatto che è religioso, non è ancora qualcosa d'altro o per lo meno non gli è dato essere qualcosa d'altro, come ad esempio un politico, un artista o un filosofo; nel protestantesimo ci vuole ancora molto perché l'uomo osi attaccare la sua propria essenza, che egli fino ad allora riconosceva come la sua vera essenza, respingendola e negandola in quanto sua non-essenza. Ma quando ciò accade, allora accade fino in fondo, per tutte le epoche e per l'intera umanità, cosicché la questione è tolta per sempre e non è più necessario riprendere la battaglia: ma ciò accade realmente solo se l'illusione religiosa non viene più attribuita al mero inganno di una casta sacerdotale, ma viene compresa come l'illusione uni-versale dell'umanità in genere.

Il protestantesimo ha ora dato il massimo di ciò che poteva dare e di ciò che costituisce la sua suprema determinazione; si è dissolto e con esso si è dissolta la religione in genere. Si è sacrifi-cato per il bene della libertà dell'umanità. E che cosa ha dato invece l'ebraismo? O piuttosto: a che giova se l'ebreo non ha neppure dissolto la propria legge, ma la ha solamente violata e, quando il suo bisogno e il suo tornaconto lo esigeva, sospesa? A che giova? Non giova affatto all'umanità, ma solo alla soddisfa-zione illimitata di un bisogno sensibile e limitato. Se il protestan-tesimo, e con esso il cristianesimo, si dissolve, al suo posto si erge il libero uomo nella sua totalità, l'umanità creatrice e non più ostacolata nelle sue opere supreme: se invece l'ebreo viola la sua legge, un singolo uomo o un certo numero di uomini può seguire senza impedimenti i propri affari commerciali, può mangiare e bere ciò che la natura fornisce, può accendere un lume quando si fa buio o può accendere un fuoco anche se è sabato.

Prima ancora dei protestanti e addirittura prima dei cristia-ni illuminati, ci furono degli ebrei illuminati; era infatti più facile annullare una legge in lotta solo con i bisogni celesti che dissol-vere il sentimento di dipendenza il cui dominio è fondato sullo sviluppo della natura umana, e che poteva essere distrutto solo quando l'uomo si fosse innalzato fino al riconoscimento della sua vera essenza. È più facile appagare il bisogno sensibile nonostan-te l'esistenza di una legge considerata divina che fondare ed affermare una nuova e finalmente vera concezione dell'essenza

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dell'uomo, una concezione che si contrappone e deve contrap-porsi mortalmente al modo in cui l'umanità si è finora concepita.

L'ebreo non dà nulla all'umanità quando contravviene per sé alla sua legge limitata: il cristiano, quando dissolve la sua essenza cristiana, dà all'umanità tutto ciò che essa riesce a pren-dere in consegna: le dà l'umanità stessa: la riporta a se stessa dopo che si era persa e che, di fatto, non era nemmeno mai appartenuta a se stessa. L'ebreo non può mai essere tranquillo, non può mai avere una buona coscienza quando, a modo suo, cioè per soddisfare il proprio bisogno sensibile, elude la sua leg-ge divina: l'umanità che riconquista se stessa dopo il suo smarri-mento nella religione, si possiede con coscienza tranquilla ed ha acquistato per la prima volta la sua vera purezza e limpidezza. Chi supera una legge limitata per il proprio bene, nella lotta non ottiene una forza maggiore perché quella lotta viene conclusa con facilità: una lotta contro l'illibertà in genere e contro l'errore originario restituisce invece all'umanità tutte le sue forze, addirit-tura con un vigore irresistibile, in grado di abbattere tutte le bar-riere che la hanno finora trattenuta.

«Da parte vostra non vorrete misconoscere quanto la cultu-ra cristiana e lo stesso illuminismo cristiano devono agli ebrei? E non vorrete non riconoscere che il vostro slancio verso la libertà politica è potentemente animato ed è sostenuto dalla richiesta di emancipazione avanzata dagli ebrei?»

L'ascia può dire a chi la impugna che essa lo brandisce? Non è vero che gli ebrei ebbero influenza sull'illuminismo

del secolo scorso o addirittura che vi avrebbero portato un con-tributo originale. Il loro contributo in questo ambito è ben al di sotto delle prestazioni dei critici cristiani, fu insignificante per lo sviluppo della storia e fu solo la reazione dí uno stimolo conferi-to loro dall'illuminismo cristiano o da quello anticristiano scatu-rito dal mondo cristiano.

Nessuno oserà seriamente rimproverarci di prendere le par-ti del cristianesimo e di lasciarci guidare da esso: speriamo non ci venga duramente rimproverato neppure il fatto che neghiamo che l'ebraismo ha stimolato e sostenuto lo sforzo dell'epoca moderna verso la libertà. Da entrambe le parti, sia da parte cri-stiana sia da parte ebraica, ci si è resi colpevoli di un enorme sba-glio separando la questione ebraica dalla questione universale dell'epoca, senza pensare che non solo gli ebrei, ma anche noi

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volevamo essere emancipati. Gli ebrei possono esigere l'emancipazione solo perché

l'epoca intera la richiede. Essi vengono trascinati dall'impulso e dalla brama universale dell'epoca. Sarebbe la più ridicola delle esagerazioni credere seriamente che gli ebrei, con la loro richie-sta di emancipazione, abbiano stimolato e sostenuto una questio-ne che ha messo in movimento l'intero secolo Diciottesimo e che è stata trattata e decisa in modo sufficientemente serio nella Rivoluzione francese.

Se ovunque, per quanto riguarda il progresso, troviamo al vertice il mondo cristiano, se ovunque il cristianesimo si dimo-stra essere una forza del progresso, ciò non significa che il cristia-nesimo come tale, che il cristianesimo per sé, abbia voluto e mes-so in moto il progresso. Al contrario: se dipendesse veramente da esso, il progresso sarebbe impossibile. Esso invece suscita il pro-gresso così potentemente solo perché lo vuole rendere assoluta-mente impossibile; esso costituisce un impulso allo sviluppo del-la vera umanità in quanto è la pura, la suprema, la compiuta inu-manità. Non il cristianesimo in quanto tale ha liberato gli animi del Diciottesimo secolo ed ha spezzato le catene del privilegio e del monopolio, ma l'umanità, l'umanità che, all'interno del cri-stianesimo, rappresentava il vertice della civiltà; in questo vertice, all'interno di questa cerchia ristretta, si era posta nella più profonda contraddizione verso se stessa e la propria destinazio-ne; l'umanità ha compiuto questa opera di liberazione, quell'umanità che doveva oltrepassare ogni cosa qualora avesse spezzato i limiti che, nella sua parzialità religiosa, si era essa stes-sa posta nel cristianesimo. Gli ebrei vengono semplicemente tra-scinati da questo impetuoso movimento, essi sono solo i ritarda-tari, non gli esponenti di spicco e le guide del progresso; essi non sarebbero neppure là dove ora sono se avessero aspettato che la dissoluzione delle loro regole li portasse nel mezzo del movimen-to della cultura contemporanea. Per trovarsi in mezzo al movi-mento dovevano prima lasciarsi contagiare dal veleno della cul-tura cristiana, da quel veleno che dissolve ogni cosa o, se si vuole, dal veleno della cultura e dell'illuminismo anticristiani.

Ebraismo e cristianesimo sono già in se stessi, in quanto religione, una forma di illuminismo e critica, e se la loro destina-zione era quella di dominare l'umanità, allora il loro destino era anche quello di decadere in se stessi e nell'illuminismo che rac-

chiudevano in sé, liberando, nella loro decadenza, l'illuminismo che in essi era paralizzato in forma religiosa. Oppure, detto altri-menti: l'illuminismo, che essi furono in forma religiosa, li distrus-se, mandando in pezzi la forma religiosa e diventando illumini-smo reale e razionale.

Certamente anche sotto questo punto di vista il cristianesi-mo sarà in una posizione di punta, poiché esso stesso non è nien-te altro che l'ebraismo decaduto nel suo proprio illuminismo, cioè il compimento religioso dell'illuminismo che era racchiuso nell'ebraismo.

L'uomo è nato come membro di un popolo ed è destinato a diventare cittadino dello Stato al quale appartiene per nascita; la sua determinazione di uomo travalica però i confini dello Stato nel quale è nato. L'illuminismo, che innalza l'uomo al di sopra della mera subordinazione alla vita statuale e lo separa dallo Sta-to di appartenenza e da ogni Stato in genere, era espresso dall'ebraismo nella forma religiosa dell'odio: ogni Stato e ogni popolo sono privi di giustificazione di fronte all'Uno, di fronte a Jehova, e non hanno alcun diritto di esistere. Solo contro di sé, contro l'unico popolo, l'ebraismo non volle fare sul serio con questo illuminismo: esso lasciò sussistere un popolo come l'unico giustificato, dando proprio così luogo alla più limitata e bizzarra vita del popolo e dello Stato.

Il cristianesimo portò a termine l'illuminismo religioso che l'ebraismo aveva iniziato: eliminò dalla lista dei popoli anche l'unico popolo ancora in piedi, lo dichiarò addirittura spregevo-le, annullò ogni contesto statale e popolare e proclamò la libertà e l'uguaglianza di tutti gli uomini.

La proclamazione con la quale esso entrò in scena è quindi la stessa proclamazione con la quale si annunciò al mondo l'ope-ra del più recente illuminismo e il suo creatore: la libera e infinita autocoscienza che dichiarò guerra a ogni barriera e privilegio. L'autocoscienza non è né il contadino né il borghese né il nobile, davanti ad essa l'ebreo e il pagano sono uguali, non è né tedesca né semplicemente francese; non può ammettere che ci sia qual-cosa di totalmente separato da sé o che stia al di sopra di sé, essa è la dichiarazione di guerra e la guerra stessa, anzi, se è compiuta come reale autocoscienza, è la vittoria sopra tutto ciò che preten-de di valere esclusivamente per sé, come monopolio e come pri-vilegio. Non si lamenta del suo potere distruttivo, essa vuole e fa

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ciò che anche il cristianesimo, per il quale voi combattete, voleva, ma che portava avanti in modo errato, perché lo voleva realizzare in forma religiosa.

Il superamento religioso è sempre superficiale, perché i rap-porti che esso dissolve non li dissolve dall'interno, per mezzo della loro propria dialettica e per mezzo di una dimostrazione teorica e scientifica, ma li dissolve elevandosi semplicemente al di sopra di essi, negandoli rozzamente, di punto in bianco; lascian-doli quindi ancora sussistere, e per di più in una forma cattiva; può addirittura tanto poco separarsi da essi che li reinstaura nuo-vamente, anche se in forma bizzarra. Esso è l'elevazione in aria, nel regno fantastico, ed è quindi il rispecchiamento fantastico di ciò al di sopra di cui crede di essersi elevato. Così, il rapporto coniugale che il cristianesimo scioglie, viene ristabilito come matrimonio della comunità con il suo Signore o nel rapporto del-la monaca con il cielo, o ancora nell'entusiasmo del monaco per la Vergine celeste e della monaca per lo Sposo al quale si è pro-messa. Le differenze cetuali riprendono nuovamente vita nei ceti dei presceltí, degli eletti e di quelli che, in seguito a decreto arbi-trario e imperscrutabile dell'Altissimo, sono dannati: i ceti reli-giosi, allo stesso modo di quelli politici, si fondano sulla natura, solo che si fondano su una natura chimerica. Lo Stato, e precisa-mente lo Stato dispotico, si ripresenta nel gregge assoggettato passivamente al suo unico Signore; perfino la contrapposizione degli Stati e dei Regni è ridestata nella contrapposizione tra il Regno celeste e il Regno di questo mondo; i principi si danno ancora battaglia quando il Principe celeste e il principe mondano si combattono ovunque e incessantemente; l'odio e l'inimicizia dei popoli sono riattizzati quando il gregge delle pecore e la schiera dei capri"9, la parte sinistra e quella destra, si trovano l'una di fronte all'altra e .si devono reciprocamente considerare come assolutamente estranei, come la pura opposizione.

La natura contraddittoria della religione nega tutto ciò a cui la sua stessa volontà mira: ciò che vuole negare, lo deve consoli-dare in modo chimerico, e ciò che promette di dare, lo deve rifiutare. Essa nega le differenze naturali dei ceti e dei popoli, e le rende fantastiche, nega il privilegio e lo riproduce nel dominio esclusivo di Uno e nel privilegio di coloro che sono arbitraria-mente eletti; nega il peccato, e relega tutto nel peccato, libera dal peccato e trasforma tutti gli uomini in peccatori; vuole dare la

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libertà e l'uguaglianza, e le rifiuta, anzi dà luogo a un'economia di ineguaglianza e illibertà.

Essa non può realmente superare ciò che vuole negare, poi-ché non vi si contrappone attraverso la reale autocoscienza, ma con la fantasia e con un'avventata, esaltata, e perciò impotente volontà. Essa non può realmente concedere ciò che promette, perché, precisamente, lo vuole solo concedere. Non lo vuole ottenere. Non lo vuole conquistare. L'uguaglianza e la libertà che vengono solo concesse e non conquistate, equivalgono all'ine-guaglianza e alla illibertà stessa perché lasciano sussistere il privi-legio e la schiavitù, che non sono soppressi nel lavoro e nella lot-ta reale.

La religione compiuta affonda in questa contraddizione. Essa provoca il desiderio di uguaglianza che vuole scendere in campo contro i privilegi; non riesce però ad acquietarlo perché non ammette neppure la battaglia, ed anzi divinizza ed eternizza il nemico dell'uguaglianza. Vuole dare la libertà, ma non solo non la concede, dà addirittura le catene della schiavitù.

Ciò che vuole e ciò che provoca è però la volontà dell'uma-nità e l'oggetto della sua richiesta. La religione deve dunque, se quella volontà viene finalmente portata fino in fondo, tramontare secondo la sua stessa volontà. Ma il compimento della sua volontà è l'illuminismo, la critica, l'autocoscienza liberata che non fugge come invece fa la religione, non si eleva nel rispecchía-mento fantastico di questo mondo, ma si fa largo attraverso il mondo e porta realmente avanti la battaglia contro le barriere e i privilegi.

Il cristianesimo è quella religione che ha promesso di più, cioè tutto, all'umanità, ma è anche la religione che le ha rifiutato di più, e cioè, nuovamente, tutto. È quindi il luogo di nascita del-la massima libertà, così come era la potenza della più grande schiavitù. La sua dissoluzione per mezzo della critica, cioè la dis-soluzione delle sue contraddizioni, costituisce la nascita della libertà; con ciò costituisce il primo atto di questa massima libertà che l'umanità si conquista, si doveva conquistare e che si poteva conquistare solo nella lotta contro il compimento della religione.

Il cristianesimo viene quindi a trovarsi di gran lunga al di sopra dell'ebraismo, il cristiano di gran lunga al di sopra dell'ebreo, e la sua capacità di diventare libero è di gran lunga maggiore di quella dell'ebreo, poiché l'umanità, nel punto in cui

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il cristiano è situato in quanto cristiano, è giunta al punto in cui una drastica rivoluzione porrà rimedio a tutti i danni causati dal-la religione in genere ed il vigore che essa apporterà a questa rivoluzione è infinito.

L'ebreo si trova al di sotto di questo punto, e quindi anche al di sotto di questa possibilità della libertà e di una rivoluzione in grado di decidere il destino dell'intera umanità, perché la sua religione non è di per sé significativa per la storia e non può intervenire nella storia universale; essa poteva divenire pratica e storico-universale solo attraverso la sua dissoluzione e il suo compimento nel cristianesimo.

L'ebreo vuole diventare libero: ma da ciò non segue che, per avvicinarsi alla possibilità della libertà, egli debba diventare cristiano. Entrambi sono schiavi e servi della gleba, sia l'ebreo che il cristiano, e se l'illuminismo scopre che tanto l'ebraismo quanto il cristianesimo sono la servitù della gleba dello spirito, allora è troppo tardi: allora l'illusione e l'autoinganno per cui l'ebreo, per mezzo del battesimo, potrebbe diventare un uomo libero e un cittadino, non è più possibile, quanto meno non può più essere una cosa seria. Egli scambia solo un ceto privilegiato con l'altro: uno, che comporta maggiore fatica, con l'altro, che sembra essere più vantaggioso, ma che non gli può dare né libertà né diritti politici, perché lo Stato cristiano non sa nemme-no cosa siano. Il maggiore vantaggio connesso al ceto privilegiato dei cristiani può spingere alcuni ebrei a battezzarsi per rendere più vantaggiosa la propria posizione nello Stato cristiano; ma il battesimo non li rende liberi, e se alcuni ebrei volessero confessa-re la religione cristiana, la potenza del cristianesimo non ne risul-terebbe accresciuta.

È troppo tardi. Il cristianesimo non compierà più alcuna conquista che possa essere considerata anche solo minimamente significativa e importante. Il tempo delle conquiste storico-uni-versali, che gli facevano guadagnare interi popoli, è passato per sempre, perché ha totalmente compiuto il suo compito storico ed ha perso la fede in se stesso.

Se vogliono diventare liberi, gli ebrei non devono professa-re il cristianesimo, ma il cristianesimo dissolto, la religione dissol-ta in genere, vale a dire l'illuminismo, la critica e il suo risultato, la libera umanità.

Il movimento storico che riconoscerà la dissoluzione del cristianesimo e della religione in genere come un fatto compiuto ed assicurerà all'umanità la vittoria sulla religione, non può più indugiare oltre, perché l'autocoscienza della libertà si è sottratta da ogni rapporto esistente e si trova in assoluta contraddizione con esso; le goffe e impotenti disposizioni con le quali l'esistente cerca di colpirla le procurano solo nuove vittorie e conquiste.

Agli altri popoli, agli altri continenti tenuti ancora prigio-nieri, i popoli che si troveranno al vertice di questo movimento non porteranno più il vangelo dell'Uno, che ha confinato tutti gli uomini nel peccato, ma il messaggio dell'umanità e dell'uomo liberato. Le cerchie e i popoli che non vogliono aderire a questo movimento e non vogliono accettare la fede nell'umanità puni-ranno se stessi, saranno presto scavalcati e si vedranno posti al di fuori della storia, piazzati al livello dei barbari e dei paria.

Se ciò capita al legno verde, cosa succede a quello secco? Se il futuro dei cristiani che vogliono permanere nel cristianesimo, e che quindi vengono anche infinitamente oltrepassati dallo svilup-po dell'umanità, è così grigio, quale può essere il futuro degli ebrei che rimangono fermi ad un punto ancora più basso e che qui vogliono restare?

Questo è affar loro: determineranno da sé il proprio desti-no; ma la storia non si fa prendere in giro. Il dovere dei cristiani è quello di riconoscere con serietà il risultato dello sviluppo del cristianesimo, la sua dissoluzione e l'innalzamento dell'uomo al di sopra del cristiano: il loro dovere è cioè quello di cessare di essere cristiani per diventare uomini e liberi. L'ebreo invece deve sacrificare all'umanità, al risultato dello sviluppo e della dissolu-zione del cristianesimo, il privilegio chimerico della sua naziona-lità, la sua legge fantastica e infondata — tale sacrificio gli può essere difficile perché egli deve completamente rinunciare a sé e negare l'ebreo. Non necessita più di rinnegarsi, di sacrificare la sua religione per un'altra. Ciò che deve fare è qualcosa di più e di più difficile del semplice scambio di una religione con un'altra.

Il cristiano e l'ebreo devono rompere con la loro intera essenza: ma questa rottura è più vicina al cristiano perché essa si configura immediatamente come il suo proprio compito a partire dallo sviluppo della sua attuale essenza; l'ebreo invece deve rom-pere non solo con la sua essenza ebraica, ma anche con lo svilup-po del compimento della sua religione, con uno sviluppo che gli

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è rimasto estraneo e al quale non ha contribuito, così come, in quanto ebreo, non ha né sollecitato né riconosciuto il compimen-to della sua religione. Per abbandonare la religione in genere il cristiano deve superare solo un gradino, quello della propria reli-gione; se vuole innalzarsi alla libertà il cammino dell'ebreo è più arduo.

Ma per l'uomo nulla è impossibile.

SULLA QUESTIONE EBRAICA di Karl Marx

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SULLA QUESTIONE EBRAICA di Karl Marx

I. BRUNO BAUER, LA QUESTIONE EBRAICA, BRAUNSCHWEIG 1843

Gli ebrei tedeschi vogliono l'emancipazione. Che emanci-pazione vogliono? L'eli cipazione civile, politica.

Bruno Bauer rispon, loro: nessuno in Germania è politi-camente emancipato. Noi stessi non siamo liberi. Come potrem-mo liberare voi? Voi ebrei siete egoisti se pretendete un'emanci-pazione particolare per voi in quanto ebrei. Dovreste, in quanto tedeschi, lavorare per l'emancipazione politica della Germania e, in quanto uomini, per l'emancipazione umana, e sentire la forma specifica della vostra oppressione e della vostra infamia non come un'eccezione alla regola, ma piuttosto come la confer-ma della regola.

O forse gli ebrei pretendono l'equiparazione con i sudditi cristiani? In tal modo essi riconoscono come legittimo lo Stato cristiano, così riconoscono il regime dell'asservimento generale. Perché disapprovano il proprio soggiogamento particolare se accettano quello universale? Perché il tedesco dovrebbe interes-sarsi alla liberazione degli ebrei, se l'ebreo non si interessa alla liberazione del tedesco?

Lo Stato cristiano conosce soltanto privilegi. In esso l'ebreo possiede il privilegio di essere ebreo. Come ebreo ha dei diritti che i cristiani non hanno. Perché vuole dei diritti che non ha e di cui i cristiani godono?

Volendo essere emancipato dallo Stato cristiano, l'ebreo pretende che lo Stato cristiano rinunci al suo pregiudizio religio-so. Ma egli, l'ebreo, abbandona il suo pregiudizio religioso? Ha quindi il diritto di esigere da un altro questa rinuncia alla reli-gione?

Lo Stato cristiano non può, per sua essenza, emancipare l'ebreo; ma, aggiunge Bauer, l'ebreo, per sua essenza, non può essere emancipato. Fino a quando lo Stato rimane cristiano e l'ebreo ebreo, entrambi saranno altrettanto incapaci di concede-re e di ricevere l'emancipazione.

Lo Stato cristiano può riferirsi all'ebreo soltanto alla

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maniera dello Stato cristiano, cioè secondo il sistema del privile-gio: esso permette che l'ebreo sia distinto dagli altri sudditi, ma gli fa sentire la pressione delle altre sfere particolari, e gliela fa sentire tanto più duramente in quanto l'ebreo si trova in contra-sto religioso rispetto alla religione dominante. Ma anche l'ebreo può riferirsi allo Stato soltanto come ebreo, cioè come uno stra-niero di fronte allo Stato, poiché alla nazionalità reale egli con-trappone la sua nazionalità chimerica, alla legge reale la sua leg-ge illusoria, poiché si crede in diritto di distinguersi dall'uma-nità, poiché per principio non partecipa in alcun modo al movi-mento storico, poiché egli spera in un futuro che non ha nulla in comune con il futuro universale dell'uomo, poiché si considera un membro del popolo ebraico e ritiene il popolo ebraico il popolo eletto.

A quale titolo voi ebrei chiedete l'emancipazione? In con-siderazione della vostra religione? Ma essa è nemica mortale della religione dello Stato. Come cittadini? In Germania non vi sono cittadini. Come uomini? Voi non siete uomini, così come non lo sono coloro ai quali vi appellate.

Bauer ha posto in termini nuovi la questione dell'emanci-pazione degli ebrei, dopo aver fornito una critica delle prece-denti tesi e soluzioni del quesito. Quali sono, egli si domanda, le caratteristiche dell'ebreo che deve essere emancipato e dello Sta-to cristiano che deve emancipare? Egli risponde con una critica della religione ebraica, analizza il contrasto religioso tra ebrai-smo e cristianesimo, spiega l'essenza dello Stato cristiano, tutto ciò con arditezza, acutezza, spirito, profondità, con uno stile tanto preciso quanto robusto ed energico.

Come risolve dunque Bauer la questione ebraica? Qual è il risultato? La formulazione di un quesito è già la sua soluzione. La critica della questione ebraica è la risposta alla questione ebraica. Questo íl resumé:

Dobbiamo emancipare noi stessi prima di poter emancipa-re gli altri.

La forma più rigida del contrasto tra l'ebreo e il cristiano è il contrasto religioso. Come si risolve un contrasto? Rendendolo impossibile. Come si rende impossibile un contrasto religioso? Eliminando la religione. Non appena l'ebreo e il cristiano rico-noscono che le loro rispettive religioni non sono altro che diffe-renti stadi dello sviluppo dello spirito umano, differenti mute di

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pelli di serpente deposte dalla storia, e che l'uomo non è altro che il serpente rivestito di esse, allora essi non vengono più a trovarsi in un rapporto religioso, ma soltanto in un rapporto cri-tico, scientifico, umano. La scienza è quindi la loro unità. I con-trasti nella scienza si risolvono però mediante la scienza stessa.

In particolare all'ebreo tedesco si contrappone la carenza di emancipazione politica in generale e la pronunciata cristia-nità dello Stato. Nel senso di Bauer, la questione ebraica ha però un significato universale, indipendente dalla specifica situazione tedesca. È la questione del rapporto tra religione e Stato, della contraddizione tra il pregiudizio religioso e l'emanci-pazione politica. L'emancipazione dalla religione viene posta come condizione, sia all'ebreo, che vuole essere emancipato politicamente, sia allo Stato, che deve emancipare ed essere esso stesso emancipato.

Bene! Si dice, ed è lo stesso ebreo a dirlo, che l'ebreo deve essere emancipato non in quanto ebreo, non perché è ebreo, non perché possiede un principio tanto eccellente e universalmente umano dell'eticità, piuttosto l'ebreo passerà in secondo piano rispetto al cittadino e sarà egli stesso cittadino, nonostante il fatto che egli sia ebreo e debba rimanere ebreo160; ciò significa che egli è e resta ebreo, sebbene sia cittadino e nonostante viva all'interno dí rap-porti universalmente umani: la sua essenza ebraica e limitata vince sempre e senza eccezione sopra i suoi doveri umani e politici. Il pregiudizio permane nonostante sia sormontato da universali prin-cipi fondamentali. Ma se permane, è esso a sormontare piuttosto ogni altra cosa. Solo per un sofisma, solo in apparenza, l'ebreo può rimanere ebreo nella vita dello Stato; qualora egli volesse rimanere ebreo, la mera parvenza trionferebbe e diverrebbe l'essenziale, cioè la sua vita nello Stato diventerebbe mera parven-za, una momentanea eccezione rispetto all'essenza e alla regola (La capacità di diventare liberi degli ebrei e dei cristiani di oggi, infra, p. 156).

Vediamo, d'altra parte, come Bauer delinea il compito dello Stato:

Per quanto riguarda la questione ebraica — così come in tutte le altre questioni politiche —, la Francia, si dice, ci ha recentemente offerto (Dibattiti della Camera dei deputati del 26 dicembre 1840) lo spettacolo di una vita che è libera, ma che revoca la pro-pria libertà nella legge, dichiarandola quindi un'apparenza e,

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dall'altra parte, negando nei fatti la sua libera legge (La questione ebraica, i nfra, p. 107).

La libertà universale in Francia ancora non è legge; neanche la que-stione ebraica è risolta perché la libertà legale — (secondo la quale tutti i cittadini sono uguali) — viene limitata nella vita, che è ancora dominata e lacerata dai privilegi religiosi; questa illibertà della vita retroagisce sulla legge obbligandola a sanzionare la distinzione dei cittadini, in sé liberi, in oppressi e oppressori. (La questione ebrai-ca, pp. 107-8).

Quando, dunque, sarebbe risolta per la Francia la questione ebraica?

L'ebreo, ad esempio, dovrebbe aver cessato di essere ebreo qualo-ra non si faccia ostacolare dalla sua legge nell'adempiere ai suoi doveri verso lo Stato e i suoi concittadini, come ad esempio recar-si alla Camera dei deputati o prendere parte ai pubblici dibatti-menti nel giorno di sabato. Ogni privilegio religioso in genere, e quindi anche il monopolio di una chiesa privilegiata, dovrebbe essere abolito, e se un singolo o i più, o anche la stragrande mag-gioranza credesse ancora di dover adempiere a doveri religiosi, allo-ra un tale adempimento dovrebbe essere concesso loro come una mera faccenda privata (p. 107). Non c'è più religione se non c'è più nessuna religione privilegiata. Si tolga alla religione la sua for-za di esclusione ed essa non esiste più (p. 109). Come il signor Martin du Nord, nel progetto di tralasciare dalla legge il riferi-mento alla domenica, scorgeva la proposta di dichiarare che il cri-stianesimo aveva cessato di esistere, per la stessa ragione (e questa ragione è pienamente fondata), dichiarare che la legge del sabato non sarebbe più vincolante per gli ebrei, equivarrebbe a procla-mare la dissoluzione dell'ebraismo (pp. 113-4).

Bauer pretende quindi, da una parte, che l'ebreo rinunci all'ebraismo, e in generale che l'uomo rinunci alla religione, per poter essere emancipato come cittadino. Dall'altra identifica in tutto e per tutto la soppressione politica della religione con la soppressione pura e semplice della religione. Lo Stato che pre-suppone la religione non è ancora uno Stato vero, reale.

La rappresentazione religiosa fornisce senz'altro delle garanzie allo Stato. Ma a quale Stato? A quale tipo di Stato? (p. 138)

A questo punto appare chiaramente il carattere unilaterale del modo di porre la questione ebraica.

Non bastava assolutamente chiedersi: chi deve emancipare? Chi deve essere emancipato? La critica doveva porre una terza domanda. Doveva chiedere: di che tipo di emancipazione si trat-ta? Quali condizioni sono implicite nell'essenza dell'emancipa-zione richiesta? La critica della stessa emancipazione politica avrebbe già costituito la critica conclusiva della questione ebraica e la sua vera risoluzione nella «questione universale dell'epoca».

Ma poiché Bauer non porta la questione a questo livello, cade in contraddizioni. Egli pone condizioni che non sono implicite nell'essenza dell'emancipazione politica stessa. Egli sol-leva questioni che esulano dal tema e risolve problemi che lasciano irrisolta la sua questione. Quando Bauer, riferendosi agli avversari dell'emancipazione degli ebrei, dice: «Il loro unico errore fu quello di presupporre lo Stato cristiano come l'unico vero Stato; senza sottoporlo alla stessa critica con la quale consi-deravano l'ebraismo» (p. 45), noi rileviamo l'errore di Bauer nel fatto che egli sottopone a critica solo lo «Stato cristiano», non lo «Stato in quanto tale»; non indaga il rapporto tra l'emancipazio-ne politica e l'emancipazione umana, e pone perciò condizioni che sono spiegabili soltanto a partire da un'acritica confusione tra l'emancipazione politica e quella universalmente umana. Se Bauer domanda agli ebrei: dal vostro punto di vista avete il diritto di chiedere l'emancipazione politica? noi invece doman-diamo: il punto di vista dell'emancipazione politica ha il diritto di esigere dall'ebreo la soppressione dell'ebraismo, e dagli uomi-ni in generale la soppressione della religione?

La questione ebraica assume un aspetto diverso a seconda dello Stato nel quale l'ebreo si trova. In Germania, dove non esiste uno Stato politico, uno Stato in quanto Stato, la questione ebraica è una mera questione teologica. L'ebreo si trova in con-trasto religioso con lo Stato, il quale ammette come proprio fon-damento il cristianesimo. Questo Stato è teologo ex professo. La critica è qui critica della teologia, critica a doppio taglio, critica della teologia cristiana e della teologia ebraica. Ma così, per quanto criticamente, ci muoviamo ancor sempre nel campo della teologia.

In Francia, nello Stato costituzionale, la questione ebraica è la questione del costituzionalismo, la questione della incomple-

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tezza dell'emancipazione politica. Poiché qui è conservata l'appa-renza di una religione di Stato, anche se in una formulazione vuota e in sé contraddittoria, nella formulazione di una religione della maggioranza, il rapporto tra gli ebrei e lo Stato conserva l'apparenza di un contrasto religioso, teologico.

Solo nei liberi Stati del Nordamerica — quanto meno in una parte di essi — la questione ebraica perde il proprio aspetto teo-logico e diventa una questione realmente mondana. Solo là dove lo Stato politico esiste nella sua forma compiuta, il rapporto dell'ebreo, e in generale dell'uomo religioso con lo Stato politi-co, dunque il rapporto della religione con lo Stato, può presen-tarsi nella sua peculiarità e purezza. La critica di questo rappor-to cessa di essere teologica non appena lo Stato cessa di rappor-tarsi alla religione in modo teologico, non appena esso si rappor-ta alla religione come Stato, cioè politicamente. La critica diven-ta allora critica dello Stato politico. A questo punto, là dove la questione cessa di essere teologica, la critica di Bauer cessa di essere critica.

«Negli Stati Uniti non esiste né una religione di Stato, né una reli-gione ufficiale della maggioranza né la preminenza di un culto sugli altri. Lo Stato è estraneo a tutti i culti» (Marie ou Fesclavage aux Etats-Units ecc., di G. de Beaumont, Paris, 1835, p. 214)161. Vi sono infatti alcuni Stati nordamericani nei quali «la Costituzione non impone le credenze religiose e la pratica d'un culto come condizione dei privilegi politici» (ivi, p. 225). Tuttavia «negli Stati Uniti non si crede che un uomo senza religione possa essere un uomo onesto» (ivi, p. 224).

Ciò nonostante l'America del Nord è per definizione il paese della religiosità, come assicurano unanimi Beaumont, Tocquevil-le e l'inglese Hamilton. D'altra parte gli Stati del Nordamerica ci servono solo come esempio. La questione è: come si rapporta la compiuta emancipazione politica verso la religione. Se perfino nel paese della compiuta emancipazione politica troviamo non soltanto l'esistenza, ma l'esistenza fiorente e rigogliosa della reli-gione, questo fatto testimonia che l'esistenza della religione non contraddice la perfezione dello Stato. Ma poiché l'esistenza del-la religione è l'esistenza di una carenza, l'origine di tale carenza può essere cercata soltanto nell'essenza dello Stato stesso. La religione per noi non costituisce più il fondamento, bensì ormai

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soltanto il fenomeno della limitatezza mondana. Per questo spie-ghiamo il pregiudizio religioso dei liberi cittadini con il loro pre-giudizio mondano. Non riteniamo che, per poter sopprimere i loro limiti mondani, essi debbano sopprimere la loro limitatezza religiosa. Affermiamo che essi sopprimono la loro limitatezza religiosa non appena superano i loro limiti mondani. Non tra-sformiamo le questioni mondane in questioni teologiche. Tra-sformiamo le questioni teologiche in questioni mondane. Dopo che per lungo tempo la storia è stata risolta nella superstizione, noi risolviamo la superstizione nella storia. La questione del rap-porto tra l'emancipazione politica e la religione diventa per noi la questione del rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipa-zione umana. Noi critichiamo la debolezza religiosa dello Stato politico in quanto, facendo astrazione dalle debolezze religiose, critichiamo lo Stato politico nella sua costruzione mondana. Noi umanizziamo la contraddizione tra lo Stato e una determinata religione, ad esempio l'ebraismo, nella contraddizione tra lo Sta-to e determinati elementi mondani, la contraddizione dello Stato con la religione in genere nella contraddizione tra lo Stato e i suoi presupposti in genere.

L'emancipazione politica dell'ebreo, del cristiano, dell'uomo religioso in genere, è l'emancipazione dello Stato dall'ebraismo, dal cristianesimo, dalla religione in genere. Nella sua forma, nel modo conforme alla sua essenza, lo Stato si eman-cipa dalla religione emancipandosi dalla religione di Stato, cioè quando lo Stato come tale non professa alcuna religione, quan-do lo Stato riconosce piuttosto se stesso come Stato. L'emanci-pazione politica dalla religione non è l'emancipazione compiuta e priva di contraddizioni dalla religione, perché l'emancipazione politica non è la forma compiuta, senza contraddizioni, dell'emancipazione umana.

Il limite dell'emancipazione politica si rivela immediata-mente nel fatto che lo Stato può liberarsi da un limite senza che l'uomo ne sia realmente libero, che lo Stato può essere un libero Stato senza che l'uomo sia un uomo libero. Bauer stesso lo ammette tacitamente allorché pone all'emancipazione politica la seguente condizione:

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Ogni privilegio religioso in genere, e quindi anche il monopolio di una chiesa privilegiata, dovrebbe essere abolito, e se un singolo o i più, o anche la stragrande maggioranza credesse ancora di dover adempiere a doveri religiosi, allora un tale adempimento dovrebbe essere concesso loro come una mera faccenda privata.

Lo Stato può dunque essersi emancipato dalla religione, anche se la stragrande maggioranza è ancora religiosa. E la stragrande maggioranza non cessa di essere religiosa per il fatto di essere religiosa privatim.

Ma il rapporto dello Stato con la religione, e in particolare dello Stato libero, non è tuttavia altro che il rapporto degli uomi-ni che formano lo Stato con la religione. Ne consegue che l'uomo, per mezzo dello Stato, si libera politicamente da un limite ponendosi in contraddizione con se stesso, innalzandosi parzial-mente, in un modo astratto e limitato, oltre tale limite. Ne con-segue inoltre che l'uomo, liberandosi politicamente, si libera indirettamente, attraverso un mezzo, anche se un mezzo necessa-rio. Ne consegue infine che l'uomo, anche se per mezzo dello Stato si proclama ateo, cioè se proclama ateo lo Stato, rimane ancor sempre legato alla religione, appunto perché riconosce se stesso solo per via indiretta, solo attraverso un mezzo. La reli-gione è appunto il riconoscersi dell'uomo in modo indiretto. Attraverso un mediatore. Lo Stato è il mediatore tra l'uomo e la libertà dell'uomo. Come Cristo è il mediatore cui l'uomo attri-buisce tutta la propria divinità, tutto il proprio pregiudizio reli-gioso, così lo Stato è il mediatore nel quale egli trasferisce tutta la sua non-divinità, tutta la sua umana assenza di pregiudizi.

L'innalzamento politico dell'uomo al di sopra della religio-ne partecipa di tutti i difetti e di tutti i pregi dell'innalzamento politico in genere. Lo Stato, in quanto Stato, annulla ad esempio la proprietà privata, l'uomo dichiara politicamente soppressa la proprietà privata non appena abolisce il censo quale criterio determinante per distinguere tra elettorato attivo e passivo, come è accaduto in molti Stati nordamericani. Hamilton inter-preta esattamente questo fatto dal punto di vista politico: «La grande massa ha vinto sui proprietari e la finanza»162. La pro-prietà privata non è forse idealmente soppressa quando il nulla-tenente è divenuto il legislatore del possidente? Il censo è l'ulti-ma forma politica del riconoscimento della proprietà privata.

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Tuttavia, con l'annullamento politico della proprietà priva-ta, non solo la proprietà privata non viene soppressa, ma è addi-rittura presupposta. Lo Stato sopprime a modo suo le differenze di nascita, di ceto, di formazione, di professione, dichiarando che nascita, ceto, formazione, professione non sono differenze politi-che, proclamando, senza riguardo per tali differenze, ciascun membro del popolo partecipe in ugual misura della sovranità popolare e considerando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello Stato. Nondimeno lo Stato lascia che la proprietà privata, la formazione, la professione operino a modo loro, cioè come proprietà privata, come formazione, come professione, e facciano valere la loro essenza particolare. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone, riconosce se stesso come Stato politico e fa valere la propria universalità solo in opposizione a questi suoi elementi. Hegel definisce perciò in modo molto preciso il rapporto dello Stato politico con la reli-gione, quando dice:

Affinché lo Stato giunga all'esserci come la realtà etica dello spiri-to, consapevole di sé, è necessaria la sua differenziazione dalla for-ma dell'autorità della fede; questa differenziazione però emerge soltanto in quanto il lato ecclesiastico giunge entro di sé alla divi-sione; soltanto in tal modo, al di sopra delle chiese particolari, lo Stato ha acquistato l'universalità del pensiero, il principio della di lui forma, e la porta all'esistenza (Hegel, Filosofia del diritto, I edi-zione, p. 346)163.

Certamente! Solo così, al di sopra degli elementi particolari, lo Stato si costituisce come universalità.

Lo Stato politico compiuto è per sua essenza la vita di genere dell'uomo, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera statale nella società civile, ma come caratteristi-che della società civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo conduce non soltanto nel pensiero e nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena: la vita nella comunità politica, nella quale si considera come collettivo, e la vita nella società civile, nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e diviene trastul-

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lo di forze estranee. Lo Stato politico si rapporta alla società civile nel modo spiritualistico con cui il cielo si rapporta alla ter-ra. Rispetto ad essa si trova nel medesimo contrasto, e la sovra-sta nel medesimo modo in cui la religione sovrasta la limitatezza del mondo profano, cioè dovendo insieme riconoscerla, restau-rarla e lasciarsi dominare da essa. Nella sua realtà più immediata, nella società civile, l'uomo è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come individuo reale, egli è una falsa apparenza. Viceversa, nello Stato, dove l'uomo vale come ente generico, egli è il membro immaginario di una sovranità fantastica, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una universalità irreale.

Il conflitto nel quale l'uomo, in quanto seguace di una reli-gione particolare, viene a trovarsi con il proprio essere cittadino e con gli altri uomini in quanto membri della comunità, si ridu-ce alla scissione mondana tra lo Stato politico e la società civile. Per l'uomo in quanto bourgeois, la «vita nello Stato è una mera parvenza o una momentanea eccezione rispetto all'essenza e alla regola». Certamente il bourgeois, come l'ebreo, permane nella vita dello Stato solo sofisticamente, così come solo sofisticamen-te il citoyen permane ebreo o bourgeois; ma questa sofistica non è personale. E la sofistica dello Stato politico stesso. La differenza tra l'uomo religioso e il cittadino è la differenza tra il commer-ciante e il cittadino, tra il bracciante e il cittadino, tra il proprie-tario fondiario e il cittadino, tra l'individuo vivente e il cittadino. La contraddizione nella quale si trova l'uomo religioso con l'uomo politico, è la medesima contraddizione nella quale si tro-va il bourgeois col citoyen, nella quale si trova il membro della società civile con la sua politica pelle di leone.

Questo conflitto mondano, cui si riduce infine la questione ebraica, il rapporto dello Stato politico coi suoi presupposti, sia-no pur essi elementi materiali come la proprietà privata ecc., o spirituali come la formazione e la religione, il conflitto tra l'inte-resse universale e l'interesse privato, la scissione tra lo Stato poli-tico e la società civile, questi contrasti mondani Bauer li lascia sussistere, mentre polemizza contro la loro espressione religiosa.

Proprio il suo fondamento, il bisogno, che assicura alla società civile la sua esistenza e le garantisce la sua necessità, espone la sua stessa esistenza a pericoli continui, mantiene in essa un elemento

di insicurezza e produce quella mescolanza continua e sempre cangiante di miseria e ricchezza, indigenza e prosperità, il muta-mento in genere (p. 51).

Si confronti l'intera sezione dedicata a "La società civile" (pp. 51-2), abbozzata secondo le linee fondamentali della filosofia del diritto di Hegel. La società civile nel suo contrasto con lo Stato politico è riconosciuta come necessaria, poiché viene rico-nosciuto necessario lo Stato politico.

L'emancipazione politica è certamente un grande progres-so: non è certo la forma definitiva dell'emancipazione umana in generale, è invece l'ultima forma dell'emancipazione umana all'interno dell'odierno ordine mondiale. Ben inteso: noi parlia-mo qui di emancipazione reale, pratica.

L'uomo si emancipa politicamente dalla religione confinan-dola dal diritto pubblico al diritto privato. Essa non è più lo spi-rito dello Stato, nel quale l'uomo — anche se in modo limitato, sotto forma particolare e in una sfera particolare — si comporta come ente generico, in comunità con altri uomini; essa è divenu-ta lo spirito della società civile, della sfera dell'egoismo, del bel-lum omnium contra omnes. Non è più l'essenza della comunità, ma l'essenza della differenza. Essa è diventata l'espressione della separazione dell'uomo dalla sua comunità, da sé e dagli altri uomini, ciò ch'essa era originariamente. Essa è ancora soltanto il riconoscimento astratto del particolare rovesciamento, del capriccio privato, dell'arbitrio. L'infinita frantumazione della reli-gione nell'America del Nord, ad esempio, già esternamente le conferisce la forma di una faccenda puramente individuale. Essa è stata relegata nel novero degli interessi privati ed esiliata dalla comunità in quanto comunità. Ma non ci si inganni circa i limiti dell'emancipazione politica. La scissione dell'uomo in uomo pubblico e uomo privato, la dislocazione della religione dallo Sta-to alla società civile, non sono una tappa, sono il compimento dell'emancipazione politica, che pertanto non sopprime né tan-to meno tenta di sopprimere la reale religiosità dell'uomo.

La scomposizione dell'uomo in ebreo e cittadino, in prote-stante e cittadino, in uomo religioso e cittadino, questa scompo-sizione non è una smentita contro la cittadinanza, non è un modo di eludere l'emancipazione politica, è l'emancipazione politica stessa, è il modo politico di emanciparsi dalla religione.

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Certamente: in tempi in cui lo Stato politico in quanto Stato politico viene generato con violenza dalla società civile, in cui l'autoliberazione umana tende a compiersi sotto la forma di autoliberazione politica, lo Stato può e deve procedere fino alla soppressione della religione, fino all'annientamento della religio-ne, ma solo così come procede alla soppressione della proprietà privata, attraverso l'imposizione di un massimo, con la confisca, attraverso l'imposta progressiva, così come procede alla sop-pressione della vita con la ghigliottina. Nei momenti in cui la vita politica è particolarmente sicura di sé, essa cerca di schiac-ciare il proprio presupposto, la società civile e i suoi elementi, e di costituirsi come la reale e non contraddittoria vita di genere dell'uomo. Ciò è tuttavia possibile solo per mezzo di una violen-ta contraddizione con le sue proprie condizioni di vita, solo in quanto dichiara permanente la rivoluzione, sicché il dramma politico finisce altrettanto necessariamente con la restaurazione della religione, della proprietà privata e di tutti gli elementi della società civile, così come la guerra finisce con la pace.

Il cosiddetto Stato cristiano, che riconosce il cristianesimo come proprio fondamento, come religione di Stato e si compor-ta perciò in modo esclusivo verso le altre religioni, non è certo lo Stato cristiano compiuto; lo è piuttosto lo Stato ateo, lo Stato democratico, lo Stato che confina la religione tra gli altri elemen-ti della società civile. Lo Stato che è ancora teologo, che si pro-fessa ancora ufficialmente cristiano, che non osa ancora procla-marsi Stato, non è ancora riuscito a esprimere in forma mondana e umana, nella sua realtà in quanto Stato, il fondamento umano, la cui espressione esaltata è il cristianesimo. Il cosiddetto Stato cristiano è semplicemente il non-Stato, poiché non il cristianesi-mo in quanto religione, ma soltanto il substrato umano della reli-gione cristiana può realizzarsi in opere realmente umane.

Il cosiddetto Stato cristiano è la negazione cristiana dello Stato, ma non è assolutamente la realizzazione statale del cristia-nesimo. Lo Stato che riconosce ancora il cristianesimo nella for-ma della religione, non lo riconosce ancora nella forma dello Stato, poiché si rapporta ancora religiosamente alla religione, cioè non è l'attuazione reale del fondamento umano della reli-gione, poiché si richiama ancora alla irrealtà, alla figura immagi-naria di questo nocciolo umano. Il cosiddetto Stato cristiano è lo Stato incompiuto, e la religione cristiana funge da completa-

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mento e santificazione della sua incompiutezza. La religione, quindi, diventa per esso necessariamente un mezzo, ed esso è lo Stato dell'ipocrisia. È ben diverso se lo Stato compiuto, a causa della carenza insita nell'essenza universale dello Stato, annovera la religione tra i propri Presupposti, o se invece lo Stato incom-piuto, per la carenza insita nella sua esistenza particolare, in quanto Stato difettoso, dichiara la religione come proprio fonda-mento. Nell'ultimo caso la religione diviene politica incompiuta. Nel primo caso si mostra nella religione l'incompiutezza stessa della politica compiuta. Il cosiddetto Stato cristiano ha bisogno della religione cristiana per potersi compiere come Stato. Lo Sta-to democratico, lo Stato reale, non ha bisogno della religione per il proprio compimento politico. Può anzi fare astrazione dalla religione poiché in esso il fondamento umano della religio-ne è attuato in forma mondana. Il cosiddetto Stato cristiano, viceversa, si rapporta politicamente alla religione e religiosamen-te alla politica. Se riduce ad apparenza le forme statali, allora riduce ugualmente ad apparenza anche la religione.

Per illustrare questa opposizione, esaminiamo la costruzio-ne baueriana dello Stato cristiano, una costruzione che è deriva-ta dalla concezione dello Stato cristiano-germanico.

Recentemente, scrive Bauer, per dimostrare l'impossibilità o la non esistenza di uno Stato cristiano, si è fatto molto spesso riferi-mento a quei precetti del Vangelo che non solo non vengono seguiti dallo Stato, ma che esso non può nemmeno seguire, se non vuole dissolversi completamente. Ma la faccenda non può essere liquidata così semplicemente. Che cosa impongono quei precetti evangelici? La sovrannaturale rinunzia a se stessi, la sottomissione all'autorità della rivelazione, l'allontanamento dallo Stato, la sop-pressione dei rapporti secolari. Ebbene, lo Stato cristiano richiede e mette in opera tutto questo. Esso si è appropriato dello spirito del Vangelo, e se non lo rende con gli stessi termini del Vangelo, ciò dipende dal fatto che esprime questo spirito nelle forme dello Stato, vale a dire in forme prese a prestito dall'essenza dello Stato in questo mondo, che però, nella rigenerazione religiosa che devo-no subire, sono ridotte a mera parvenza. Lo Stato cristiano è l'allontanamento dallo Stato, allontanamento che, per attuarsi, si serve delle forme statali (p. 97)164.

Bauer procede poi mostrando come il popolo dello Stato cristia-no sia solo un non-popolo, non abbia più una volontà propria,

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ma possegga la sua vera esistenza nel capo al quale é assoggetta-to e che, tuttavia, originariamente e per sua natura, gli è estra-neo, vale a dire che è assegnato da Dio e gli è sopraggiunto sen-za alcun contributo da parte sua; egli mostra poi come le leggi di questo popolo non siano opera sua, bensì rivelazioni positive, come il suo capo supremo abbia bisogno di intermediari privile-giati nei confronti del popolo autentico, della massa, e come questa stessa massa si disintegri in un gran numero di cerchie particolari messe in forma e determinate dal caso, cerchie che si differenziano per i loro interessi, per le loro passioni e i loro pre-giudizi particolari, e che, in quanto privilegio, ricevono il per-messo di isolarsi reciprocamente le une dalle altre, ecc. (p. 98).

Ma Bauer stesso dice:

La politica, se non deve essere nient'altro che religione, non può essere politica, allo stesso modo della pulizia delle pentole che, se è considerata una faccenda religiosa, non può essere considerata come una faccenda domestica (p. 148).

Ma nello Stato cristiano-germanico la religione è una «faccenda domestica», così come la «faccenda domestica» è religione. Nel-lo Stato cristiano-germanico il dominio della religione è la reli-gione del dominio.

La separazione dello «spirito del Vangelo» dalla «lettera del Vangelo» è un atto irreligioso. Lo Stato che lascia parlare il Vangelo con le parole della politica, cioè con parole diverse da quelle dello Spirito Santo, compie un sacrilegio, se non agli occhi degli uomini, sicuramente ai suoi stessi occhi religiosi. Allo Stato che riconosce il cristianesimo come sua norma supre-ma e la Bibbia come sua Charte, si devono contrapporre le paro-le della Sacra Scrittura, perché la Scrittura è sacra fino alla lette-ra. Questo Stato, come pure l'immondizia umana sulla quale si fonda, cade in una dolorosa contraddizione, insanabile dal pun-to di vista della coscienza religiosa, qualora lo sí richiami a quei precetti del Vangelo che esso «non solo non segue, ma che non può nemmeno seguire, se non vuole dissolversi completamente come Stato». E perché non vuole dissolversi completamente? Esso stesso non può rispondere a questa domanda, né a sé né ad altri. Dinanzi alla sua propria coscienza, lo Stato cristiano ufficia-

le è un dover essere la cui realizzazione è irraggiungibile e soltan-to mentendo a se stesso può constatare la realtà della propria esistenza; esso rimane perciò sempre un oggetto di dubbio, un oggetto oscuro e problematico. La critica ha dunque pienamen-te ragione nel portare lo Stato che si appella alla Bibbia a una profonda confusione, nella quale esso stesso non sa più se è una fantasia o una realtà, nella quale l'infamia dei suoi scopi monda-ni, per i quali la religione serve da copertura, entra in un conflit-to insolubile con l'onestà della sua coscienza religiosa, alla quale la religione appare come lo scopo del mondo. Questo Stato può riscattarsi dal suo tormento interiore soltanto diventando lo sgherro della chiesa cattolica. Di fronte ad essa, che dichiara il potere mondano proprio corpo servente, lo Stato è impotente, impotente il potere mondano che afferma di essere la signoria dello spirito religioso.

Nel cosiddetto Stato cristiano ha bensì valore l' estraneazio-ne , ma non l'uomo. L'unico uomo che ha valore, il re, è un essere specificamente distinto dagli altri uomini e dunque un essere ancora religioso, direttamente collegato al cielo e a Dio. I rap-porti qui dominanti sono ancora rapporti di fede. Lo spirito reli-gioso non è dunque ancora realmente mondanizzato.

Ma lo spirito religioso non può realmente divenire monda-no: che cos'è infatti esso stesso se non la forma non mondana di un livello dello sviluppo dello spirito umano? Lo spirito religio-so può essere realizzato solo in quanto il livello dello sviluppo dello spirito umano, di cui esso è l'espressione religiosa, si pre-senta e si costituisce nella sua forma mondana. Ciò accade nello Stato democratico. Non il cristianesimo, bensì il fondamento umano del cristianesimo è il fondamento di questo Stato. La religione rimane la coscienza ideale, non mondana, dei suoi membri, poiché essa è la forma ideale del livello dello sviluppo umano che in esso si attua.

I membri dello Stato politico sono religiosi a causa del dualismo tra vita individuale e vita di genere, tra vita della società civile e vita politica, sono religiosi in quanto l'uomo con-sidera la vita statale, posta al di là della sua reale individualità, come la sua vera vita, sono religiosi poiché la religione è qui lo spirito della società civile, l'espressione della separazione e dell'allontanamento dell'uomo dall'uomo. La democrazia politi-ca è cristiana perché in essa l'uomo, non soltanto un uomo, ma

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ogni uomo vale come essere sovrano, come essere supremo; si tratta però dell'uomo nella sua forma rozza e asociale, l'uomo nella sua esistenza casuale, l'uomo così com'è, corrotto dall'inte-ra organizzazione della nostra società, l'uomo perduto a se stes-so, alienato, in balia di rapporti ed elementi disumani, in una parola, l'uomo che non è ancora un reale ente generico. La for-ma fantastica, il sogno, il postulato del cristianesimo, cioè la sovranità dell'uomo, ma in quanto ente estraneo e distinto dall'uomo reale, nella democrazia è realtà e presenza sensibile, massima mondana.

Nella democrazia perfetta la stessa coscienza religiosa e teologica è tanto più religiosa e teologica quanto più è apparen-temente priva di significato politico, priva di scopi terreni, una faccenda dell'animo isolato dal mondo, espressione di grettezza intellettuale, prodotto dell'arbitrio e della fantasia, insomma una vita realmente ultraterrena. Il cristianesimo raggiunge qui l'espressione pratica del proprio significato religioso-universale in quanto le più disparate concezioni del mondo si raccolgono l'una accanto all'altra nella forma del cristianesimo; inoltre esso non pone ad altri neppure più l'esigenza del cristianesimo, ma solo quella della religione in genere, di una qualsiasi religione (cfr. il citato scritto di Beaumont). La coscienza religiosa si bea della ricchezza delle opposizioni religiose e della varietà delle religioni.

Abbiamo dunque mostrato che l'emancipazione politica dalla religione lascia sussistere la religione, anche se non una religione privilegiata. La contraddizione in cui si trova il seguace di una religione particolare con la sua qualità di cittadino, è solo una parte dell'universale contraddizione mondana tra lo Stato politico e la società civile. La perfezione dello Stato cristiano è lo Stato che si riconosce come Stato e fa astrazione dalla religione dei suoi membri. L'emancipazione dello Stato dalla religione non è l'emancipazione dell'uomo reale dalla religione.

Agli ebrei non diciamo dunque con Bauer: voi non potete essere emancipati politicamente senza emanciparvi radicalmente dall'ebraismo. Piuttosto diciamo loro: poiché potete essere emancipati politicamente senza abbandonare completamente e coerentemente l'ebraismo, per questo l'emancipazione politica stessa non è l'emancipazione umana. Se voi ebrei volete essere emancipati politicamente, senza emanciparvi umanamente, il

limite e la contraddizione non stanno solo in voi, ma nell'essenza e nella categoria dell'emancipazione politica. Se siete prigionieri di questa categoria, è perché partecipate dell'universale pregiu-dizio. Così come lo Stato agisce in modo evangelico quando, sebbene Stato, si comporta cristianamente verso l'ebreo, così l'ebreo agisce in modo politico quando, sebbene ebreo, esige i diritti del cittadino.

Ma se l'uomo, sebbene sia ebreo, può essere emancipato politicamente e può ricevere i diritti del cittadino, può preten- dere e ottenere i cosiddetti diritti dell'uomo? Bauer lo nega.

La questione è se l'ebreo, in quanto tale, vale a dire l'ebreo che riconosce che la sua vera natura lo costringe a vivere eternamente isolato dagli altri, sia capace di ricevere e di concedere ad altri i diritti umani universali. [...] L'idea dei diritti dell'uomo è stata scoperta dal mondo cristiano solo nel secolo scorso. Essa non è innata nell'uomo, ma viene piuttosto conquistata nella lotta contro le tradizioni storiche nelle quali l'uomo era finora cresciuto. I diritti dell'uomo non sono quindi un dono della natura, un dono della storia passata, ma il premio della battaglia contro l'accidentalità della nascita e i privi-legi che la storia ha finora lasciato in eredità di generazione in generazione. Sono il risultato della formazione, e li può possedere solo colui che se li è conquistati e meritati. [...] può l'ebreo possedere realmente i diritti umani? Finché resta ebreo, l'essenza limitata che ne fa un ebreo deve separarlo dai non-ebrei e vincere sull'essenza umana che lo dovrebbe unire come uomo agli uomini. Con questa separazione egli dichiara che l'essenza particolare che fa di lui un ebreo è la sua vera e suprema essenza, dinanzi alla quale l'essenza dell'uomo deve piegarsi. Allo stesso modo il cristiano, in quanto cristiano, non può conce-dere i diritti umani (pp. 61-2).

L'uomo, secondo Bauer, deve sacrificare il «privilegio della fede» per poter ricevere i diritti universali dell'uomo. Consideriamo per un istante i cosiddetti diritti dell'uomo, e cioè i diritti dell'uomo nella loro autentica forma, nella forma che possiedo-no presso i loro scopritori, i Nordamericani e i Francesi! In parte questi diritti dell'uomo sono diritti politici, diritti che vengono esercitati solo nella comunità con altri. La partecipazione alla comunità, cioè alla comunità politica, alla statualità, costituisce il loro contenuto. Essi appartengono alla categoria della libertà politica, alla categoria dei diritti del cittadino, che, come abbia-

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mo visto, non presuppongono assolutamente la soppressione conseguente e positiva della religione, e quindi neppure dell'ebraismo. Rimane da considerare l'altra parte dei diritti dell'uomo, i droits de l'homme in quanto si distinguono dai droits du citoyen.

Fra questi diritti si trova la libertà di coscienza, il diritto di praticare un qualsivoglia culto. Il privilegio della fede viene espressamente riconosciuto o come diritto dell'uomo, o come la conseguenza di un diritto dell'uomo, della libertà.

Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, 1791, art. 10: «Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religio-se». Nel titolo I della Costituzione del 1791 viene garantito come diritto dell'uomo: «La libertà di esercitare il culto religioso al qua-le aderisce». Dichiarazione dei diritti dell'uomo ecc., 1793, annovera tra i diritti dell'uomo, art. 7: «Il libero esercizio dei culti». Anzi, in relazione al diritto di manifestare pubblicamente i propri pensieri e le pro-prie opinioni, di riunirsi, di praticare il proprio culto, è perfino detto: «La necessità di enunciare questi diritti presuppone o la presenza o il ricordo recente del dispotismo». Si confronti la Costituzione del 1795, titolo XIV, art. 354. Costituzione della Pennsylvania, art. 9, § 3: «Tutti gli uomini han-no ricevuto dalla natura l'imprescrittibile diritto di adorare l'Onnipotente secondo l'ispirazione della propria coscienza, e nessuno può essere legalmente costretto ad aderire, a istituire o sostenere contro la sua volontà alcun culto o ministero religioso. In nessun caso l'autorità umana ha la potestà di intervenire nelle questioni di coscienza e di controllare le forze dell'anima». Costituzione del New-Hampshire, articoli 5 e 6: «Dei diritti natu-rali alcuni sono per loro natura inalienabili, poiché non v'è alcun equivalente. Fra questi rientrano i diritti di coscienza» (Beau-mont, op. cit., pp. 213-214).

L'inconciliabilità della religione con i diritti dell'uomo è tanto poco insita nel concetto dei diritti dell'uomo che il diritto di essere religioso, di essere in qualsiasi modo religioso, di praticare il culto della propria religione particolare, viene anzi espressa-mente annoverato tra i diritti dell'uomo. Il privilegio della fede è un diritto universale dell'uomo.

I droits de l'homme, i diritti dell'uomo, vengono in quanto tali distinti dai droits du citoyen, dai diritti del cittadino. Chi è l'homme distinto dal citoyen? Nient'altro che il membro della

società civile. Perché il membro della società civile viene chiama-to «uomo», semplicemente uomo, perché i suoi diritti vengono chiamati diritti dell'uomo? Come spieghiamo questo fatto? A partire dal rapporto dello Stato politico con la società civile, a partire dall'essenza dell'emancipazione politica.

Anzitutto costatiamo il fatto che i cosiddetti diritti dell'uomo, i droits de l'homme, in quanto distinti dai droits du citoyen, non sono altro che i diritti del membro della società civi-le, cioè dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità. La costituzione più radicale, la Costituzione del 1793 può affermare:

Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Articolo 2. Questi diritti ecc. (i diritti naturali e imprescrittibili) sono: l'uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà.

In che consiste la liberte?

Articolo 6. «La libertà è il potere che appartiene all'uomo di fare tutto ciò che non nuoce ai diritti degli altri», oppure, secondo la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1791": «La libertà consi-ste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri».

La libertà è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il quale ciascuno può muo-versi senza danneggiare gli altri è stabilito dalla legge, come il confine tra due campi è stabilito per mezzo di un cippo. Si tratta della libertà dell'uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. Perché, secondo Bauer, l'ebreo è incapace di ricevere i diritti dell'uomo?

Finché resta ebreo, l'essenza limitata che fa di lui un ebreo deve separarlo dai non-ebrei e vincere sull'essenza umana che lo dovrebbe unire come uomo agli uomini.

Ma il diritto dell'uomo alla libertà si basa non sul legame dell'uomo con l'uomo, ma piuttosto sull'isolamento dell'uomo dall'uomo. È il diritto a tale isolamento, il diritto dell'individuo limitato, limitato in se stesso.

L'utilizzazione pratica del diritto dell'uomo alla libertà è il diritto dell'uomo alla proprietà privata.

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In che consiste il diritto dell'uomo alla proprietà privata?

Articolo 16. (Costituzione del 1793): «Il diritto di proprietà è quello che appartiene ad ogni cittadino di godere e disporre a suo piacimento (à son gré) dei suoi beni, delle sue rendite, del frutto del suo lavoro e della sua operosità».

Il diritto dell'uomo alla proprietà privata è dunque il diritto di godere a proprio arbitrio (à son gré), senza considerare gli altri uomini, indipendentemente dalla società, del proprio patrimo-nio e di disporre di esso, il diritto dell'egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costitui-scono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell'altro uomo non già la propria realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà. Ma essa proclama innanzitut-to il diritto dell'uomo

di godere e di disporre a suo piacimento dei suoi beni, delle sue rendite, del frutto del suo lavoro e della sua operosità.

Restano ancora gli altri diritti dell'uomo, l' égalité e la sareté. L' égalité, qui nel suo significato non politico, non è altro

che l'uguaglianza della liberté sopra descritta, e cioè che ogni uomo viene ugualmente considerato come una tale monade che poggia su se stessa. La Costituzione del 1795 definisce così il concetto di questa uguaglianza, in conformità al suo significato:

Articolo 3. (Costituzione del 1795): «L'uguaglianza consiste nel fatto che la legge è uguale per tutti, sia che protegga, sia che puni sca»

E la sarete?

Articolo 8. (Costituzione del 1793: «La sicurezza consiste nella protezione accordata dalla società ad ognuno dei suoi membri per la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua pro-prietà».

La sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto della polizia, secondo cui l'intera società esiste unica-mente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazio-

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ne della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà. In tal senso Hegel chiama la società civile: «Lo Stato della necessità e dell'intelletto»'65.

Col concetto di sicurezza la società civile non si leva al di sopra del suo egoismo. La sicurezza è piuttosto la garanzia del suo egoismo.

Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoista, l'uomo in quanto membro della società civile, cioè l'individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato, sul suo arbitrio privato e isolato dalla comunità. Poiché in essi l'uomo è ben lungi dall'essere inteso come ente generico, la stes-sa vita di genere, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come la limitazione della loro indipenden-za originaria. L'unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica.

E già piuttosto strano che un popolo, che, appunto, inizia appena a liberarsi, ad abbattere tutte le barriere tra i differenti membri del popolo e a fondare una comunità politica, che un tale popolo proclami solennemente ("Dichiarazione del 1791") il diritto dell'uomo egoista, isolato dal suo simile e dalla comu-nità, e ribadisca addirittura questa proclamazione in un momen-to in cui soltanto il più eroico sacrificio può salvare la nazione, una proclamazione che viene quindi sovranamente richiesta in un momento in cui il sacrificio di tutti gli interessi della società civile dev'essere posto all'ordine del giorno e l'egoismo dev'essere punito come un delitto ("Dichiarazione dei diritti dell'uomo ecc. del 1793"). Questa circostanza diventa ancora più strana se consideriamo che la qualità del cittadino e la comu-nità politica vengono addirittura degradate dagli emancipatori politici a mero mezzo per preservare questi cosiddetti diritti dell'uomo, e che pertanto il citoyen viene considerato al servizio dell'homme egoista, che la sfera nella quale l'uomo si comporta come ente collettivo viene degradata al di sotto della sfera nella quale esso si comporta come ente parziale, infine che non l'uomo come citoyen, bensì l'uomo come bourgeois viene consi-derato l'uomo vero e proprio.

Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo ("Dichiarazione dei diritti ecc.

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Page 98: B. Bauer, K. Marx, La Questione Ebraica

del 1791", articolo 2). Il governo è istituito per garantire all'uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili ("Dichiarazione ecc. del 1793", articolo 1).

Così, perfino nei momenti di florido entusiasmo giovanile, esal-tato dalla furia degli eventi, la vita politica si dimostra essere un puro mezzo, il cui scopo è la vita della società civile. In effetti, la sua prassi rivoluzionaria si trova in flagrante contraddizione con la sua teoria. Mentre, ad esempio, la sicurezza viene dichiarata un diritto dell'uomo, la violazione del segreto epistolare è posta pubblicamente all'ordine del giorno. Mentre la «libertà indefini-ta della stampa» ("Costituzione del 1793", articolo 122) viene garantita come conseguenza del diritto dell'uomo alla libertà individuale, la libertà di stampa viene completamente annullata, poiché la «libertà di stampa non deve essere permessa quando comprometta la libertà pubblica» (Robespierre jeune, "Storia parlamentare della rivoluzione francese" di Buchez e Roux, vol. 28, p. 159)", il che quindi significa: il diritto umano alla libertà cessa di essere un diritto non appena entra in conflitto con la vita politica, mentre, secondo la teoria, la vita politica è soltanto la garanzia dei diritti dell'uomo, dei diritti dell'uomo individua-le, e quindi deve essere abbandonata non appena contraddice il suo scopo, questi diritti dell'uomo. Ma la prassi è soltanto l'ecce-zione, e la teoria è la regola. Volendo poi considerare la stessa prassi rivoluzionaria come la giusta posizione del rapporto, rimane pur sempre da risolvere l'enigma del perché nella coscienza degli emancipatori politici il rapporto venga capovol-to, lo scopo appaia come mezzo e il mezzo come scopo. Questa illusione ottica della loro coscienza sarebbe ancor sempre il medesimo enigma, ancorché un enigma psicologico, teorico.

L'enigma si risolve semplicemente. L'emancipazione politica è al tempo stesso la dissoluzione

della vecchia società, sulla quale poggia l'essenza dello Stato straniata dal popolo, il potere del sovrano. La rivoluzione politi-ca è la rivoluzione della società civile. Qual era il carattere della vecchia società? Una sola parola la caratterizza: la feudalità. La vecchia società civile aveva immediatamente un carattere politico, vale a dire che gli elementi della vita civile, come ad esempio la proprietà, la famiglia o il tipo di lavoro, erano, nella forma della signoria fondiaria, del ceto e della corporazione,

innalzati a elementi della vita statale. In tale forma essi determi-navano il rapporto del singolo individuo verso la totalità dello Stato, vale a dire il suo rapporto politico, cioè il suo rapporto di separazione ed esclusione delle altre parti costitutive della società. Quell'organizzazione della vita del popolo, infatti, non elevava il possesso o il lavoro ad elementi sociali, ma piuttosto portava a compimento la loro separazione dalla totalità statale e li costituiva in società particolari all'interno della società. Ma così le funzioni e le condizioni vitali della società civile rimane-vano ancor sempre politiche, anche se politiche nel senso della feudalità, vale a dire che escludevano l'individuo dalla totalità statale, trasformavano il rapporto particolare della sua corpora-zione con la totalità dello Stato nel suo proprio rapporto univer-sale con la vita del popolo, così come la sua determinata attività e situazione civile nella sua attività e situazione universale. Come conseguenza di questa organizzazione, l'unità dello Stato, come coscienza, volontà e attività dell'unità dello Stato, il potere uni-versale dello Stato, appare altrettanto necessariamente come affare particolare di un sovrano separato dal popolo e dei suoi servitori.

La rivoluzione politica che rovesciò questo potere sovrano e innalzò gli affari dello Stato ad affari del popolo, che costituì lo Stato politico come affare universale, cioè come Stato reale, fece necessariamente a pezzi tutti i ceti, le corporazioni, le gilde, i privilegi, tutte espressioni della separazione tra il popolo e la sua comunità. La rivoluzione politica soppresse con ciò il caratte-re politico della società civile. Essa spezzò la società civile nelle sue parti costitutive elementari, da un lato gli individui, dall'altro gli elementi materiali e spirituali che costituiscono il contenuto vitale, la situazione civile di questi individui. Essa liberò lo spirito politico, che era anch'esso diviso, disgregato e disperso nei vicoli ciechi della società feudale; lo raccolse da questa dispersione, lo liberò dalla commistione con la vita civile e lo costituì come la sfera della comunità, dell'universale attività del popolo, in ideale indipendenza da quegli elementi particolari della vita civile. Le attività vitali determinate e le determinate condizioni di vita decaddero a mero significato individuale. Non formarono più il rapporto universale dell'individuo con la totalità dello Stato. L'interesse pubblico in quanto tale divenne piuttosto l'affare universale di ciascun individuo, e la funzione

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politica divenne la sua funzione universale. Solo che il compimento dell'idealismo dello Stato fu con-

temporaneamente il compimento del materialismo della società civile. La soppressione del giogo politico fu al tempo stesso la soppressione dei legami che tenevano vincolato lo spirito egoista della società civile. L'emancipazione politica fu al tempo stesso l'emancipazione della società civile dalla politica, dalla parvenza stessa di un contenuto universale.

La società feudale fu risolta nel suo fondamento, nell'uomo. Ma nell'uomo che realmente costituiva il suo fonda-mento, nell'uomo egoista.

Quest'uomo, il membro della società civile, è ora la base, il presupposto dello Stato politico. Come tale è da esso riconosciu-to nei diritti dell'uomo.

Ma la libertà dell'uomo egoista e il riconoscimento di que-sta libertà sono piuttosto il riconoscimento del movimento sfre-nato degli elementi spirituali e materiali che costituiscono il suo contenuto vitale.

L'uomo non fu quindi liberato dalla religione, ricevette la libertà religiosa. Non fu liberato dalla proprietà. Ricevette la libertà della proprietà. Non fu liberato dall'egoismo del mestie-re, ricevette la libertà di mestiere.

La costituzione dello Stato politico e la dissoluzione della società civile in individui indipendenti — il cui rapporto è il dirit-to, così come il rapporto tra gli uomini appartenenti ai ceti e alle corporazioni era il privilegio — si compie in un unico e medesimo atto. L'uomo, in quanto membro della società civile, l'uomo non politico, appare però necessariamente come l'uomo naturale. I droits de l'homme sí presentano come droits naturels, infatti l'attività autocosciente si concentra nell'atto politico. L'uomo egoistico è il risultato passivo, semplicemente scaturito dalla società dissolta, oggetto della certezza immediata, quindi oggetto naturale. La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste stesse parti né sotto-porle a critica. Essa si comporta con la società civile, con il mon-do dei bisogni, del lavoro, degli interessi privati, del diritto pri-vato, come con il fondamento della propria esistenza, come con un presupposto non ulteriormente fondato, e perciò come con la sua base naturale. L'uomo infine, in quanto è membro della società civile, è rappresentato come l'uomo autentico, come

l'homme distinto dal citoyen, poiché egli è l'uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l'uomo politi-co è soltanto l'uomo astratto e artificiale, l'uomo come persona allegorica, morale. L'uomo reale è riconosciuto solo nella figura dell'individuo egoista, l'uomo vero solo nella figura del citoyen astratto.

Rousseau descrive con esattezza l'astrazione dell'uomo politico:

Chi osa intraprendere l'organizzazione di un popolo deve sentirsi capace di mutare, per così dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e autonomo, in parte di un tutto più grande, da cui quest'individuo riceva in qualche modo la vita e l'essere, [...]di sostituire un'esistenza par-ziale e morale all'esistenza fisica e indipendente [...]. Bisogna, in una parola, ch'egli tolga all'uomo le forze che gli son proprie, per dargliene altre di estranee e delle quali non possa far uso senza l'altrui aiuto (J. J. Rousseau, Il contratto sociale, libro II, cap. 7).

Ogni emancipazione è un ricondurre il mondo umano, i rapporti umani all'uomo stesso.

L'emancipazione politica è la riduzione dell'uomo da un lato a membro della società civile, all'individuo egoista indipen-dente, dall'altro al cittadino, alla persona morale.

Solo quando il reale uomo individuale riassume in sé il cit-tadino astratto, e come uomo individuale, nella sua vita empiri-ca, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è divenuto ente generico167, soltanto quando l'uomo ha ricono-sciuto e organizzato le sue «forces propres» come forze sociali, e perciò non separa più da sé la forza sociale nella figura della for-za politica, soltanto allora l'emancipazione umana è compiuta.

II. BRUNO BAUER, LA CAPACITÀ DI DIVENTARE LIBERI DEGLI EBREI E DEI

CRISTIANI DI OGGI, IN EINUNDZWANZIG BODEN, PP. 56-71

In questa forma Bauer tratta il rapporto della religione ebraica e cristiana, nonché il loro rapporto con la critica. Il loro rapporto con la critica è il loro rapporto con «la capacita di diventare liberi».

Ne consegue:

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Il cristiano deve superare solo un gradino, quello della propria reli-gione, per abbandonare la religione in genere», e quindi per diventa-re libero, «l'ebreo invece deve rompere non solo con la sua essenza ebraica, ma anche con lo sviluppo del compimento della sua religio-ne, con uno sviluppo che gli è rimasto estraneo (pp. 171-2).

Bauer, dunque, trasforma qui la questione dell'emancipazione degli ebrei in una questione puramente religiosa. Il dubbio teologi-co: chi ha maggiore possibilità di salvarsi, l'ebreo o il cristiano? si ripropone in forma illuminata: chi dei due è maggiormente capace di emancipazione? Certo non ci si domanda più: è l'ebraismo o il cristianesimo che rende liberi? ma piuttosto: che cosa rende più liberi, la negazione dell'ebraismo o la negazione del cristianesimo?

Se vogliono diventare liberi, gli ebrei non devono professare il cri-stianesimo, ma il cristianesimo dissolto, la religione dissolta in gene-re, vale a dire l'illuminismo, la critica e il suo risultato, la libera uma-nità (p. 170).

Per gli ebrei si tratta pur sempre di fare professione di fede, ma non più di professare il cristianesimo, bensì il cristianesimo dissolto.

Bauer richiede agli ebrei di rompere con l'essenza della reli-gione cristiana, una richiesta che, come dice egli stesso, non emerge dallo sviluppo dell'essenza ebraica.

Dato che nelle conclusioni della Questione ebraica Bauer ave-va concepito l'ebraismo solo come la grossolana critica religiosa del cristianesimo, conferendogli quindi un significato "soltanto" reli-gioso, c'era da aspettarsi che anche l'emancipazione degli ebrei si sarebbe trasformata in un atto filosofico-teologico.

Bauer considera l'essenza ideale e astratta dell'ebreo, la sua religione, come la sua intera essenza. A ragione perciò conclude: «L'ebreo non dà nulla all'umanità quando contravviene per sé alla sua legge limitata», quando sopprime tutto il suo ebraismo (p. 165).

Il rapporto tra gli ebrei e i cristiani diviene quindi il seguente: l'unico interesse del cristiano all'emancipazione dell'ebreo consiste in un interesse universalmente umano, un interesse teoretico. L'ebraismo è un fatto oltraggioso per l'occhio religioso del cristia-no. Non appena il suo occhio cessa di essere religioso, questo fatto cessa di essere oltraggioso. In sé e per sé l'emancipazione dell'ebreo non è affare del cristiano.

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L'ebreo, al contrario, per liberarsi, deve compiere non solo il suo proprio lavoro, ma anche quello del cristiano, la Critica dei sinottici, la Vita di Gesù168 ecc.

Questo è affar loro: determineranno da sé il proprio destino; ma la storia non si fa prendere in giro (p. 171).

Noi cerchiamo di rompere la formulazione teologica della questio-ne. La questione della capacità dell'ebreo di emanciparsi si trasfor-ma per noi nel seguente quesito: quale particolare elemento sociale deve essere soppresso per superare l'ebraismo? Infatti la capacità di emanciparsi dell'ebreo di oggi si identifica con il rapporto tra l'ebraismo e l'emancipazione del mondo di oggi. Tale rapporto si delinea necessariamente a partire dalla particolare posizione dell'ebraismo nel mondo servile di oggi.

Consideriamo il reale ebreo mondano, e non l'ebreo del shab-bat, come fa Bauer, ma l'ebreo di tutti i giorni.

Cerchiamo il segreto dell'ebreo non nella sua religione, bensì cerchiamo il segreto della religione nell'ebreo reale.

Qual è il fondamento mondano dell'ebraismo? Il bisogno pratico, l' egoismo.

Qual è il culto mondano dell'ebreo? Il mercanteggiare. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro.

Ebbene! L'emancipazione dal mercanteggiamento e dal dena-ro, dunque dall'ebraismo pratico e reale, sarebbe l'autoemancipa-zione della nostra epoca.

Un'organizzazione della società che eliminasse i presupposti del mercanteggiamento, dunque la possibilità di esso, avrebbe reso impossibile l'ebreo. La sua coscienza religiosa si dissolverebbe come fumo nel reale soffio vitale della società. D'altronde, se l'ebreo riconosce l'inconsistenza di questa sua essenza pratica e lavora al suo superamento, lavora, a partire dal suo sviluppo passa-to, alla vera emancipazione umana e si volge contro la più alta espressione pratica dell'autoestraneazione umana.

Noi riconosciamo dunque nell'ebraismo un universale e attuale elemento antisociale, il quale, attraverso lo sviluppo storico al quale gli ebrei, per questo aspetto negativo, hanno collaborato con zelo, è stato sospinto fino al suo attuale vertice, un vertice rag-giunto il quale deve necessariamente dissolversi.

L'emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è

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l'emancipazione dell'umanità dall'ebraismo. L'ebreo si è già emancipato in modo ebraico.

stero religioso è una vera e propria carriera industriale (Beaumont, op. cit., pp. 185, 186).

L'ebreo, che ad esempio a Vienna è semplicemente tollerato, deter-mina, con la sua potenza finanziaria, il destino di tutto l'impero. L'ebreo, che nel più piccolo Stato tedesco può essere senza diritti, decide le sorti dell'Europa. Mentre le corporazioni e le gilde si chiu-dono all'ebreo o non sono ancora ben disposte nei suoi confronti, la temerarietà dell'industria si fa beffe della caparbietà degli istituti medievali (B. Bauer, Questione ebraica, p. 153).

Non si tratta di un fatto sporadico. L'ebreo si è emancipato in modo ebraico non solo in quanto si è appropriato della potenza del denaro, ma anche perché il denaro, con lui o senza di lui, è diventato una potenza mondiale, e lo spirito pratico dell'ebreo è diventato lo spirito pratico dei popoli cristiani. Gli ebrei sí sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati ebrei.

Il pio e politicamente libero abitante della Nuova Inghilterra — riferi-sce ad esempio il colonnello Hamilton — è una specie di Laocoonte, che non fa nemmeno il più piccolo sforzo per liberarsi dai serpenti che lo avvincono. Mammona è il loro idolo, essi lo pregano non sol-tanto con le loro labbra, ma con tutte le forze del loro corpo e della loro anima. Ai loro occhi la terra non è altro che una Borsa, ed essi sono convinti di non avere quaggiù altra destinazione che quella di diventare più ricchi dei loro vicini. L'attività commerciale si è impos-sessata di tutti i loro pensieri, scambiarsi oggetti costituisce il loro unico svago. Quando viaggiano, portano con sé, sulla schiena, per così dire, la loro mercanzia e i loro affari, e non parlano d'altro che di interessi e guadagno. Se per un istante perdono d'occhio i loro affari, ciò accade soltanto per ficcare il naso in quelli degli altri

Per la verità il dominio pratico dell'ebraismo sul mondo cristiano, trova nel Nordamerica la propria normale e inequivocabile espres-sione nel fatto che l'annunzio stesso del Vangelo, la predicazione cristiana è diventata un articolo di commercio, e il commerciante fallito fa nel Vangelo come l'evangelista arricchito negli affari.

Colui che vedete a capo d'una rispettabile congregazione ha comin-ciato col fare il commerciante; essendogli andato male il commercio s'è fatto ministro di culto; quell'altro ha debuttato col sacerdozio, ma appena ha avuto a disposizione una certa somma di denaro ha abbandonato il pulpito per gli affari. Agli occhi di moltissimi il mini-

Secondo Bauer è

una falsità se, in teoria, vengono negati all'ebreo i diritti politici, mentre nella prassi dispone di un potere enorme ed esercita en gros l'influenza politica che gli viene invece ridotta in détail (Questione ebraica, p. 153).

La contraddizione in cui si trova la potenza politica pratica dell'ebreo con i suoi diritti politici, è la contraddizione della politi-ca con la potenza del denaro in genere. Mentre la prima sta ideal-mente al di sopra della seconda, di fatto ne è divenuta la serva.

L'ebraismo si è conservato accanto al cristianesimo, non sol-tanto come critica religiosa del cristianesimo, non soltanto come dubbio insito nell'origine religiosa del cristianesimo, ma anche perché lo spirito pratico-ebraico, l'ebraismo, si è mantenuto nella società cristiana, raggiungendo addirittura il suo massimo svilup-po. L'ebreo, che si trova nella società civile come membro parti-colare, è solo la manifestazione particolare dell'ebraismo della società civile.

L'ebraismo si è conservato non già malgrado la storia, bensì attraverso la storia.

Dalle sue proprie viscere la società civile genera continua-mente l'ebreo.

Qual era in sé e per sé il fondamento della religione ebraica? Il bisogno pratico, l'egoismo.

Il monoteismo dell'ebreo è perciò, nella realtà, il politeismo della molteplicità dei bisogni, un politeismo che trasforma in oggetto della legge divina persino la latrina. Il bisogno pratico, l'egoismo, è il principio della società civile, ed emerge chiaramente come tale non appena la società civile ha completamente generato lo Stato politico. Il Dio del bisogno pratico e dell'egoismo è il denaro.

Il denaro è il geloso Dio di Israele, di fronte al quale non può esistere nessun altro Dio. Il denaro avvilisce tutti gli dei dell'uomo e li trasforma in una merce. Il denaro è il valore universale, per sé costituito, di tutte le cose. Esso ha perciò spogliato il mondo intero, il mondo dell'uomo e la natura, del loro valore peculiare. Il denaro è l'essenza, estraniata dall'uomo, del suo lavoro e della sua esisten-

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za, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l'adora. Il Dio degli ebrei si è mondanizzato, è divenuto un Dio mon-

dano. La cambiale è il Dio reale dell'ebreo. Il suo Dio è solo la cambiale illusoria.

La concezione della natura acquisita sotto il dominio della proprietà privata e del denaro è il reale disprezzo, il degradamento pratico della natura, che esiste sì nella religione ebraica, ma solo come immaginazione.

In questo senso Thomas Miinzer afferma che è insopporta-bile

che tutte le creature siano diventate proprietà, i pesci nell'acqua, gli uccelli nell'aria, le piante sulla terra: anche la creatura dovrebbe esse-re liberai".

Ciò che nella religione ebraica resta astratto, il disprezzo della teo-ria, dell'arte, della storia, dell'uomo in quanto fine a se stesso, è il reale e cosciente punto di partenza, la virtù del capitalista. Lo stesso rapporto di genere, il rapporto tra uomo e donna ecc., diventa un oggetto di commercio! La donna è oggetto di scambio.

La chimerica nazionalità dell'ebreo è la nazionalità del com-merciante, del capitalista in genere.

L'infondata e assurda legge dell'ebreo è soltanto la caricatura religiosa di un diritto in genere e di una moralità assurda e priva di fondamento, dei riti meramente formali di cui si circonda il mondo dell'egoismo.

Anche qui il più alto rapporto dell'uomo è il rapporto legale, il rapporto con delle leggi che per lui hanno valore non in quanto leggi della sua propria volontà ed essenza, ma in quanto dominano e in quanto la trasgressione viene punita.

Il gesuitismo ebraico, lo stesso gesuitismo pratico che Bauer ravvisa nel Talmud, è il rapporto del mondo dell'egoismo con le leggi che lo dominano, la cui astuta elusione costituisce l'arte suprema di questo mondo.

Anzi, il movimento di questo mondo all'interno delle sue leg-gi costituisce necessariamente un costante superamento della legge.

L'ebraismo poté svilupparsi in quanto religione, ma non teori-camente, perché la concezione del mondo propria del bisogno pra-tico è per sua natura limitata e si esaurisce in pochi tratti.

La religione del bisogno pratico, per sua essenza, poteva tro-

vare il proprio compimento non nella teoria, ma soltanto nella pras-si, appunto perché la sua verità è la prassi.

L'ebraismo non poteva creare un nuovo mondo; poteva solo attirare nell'ambito delle proprie attività le nuove creazioni ed i nuovi rapporti del mondo, perché il bisogno pratico, il cui intellet-to è l'egoismo, si comporta passivamente e non si estende a pro-prio piacere, ma viene a trovarsi ampliato con il progressivo svilup-po delle condizioni sociali.

L'ebraismo raggiunge il suo vertice col perfezionamento della società civile; ma la società civile si compie soltanto nel mondo cri-stiano. Soltanto sotto la signoria del cristianesimo, che rende este-riori all'uomo tutti i rapporti nazionali, naturali, etici, teoretici, la società civile poté separarsi completamente dalla vita dello Stato, spezzare ogni legame dell'uomo col genere e porre l'egoismo, il bisogno egoistico, al posto di questi legami col genere, dissolvere il mondo degli uomini in un mondo di individui atomistici, ostilmen-te contrapposti gli uni agli altri.

Il cristianesimo è scaturito dall'ebraismo. Nell'ebraismo esso si è nuovamente dissolto.

Il cristiano era fin dal principio l'ebreo teorizzante; l'ebreo è perciò il cristiano pratico, ed il cristiano pratico è diventato nuova-mente ebreo.

Solo in apparenza il cristianesimo aveva superato l'ebraismo reale. Esso era troppo nobile, troppo spirituale per rimuovere la grossolanità del bisogno pratico altrimenti che con l'elevazione nell'etere azzurro.

Il cristianesimo è l'idea sublime dell'ebraismo, l'ebraismo è la volgare utilizzazione del cristianesimo, ma questa utilizzazione poteva diventare universale soltanto dopo che il cristianesimo, in quanto religione compiuta, avesse portato teoricamente a compi-mento l'autoestraniazione dell'uomo da sé e dalla natura.

Solo allora l'ebraismo poté pervenire al dominio universale e fare dell'uomo alienato e della natura alienata oggetti alienabili, vendibili, caduti in balia del bisogno egoistico e del commercio.

La vendita è la prassi dell'alienazione. Come l'uomo, finché è schiavo del pregiudizio religioso, sa oggettivare la propria essenza soltanto rendendola un'essenza estranea e fantastica, così sotto il dominio del bisogno egoistico egli può operare solo praticamente, può produrre oggetti solo praticamente, ponendo i propri prodot-ti, come la propria attività, sotto il dominio di un essere estraneo e

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conferendo ad essi il significato di un'essenza estranea: il denaro. Nella sua prassi compiuta, l'egoismo cristiano della beatitudi-

ne si rovescia necessariamente nell'egoismo materiale dell'ebreo, il bisogno celeste in quello terreno, il soggettivismo nell'egoismo. Noi spieghiamo la tenacia dell'ebreo non con la sua religione, ma piuttosto col fondamento umano della sua religione, il bisogno pra-tico, l'egoismo.

Poiché l'essenza reale dell'ebreo si è universalmente realizzata e mondanizzata nella società civile, la società civile non poteva con-vincere l'ebreo della irrealtà della sua essenza religiosa, che è appunto nient'altro che la concezione ideale del bisogno pratico. L'essenza dell'ebreo odierno la troviamo dunque non soltanto nel Pentateuco o nel Talmud, ma nella società odierna, non come essenza astratta ma come essenza sommamente empirica, non solo come limitatezza dell'ebreo, ma come limitatezza ebraica della società.

Non appena la società riuscirà a sopprimere l'essenza empiri-ca dell'ebraismo, il mercato e i suoi presupposti, l'ebreo diventerà impossibile, perché la sua coscienza non avrà più alcun oggetto, perché la base soggettiva dell'ebraismo, il bisogno pratico, si uma-nizzerà, perché sarà superato il conflitto tra l'esistenza individuale sensibile e l'esistenza di genere dell'uomo.

L'emancipazione sociale dell'ebreo è l'emancipazione della società dall'ebraismo.

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NOTE

i Si veda N. ROTENSTREICH, For and Against Emancipation: The Bruno Bauer Controversy, in «Publications of the Leo Baeck Institut of Jews from Ger-many», Year Book IV, pp. 3-36; paradigmatici per la diversità di vedute sono da una parte J. Hiippner, Einleitung, in A. RUGE U. K. MARX, Deutsch-franz5sische Jarhbiicher (1844), Leipzig, Reclam, 1981, p. 50 e W. POST, Kritik der Religion bei Karl Marx, Miinchen, Kósel, 1969, p. 147, secondo il quale Bauer «si batte in favore di una equiparazione democratica di ogni gruppo religioso e per uno Stato neutrale in materia di religione e fondato sui diritti umani», e dall'altra, in pole-mica con Post, Z. ROSEN, Kar' larx' polemische Auseinandersetzung mit Bruno Bauers Auffassung der Judenfr, ge ,and der Emanzipation, in Philosophie, Literatur und Politik vor der Revolutionen von 1848, Frankfurt am Main u.a., Peter Lang, di prossima pubblicazione, e D. LEOPOLD, The Hegelian antisemitism of Bruno Bauer, in «History of European Ideas», n. 25 (1999), pp. 179-206. Sull'antisemiti-smo di Bauer si veda anche E. BARNIKOL, Bruno Bauer. Studien und Materialen, aus dem Nachlass ausgewàhlt und zusammengestellt von P. Reimer und H.-M. Sass, Assen, Van Gorcum & Comp., 1972, p. 352 e Lambrecht che individua una linea di ricerca per la Judenfeindschaft del Bauer maturo nella «Verbindung von Antisemitismus, Antisozialismus und Neokonservativismus»: L. LAMBRECHT, Bauer Bruno, in Metzler-Philosophischen-Lexikon, Hg. von B. Lutz, Stuttgart, Metzler, 1989, p. 92. È d'altra parte noto che anche lo scritto marxiano fu accu-sato di "antisemitismo". Nel 1960 uscì un'edizione inglese della Questione ebrai-ca di Marx significativamente intitolata A world without Jews, New York, Philo-sophical Libr., 1959, transl. and itrod. by Dagobert D. Runes, che la presentò come «the sanguinary dream of Karl Marx». R. Weltsch, d'altra parte, definì questo «misleading title» un «piece of inferior antí-Soviet propaganda»: R. WELTSCH, Introduction, in «Publications of the Leo Baeck Institute of Jews from Germany», Year Book IV, cit., p. XII. H. HmSCH, The ugly Marx: analysis of an «outspoken anti-semite», in «The philosophical forum», vol. III, n. 2-4 (1978), pp. 150-162 cerca di porre in rilievo il comune background dell'epoca sul'ebrai-smo, affermando inoltre che in quel contesto non è possibile una definizione raz-ziale dell'ebreo e quindi non è legittimo l'uso del terminus technicus "anti-semi-ta" (ivi, p. 158). Non possiamo qui rendere conto di tutta la letteratura relativa al reale o presunto antisemitismo di Bauer e Marx. Al riguardo vale forse la pena ricordare il giudizio della Sterling, secondo la quale a Bauer, Ruge, StrauI3 e Gutzkow, pur non essendo dei decisi antisemiti, non può essere risparmiato il rimprovero di non aver impedito l'engagement delle loro tesi all'interno dell'anti-semitismo politico: E. STERLING, Er ist wie du. Aus der Friihgeschichte des Antise-mitismus in Deutschland (1815-1850), Miinchen, Chr. Kaiser Verlag, 1956, p. 112. Si veda anche il documentato lavoro di G.A. VAN DEM BERGH VAN EYSINGA, Het jodenvraagstuk, in «Godsdienst-Wetenschappelijke Studien», vol. XII, Har-lem, H.D. Tjeenk Willink & Zoom, 1952, p. 51, secondo cui sarebbe ingiusto qualificare il Bauer di quel periodo, e lui solo (senza Marx e Feuerbach), come l'antisemita par excellence. Una panoramica anche in F. TOMASONI, La modernità e il fine della storia. Il dibattito sull'ebraismo da Kant ai giovani hegeliani, Brescia, Morcelliana, 1999, su Bauer pp. 189-98.

2 Mi permetto di rinviare al mio Filosofia della crisi. La riflessione post-hegeliana, in «Filosofia politica», n. 2/2002, pp. 193-222.

3 L'interesse di Schmitt per Bauer inizia nel 1927, quando Barnikol ritrova

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e pubblica il testo baueriano del 1843 Das entdeckte Christentum. Schmitt iniziò a studiare con interesse Bauer, prendendo anche direttamente contatti con alcuni studiosi del suo pensiero. Una copia della Judenfrage, assieme a molti altri testi di Bauer, era tra l'altro presente nella sua biblioteca privata: per l'elenco completo sí veda Nachlass Carl Schmitt. Verzeichnis des Bestandes im nordrhein-westfdli-schen Hauptstaatsarchiv, Bearbeitet von D. VAN LAAK UNO I. VILLINGER, Siegburg, Respublica Verlag, 1993, pp. 384-5 e p. 529. Schmitt scrisse che «nessuno più di Bruno Bauer attuò e portò a compimento la critica teologico-filosofica, nel senso pregnante e con tutta l'ineluttabilità che per la storia dello spirito tedesco degli ultimi due secoli si legano alla parole crisi e critica»: C. Scruirrr, Donoso Cortés in gesamteuropdischer Interpretation, Ki3ln, Greven Verlag, 1950, trad. it. a cura di P. DAL SANTO, Donoso Cortés interpretato in una prospettiva paneuropea, Milano, Adelphi, 1996, pp. 101-2. Altri riferimenti schmittiani a B. Bauer in Ex Captivita-te Salus, Kaln, Greven Verlag, 1950, trad. it. di C. MAINOLDI, Ex Captivitate Salus, Milano, Adelphi, 1987, p. 39 e p. 42; Politische Theologie IL Die Legende von der Erledigung jeder Politischen Theologie, Berlin, Duncker & Humblot, 1984, trad. it. a cura di A. CARACCIOLO, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Milano, Giuffrè, 1992, p. 45; Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, Hg. von E. FREIHERR VON MEDEM, Berlin, Duncker & Humblot, 1991, dove, il 3.9.47 relativamente alla questione ebraica, annotava: «Der Begriff des Juden bei Hamann, Br. Bauer, Kierkegaard und Nietzsche. Entfesselung der Virulenz eines Begriffes durch Enttheologisierung» (ivi, p. 9).

4 11 lessico di tendenza liberale di Rotteck intende, con emancipazione degli ebrei, «l'eguaglianza degli stessi con gli altri cittadini per quanto riguarda i diritti politici e civili (in den politischen und biirgerlichen Rechten): K. STEINACKER, "Emancipation der Juden", in C. VON RO l IECK U. C. WELCKER (hrsg. von), Staats-Lexikon oder Encyklopadie der Staatswissenschaft, vol. 5, Altona, Ver-lag von J.F. Hammerich, 1837, p. 22.

5 Cfr. Ch.W. Dousi, Uber die biirgerliche Verbesserung der Juden, Berlin, Fr. Nicolai, 1781-3. Su Dohm e l'illuminismo si veda I. Elbogen/E. Sterling, Die Geschichte der Juden in Deutschland, Frankfurt am Main, Atheaum, 1988, pp. 159 ss.; P. BERNARDINI, La questione ebraica nel tardo illuminismo, Firenze, Giun-tina, 1992, il quale rileva come l'oggetto principale del trattato di Dohm siano proprio i Rechte der Menschheit (pp. 77-8).

6 Cfr. K.M. GRASS UND R. KOSELLECK, ad.v. "Emanzipation", in B. BRUNNER - W. CONZE - R. KOSELLECK, Geschichtliche Grundbegrzffe, Stuttgart, Klett Cotta, Bd. 2, 1992, pp. 166 ss.

B. BAUER, Die Fdhigkeit der heutigen Juden und Christen, frei zu werden, in G. HERWEGH (HG. von), Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz, Ziirich und Winterthur, Verlag des Literarischen Comptoirs, 1843 (ristampa anastatica: Leipzig, Reclam jun., 1989), pp. 56-71, ora in B. BAUER, Feldziige der reinen Kri-tik, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1968, pp. 175-195.

8 B. BAUER, Die Judenfrage, Braunschweig, Druck und Verlag von Friedri-ch Otto, 1843, p. 3; trad. it. infra, p. 45.

9 K. MARx, Zur Judenfrage, in A. RUGE e K. MARx, Deutsch-Franzósi schen Jahrbiicher, Paris, 1844, ora in Marx Engels Werke, Berlin, Dietz Verlag, 1988, pp. 347-77. Sul rapporto tra Marx e Bauer nei primi anni Quaranta, in riferimen-to alla pubblicazione della Judenfrage, si veda J. KANDA, Die Gleichzeitigkeit des Ungleichzeitigen und die Philosophie. Studien zum radikalen Hegelianismus im Vormdrz, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2003, pp. 129-31.

1° Die Juden-Frage, in «Deutsche Jahrbiicher far Wissenschaft und Kunst», 17-26. Nov., 1842, nn. 274-282, pp. 1093-1126, ripubblicato con ampliamenti in Die Judenfrage, cit.; Die Fdhi gkeit der heutigen Juden und Christen, frei zu werden, cit.

" Oltre agli scritti menzionati, nel Vormdrz Bauer pubblica Neueste Schrif ten iiber die Judenfrage, in «Allgemeine Literatur-Zeitung», Heft 1, dic. 1843, pp. 1-17; Neueste Schriften iiber die Judenfrage, in «Allgemeine Literatur-Zeitung», Heft 4, mar. 1844, pp. 10-19.

12 B. BAUER, Der christliche Staat und unsere Zeit, in «Hallische Jahrbiicher far deutsche Wissenschaft und Kunst», 7-12. Juni 1841, nn. 135-140, pp. 537-558, ora in ID., Feldziige der reinen Kritik, cit., pp. 7-43, trad. it. a cura di G. A. DE TONI, Lo Stato cristiano e il nostro tempo, in «Annali di Halle» e «Annali tede-schi» (1838-1843), Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 127-57.

13 Di fronte alla crisi dell'hegelismo radicale dovuta a una svolta illiberale nella politica prussiana, Marx «reagisce con un grande sforzo teorico mirante alla ricerca di una convergenza fra "movimento soggettivo" e "movimento oggetti-vo". Bauer al contrario sostiene che la sconfitta deí Giovani hegeliani è dovuta a una carenza della soggettività, a una debolezza della critica»: A. GARGANO, Bruno Bauer e lo Stato (1840-42), in «Studi filosofici», V-VI, Napoli, Bibliopolis, 1982-83, p. 289 ora in ID., Bruno Bauer, Napoli, La città del Sole, 2003.

14 Citato secondo E. BARNIKOL, Das entdeckte Christentum im Vormarz. Bruno Bauers Kampf gegen Religion und Christentum und Erstausgabe seiner Kampfschrift, Aalen, Scientia Verlag, 19892, p. 57.

15 F. ENGELS, Bruno Bauer und das Urchristentum (1882), in MEW, Bd. 19, pp. 297-305, ora raccolto, assieme ad altri scritti di Engels, in Sulle origini del cri-stianesimo, Roma, Editori Riuniti, 2000.

16 Si tratta di Die gute Sache der Freiheit und meine eigene Angelegenheit, Ziirich und Witerthur, Verlag des literarischen Comptoirs, 1842 (ristampa ana-statica: Aalen, Scientia Verlag, 1972), che Marx elogiò in una lettera a Ruge del 13 marzo 1843: «Ha certamente già avuto modo di leggere l'autodifesa di Bauer. Secondo me non aveva ancora mai scritto così bene».

17 K. MARx, Zur Judenfrage (1844), in MEW, Bd. 1, p. 348; trad. it. infra, p. 176.

18 È ormai nota la vicenda della Posaune che, sulla base di alcune lettere tra Bauer e Ruge, Mayer ritenne dí poter considerare il frutto della collaborazione tra Bauer e Marx, il quale avrebbe scritto le sei sezioni di Hegel's Lehre von der Religion und Kunst von dem Standpuncte des Glaubens aus beurtheilt, Leipzig, Otto Wigand, 1842 (ristampa anastatica: Aalen, Scientia Verlag, 1967), comprese sotto il titolo "Hegel's Hall gegen die heilige Geschichte und die gattliche Kunst der heiligen Geschichtsschreibung": cfr. G. MAYER, Karl Marx und der zweite Teil der "Posaune", in «Archiv fiir der Geschichte des Sozialismus und der Arbei-terbewegung», 1916 (7 Jg.), p. 341. Ormai gli interpreti sono concordi nell'attri-buire al solo Bauer la stesura delle due parti della Posaune: si veda, tra la molta letteratura sul tema, G.A. v. ID. BERGH VAN EYSINGA, Heeft Marx meegewerkt aan de Posaune en aan het vervolf daarop?, in «Godsdienst Wetenschappelijke Stu-dién», Harlem, H.D. Tjeenk Willimk & Zoom, vol. XIV, 1953, pp. 19-33. Sem-pre in relazione alla vicinanza teorico-politica tra Bauer e Marx nei primi anni Quaranta, si tenga presente che Marx pensava addirittura di fondare assieme a Bauer una rivista dal titolo "Archiv des Atheismus": cfr. E. BARNIKOL, Bruno Bauers Kampf gegen Religion und Christentum und die Spaltung der vormdrzlichen

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preussischen Opposition, in «Zeitschrift fiir Kirchengeschichte», XLVI, 1928, p. 23.

19 Che la differenza tra lo scritto baueriano e quello marxiano sia da indivi-duare nello snodo emancipazione-universalismo emerge dal lavoro di J. PELED, From theology to sociology. Bruno Bauer and Karl Marx on the Question of Jewish emancipation, in «History of Political Thought», 1992 (13), n. 3, pp. 463-85. Secondo Rosen Marx ragionerebbe all'interno della logica di Bauer almeno fino ai Manoscritti del 1844: cfr. Z. ROSEN, The influente of Bruno Bauer on Marx' con-cept of alienation, in «Social Theory and Practice», 1970-1 (1), n. 2, p. 63-7. Di Rosen si veda anche Bruno Bauer and Karl Marx: the Influence of Bruno Bauer on Marx's Thought, The Hague, Martinus Nijhoff, 1977. Sulla maggiore influenza di Bauer rispetto a Feuerbach sul pensiero marxiano insistono anche K.L. CLARK-SON and D.J. HAWKIN, Marx on Religion: the Influence of Bruno Bauer and Ludwig Feuerbach and its implications for the christian-marxist dialogue, in «Scot-tish Journal of Theology», n. 6 (1978), pp. 533-55; si veda anche I. PEPPERLE, Ein-leitung, in G. HERWEGH (Hg. von), Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz, Ziirich und Winterthur, Verlag des Literarischen Comptoirs, 1843, ristampa anastatica: Leipzig, Reclam jun., 1989, p. 51.

testo fu distrutto nel luglio del 1843 e dato per perso fino al rinveni-mento di un esemplare e quindi alla sua ripubblicazione agli inizi del XX secolo ad opera di ERNST BARNIKOL: B. BAUER, Das entdeckte Christentum. Eine Erinne-rung an das achtzehnte Jahrhundert und ein Beitrag zur Krisis des neunzehnten, Ziirich und Winterthur, Druck und Verlag des literarischen Comptoirs, 1843, ristampato in BARNIKOL, Das entdeckte Christentum, cit.,

21 Die Juden in aterreich. Vom Standpunkte der Geschichte, des Rechts und des Staatsvorteils, 3 Balde, Leipzig, Mayer und Wigand, 1842, pubblicato anoni-mo, ma attribuibile a JOSEF WERTEIMER; J.A. EISENMENGER, Das entdeckte Juden-tum, Minigsberg, 1711, 2 Bde (ristampa: Dresden, Brandner, 1893), orientalista, considerato, per contenuti e forma, il fondatore dell'antisemitismo moderno.

22 G. SALOMON, Bruno Bauer und seme gehaltlose Kritik iiber die Judenfrage, Hamburg, Perthes-Besser und Mauke, 1843, p. 110. Analogamente L. Philippson: «Da questo punto di vista l'ebraismo doveva essere contrario a Bauer così come lo era il cristianesimo, e dopo che egli ebbe liquidato quest'ulti-mo, era naturale che si rivolgesse all'ebraismo», nell'articolo di apertura della «Zeitung des Judenthums», Nr. 48 (1842), p. 698. Scrive Jung che Bauer avrebbe rivolto al cristianesimo la stessa critica che poi rivolge all'ebraismo: A. JUNG, Die Kritik in Charlottenburg oder die Gebriider Bauer, in «Képnigsberger Literatur-blatt», 17. Juli 1844, p. 450.

23 BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 17; trad. it. infra, p. 59. 24 Cfr. ibidem. 25 J.E. ERDMANN, Grundriss der Geschichte der Philosophie, vol. II, Berlin,

Hertz, 1866, p. 666. Scrive invece Bauer che «l'emancipazione [degli ebrei] non può quindi nemmeno essere vincolata alla condizione che essi diventino cristia-ni»: Die Judenfrage, cit., p. 60; trad. it. infra, p. 102. Lo stesso concetto è ribadito in Die Fdhigkeit, cit., p. 193; trad. it. infra, p. 170.

26 BAUER, Die Fdhigkeit, cit., p. 183; trad. it. infra, p. 162 27 Secondo Koselleck la dualità paolina (battezzati e il resto dell'umanità)

sfugge il paradosso temporali7zandosi, distendendosi nel tempo. Solo quando la chiesa si istituzionalizza, l'antitesi viene territorializzata e la popolazione della terra viene suddivisa in categorie che si escludono reciproCamente: cfr. R. KOSEL-

LECK, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt am Main, 1979, trad. it. di A.M. Sottili, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti, 1986, pp. 196 ss. Scrive ancora Koselleck: «poiché i cri-stiani pretendono di essere gli uomini veri, autentici, questa formulazione con-sente di definire "non-uomini" i non-cristiani, gli eretici e i pagani»: ivi, p. 217.

28 Cfr. BAUER, Das entdeckte Christentum, cit., p. 195. 29 L. FEUERBACH, Das Wesen des Christentums (1841), in Id., Gesammelte

Werke, Hg. von W. Schuffenhauer, Berlin, Akademie Verlag, 1986, Bd. 5, trad. it. a cura di F. BAZZANJ, L'essenza del cristianesimo, Firenze, Ponte delle Grazie, 1994, p. 298.

30 «Il fervore della fede non è nient'altro che l'atteggiamento esclusivo del principio cristiano o il fuoco dell'amore cristiano. Questo fuoco attraversa l'inte-ra storia della chiesa cristiana ed erompe in epoche particolari per conferire loro un particolare splendore. Agostino, ad esempio, lo attizzò contro gli scismatici dell'Africa del Nord; alla luce di esso scrisse quei passi dei suoi scritti in cui ordi-nava la persecuzione degli eretici; quello stesso fuoco, come una nuova colonna di fiamme, indicò aí crociati il cammino per l'Oriente; fece luce agli Spagnoli durante le guerre per convertire i popoli dell'America; brillò nella notte di San Bartolomeo e nella violenza dei dragoni di Luigi XIV contro gli ugonotti»: BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 17; trad. it. infra, p. 60

31 BAUER, Das entdeckte Christentum, cit., p. 195. 32 Cfr. BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 53; trad. it. infra, p. 94; si veda anche

BAUER, Die Fdhigkeit, cit., pp. 183-4; trad. it. infra, pp. 162-3. " BERNARDO DI CLAIRVAUX, Liber ad Milites Templi. De laude novae militia-

te, in SAN BERNARDO, Opere, vol. I, Roma, Città Nuova, 1984, p. 446-7. Il passo è citato in FEUERBACH, Essenza del cristianesimo, cit., p. 310, che lo riporta come Serino Exhort. Ad Milites Templi.

34 B. Bauer a L. Feuerbach, 10.3.1842, in FEUERBACH, Briefwechsel II (1839-1844), in ID., Gesammelte Werke, cit., Bd. 18, p. 171. Sull'unità di politica e religione in Bauer si veda K. COMOTH, Zur Negation des «religiósen BewuJt-seins» in der Kritik Bruno Bauers, in «Neue Zeitschrift fiir systematische Theolo-gie und Religionsphilosophie», Bd. 17, 1975, p. 221.

33 Scrive Bauer che il «pregiudizio religioso e la separazione religiosa devo-no senza dubbio cadere e venir meno se le caste e i privilegi civili e politici doves-sero cessare di esistere. Il pregiudizio religioso è la base di quello politico e civile, ma la base che quest'ultimo, anche se inconsapevolmente, ha dato a se stesso. Il pregiudizio civile e politico è il nucleo che il pregiudizio religioso semplicemente racchiude e salvaguarda»: BAUER, Judenfrage, cit., pp. 95-6; trad. it. infra, p. 136. Con ciò Bauer non pensa certo di risolvere religiosamente l'esclusione politica, anzi è la separazione religiosa a cadere se cade il sistema dei privilegi materiali e civili. Scrive H.L. KÒPPEN, Broschuren iiber die Judenfrage, in «Norddeutsche Blàtter», Heft IX, marzo, 1845, p. 55, che Marx avrebbe torto a sostenere che la questione della Judenfrage è meramente religiosa, perché al centro dello scritto di Bauer starebbe invece la relazione tra Stato e cristianesimo. Per quanto riguarda i Norddeutsche Bldtter si veda infra, nota 111.

36 «Le differenze cetuali riprendono nuovamente vita nei ceti dei prescelti, degli eletti e di quelli che, in seguito a decreto arbitrario e imperscrutabile dell'Altissimo, sono dannati: i ceti religiosi, allo stesso modo di quelli politici, si fondano sulla natura, solo che si fondano su una natura chimerica»: Die Fdhigkeit, cit., p. 191; trad. it. infra, p. 168.

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" Su questo punto e per ulteriori riferimenti bibliografici mi sia permesso di rimandare al mio Crisi e critica in Bruno Bauer. Il principio di esclusione come fondamento del politico, Napoli, Bibliopolis, 2002, pp. 85 ss.

38 Cfr. B. BAUER, Kritik evangelischen Geschichte der Synoptiker, 2 Bde, Leipzig, Otto Wigand, 1841, pp. 348-51.

39 La Formuntersuchung, concettualmente anticipata da Bauer, sarà resa celebre la Martin Dibelius e Rudolf Bultmann nella scienza neotestamentaria del ventesimo secolo: cfr. J. VON KEMPSKI, Ober Bruno Bauer. Eine Studie zum Ausgang des Hegelianismus, in «Archiv fiir Philosophie», n. 11 (1962), pp. 223-45, ora in ID., Brechungen, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1992, p. 165; si veda anche G. RUNZE, Bruno Bauer: der Meister der theologischen Kritik, Berlin, Her-mann Paetel Verlag, 1931, p. 9.

4° Cfr. CH. VON BRAUN und L. HEID, Der ewige Judenhass, Berlin-Wien, Philo, 2000, p. 16: «Solche bewussten Filschungen haben eben auch in den Kanon des Neuen Testaments Eingang gefunden, weil sich die Nazarener von den Juden unterscheiden wollten».

4' BAUER, Kritik der evangelischen Geschichte, cit., Bd. III, p. 308. 42 B. BAUER, Die Posaune des jiingsten Gerichts iiber Hegel, den Atheisten

und Antichristen. Ein Ultimatum, Leipzig, Otto Wigand, 1841 (ristampa anastati-ca: Aalen, Scientia Verlag, 1983), p. 77; trad. it. La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum, in K. Lówitx, La sinistra hegelia-na, Bari, Laterza, 1982, p. 123; cfr. anche BAUER, Das entdeckte Christentum, cit., p. 262.

F. NIETZSCHE, Menschliches, Allzumenschliches (1878), AL 472, "Reli-gion und Regierung» , in ID., Werke, Bd. IV, 2, Berlin - New York, Walter de Groyter & Co., 1967 ss., pp. 312-7, trad. it., Umano troppo umano, in Opere, Bd. IV, 2, Milano, Adelphi, 1970 ss., pp. 256-61.

44 Su questo punto si veda CH. DUQUOC, Il cristianesimo e la pretesa all'uni-versalità, in «Conciliutn», n. 5 (1980), p. 93; si veda anche quanto scrive Ruffini: «... l'intolleranza religiosa trovò e trova tuttodì il suo più saldo fondamento appun-to in un dogma, nel cosiddetto dogma della esclusiva salvazione: extra ecclesiam nulla salus», Ruffini conclude il proprio ragionamento parlando di una «intoleran-za religiosa insita nel dogma cristiano»: cfr. F. RUFHNI, La libertà religiosa. Storia dell'idea, Milano, Feltrinelli, 1967 (I ed. Torino, Bocca, 1901), pp. 16-8.

as BAUER, Die Judenfrage, cit., pp. 16-7; trad. it. infra, p. 59. 46 Cfr. J. TAUBES, Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fiigung, Berlin, Merve

Verlag, 1987, trad. it. a cura di E. &mimi, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Macerata, Quodlibet, 1996, p. 68. In una conferenza monacense del 1929, Peterson spiegava che «gli ebrei con la loro incredulità impediscono il ritorno di Cristo. Ma impedendo il ritorno del Signore, essi ostacolano l'avvento del Regno e favoriscono necessariamente la perpetuazione della chiesa»: E. PETERSON, Die Kirche (1929), in ID., Theologische Traktate, Miinchen, Kòsel, 1951, p. 413; si veda al riguardo Saimm, Teologia politica II, cit., p. 49.

47 BAUER, Das entdeckte Christentum, cit., p. 197. 48 Va sottolineato che, ancora alla fine degli anni '40, i conservatori nega-

vano il principio dell'eguaglianza ed affermavano l'esclusione degli ebrei in forza dell'ordinamento organico degli Sande: cfr. STERLING, Er ist wie du, cit., p. 131 s.

49 Gli scritti di CARL H. HERMES apparvero nella «Kòlnische Zeitung», 6. July 1842, Nr. 187, pp. 1 ss., 30. July 1842, Nr. 211, pp. 1 ss. e ID., Letztes Wort an Herrn Philippson zu Magdeburg, in «Kòlnische Zeitung», 23. August 1842, Nr.

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235, Beilage. Gli scritti di Hermes sono oggetto di polemica anche da parte di Marx: cfr. Marx a Ruge 9. Juli 1842, in K. MARx — F. ENGELS, Gesamtausgabe, hrsg. von Institut fiir Marxismus-Leninismus, Berlin, Dietz Verlag, Bd. III/1, pp. 28-30. Si veda al riguardo J. CARLEBACH, Karl Marx and the Radicai Critique of Judaism, London, Henley and Boston, Routledge & Kegan Paul, 1978, pp. 82-5.

50 Cfr. HERIVIES, in «Kòlnische Zeitung», Nr.187. " Cfr. HERMES, in «Kòlnische Zeitung», Beilage zu Nr. 235. 52 W.B. FRANKEL, un ebreo convertito, che nel '42 scrive Die Unmógli-

chkeit der Emanzipation der Juden im christlichen Staate, Elberfeld, Buchhand-lung von W. Hassel, 1842; secondo Frànkel i cristiani contrastano l'emancipazio-ne degli ebrei non in quanto uomini, ma per la loro religione, perché al di fuori di Cristo non c'è salvezza: ivi, p. VIII. Cfr. anche HERMES, in «Kòlnische Zei-tung», Nr. 211.

'3 BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 3; trad. it. infra, p. 45. 54 Ivi, p. 21; trad. it. infra, p. 63. 55 Ivi, p. 65; trad. it. infra, p. 107. 58 Mi sono soffermato su questo aspetto nel mio Filosofia della crisi, cit. " Nel 1840 Bruno Bauer scrive al fratello che «quelli della sinistra — nei

manifesti degli Hallischen Jahrbiicher — si distinguono dalla destra, di cui usano però ancora le formule e di cui condividono ancora la concezione ortodossa della religione, solo per mezzo di inalberate esigenze, solo per il fatto che sventolano in aria come una bandiera l'esigenza in genere — il dover essere (Sollen)»: B. Bauer a E. Bauer, 28 marzo 1840, in Briefwechsel zwischen Bruno Bauer und Edgar Bauer wdhren der Jahre 1839-1842 aus Bonn und Berlin, Charlottenburg, Verlag Egbert Bauer, 1844 (ristampa anastatica: Aalen, Scientía Verlag, 1979), pp. 57-8.

58 B. BAUER, Was ist jetzt der Gegenstand der Kritik?, in «Allgemeine Lite-ratur-Zeitung», Heft 8, Juli 1844, p. 18-26, ora in BAUER, Feldzzige der reinen Kri-

tik, cit., p. 200-12, trad. it. di A. ZANARDO, Che cosa è oggi l'oggetto della critica?, in K. MARx-F. ENGELS, La sacra famiglia ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, Roma, Editori, Riuniti, 1972, p. 306.

59 BAUER, Was ist jetzt, cit., p. 20; trad. it. in MARX-ENGELS, La sacra fami-glia, cit., p. 304.

60 E. BAUER, 1842, in «Allgemeine Literatur-Zeitung», Heft 8, luglio 1844, p. 6, trad. it. in MARX-ENGELS, La sacra famiglia, cit., pp. 294-5.

61 Per la bibliografia relativa alle recensioni dello scritto di Bauer rinvio a A. ZANARDO, Bruno Bauer hegeliano e giovane hegeliano, in «Rivista critica di sto-ria della filosofia», fasc. II (1966), 189-210 e fasc. III (1966), pp. 293-327, in par-ticolare cfr. pp. 303-4.

62 H.E. MARCARD, Ober die Miiglichkeit der Judenemanzipation im christli-ch-germanischen Staat, Minden und Leipzig, F. Efimann, 1843, p. 14; si veda la replica di Bauer in Neueste Schrzften, Heft 1, cit., p. 4.

° Sí veda la giusta osservazione di SALOMON, op. cit., p. 20: se gli ebrei non hanno fatto che male — replica Salomon — non hanno con ciò stesso partecipato alla storia? Una ricostruzione attenta del dibattito, relativo a questo primo punto, in ROTENSTREICH, For and Against Emancipation, cit., pp. 16 ss. Ma questo immo-bilismo e questa estraneità alla storia costituivano- un topos diffuso dell'orientali-smo ottecentesco: su ciò E. SAm, Orientalism, New York, Pantheon Books, 1978, trad. it. di S. GALLI, Orientalismo, Milano, Feltrinelli, 1999.

" Si veda ancora SALOMON, op. cit., pp. 99 ss; Salomon riconosce la buona

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fede del discorso politico di Bauer, pur considerando stravaganti e false molte delle sue riflessioni. Secondo Salomon, Bauer vorrebbe salvare il cuore dalla feri-ta trafiggendo il cuore del paziente: così, secondo Bauer, il cristiano dovrebbe rinunciare al cristianesimo e l'ebreo al giudaismo (pp. 111-113). Scrive Philip-pson che Bauer considera lo sviluppo dell'umanità possibile solo a partire dalla negazione e dalla dissoluzione di tutto ciò che esiste: L. PHILLPPSON, Leitender Artikel, in «Zeitung des Judenthums», Nr. 48, 3. December 1842, pp. 697-8.

65 Sulla vicenda si veda CARLEBACH, Karl Marx and the Radical Critique, cit., p. 139.

66 ANONIMO, Eine Unterredung mit Bruno Bauer iiber die Judenfrage, in «Der Israelit des neinzehnten Jahrhunderts», Nr. 25, 18. Juni 1843, pp. 99-100; l'articolo prosegue nel Nr. 26, pp. 103-4 e Nr. 27, pp. 107-9.

67 BAUER, Neueste Schriften, I, cit., p. 8. Che il tema centrale della Judenfra-ge fosse la Ausschliefilichkeit è ribadito da E. JUGNITZ, Das Judentum und die Kri-tik, in «Allgemeine Literatur-Zeitung», August 1844, Nr. 9, pp. 7-16, in partico-lare cfr. pp. 9-11.

68 Cfr. BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 20; infra, p. 62. 69 MARX, Zur Judenfrage, cit., p. 372; infra, p. 202. 7° Ivi, p. 356; infra, p. 185; si veda M. MERLO e G. RAMETTA, Potere e critica

dell'economia politica in Marx, in G. Doso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma, Carocci, 1999, pp. 363-85.

71 Ivi, p. 360; infra, p. 189. 72 Ivi, p. 357; infra, p. 185. 73 Scrive Marx che la «soppressione del giogo politico fu al tempo stesso la

soppressione dei legami che tenevano vincolato lo spirito egoista della società civile. L'emancipazione politica fu al tempo stesso l'emancipazione della società civile dalla politica, dalla parvenza stessa di un contenuto universale»: MARX, Zur Judenfrage, cit., p. 369; infra, p. 198.

74 Ivi, p. 366; infra, p. 195. 75 Scriverà Marx nei Manoscritti del 1844: «L'uomo è un essere apparte-

nente alla specie (ein Gattungswesen) non solo perché la specie (die Gattung), tanto della propria quanto di quella delle altre cose, costituisce teoricamente e praticamente il proprio oggetto, ma anche (e si tratta soltanto di una diversa espressione per la stessa cosa) perché si comporta verso se stesso come verso la specie presente e vivente, perché si comporta verso se stesso come verso un esse-re universale (als einem universellen) e perciò libero»: K. MARX: Úkonomisch-phi-losophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, in MEW Bd. 40, S. 515; trad. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1983, p. 76.

76 Nella Ideologia tedesca (1845-6), Marx scriverà che «sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, apparentemente, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali; nella realtà sono naturalmente meno liberi perché subordinati a una forza oggettiva (sachliche Gewalt)»: K. MARX/F. ENGELS, Die deutsche Ideologie, in MEW, Bd. 3, S. 76; trad. it. L'ideolo-gia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 55.

" Molte sono le assonanze e le analogie argomentative e terminologiche con lo scritto di MOSES HESS Sull'essenza del denaro, che, assieme allo scritto di Marx, doveva essere pubblicato negli Annali franco-tedeschi, ma che fu pubblica-to l'anno seguente nei Rheinische Jahrbiicher zur gesellschaftlichen Reform, Hg. von H. Piittmann, Darmstadt, 1845, ora in trad. it. in M. HESS, Filosofia e sociali-smo. Scritti 1841-1845, a cura di G.B. VACCARO, Lecce, Milella, 1988, pp. 203-

227. Si ritrova in particolare in Hess la scissione tra «uomo privato» ed «essenza comune», fra «vita privata» e «vita pubblica», tra mondo reale e mondo celeste come espressione del «rovesciamento della vita umana naturale». Di Hess sono anche le analogie tra mondo giudaico-cristiano e mondo del commercio: «Il mistero del giudaismo e del cristianesimo è divenuto chiaro nel mondo moderno di mercanti giudeo-cristiani» (ivi, p. 223). Z. ROSEN, Moses Hess und Karl Marx. Ein Beitrag zur Entstehung der Marxschen Theorie, Hamburg, Christians, 1983, pp. 142-53 sottolinea la forte influenza di Hess sulla riflessione di Marx, influsso che, nello scritto Sulla questione ebraica, si configura nei termini di una vera e propria analogia tematica e concettuale con gli scritti di Hess.

78 BAUER, Neueste Schriften, cit., p. 15. 79 BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 65; trad. it. infra, p. 108. Si vedano le criti-

che di Salomon, che considera il ragionamento baueriano un terrorismo filosofi-co dagli esiti nichilistici. Salomon si chiede quale giorno festivo può andar bene a Bauer, dal momento che un giorno deve pur essere scelto, perché se ognuno fos-se libero di sceglierselo ne conseguirebbero gravi conseguenze per l'industria: cfr. Salomon, op. dt., p. 65.

80 Cfr. BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 73; trad. it. infra, p. 115. 81 /Vi, p. 66; trad. it. infra, p. 109. 82 «L'appello degli ebrei al carattere superiore della loro dottrina etica reli-

giosa, cioè alla loro legge rivelata, per dimostrare che sarebbero capaci di diven-tare dei buoni cittadini e che avrebbero diritto di partecipare a tutte le faccende pubbliche dello Stato, questa loro richiesta di libertà ha per il critico lo stesso valore della richiesta del moro di diventare bianco, o meno ancora. È la richiesta di rimanere non-liberi (unfrei)»: BAUER, Die Fdhigkeit, cit., p. 176; trad. it. infra, p. 156. Per Bauer non è possibile essere liberi nella propria particolarità, perché questa rimane una forma di dipendenza ad una determinazione positiva. Bauer cerca di articolare la libertà nell'unione di particolare ed universale, nella forma dell'autonomia della singolarità, che libera se stessa da ogni interesse particolare. Si veda al riguardo quanto scrive D. MOGGACH, The Philosophy and Politics of

Bruno Bauer, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, p. 32 e p. 147. 83 J. RAWLS, Political Liberalism, Columbia University Press, 1993, trad. it.

Liberalismo politico, Torino, Edizioni di Comunità, 1999, p. 123. 84 BAUER, Die Fabigkeit, p. 177; trad. it. infra, p. 156. 85 Ivi, p. 191; trad. it. infra, p. 169. 86 Secondo Moggach questo modo baueriano di pensare l'universale, che

egli definisce «republican rigorism», è vicino al modo in cui, più tardi, Marx e Lenin considerarono la Comune di Parigi. Sí veda MOGGACH, The Philosophy and

Politics of Bruno Bauer, cit., p. 53 e p. 85. 87 BAUER, Das entdeckte Christentum, cit., p. 270. 88 BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 19; trad. it. infra, p. 62. 89 Ivi, p. 3; trad. it. infra, p. 45. 9° B. BAUER, Verteidigungsrede B. Bauers vor den Wahlmannern des vierten

Wahlbezirkes am 22.2.1849, in E. BARNIKOL, Bruno Bauer. Studien und

Materialen, aus dem NachlaB ausgewàhlt und zusammengestellt von P. Reimer und H.-M. Sass, Assen, Van Gorcum & Comp., 1972, p. 524.

91 La critica dello «Stato cristiano» in nome del «vero Stato» dei primi anni Quaranta lascia presto il posto ad una critica dello Stato in quanto tale, che sarebbe appunto attraversato dallo stesso principio di esclusione della religione: su questa evoluzione della riflessione di Bauer mi permetto di rimandare al mio

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Crisi e critica, cit., pp. 135-6 e pp. 138 ss. 92 BARNIKOL, Das entdeckte Christentum, p. 158. " BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 19; trad. it. infra, pp. 61-2. 94 Ivi, p. 19; trad. it. infra, p. 62. " Cfr. D. MOGGACH, Bruno Bauer: forme di giudizio e critica politica. Una

lettura della logica hegeliana nel Vormirz, in «Giornale Critico della Filosofia Ita-liana», fasc. II, 2002, vol. XXII, pp. 389-404; dello stesso autore anche Absolute Spirit and Universal Self-Consciousness: Bruno Bauer's Revolutionary Subjectivism, in «Dialogue», n. XXVIII (1989), pp. 235-56.

96 B. BAUER, Rec. a Die christliche Glaubenslehre in ihrer geschichtlichen Entwicklung und im Kampf mit der modernen Wissenschaft. Dargestellt von Dr. D.F. Straufi, Band 1 u. 2, 1840-1841, in «Deutsche Jahrbiicher fiir Wissenschaft und Kunst», n. 22 (1843), p. 84.

97 BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 19; trad. it. infra, p. 62. 98 «Ma se l'uomo, sebbene sia ebreo, può essere emancipato politicamente

e può ricevere i diritti del cittadino, può pretendere e ottenere i cosiddetti diritti dell'uomo? Bauer lo nega»: MARX, Zur Judenfrage, cit., p. 361; trad. it. infra, pp. 190-1.

" È stato osservato che Marx elaborò la distinzione tra diritti dell'uomo e diritti del cittadino al di là della lettera dei documenti: R.N. HUNT, The Political Ideas of Marx and Engels, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1974, p. 73.

100 Nel progetto di lavoro marxiano non vi è certo una totalità alla quale l'individuo debba in un qualche modo essere sacrificato. Si veda al riguardo L. BASSO, Critica dell'individualismo moderno e realizzazione del singolo nell'«Ideao-logia tedesca», in «Filosofia politica», n. 2 (2001), pp. 233-56.

"Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen du 26 aoút 1789, in M. DUVERGER, Constitutions et Documents poli tiques, Paris, PUF, 1957, p. 118.

102 Già nei primi anni Quaranta Bauer mostra che la comprensione dei diritti all'interno della compagine statuale rischia di far diventare la cittadinanza una sorta di privilegio. «L'uomo, scrive Bauer, è nato come membro di un popo-lo ed è destinato a diventare cittadino dello Stato al quale appartiene per nascita; la sua determinazione di uomo travalica però i confini dello Stato nel quale è nato»: BAUER, Die Fdhigkeit, cit., p. 189; trad. it. infra, p. 167. Alla base di questa affermazione, che riguarda non lo Stato cristiano, ma lo Stato in quanto tale, c'è l'idea baueriana di autocoscienza come eccedenza rispetto ad ogni forma di appartenenza, sia essa religiosa, cetuale o nazionale, e la sua comprensione nella dimensione pratica delle lotte reali: «essa è la dichiarazione di guerra e la guerra stessa, anzi, se è compiuta come reale autocoscienza, è la vittoria sopra tutto ciò che pretende di valere esclusivamente per sé, come monopolio e come privile-gio»: ibidem.

103 Giustamente Ferrajoli scrive che la cittadinanza rappresenta oggi «l'ultimo privilegio di status, l'ultimo fattore di esclusione e discriminazione» che contraddice l'universalismo dei diritti: L. FERRAJOLI, "Dai diritti del cittadino ai diritti della persona", in D. ZoLo, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 288.

104 Gli scritti di Bruno Bauer sulla Rivoluzione sono raccolti in Geschichte der Franz5si schen Revolution bis zur Stiftung der Republik, von B. BAUER-E. BAUER-E. JUGNITZ, 3 Bde, Leipzig, Voígt und Fernau's Separat-Conto, zweite Auflage, 1847 (ristampa anastatica: Aalen, Scientia Verlag, 1979). In relazione agli studi di Bauer sulla Rivoluzione si veda L. LAMBRECHT, Zum historischen Ein-

satz der wissenschaftlichen und politischen Studien Bruno Bauers zur Franziisischen Revolution, in «Deutsche Zeitschrift fiir Philosophie», Bd. 8 (1989), pp. 741-52. Mi permetto di rinviare anche, per ulteriore bibliografia, ai capitoli VII e VIII del mio Crisi e critica in Bruno Bauer, cit.

105,BAUER, Geschichte der Politik, Cultur und Aufkldrung des achtzehnten Jahrhunderts, Charlottenburg, Verlag von Egbert Bauer, 1843-45 (ristampa ana-statica: Aalen, Scientia Verlag, 1965), Bd. II, p. 103.

106 BAUER, Geschichte der Politik, cit., Bd. II, p. 171. 107 Ivi, Bd. I, p. XI. 108 Cfr. ivi, Bd. II, Dritte Abteilung, pp. 232-4. 109 Ivi, Bd. II, p. 168. 11° Cfr. R. SCHNUR, Revolution und Weltbiirgerkrieg, Berlin, Duncker &

Humblot, 1983, trad. it. a cura di P.P. PORTINARO, Rivoluzione e guerra civile, Milano, Giuffrè, 1986, p. 86.

111 ANONIMO, Die Menschenrechte 1793, Erster Artikel, in «Norddeutsche Blàtter», Januar 1845, Heft VII, p. 3. Una seconda parte dell'articolo, sempre anonima, fu pubblicata nel numero di aprile dei «Norddeutsche Bliitter», 1845, Heft X, pp. 1-10. Il testo ha delle consonanze significative con quanto Bauer scri-veva nei suoi studi storici sulla Rivoluzione. Si deve in ogni caso tenere presente che, nonostante la difficoltà nell'attribuire la paternità dello scritto, la sua stessa pubblicazione nei Norddeutsche Bldtter, di cui Bauer era il curatore, implicava l'approvazione da parte di Bauer delle posizioni espresse nell'articolo.

112 Menschenrechte, cit., I, p. 3. 113 Menschenrechte, cit., II, p. 4. 114 Politische Freiheit e gesellschaftliche Unfreiheit, in questa opposizione

sarebbe racchiuso il contenuto della Dichiarazione: cfr. ANONIMO, Menschenrech-te, II, cit., p. 7.

115 BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 96; trad. it. infra, p. 137. 116 BAuER, Das entdeckte Christentum, cit., p. 200. 117 Probabilmente l'intelligibilità del concetto marxiano di Gattung, total-

mente abbandonato dopo gli anni '40, risulterebbe arricchita oltre che dal con-fronto con Feuerbach, anche da quello con Bauer.

118 BAUER, Posaune, cit., p. 137; trad. it. cit., p. 177. 119 Cfr. BAUER, Louis Philipp, cit. 120 BAUER, Theologische Schamlosigkeiten, cit., p. 56. 121 In questa direzione J. RANCIERE, La Mésentente. Politique et philosophie,

Paris, Galilée, 1995, pp. 45-9, il quale scrive: «Il y a de la politique parce que ceux qui n'ont droit à étre complétés comme étres parlants s'y font compter et instituent une communauté par le fait de mettre en commun le tort qui n'est rien d'autre que l'affrontement méme, la contradiction de deux mondes logés en un seul» (p. 49).

122 Sull'ambiguità nel pensiero di Bauer mi sono soffermato anche in Bruno Bauer: Dialektik des Individualismus, in L. LAMBRECHT (HG. voN), Philosophie, Literatur und Politik vor den Revolution von 1848, Bd. 3, Frankfurt am Main-Berlin u.a., Peter Lang, di prossima pubblicazione.

123 BAUER, Neueste Schriften, II, cit., p. 12. 124 BAUER, Das entdeckte Christentum, cit., p. 270. 125 BAUER, Die Judenfrage, cit., p. 19; trad. it. infra, p. 62. 126 Pur non essendosi mai conosciuti personalmente, Bauer e Nietzsche si

rispettavano reciprocamente; Nietzsche ricorda tra i suoi «lettori più attenti» il

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«vecchio hegeliano Bruno Bauer»: F. NtErzscHE, Ecce homo, in In., Werke, cit., Bd. VI, 3, pp. 315-6. La stima era del resto ricambiata: Bauer si riferisce a Nietz-sche definendolo il «Montaigne, Pascal e Diderot tedesco»: cfr. B. BAUER, Zur Orientierung iiber die Bismarksche Ara, Chemnitz, 1880 (ristampa anastatica: Aalen, Scientia Verlag, 1969), p. 287. Scriveva Nietzsche a Reinhart von Seydlitz il 26 ottobre 1886: «Im Grunde habe ich drei Leser, nimlich Bruno Bauer, J. Burckhardt, Henri Taine, und von denen ist der Erste todt»: F. NiErzscnE, Briefwechsel (1885-1886), in In., Werke, cit., Bd. III, 3, p. 271. Su Bauer e Nietz-sche si veda, oltre a K. Le5WITH, Von Hegel zu Nietzsche, Ziirich, Europa Verlag, 1941, trad. it. di G. Coni, Da Hegel a Nietzsche, Torino, Einaudi, 1949, pp. 284- 5; D TscinzEwsicu, Hegel et Nietzsche, in «Revue d'histoire de la philosophie», III (1929), pp. 321-47; Z. ROSELA, Bruno Bauers und Friedrich Nietzsches Destruk-tion der bùrgerlich-christlichen Welt, in «Jahrbuch des Instituts fiir Deutsche Geschichichte», Hg. von W. GRAB, Tel-Aviv, Nateev-Printing, 1982, pp. 151-172.

127 F. NIETZSCHE, G6tzen-Diimmerung oder wie man mit dem Hammer phi-losophiert (1889), in Werke, cít., Bd. VI, 3, 1969, pp. 133-4, trad. it. in In., Opere, cit., Vol. VI, tomo 3, pp. 137-9.

128 Cfr. BAUER, Geschichte Deutschlands, cit., Bd. II, p. 253 e p. 255. 129 Ivi, Bd. II, p. 230. 138 Cfr. TOMBA, Filosofia della crisi, cit.. 131 B. BAUER, Kirche und Staats-Gouvernement, in «Rheinische Zeitung»,

Beiblatt zu Nr.88, 29. Màrz 1842. Il grand'uomo citato da Bauer è Mirabeau, che fu tra i redattori della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino de11789 e che, nella discussione preparatoria della Dichiarazione, sostenne che «l'esistenza di un'autorità che ha il potere di tollerare è un attentato alla libertà di pensiero, per il fatto stesso che essa tollera ma potrebbe non tollerare». Sulle discussioni che portarono alla Dichiarazione cfr. M. WINOCK, 1789. L'année sans pareille — Chronique, Paris, Editions Oliver Orban, 1988, trad. it. di G. GOIUA, M.T. DELLA SETA, R. DELLA SETA, Francia 1789. Cronaca della rivoluzione, Trento, l'Unità, 1988, pp. 208-9. Mirabeau commentò l'emendamento voluto dal vescovo di Lyd-da all'articolo 10 della Dichiarazione del 1789, che limitava la libertà religiosa («purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla leg-ge»), ne Le Courier de Provence, scrivendo che «in tal modo un governo potreb-be impedire la celebrazione pubblica del culto dei non cattolici».

132 BAUER, Verteidigungsrede, cit.. 133 Ivi, p. 524. 134 B. BAUER, Bekenntnisse einer schwachen Seele, in «Deutsche Jahrbiicher

fiir Wissenschaft und Kunst», Juni 1842, Nr. 148-9, pp. 589-96, trad. it. Confes-sioni di un'anima debole, in Annali di Halle" e "Annali tedeschi", cit., p. 200.

135 Negli anni ottanta Bauer intravede la possibilità di piegare a proprio favore la centralizzazione e il livellamento: «il martello di una crescente centraliz-zazione (der Hammer einer sich steigernden Centralisation)» che cade sui popoli europei, scriverà Bauer, li renderebbe compagni di uno stesso destino, mandan-do così in frantumi i resti delle nazionalità e rendendo possibile un'Europa comune: B. BAUER, Vorwort, in «Schmeitzner's Internationale Monatsschrift. Zeitschrift fiir allgemeine und nationale Kultur und deren Literatur», Jh. 1882, Bd. I, S. 1-5. Questa idea baueriana è condivisa da un altro collaboratore della Schmeitzner's internationale Monatsschrift, Nietzsche, che, in una lettere del novembre 1882, scrive a Gast che l'idea fondamentale dell'introduzione di Bauer

— l'unità europea e l'annientamento delle nazionalità (das Europiierthum mit der Perspektive der Vernichtung der Nationalitiiten) — sarebbe la sua stessa idea: F. Nietzsche an H. Kóselitz, 5.2.1882, in NIETZSCHE, Briefwechsel (1880-1884), in Werke. Kritische Gesamtausgabe, cit., Bd. III, 1, p. 167. Sulla collaborazione di Nietzsche alla rivista di Schmeitzer, della quale Bauer fu direttore fino al 1882, anno della sua morte, si veda M.B. BROWN, Friedrich Nietzsche und sein Verleger Ernst Schmeitzer: eine Darstellung ihrer Beziehung, Stanford University, Diss. Germanic literature, 1986.

136 B. BAUER, Disraelis romantischer und Bismarcks sozialistischer Imperiali-smus, Chemnitz, 1882 (ristampa anastatica: Aalen, Scientia Verlag, 1979), p. 241.

137 Luca, 11:52. La citazione di Bauer è lievemente modificata. Nella ver-sione luterana suona: «Weh euch Schriftgelehrten! denn ihr habt den Schlùssel der Erkenntnis weggenommen. Ihr kommt nicht hinein und wehret denen, die hinein wollen». Secondo la versione della Nuova riveduta, a cura della Società Biblica di Ginevra, 20017: «Guai a voi, dottori della legge, perché avete portato via la chiave della scienza! Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l'avete impedito». Ho tenuto presente anche la versione della Bibbia a cura della Conferenza Episcopale Italiana, seconda edizione del 1974. Bauer non indica mai il luogo della Bibbia dal quale cita; d'ora in poi mi limiterò a dare indicazione di tutti i riferimenti, espliciti o impliciti nel testo di Bauer, senza alcun'altra precisa-zione [N.d.C.1.

138 Bauer riprende quasi alla lettera Atti, 10:34, 35. 139 Luca, 12:49. 140 Si tratta di G. SALOMON, Sendschreiben an den Herrn Dr. Z. Frankel,

Oberrabbiner in Dresden: in Betreff seines im "Orient" mitgetheilten Gutachtens &ber das neue Gebetbuch der Tempelgemeinde zu Hamburg, Hamburg, Boe-decker, 1842.

141 IL titolo completo è Herr Dr. Hengstenberg. Kritische Briefe iiber den Gegensatz des Gesetzes und des Evangeliums, Berlin, F. Diimmler, 1839.

142 Levitico, 11:44. 143 Luca, 18:29. 144 1 Pietro, 2:9. 145 Si tratta di W.B. FRANKEL, Die Unmóglichkeit der Emanzipation der

Juden im christlichen Staate, Elberfeld, Buchhandlung von W. Hassel, 1842. 146 Matteo 12:30; Luca 11:23. 147 Si tratta di J.A. FRAENICEL, Die Cultus-Ordnung der Juden in Preussen,

vorgeschlagen in Uebereinstimmung mit anderen juedischen Theologen, Frankfurt an der Oder, Harnecker, 1842.

148 Si tratta di CARI. H. HERKEs, i cui testi furono pubblicati come articoli di apertura nella «Kòlnische Zeitung» del 6.7. 1842, Nr. 187 e del 30.7.1842, Nr. 211, e con il titolo Letztes Wort an Herrn Philippson zu Magdeburg, sempre nella «Kòlnische Zeitung» del 23.8.1842, Nr. 235, Beilage.

149 Si tratta della lettera cliPaolo ai Galati 6:10. 150 Die Juden in Osterreich. Vom Standpunkte der Geschichte, des Rechts

und des Staatsvorteils, 3 Bande, Leipzig, Mayer und Wigand, 1842. Il testo, pub-blicato anonimo, è attribuibile a Josef Werteimer.

151 Isaia 29:13. 152 Si tratta di J A EISENMENGER, Das entdeckte Judentum, Kònigsberg,

1711, 2 Bde (ristampa: Dresden, Brandner, 1893). Bisogna tenere presente che l'invito a scrivere un Entdecktes Cristentum fu accolto dallo stesso Bauer, che

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scrisse effettivamente, quasi contemporaneamente alla Judenfrage, un Das ent-deckte Christentum, che venne però censurato e distrutto nel luglio del 1843. Il testo fu dato per perso fino al rinvenimento di un esemplare e quindi alla sua ripubblicazione agli inizi del XX secolo ad opera di ERNST BARNIKOL: (Das ent-deckte Christentum. Eine Erinnerung an das achtzehnte Jahrhundert und ein Bei-trag zur Krisis des neunzehnten, Ziirich und Winterthur, Druck und Verlag des literarischen Comptoirs, 1843, ristampato in E. BARNIKOL, Das entdeckte Chri-stentum zin Vormiirz. Bruno Bauers Kampf gegen Relígion und Christentum und Erstausgabe seiner Kampfschrift, Jena, Eugen Diederichs, 1927).

153 B.G. DE LA SERRE, Examen de la religion dont on cherche l'éclaircisse- ment de bonne foy, Londres, G. Cook, 1761. Il testo, che si presentò come una traduzione dall'inglese ad opera di Gilbert Bumet e il cui autore sarebbe stato M. DE ST-EVREMOND, è in realtà un apocrifo il cui vero autore è appunto de La Serre.

154 Si tratta di Le christianisme dévoilé ou examen des principes et des effets de la religion chrétienne, par FEU M. [NICOLAS-ANTOINE] BOULANGER, Londres, 1756. Il testo é in realtà di P.H.D. D'HoLsAcH e fu pubblicato ad Amsterdam nel 1766.

155 Bauer critica qui il "razionalismo teologico" sorto alla fine del XVIII secolo in seno all'illuminismo tedesco. Bauer aveva già attaccato il Rationalismus come «massimamente vuoto e inconsistente» nelle Theologische Schamlo-sigkeiten, pubblicate nei «Deutsche Jahrbiicher fiir Wissenschaft und Kunst», Nov. 1841, Nr. 117-120, pp. 465-79. Secondo Bauer il "razionalismo", essendo incapace di superare la separazione tra soggetto e oggetto, porrebbe Dio in un al di là inconoscibile, accentuando ancora di più l'estraneità di ciò che, nelle Scrit-ture, pretende di essere "Sacro". Per quanto riguarda il "razionalismo" nell'ese-gesi biblica rimando H. HOLHWEIN, Rationalismus und Supranaturalismus, kir-chengeschichtlich, in K. GALLING (HRSG. voN), Die Religion in Geschichte und Gegenwart. Handwórterbuch far Theologie und Religionswissenschaft, Bd. 5, Tiibingen, J.C.B. Mohr, 1961, pp. 791-800.

156 Matteo 7:3,5. 157 Geremia 29:7. 158 Riferimento a Luca, 15:7. 159 Riferimento a Matteo, 25:33. 16° Qui Marx, oltre ad introdurre i corsivi, non presenti nel testo di Bauer,

modifica, forse per un errore nella trascrizione, anche il testo: nell'originale leg-giamo «nonostante il fatto che egli sia ebreo e voglia rimanere ebreo (Jude blei-ben will)», mentre Marx scrive «nonostante il fatto che egli sia ebreo e debba rimanere ebreo (Jude bleiben soli)». Anche nelle successive citazioni dall'opera di Bauer, Marx interviene con tagli e aggiustamenti, che possono essere controllati confrontando il testo degli scritti di Bauer al quale rimandiamo.

161 Il titolo completo è: G. DE BEAUMONT, Marie ou l'Esclavage aux États-Unis, tableau de moeurs Américaines, Paris, Charles Gosselin, 1835.

'62 Si tratta di TH. HAMILTON, Men and manners in America, Edinburgh, W. Blackwood, 1833, che Marx cita dall'edizione tedesca tradotta da L. HOUT, Die Menschen und die Sitten in den Vereinigten Staaten von Nordamerika, Mannheim, Hoff, 1834.

163 G.W.F. HEGEL, Grundlinien derPhilosophie des Rechts, Berlin, Nicolai-schen Buchhandlung, 1821, trad. it. a cura di G. MARINI, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1987, § 270 Annotazione, p. 217.

164 il passo, oltre all'aggiunta dei corsivi, è riportato da Marx con qualche modifica. Lo riproduciamo qui nell'originale di Bauer: «Recentemente, per dimostrare l'impossibilità o la non esistenza di uno Stato cristiano, si è fatto mol-to spesso riferimento a quei precetti del Vangelo che non solo non vengono seguiti dallo Stato odierno, ma che esso non può nemmeno seguire se, in quanto Stato, non vuole dissolversi completamente».

«Ma la faccenda non può essere liquidata così semplicemente. Che cosa impongono quei precetti evangelici? La sovrannaturale rinunzia a se stessi, la sot-tomissione all'autorità della rivelazione, l'allontanamento dallo Stato, la soppres sione dei rapporti secolari. Ebbene, lo Stato cristiano richiede e mette in opera tutto questo. Esso si è appropriato dello spirito del Vangelo, e se non lo rende con gli stessi termini del Vangelo, ciò dipende dal fatto che esprime questo spiri-to nelle forme dello Stato, vale a dire in forme prese a prestito dallo Stato e da questo mondo [dem Staatswesen und dieser Welt, mentre Marx Scrive: dem Staat-swesen in dieser Welt], che però, nella rigenerazione religiosa che devono subire, sono ridotte a mera parvenza. Lo Stato cristiano è l'allontanamento dallo Stato, allontanamento che, per attuarsi, si serve delle forme statali».

165 HEGEL, Lineamenti, cit., § 183. '66 Si tratta della Histoire parlementaire de la révolution francaise ou Journal

des assemblées nationales depuis 1789 jusqu'en 1815, a cura di P.J.B. BUCHEZ e P.C. Roux, Paris, Paulin, vol. XXVIII, 1836. L'opera in 40 volumi venne pubbli-cata dal 1834 al 1838. Robespierre jeune è Augustin Bon Joseph Robespierre (1764-1794), che morì ghigliottinato assieme al fratello Maximilien il 10 termido-ro (28 luglio).

167 Gattungswesen indica qui l'essenza dell'uomo individuale conciliata con il genere umano, e perciò divenuta tutt'uno con l'essenza-del-genere. Qui, come altrove, abbiamo scelto di tradurre Gattungswesen con «ente generico», dove «generico» va inteso come relativo al genere (Gattung).

'" B. BAUER, Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker, 2 Bde, Leipzig, Otto Wigand, 1841; Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker, 3. und letzter Band, Braunschwieg, Friedrich Otto, 1842; D. FR. SmAus, Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet, 2 Bde, Tiibingen, Verlag von C.F. Osiander, 1835-36.

169 HAMILTON, Die Menschen und die Sitten, cit., I, pp. 109-10. 170 L. RANKE, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, Berlin,

Duncker & Humblot, Bd. II, 1839, p. 207. L'opera in 5 volumi venne pubblicata dal 1839 al 1843.

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nel mese di maggio 2004 dalla grafica artigiana - via luca valerio - roma


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