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CORSO “SCUOLA DEL PATRIMONIO · E di fatto ogni progetto ha generato problemi, da tutti i punti...

Date post: 28-Sep-2020
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1 CORSO “SCUOLA DEL PATRIMONIOClasse aperta Massimo Osanna Coniugare tutela e valorizzazione: la ricerca nel patrimonio culturale 18 marzo 2019 Mibac – Sala della Crociera Ringrazio innanzitutto la Direttrice della Scuola, arch. Carla Di Francesco, per l’invito a tenere la lezione di oggi: ne sono particolarmente lusingato. E la ringrazio anche per l’affettuosa introduzione. Il tema che mi è stato chiesto di affrontare – come coniugare tutela, valorizzazione e ricerca nel patrimonio culturale – è molto complesso. Sarà una bella sfida trattare, in un poco più di un'ora, quello che ritengo sia uno dei temi cruciali per chi lavora nel Ministero dei Beni Culturali. Per farlo non posso che partire dalla mia esperienza a Pompei, anche se mi fa piacere che sia stata ricordata quella di un anno come soprintendente in Basilicata. Quella, infatti, è stata una tappa che, oltre ad essere stata molto formativa, ha rappresentato un punto di svolta nella mia carriera: mi ha permesso di passare da un approccio teorico – anche se per gli archeologi c'è sempre quel risvolto delle attività sul campo che rende un po' più concreto il proprio lavoro rispetto ad altre realtà – all'esperienza, complessa, di gestione di un'area. Allora c'erano le soprintendenze archeologiche regionali: l’area di competenza interessava quindi tutta la Basilicata, tra l’altro ricchissima da un punto di vista archeologico. Era anche una delle soprintendenze che credo funzionasse meglio, con funzionari molto esperti, anche affiatati, e una tradizione che era venuta radicandosi, già negli anni ’60, nel solco della sperimentazione, con Dinu Adameșteanu che aveva introdotto l’utilizzo di tecnologie, nuove per l’epoca, nel lavoro quotidiano dell’archeologo: penso alla fotografia aerea per indagare il Metapontino o ai carotaggi per ricercare il porto di Siris. Questa tradizione aveva visto coniugare in maniera molto seria e puntuale una attenzione al territorio – da parte di funzionari che vi lavoravano e lo monitoravano – e alla ricerca. Proprio la ricerca, prima con Adameșteanu e poi con chi lo ha seguito – per esempio Bottini – si era alimentata di rapporti con altri enti di ricerca e università, anche internazionali. E la ricerca fece della Basilicata, già negli anni ’80, un luogo di dibattito per tutta una serie di temi fondamentali: quello del contatto di culture, dell'ibridazione e della fluidità delle culture, dei movimenti di oggetti e uomini nell'ambito del bacino del Mediterraneo. Tuttavia, se questa è stata un'esperienza molto formativa per me, quella di Pompei è stata qualcosa di diverso: un'esperienza straordinaria anche se, adesso lo posso dire, molto faticosa in quanto è coincisa con un momento molto particolare, quello del Grande Progetto Pompei. Avviato con un po’ di fatica già un paio di anni prima del mio insediamento, solo nel 2014 il progetto ebbe finalmente un avvio deciso. Ricordo
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    CORSO “SCUOLA DEL PATRIMONIO”

    Classe aperta

    Massimo Osanna

    Coniugare tutela e valorizzazione: la ricerca nel patrimonio culturale

    18 marzo 2019

    Mibac – Sala della Crociera

    Ringrazio innanzitutto la Direttrice della Scuola, arch. Carla Di Francesco, per l’invito a tenere la

    lezione di oggi: ne sono particolarmente lusingato. E la ringrazio anche per l’affettuosa introduzione.

    Il tema che mi è stato chiesto di affrontare – come coniugare tutela, valorizzazione e ricerca nel

    patrimonio culturale – è molto complesso. Sarà una bella sfida trattare, in un poco più di un'ora, quello

    che ritengo sia uno dei temi cruciali per chi lavora nel Ministero dei Beni Culturali. Per farlo non

    posso che partire dalla mia esperienza a Pompei, anche se mi fa piacere che sia stata ricordata quella

    di un anno come soprintendente in Basilicata. Quella, infatti, è stata una tappa che, oltre ad essere

    stata molto formativa, ha rappresentato un punto di svolta nella mia carriera: mi ha permesso di

    passare da un approccio teorico – anche se per gli archeologi c'è sempre quel risvolto delle attività

    sul campo che rende un po' più concreto il proprio lavoro rispetto ad altre realtà – all'esperienza,

    complessa, di gestione di un'area. Allora c'erano le soprintendenze archeologiche regionali: l’area di

    competenza interessava quindi tutta la Basilicata, tra l’altro ricchissima da un punto di vista

    archeologico. Era anche una delle soprintendenze che credo funzionasse meglio, con funzionari molto

    esperti, anche affiatati, e una tradizione che era venuta radicandosi, già negli anni ’60, nel solco della

    sperimentazione, con Dinu Adameșteanu che aveva introdotto l’utilizzo di tecnologie, nuove per

    l’epoca, nel lavoro quotidiano dell’archeologo: penso alla fotografia aerea per indagare il

    Metapontino o ai carotaggi per ricercare il porto di Siris. Questa tradizione aveva visto coniugare in

    maniera molto seria e puntuale una attenzione al territorio – da parte di funzionari che vi lavoravano

    e lo monitoravano – e alla ricerca. Proprio la ricerca, prima con Adameșteanu e poi con chi lo ha

    seguito – per esempio Bottini – si era alimentata di rapporti con altri enti di ricerca e università, anche

    internazionali. E la ricerca fece della Basilicata, già negli anni ’80, un luogo di dibattito per tutta una

    serie di temi fondamentali: quello del contatto di culture, dell'ibridazione e della fluidità delle culture,

    dei movimenti di oggetti e uomini nell'ambito del bacino del Mediterraneo. Tuttavia, se questa è stata

    un'esperienza molto formativa per me, quella di Pompei è stata qualcosa di diverso: un'esperienza

    straordinaria anche se, adesso lo posso dire, molto faticosa in quanto è coincisa con un momento

    molto particolare, quello del Grande Progetto Pompei. Avviato con un po’ di fatica già un paio di

    anni prima del mio insediamento, solo nel 2014 il progetto ebbe finalmente un avvio deciso. Ricordo

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    con orgoglio la prima relazione Unesco del 2015, anno successivo al mio arrivo, che diceva:

    “finalmente a Pompei non più parole ma fatti”. Fu una grande soddisfazione quella. Ovviamente

    l’avvio solido del Grande Progetto è dipeso da una somma di fattori, di forze e di impegno da parte

    di più Ministeri, di loro società in house – come Ales e Invitalia che erano all'interno della struttura

    di gestione – e soprattutto alla presenza, in quel momento, di un team dei Carabinieri guidato dal Gen.

    Giovanni Nistri – adesso comandante dell'Arma – che affiancava la soprintendenza. La prima sfida

    da affrontare è stata proprio quella: dialogare e far dialogare – cosa non così scontata – tutto il

    personale della soprintendenza con il personale che era venuto ad affiancarla. Ogni forma di

    colonizzazione nella storia è stata vissuta in maniera molto drammatica. Anche a Pompei, quando

    dopo la guerra sociale dell'89 arrivarono i Romani creando la colonia Veneria pompeianorum, i

    documenti narrano di questa difficile convivenza, che aveva creato notevoli attriti fra le popolazioni

    locali e le persone che erano arrivate da fuori. E fu solo dopo vari decenni che finalmente questo

    corpo civico si amalgamò e gli attriti etnici lasciarono il posto, semmai, ad attriti sociali di diverso

    livello. Far dialogare queste strutture è stata quindi la vera sfida e, devo dire, il successo

    dell’operazione. Con il Gen. Nistri abbiamo avuto da subito un'idea molto chiara degli obiettivi e

    delle modalità per raggiungerli, ognuno nell’ambito delle proprie competenze. Lui, che ovviamente

    doveva gestire come stazione appaltante tutti i processi di gara e di inizio lavori, si è sempre

    confrontato con me per gli aspetti tecnici – se una cosa si può fare, non si può fare, se è giusto farla

    in un modo o in un altro – raccogliendo tutte le indicazioni necessarie per fare in modo che la fretta

    di voler impiegare le risorse non andasse a discapito del far bene. In fondo il motto è stato “fare

    presto, ma anche fare bene”: e questo si è potuto fare grazie ad un dialogo costante fra i due gruppi

    di lavoro. In verità anche un altro aspetto molto positivo ha contato per il successo dell'impresa: e

    cioè il fatto che anche al Ministero ci si era resi conto che i problemi di Pompei non potevano essere

    risolti solo con finanziamenti o commissariamenti. Il Grande Progetto Pompei non era, infatti, il frutto

    di un commissariamento, e il Gen. Nistri non era un commissario. A differenza di quanto era accaduto

    in passato egli doveva operare nel pieno rispetto del Codice degli Appalti, senza deroghe. Il Gen.

    Nistri era dunque un Direttore Generale di progetto che operava nel rispetto delle norme. Quindi le

    gare che si facevano, soprattutto europee, seguivano l’intero iter. Si è cercato però di accelerare i

    tempi, evitando di cadere in quell’inerzia in cui spesso le nostre amministrazioni ricadono. Per farlo

    bisognava avere tutte le fasi molto ben scandite: la progettazione, la messa a gara tramite Invitalia e

    soprattutto l'iter delle verifiche, che erano seguite in maniera molto seria in modo da non perdere quei

    mesi che spesso le verifiche richiedono. Nel rendersi conto che non si poteva affrontare il complesso

    problema di Pompei come in passato, il Ministero si era anche reso conto che serviva ulteriore

    personale qualificato. Il personale strutturato a Pompei era pochissimo: pochissimi gli archeologi,

    pochissimi gli architetti, assolutamente non adeguati per numero e per esperienza ad affrontare una

    sfida così complessa, e portare avanti un grande progetto che implicava operare su tutta la città,

    contemporaneamente e su più piani.

    È così che, con una legge speciale, a Pompei sono arrivati 20 nuovi funzionari pescati fra gli idonei

    all’ultimo concorso. Tra di essi 10 archeologi e 10 architetti – provenienti da tutta Italia e quindi con

    un bagaglio di esperienze diverse – che hanno creato da subito un team molto affiatato. Ciò è servito

    moltissimo in fase di avvio: perché quando poi siamo arrivati io e il Gen. Nistri abbiamo dato molte

    responsabilità a questi giovani, i quali si sono formati anche sul campo. Di questo aspetto ne

    parlavamo prima della lezione con lo staff direttivo della Scuola dei beni e delle attività culturali: la

    scuola, tra le altre cose, deve fare in modo che i funzionari arrivino già consapevoli delle sfide che

    un'operazione come quella della tutela e della valorizzazione di siti archeologici o di musei richiede.

    Anche i nostri funzionari – già preparatissimi dal punto di vista tecnico-scientifico – hanno dovuto

    tuttavia formarsi ulteriormente sul campo, sotto altri punti di vista: nello sviluppare anche capacità

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    amministrative, per esempio, o nel saper lavorare insieme. Sempre sul fronte della necessità di

    acquisire personale qualificato, abbiamo segnalato al Ministero anche la mancanza di ingegneri, che

    ha portato a cooptare una segreteria tecnica. Avere gli ingegneri in un luogo dove crollavano le

    coperture era abbastanza importante ma, come sapete bene, per una amministrazione pubblica riuscire

    a cooptare professionalità dall'esterno equivale a seguire un processo così lungo che a cadere per

    prima è la copertura. Tuttavia ci si riuscì. Ci furono vari problemi, all’inizio, come sempre quando si

    inizia una nuova attività: nel complesso però fu un'esperienza positiva, perché arrivarono 7 ingegneri

    che hanno potuto affiancare i nostri funzionari, entrando come direttori operativi nelle squadre di

    progettazione e poi di direzione dei lavori. Sulla stessa scia, come se non bastasse, abbiamo anche

    deciso di potenziare tutti quei settori che noi riteniamo fondamentali, per esempio quello

    archeologico, integrando la presenza di antropologi fisici, di archeozoologi, di paleobotanici, ecc. In

    un sito come quello di Pompei, con decine, anzi migliaia di vittime dell'eruzione e di resti scheletrici

    che affollano stanze e stanze di depositi, non si può lavorare senza un antropologo fisico. Così ne

    abbiamo preso una a contratto e lì la fortuna è stata che poi è entrata da funzionario effettivo grazie

    all'ultimo concorso. Abbiamo anche fatto un accordo con la società in house Ales per acquisire, sotto

    forma di servizi, nuovo personale di accoglienza e vigilanza per aprire di volta in volta le domus che

    venivano restaurate. Si tratta di 50 nuovi addetti cooptati con contratti annuali che abbiamo rinnovato

    di anno in anno, prima sui fondi del Grande Progetto, poi sul bilancio ordinario. Tutto ciò premesso,

    richiamando il tema di oggi – come coniugare tutela e valorizzazione attraverso la ricerca –, credo

    che uno degli aspetti più importanti venuto fuori dall’esperienza di Pompei è che è fondamentale la

    capacità di saper lavorare insieme, in team. Non è possibile non concepire il lavoro in una

    soprintendenza, in un museo, in un parco archeologico come un lavoro di squadra, dove tutte le

    competenze sono in dialogo reciproco. È sulla base di un retaggio ottocentesco che in passato le

    soprintendenze si sono strutturate in funzione delle varie discipline, dove gli archeologi facevano gli

    archeologi, gli architetti facevano gli architetti, i restauratori facevano i restauratori senza parlare fra

    di loro e creando danni notevoli. Un progetto di restauro, oggi più che mai, deve potersi avvalere

    della competenza scientifica dell'archeologo – per la ricostruzione storica del contesto e dei pregressi

    interventi sul monumento – che ti permetta, faccio un esempio, di dire che un mosaico distaccato

    deve essere ricollocato in un certo modo, ad una certa quota, in una certa maniera, tutto ciò tenuto

    conto degli aspetti tecnico-architettonici, sismici e statici, ma anche del contesto che deve essere

    ricreato e non stravolto. È ovvio che qui, adesso, tendiamo a parlare delle “magnifiche sorti e

    progressive”, però quando contemporaneamente partono 70 progetti, cioè 70 appalti, che vanno in

    parallelo per 4 anni, dietro c'è tutta una complessità che può generare anche problemi. E di fatto ogni

    progetto ha generato problemi, da tutti i punti di vista. Pensate soltanto al fatto che a Pompei anche il

    progetto fatto meglio non può prevedere quello che viene fuori – per esempio strutture preesistenti –

    da un restauro, e che nei progetti europei, le varianti non si possono realizzare.

    Faccio un piccolo esempio: ristrutturando gli uffici ottocenteschi della soprintendenza, dove

    andavano consolidate le fondamenta, durante un saggio è venuta fuori una tomba monumentale. Se

    avessimo dovuto seguire l'iter delle linee guida dei fondi europei si sarebbe dovuto chiudere,

    tumulare, perdendo questo documento. Ovviamente non me la sono sentita. Così, con il Consiglio di

    Amministrazione siamo riusciti a trovare dei fondi extra sul bilancio ordinario per fare lo scavo e

    continuare, non senza andare incontro ad una serie di problemi nella gestione amministrativa. In

    compenso è venuta fuori una tomba con l'iscrizione più lunga e importante di Pompei che riscrive la

    storia degli ultimi decenni della città: una scoperta straordinaria per la ricerca. Come si vede, le

    complessità per ogni progetto non sono mancate. Per questo penso che i nostri prossimi funzionari

    debbano essere formati al problem solving: perché è facile a un certo punto bloccarsi su un problema,

    soprattutto perché ogni problema comporta responsabilità. La cosa più facile da fare in quel caso

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    sarebbe stato tumulare la tomba, come qualcuno aveva proposto ovviamente, e dimenticare il

    problema. Però il nostro è un dovere, il dovere della tutela: se non salviamo un manufatto di quel

    genere, che riscrive la storia di Pompei, dov'è allora il nostro impegno? Il fatto è che troppo spesso

    noi ragioniamo per compartimenti stagni. Anche le norme spesso ci inducono a farlo. La tutela, la

    valorizzazione, la ricerca sono campi tutti strettamente connessi e non possono che essere trattati in

    maniera interrelata, perché non c'è tutela senza conoscenza e dunque ricerca; ed è forse inutile la

    tutela se non c'è la valorizzazione. Pensando soprattutto ai luoghi che sono patrimonio dell'umanità,

    se rimangono luoghi chiusi, se diventano luoghi non fruibili, in fondo si può dire che sono luoghi non

    tutelati. Talvolta ci sono dei controsensi con cui noi ci dobbiamo confrontare. Uno di questi, e che

    spesso i nostri funzionari hanno portato avanti, è avere una gestione troppo chiusa del patrimonio,

    come se fosse proprietà privata: un comportamento che non si può concepire, e chi lavora

    nell’amministrazione ha il dovere etico di combatterlo.

    ***

    Quello che si vede in alto è lo schema del Grande Progetto Pompei che permette di comprendere la

    sua articolazione in piani: 105 milioni di euro complessivi, di cui la maggior parte – circa 86 milioni

    – erano destinati ai lavori di restauro e messa in sicurezza – perché ovviamente la tutela era il punto

    di partenza – e poi ad una serie di altri piani. Tra questi, il Piano della conoscenza, con la

    documentazione a tappeto di tutto secondo una metodologia assolutamente contemporanea, che

    sfruttava l'avanzamento delle scienze informatiche e delle metodologie di documentazione che vanno

    dal drone, al laser scanner, alla fotogrammetria. Pompei è stata dunque documentata a partire da una

    nuova pianta in scala 1:50 – laddove noi lavoravamo su scala 1:500, che non era adeguata per

    registrare ad esempio gli intonaci murari – che è diventata la base di questo piano della conoscenza,

    permettendo di creare un enorme archivio informatizzato webGIS, molto complesso. Data la

    complessità, avevamo preso a contratto un esperto di GIS per formare i nostri funzionari a utilizzarlo.

    Poi mi sono accorto che non lo usavano: era così complesso che spesso i funzionari lavoravano sulle

    piante precedenti. Da qui abbiamo capito che, anche il progetto più utile e ambizioso, deve tener conto

    delle difficoltà con cui si misura quotidianamente una struttura organizzativa. Da qui la nostra

    prossima sfida: rendere il sistema più friendly. Una cosa analoga successe anche nell'80, subito dopo

    il terremoto: l’allora soprintendente Fausto Zevi aveva dato avvio ad un progetto pioneristico di

    informatizzazione, creando delle schede informatiche relative allo stato di conservazione del sito.

    Purtroppo questo enorme lavoro non è stato mai usato, al punto che quando io sono arrivato non se

    ne aveva traccia, non si trovava. Fausto Zevi, che negli anni della mia soprintendenza era presidente

    GREAT

    POMPEII

    PROJECT

    THE PUBLIC WORK PLAN

    € 85.000.000

    COMUNICATION AND ENHANCEMENT OF

    CULTURAL HERITAGE PLAN

    € 7.000.000

    SAFETY ENHANCEMENT PLAN

    € 2.000.000

    THE KNOWLEDGE PLAN

    € 8.200.000

    CAPACITY BUILDINGENHANCEMENT PLAN

    € 2.800.000

    The Great Pompeii Project is

    an integrated program of

    actions and interventions

    aimed at halting the decay of

    Pompeii and creating the

    conditions for its permanent

    conservation (programmed

    maintenance).

    The GPP is carried out with

    the contribution of the

    European Commission and

    the resources of structural

    funds (105.000.000 € ).

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    degli “Amici di Pompei”, mi diceva che sarebbe stato importante ritrovare le schede, per confrontare

    lo stato di conservazione: ma non se ne è trovata traccia. Finito il grande momento del terremoto che

    aveva visto anche lì grandi forze in campo – funzionari che venivano da tutta Italia, un grande lavoro

    di squadra che mi pare avesse visto anche in quel caso la presenza dei Carabinieri o dell'Esercito – si

    è tornati all'ordinario, e l'ordinario ha significato dimenticare tutto quello che era stato realizzato. Un

    errore fatale che potrebbe verificarsi nuovamente a Pompei. Per evitarlo, contiamo molto sulla forza-

    lavoro impiegata e, soprattutto, sulla motivazione. Oltre al Piano della conoscenza, il progetto

    includeva un Piano della capacity building, per il rafforzamento delle capacità gestionali della

    struttura, in parte fatto con la società Ales. In questo caso abbiamo preso personale amministrativo

    per affiancare i vari uffici in sofferenza, che andavano a rilento o il cui personale non era abbastanza

    aggiornato in relazione, ad esempio, a tutti i cambiamenti del Codice degli Appalti o alle novità che

    spesso affiorano nel mondo dell'amministrazione. Oltre al Piano per la Capacity Building, il progetto

    includeva un Piano della sicurezza: nuova videosorveglianza – anche all'interno dell’area laddove

    non c'era prima – realizzata in collaborazione col Ministero degli Interni, nuova recinzione e nuova

    illuminazione perimetrale. E poi un Piano della comunicazione e fruizione, di cui accennerò, che è

    fondamentale in un luogo come Pompei che l'anno scorso ha chiuso con un aumento ulteriore dell’8%

    dei visitatori sfiorando i 3,8 milioni. Da quando monitoro il cambiamento, cioè da quando nel 2014

    siamo arrivati io e il Gen. Nistri, adesso i visitatori sono saliti di oltre un milione, passando da due

    2,5 milioni a 3,5 milioni nel 2017, a 3,8 milioni l'anno scorso: una cifra notevole con cui confrontarsi

    e che richiede, ancora una volta, di avere una visione rispetto a cosa voglia dire far funzionare una

    città come Pompei. Pompei è frequentata quotidianamente da migliaia di persone con picchi anche

    intollerabili. Durante una domenica gratuita che ha avuto 40.000 visitatori ho per esempipo deciso di

    inserire un numero chiuso parziale: in questo modo se a mezzogiorno si erano raggiunti i 15.000

    visitatori, l’area veniva chiusa fino alle due e poi la si riapriva in modo da consentire il deflusso dei

    turisti della mattina e accoglierne di altri, senza mandare via alcun visitatore.

    ***

    Ora parliamo dall'aspetto della tutela cercando di capire come non possa che essere coniugata alla

    ricerca e alla valorizzazione.

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    Uno dei lavori più complessi che sono stati portati avanti e che si stanno chiudendo proprio in questi

    mesi è quello evidenziato in celeste nella pianta. Si tratta del lavoro di messa in sicurezza delle

    regiones 1 e 2, laddove tutte le altre regiones la 6 la 7 la 8 la 4, 5 e 9 erano state già completate. Che

    cos'è la messa in sicurezza? Questo è uno degli aspetti che, per iniziare a ragionare in maniera seria

    sulla tutela di Pompei, andavano affrontati. A Pompei non era più possibile continuare con singoli

    restauri di un'insula, di una casa, magari distribuiti in vari punti senza una sistematicità. Andava

    assolutamente fatto un intervento di manutenzione straordinaria – che era quello che era mancato per

    tanto tempo – e quindi mettere in campo tutta una serie di forze per evitare l'ulteriore perdita di materia

    archeologica.

    VI

    VII

    VIII

    IV-V-IX

    I-II-III

    The Work Plan

    Six works tenders were launched by february 2014 for the extraordinarymaintenance and safety works on the Buidings of the entireexcavated town

    The Consolidation and Restoration Works Implementation Plan: it provides the fulfilment of 39 projects which concerns the mitigation of hydrogeological risk, consolidation of masonry and restoration of decorative surfaces.

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    Qui si vede come il punto di partenza era disastroso, bisogna veramente dirlo. Laddove le aree aperte

    al pubblico erano tutto sommato in buono stato, le zone chiuse al pubblico – spesso dai tempi del

    terremoto dell'80 – erano in una situazione veramente fatiscente: coperture crollate e mai rimosse,

    vegetazione che con le radici creava grossi problemi alle strutture; addirittura domus usate come

    deposito da ditte poco accorte che le usavano per scaricare rifiuti. Poi c’era soprattutto un degrado

    diffuso ovunque: reti di plastica ormai fatiscenti, cartelli no entry che davano un senso di precarietà

    quasi apocalittica, lacune nei paramenti murari, malte ormai impoverite e che non erano più coerenti,

    intonaci che si staccavano. Alla luce di questo si è concepito un lavoro complesso che è partito

    innanzitutto da un monitoraggio sistematico, fatto da 20 giovani cooptati per l’occasione. Molto del

    lavoro era stato già fatto prima che arrivassi io dalla soprintendente che mi aveva preceduto, Teresa

    Cinquantaquattro, sotto la quale tutto l'aspetto del monitoraggio era andato avanti per quasi tutte le

    regiones, ad eccezione appunto delle regiones 1 e 2. Un lavoro meritorio che aveva fornito lo stato

    dell'arte da cui si è partiti per definire un progetto che implicava integrare le lacune murarie, fare

    bauletti sulle sommità dei muri laddove era necessario, dare consistenza con materiali compatibili

    alle malte antiche ormai completamente sfarinate e poi, soprattutto, ragionare sulla statica di questi

    edifici. In passato, per esempio, erano stati molto usati puntelli provvisori per sostenere i muri: questi

    però invadevano le strade creando inoltre tutta una serie di problemi, per esempio legati alla non

    percorribilità delle strade.

    Safety works on the entire s ite (situation in 2013)

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    Qui (si vedano foto) faccio vedere lo stato delle cose prima e dopo la cura: come si vede da un lato

    c’è il Vicolo delle Pareti Rosse tutto ingombro di puntelli; poi dall'altro lato il Vicolo dopo la cura.

    Che cosa si è fatto qui? Per esempio con i nostri ingegneri della segreteria tecnica – ce ne era uno in

    particolare molto strutturato e cooperativo – ci si è inventati dei tiranti, posizionati all’interno di

    un'area che non era visitabile perché priva di interesse dal punto di vista archeologico e architettonico.

    Questi tiranti, tenevano dall'interno il muro che era ormai irriducibilmente fuori piombo. Ne

    assicuravano la statica e permettevano di percorrere la strada liberandola da questo degrado. In

    generale tutte le forme di sperimentazione sono state fatte in un clima favorevole anche al dibattito e

    alla ricerca. Faccio un altro esempio: le colonne a Pompei sono state, nel passato, purtroppo tutte

    bucate per inserirvi all'interno elementi metallici i quali, ossidandosi, hanno ovviamente creato

    scompensi. Anche in questo caso è stato necessario avviare prima dei progetti di ricerca, per trovare

    la soluzione, imparando anche a comprendere i propri limiti e aprirsi agli altri. In questo senso

    abbiamo fatto una serie di convenzioni con altre istituzioni dove ricercatori internazionali, in questo

    caso quelli del Politecnico di Boston, avevano avviato ricerche specifiche sulla statica delle colonne,

    monitorandole anche rispetto a ipotetici terremoti. Lavorando con loro abbiamo trovato insieme, alla

    fine della ricerca, una molteplicità di soluzioni per salvare queste colonne che altrimenti andavano

    smontate, considerando che la materia archeologica in molti casi era davvero compromessa. In alto a

    sinistra c'è il Vicolo di Tesmo che, come si vede, non aveva più i basoli, i quali erano sparsi ovunque.

    Lì, per esempio, era caduta una bomba nel ’43, quando Pompei fu drammaticamente bombardata.

    Con 150 bombe sganciate fra il 24 agosto e il 13 settembre Pompei visse un’esperienza devastante,

    un episodio che si dimentica spesso, laddove invece si ricorda Cassino. Anche se tra il ’43 e il ‘48 le

    attività di Amedeo Maiuri furono volte a ricostruire, in quel caso la situazione è rimasta così, con i

    basoli ovunque. Per cui lì c’è stata la necessità di avviare ricerca d'archivio e poi una attività di

    ricomposizione. Una volta che i blocchi sono stati catalogati e rinumerati, si è provveduto a

    ricomporre il tessuto stradale: e a differenza dei restauri precedenti stavolta ogni intervento è stato

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    documentato. E qui vengo ad un altro dei problemi drammatici per i nostri luoghi della cultura: la

    mancanza di archivi sistematici. Non che non ci sia la documentazione. È semplicemente dispersa in

    mille rivoli, nelle cartelle che ogni RUP e ogni funzionario ha, senza un archivio organizzato in

    maniera informatica. E siccome spesso è difficilissimo recuperare informazioni sui restauri

    precedenti, il Piano della Conoscenza ha previsto la realizzazione di un archivio informatico dove

    confluiscono tutti gli interventi, anche quelli di manutenzione ordinaria, in modo che ci sia un

    monitoraggio continuo e dinamico dello stato di una struttura o di un manufatto architettonico. Anche

    la riapertura delle strade per restituire a Pompei la sua dimensione urbana è stato uno degli aspetti più

    interessanti del progetto. L’avevano capito già gli eruditi del ‘700: Scipione Maffei alla scoperta di

    Ercolano disse: “Oh qual gran ventura scoprire non l'uno o l'altro dei monumenti, ma un'intera città!

    correrà qui tutta Europa a vedere.” Aveva ragione. Per cui bisognava riaprire le strade eliminando il

    degrado, eliminando puntelli e risolvendo i problemi statici delle strutture che affacciano su queste

    strade. Questo significava anche avere la possibilità di poter gestire la pressione antropica di un

    turismo crescente: riaprire buona parte dei 44 ettari visitabili e costruire degli itinerari ad hoc

    attraverso un piano di valorizzazione pensato in funzione dell'apertura di case distribuite in tutta

    l'area, e non solo lungo Via dell'Abbondanza, potrebbe consentire una diversa gestione della pressione

    antropica, già piuttosto evidente, sul sito. A questo proposito porto un esempio: confrontando, qualche

    tempo fa, le foto Alinari di inizio ‘900 della casa del Fauno con la situazione attuale, abbiamo notato

    che i pavimenti dell'atrio in cocciopesto sono praticamente del tutto consumati. È quindi chiaro che

    lì c'è bisogno di ampliare l'offerta – per fare in modo che i turisti si distribuiscano in un’area più

    ampia – e di concepire strutture di protezione – per esempio passerelle trasparenti progettate ad hoc

    – che diventino veri e propri itinerari in grado di consentire la visita senza compromettere l’equilibrio

    della struttura.

    In quest’ottica, una delle esperienze in cui abbiamo voluto coniugare l'aspetto della tutela con quello

    della valorizzazione è il progetto “Pompei per tutti”. Partito come un progetto per i diversamente abili

    – perché a Pompei camminare sui basoli antichi, sconnessi, spesso anche compromessi delle bombe

    non è una cosa facile – è diventato poi un progetto aperto a tutti: mamme e papà con passeggini,

    bambini piccoli, persone che hanno difficoltà a deambulare. Il progetto ha permesso di creare itinerari

  • 10

    percorribili da tutti che si snodano in tutta l’area per circa 3 km. Questi itinerari permettono di

    superare tutte le barriere architettoniche grazie a superfici riconoscibili e piane, consentendo di

    visitare i maggiori e principali monumenti, in sicurezza: pensate che gli infortuni sono diminuiti del

    40%. Per la realizzazione del progetto sono stati ovviamente scelti percorsi dove non c'erano i basoli;

    e per la realizzazione dei marciapiedi i progettisti si sono confrontati con un team multidisciplinare.

    Ciò ha permesso di scegliere materiali compatibili – cioè materiali che erano già usati nelle

    architetture locali, come la pozzolana per esempio – e colori neutri, non dirompenti rispetto a un

    immaginario della rovina che va parimenti preservato. Questo lavoro di messa in sicurezza del tessuto

    stradale, ha interessato anche aree in cui sono presenti case che ormai hanno perso l’apparato

    decorativo – pitture, mosaici, ecc. – e pertanto non è neanche interessantissimo visitarle. Avere però

    riaperto tutte queste strade ha cambiato profondamente l'immagine di Pompei.

    Parallelamente alla messa in sicurezza, sono stati fatti restauri veri e propri su circa 30 case ed edifici

    selezionati in tutta l'area di Pompei: in arancione sono evidenziati gli edifici dove le gare e/o i lavori

    sono attualmente in corso; in rosso e in blu sono evidenziati i lavori già finiti (in blu erano quelli che

    sono stati fatti contemporaneamente su finanziamento ordinario), trattandosi di case su cui si è

    lavorato per prime essendo state segnalate dagli ispettori Unesco. A proposito degli ispettori Unesco,

    questi erano venuti due volte e non avevano avuto soddisfazione nel vedere le case nella stessa

    identica situazione. Dopotutto non ci voleva molto a dare dei segnali di cambiamento. Appena arrivati

    noi, nonostante ci fosse una gara in corso abbiamo fatto almeno il minimo. In corrispondenza del

    crollo di un oecus, con un piccolo affidamento abbiamo perlomeno eliminato il degrado più evidente,

    in modo da far vedere che si stava intervenendo.

    14

  • 11

    Invece per i casi come quello della casa di Sirico si è intervenuti con un progetto decisamente più

    ambizioso. Questa era una di quelle situazioni segnalate come maggiormente critiche: l’atrio era tutto

    puntellato, transennato, e non era assolutamente percorribile (qui si vede prima e dopo gli interventi).

    Ma ci sono anche situazioni ben più drammatiche: la casa del Marinaio per esempio era in pieno

    abbandono, con addirittura gli infissi risalenti al Maiuri ormai divelti e lasciati per terra, muschi

    dovunque, e le tessere dei mosaici ormai saltate. Sembrava impossibile procedere ad un ripristino.

    Con un intervento assai complesso, invece, i mosaici sono stati tutti recuperati e si è potuto riaprire

    al pubblico lo spazio. Anche qui era caduta una bomba. Ma in questo caso si è avuta l'occasione di

    fare nuove ricerche. Scavando il cratere della bomba si è potuta vedere la stratigrafia precedente

    all’eruzione e risalire alle fasi preromane di Pompei. Come detto in precedenza, il restauro anche in

    questo caso è stato concepito come un momento per fare ricerca. Fare ricerca archeologica significa

    fondamentalmente avere a che fare con attività di scavo: per capire come restaurare un edificio

    bisogna capire se un muro appartiene ad una fase o ad un'altra, se una struttura è di una fase o di

    un'altra.

    Nel complesso di Championnet, per esempio, si partiva da una situazione esattamente di questo

    genere. Case anche qui chiuse al pubblico e assolutamente fatiscenti, per riaprire le quali si è partiti

    da un lavoro di ricerca e scavo, cui ha fatto seguito una discussione sulla progettazione di coperture

    sperimentali. Questo fu un progetto fatto dai funzionari interni, quelli che erano arrivati a Pompei e

    facevano parte dei 20 con la legge speciale: persone con molte capacità (adesso purtroppo molti di

    loro sono tornati nelle loro sedi di origine) con cui abbiamo sperimentato, per esempio, una copertura

    in materiale nuovo, il Corian, mai stato usato in area archeologica. Si tratta di un materiale leggero e

    lavorabile a caldo, con cui si possono creare delle sagomature eleganti e soprattutto, essendo leggero,

    permette di essere appoggiato su murature senza creare piloni invasivi, mantenendo una spazialità

  • 12

    interna più compatibile con quella antica. Rimanendo nel solco del connubio tutela, ricerca e

    valorizzazione, una operazione che si è deciso di fare è stata quella di riconsiderare i contesti e,

    soprattutto, riconsiderare i materiali che vi appartenevano, riportandoli “in contesto”. Le case sono

    diventate dei piccoli musei.

    Quella che si vede in alto è la Casa di Championnet dove ai piani inferiori sono state riallestite le

    cucine. Nei piani superiori, dove c'erano due cabine elettriche che sono state ovviamente bonificate,

    sono state create due piccole stanze museo dove sono stati esposti i materiali che provenivano dai

    magazzini. L’assurdo è che materiali come questi si vedevano in mostre di tutto il mondo, da Sydney

    a Seul, tranne che a Pompei. Bisognava quindi creare dei luoghi di esposizione: e quale miglior luogo

    se non il loro contesto! Per cui abbiamo tirato fuori dai magazzini il plastico dell'800 che mostrava

    com’era la Casa al momento degli scavi, e poi anche quello che era venuto fuori dagli scavi,

    aggiungendo l’apparato didascalico che permetteva anche al turista di capire le fasi complesse di

    questo edificio.

    ***

  • 13

    Poi, uno degli aspetti sicuramente più complessi che ancora impegna i funzionari a Pompei è il

    progetto di messa in sicurezza dei fronti di scavo che riguarda tutta un'area che si estende per 66 ettari,

    di cui 22 non scavati e 44 scavati, dove le aree di confine fra scavato e non scavato – che corrisponde

    all’area laddove si è arrestato lo scavo dell'800 – sono di una criticità incredibile. Questa era una

    progettualità originariamente non inserita nel grande progetto. Con il Gen. Nistri tuttavia se ne è

    compresa la strategicità e si è deciso di mandare a gara la progettazione preliminare – realizzata con

    risorse interne nonostante fosse un progetto molto complesso – chiedendo alla ditta che ha vinto

    l’appalto – allora si poteva fare – di realizzare il progetto esecutivo. Quella che si vede è la situazione:

    tutto il materiale vulcanico – 5 metri di lapilli e flusso piroclastico – aveva subito uno smottamento e

    in alcuni punti – soprattutto le zone di confine – aveva provocato il crollo dei muri antichi, che erano

    i muri delle facciate delle case su cui tutto questo materiale vulcanico premeva.

  • 14

    Si è dunque deciso di partire con un progetto particolarmente ambizioso: in bianco e in giallo sono

    evidenziate le aree non scavate sottoposte ad intervento perimetrale di messa in sicurezza e

    stabilizzazione. Il progetto ha comportato l’eliminazione della vegetazione, ormai secolare, che si era

    accumulata e anche la creazione di un profilo del pendio che viene ad essere inclinato fino a

    raggiungere i 30 gradi in modo da non avere una massa incombente di materiale. Tutto questo è

    ovviamente staccato dai muri, perché lì poi si inserisce una gabbionata fra il pendio e la struttura e

    poi tutto questo viene rivestito da una geostuoia rinverdita che darà un aspetto anche omogeneo e

    gradevole. Questa è stata una straordinaria occasione di ricerca per Pompei. A proposito di questo,

    consentitemi di spendere delle parole sulla necessità della ricerca: in particolare vi farò vedere anche

    un esempio di ricerca che mi sembra particolarmente interessante per un’area archeologica.

    ***

    A Pompei si è spesso detto che non bisogna più scavare perché si è scavato moltissimo: è vero,

    soprattutto negli anni ’50. Nel dopoguerra, dopo le ricostruzioni post-bombardamento, gli anni ‘50

    hanno rappresentato anni di scavo selvaggi, laddove quelli degli anni ‘20/’30 sono stati accortissimi:

    tutti pubblicati con piante, accompagnati da progetti di allestimento modernissimi e con una

    sensibilità al restauro e alla valorizzazione degni di nota. Mentre si scavava si ricostruivano gli alzati

    – i resti dei secondi piani – e contemporaneamente si pensava al progetto di fruizione: veramente

    encomiabile, al punto che su molte case abbiamo proprio ripreso parte dei loro allestimenti storici.

    Negli anni ‘50 si iniziò a scavare in maniera forsennata anche per una ragione ben precisa: Cassa del

    Mezzogiorno, grandi finanziamenti per la costruzione dell’autostrada Napoli-Reggio Calabria che

    necessitava di lapilli per la bonifica delle zone più incoerenti e paludose. Questi scavi, che venivano

    condotti senza un team avveduto ed organizzato come quello che abbiamo adesso – c’era un solo

  • 15

    funzionario archeologo con la formazione degli anni ‘50 e centinaia di operai –, oltretutto senza

    documentazione e non metodologicamente corretti: erano cioè veri e propri sterri. Per questa ragione,

    di quegli anni noi abbiamo purtroppo pochissimo. E non è andato meglio dopo, quando negli anni

    ‘80 si è scavato – scavi ben più ridotti – con i fondi FIO. Anche quelli sono rimasti tutti inediti: non

    c'è nulla e spesso è anche difficile recuperare la documentazione in archivio. È chiaro come alla luce

    di queste esperienze negli anni ‘80-‘90 si sia deciso che non bisognava più scavare a Pompei: perché

    bisognava sistematizzare tutto il pregresso e, soprattutto, bisognava pensare alla manutenzione.

    Perché proprio ora si è ripreso a scavare a Pompei? Non si è iniziato a scavare per mero desiderio di

    conoscenza e ricerca. Si è iniziato a scavare perché si doveva scavare, perché in quelle aree non

    scavate nell'Ottocento spesso erano rimasti degli strani cunei, delle penisole di non scavato che

    creavano fronti di scavo con crolli ovunque. Il problema non era non scavare. Il problema era dove

    scavare, perché scavare e come scavare. Cambia completamente la prospettiva: la ricerca deve essere

    sempre coniugata alla tutela, lo ribadisco visto che è il tema della giornata.

    ***

    Ora vi faccio vedere questo scavo, impostato proprio come un vero e proprio cantiere di ricerca,

    facendo sempre attenzione agli aspetti di fruizione. Tutto questo è la teoria, naturalmente. Perché

    anche questo è stato un progetto complicatissimo, in quanto dietro a ogni progetto ci sono esseri

    umani con le loro difficoltà e le loro paure, il che può provare interruzioni, discussioni e malumori.

    Il progetto ha portato a scoperte di grande rilievo, reperti conservati in una maniera straordinaria di

    fronte ai quali si pone un serio problema di tutela che io, quando ero a Pompei, non avevo ancora

    affrontato ma che andrà fatto: cosa fare delle pitture che rimangono a ridosso del nuovo fronte di

    scavo? Saranno parzialmente interrate dalle gabbionate e poi non saranno mai fruibili? In questo caso,

    mentre i miei funzionari archeologi urlano dicendomi che non è possibile staccare, io sarei per

  • 16

    staccare il manufatto, soprattutto laddove i restauratori ti dicono: “questo, lasciato così, anche coperto,

    in vent'anni lo perdi”. Allora, a mali estremi, estremi rimedi: su questo bisogna essere duttili. In

    generale siamo tutti convinti che bisogna mantenere i manufatti in situ, ci mancherebbe, però non si

    può essere ciechi di fronte a quello che può significare mantenere in situ a tutti i costi una pittura se

    poi si corre il rischio di perderla. Ci sono casi in cui, poi, decidere di conservare un manufatto in situ

    talvolta implica che bisogna scavare tutta la stanza. E scavare tutta la stanza non comporta soltanto il

    trovare risorse aggiuntive, bensì spostare più indietro il pendio, cambiando il progetto in maniera

    significativa: cosa che non si può fare, soprattutto se si tratta di fare varianti ai progetti europei.

    Nel caso che si vede sopra, per esempio, dato il livello elevato delle pitture si è deciso di scavare. Qui

    si vede Leda col cigno, un ritrovamento che ha avuto anche un suo riscontro mediatico: Leda era

    proprio sotto il pendio. A seguito di uno sgrottamento è venuta fuori la gamba di Leda. Era un dipinto

    di così alto livello che si è deciso di scavare almeno questa parte della parete. All’inizio si era pensato

    di staccare il quadro, ma sarebbe stato un peccato; per cui si è invece deciso di scavare tutto il

    cubicolo, che ha permesso di portare alla luce una decorazione incredibile. Poi si è dovuto scavare

    dietro, ed è venuto fuori parte dell'atrio con pitture di grande livello: un altro pannello dipinto con

    Narciso e una parete di quarto stile conservata benissimo – doveva essere stata fatta poco prima

    dell'eruzione. Qui si è deciso di lasciare tutto a vista – ovviamente realizzando delle coperture a

    protezione degli affreschi – perché tra l'altro affaccia proprio sulla via di Vesuvio ed è quindi possibile

    vedere tutto dalla strada. Lungo le vie scavate è venuta fuori ovviamente tutta la quotidianità

  • 17

    pompeiana, che rappresenta anche una delle cose più toccanti. Penso alle iscrizioni elettorali – che

    saranno lasciate a vista ma dovranno essere protette – che erano ovunque e che ci fanno capire

    com’era Pompei e, in fondo ci fa capire come venne fuori Pompei nell’800 e negli scavi degli anni

    ’10 e ’20. Queste case, alcune intonacate e altre no, danno infatti la dimensione work in progress

    continuo di una città che aveva subito vari terremoti. Altra cosa incredibile è che nella cenere indurita

    sono rimaste le impronte delle strutture.

    In questo caso l'ingresso di una bottega con l’impronta della porta ancora nella cenere e soprattutto

    all’interno dell'impronta gli elementi metallici conservati: la serratura, le cerniere, ecc. In certi casi si

    pone un problema di conservazione incredibile da affrontare: come si conserva un pane di terra con

    le impronte? Non è facile: occorre sperimentare. E queste sono cose che non vengono fuori

    quotidianamente in uno scavo. In questo, Pompei ha una sua specificità che va preservata e vanno

    trovate tecniche di conservazione per questo tipo di sfide.

  • 18

    Altra situazione che il progetto richiede di affrontare: scavando l'interno di un termopolio è venuto

    fuori questo bancone, con sopra tutta la massa vulcanica. Che si fa? Il progetto prevede che ci si fermi.

    Io sarei per scavarlo perché questo bancone stupendo, con questi due registri – da un lato quello aulico

    con una nereide citarista e un cavallo marino con sfumature di colori notevole, e dall'altro lato la

    rappresentazione stessa della taberna con le anfore così come sono state trovate, addossate al bancone

    e con tutti i recipienti sopra – rappresenta un contesto di grande rilievo che andrebbe sicuramente

    preservato e aperto al pubblico. Un altro degli aspetti che vanno tenuti in conto in questo scavo e per

    cui io credo che sia fondamentale scavare oggi a Pompei è il seguente. La Pompei non scavata è

    composta da 22 ettari. Lo scavo che stiamo realizzando riguarda circa mezzo ettaro, eppure le scoperte

    che stiamo facendo sono assolutamente straordinarie e non inficiano né futuri scavi, né la

    preservazione di questi 20 ettari ancora conservati. Stiamo di fatto lavorando su di una estensione

    molto ridotta ma con risultati straordinari: perché abbiamo tecniche di scavo più adeguate del passato

    e, soprattutto, abbiamo tecniche di documentazione migliori, dove l'informatica ci permette di creare

    dossier che saranno disponibili per le prossime generazioni e sarà ben diverso di studiare questi scavi

    rispetto a quello che facciamo noi con quelli precedenti, dove sì e no abbiamo delle foto d'archivio.

    ***

  • 19

    In questo progetto tutto viene documentato con fotogrammetria, laser scanner e drone che

    settimanalmente fa il rilievo sistematico dello scavo.

  • 20

    Come si vede qui, tutta la documentazione è interattiva e informatizzata, per cui esiste una enorme

    mappa GIS che comprende al suo interno tutta la documentazione disponibile, con ricostruzione degli

    strati in 3D: per cui diventa veramente facile, sia per un vulcanologo sia per un archeologo, recuperare

    tutte le dinamiche dell'eruzione. A proposito di vulcanologi, ovviamente nel team che ha seguito il

    progetto di scavo, come potete immaginare, ci sono anche geologi e vulcanologi. A tal proposito c’era

    già in essere a Pompei una convenzione di ricerca grazie alla quale abbiamo cooptato, in maniera

    gratuita, anche un team di vulcanologi che sono stati presenti quotidianamente sullo scavo, anche per

    non perdere niente della documentazione che poteva essere recuperata. Grazie a questa

    collaborazione, oggi è possibile documentare tutte le 18 ore di pioggia di lapilli che aveva cominciato

    a coprire tutta Pompei nella prima parte dell'eruzione.

    Guardate questa stratigrafia: lungo la via, cosiddetta dei balconi che abbiamo scavato ex novo,

    troviamo in basso la pioggia di lapilli – tra l’altro con i due grandi strati, le pomici bianche e le pomici

    grigie – con sopra una netta cesura. Il momento in cui finisce la pioggia di lapilli iniziano ad arrivare

    le correnti piroclastiche, cioè le nubi vulcaniche con ceneri, gas e materiale eruttivo che a ondate

    progressive e velocissime travolgono la città. In prima battuta le correnti si fermano alla campagna.

    Poi le altre iniziano ad entrare in città e distruggono tutto quello che emergeva ancora dallo strato di

    lapilli. E gran parte delle vittime di Pompei sono quelle sorprese mentre cercavano di uscire dai primi

    piani delle case e che sono stati raggiunti dal flusso piroclastico mentre correvano su 3, 4 metri di

    lapilli. Una situazione drammatica, come potete immaginare: e questo è uno di quei casi dove la

    ricerca diventa fondamentale.

    ***

    Solo di recente a Pompei, ma anche altrove, si è iniziato a considerare l'importanza documentaria dei

    resti ossei e del problema etico che essi portano con sé, che riguarda il come trattare i resti umani che

  • 21

    non è cosa da poco. A Pompei e Napoli organizzeremo a maggio, in collaborazione con il museo

    Egizio di Torino, un convegno sulla questione etica del trattamento dei resti umani: come si scavano,

    come si documentano, come si conservano e come si espongono. Non è una cosa scontata. Noi siamo

    abituati perché abbiamo una tradizione – a partire dalle catacombe – di mostrare il corpo umano

    decomposto, gli scheletri, ecc. In altre aree del mondo no. In Australia addirittura inorridiscono per

    il nostro modo di presentare anche i calchi. Questo ha a che vedere con il fatto che lì esiste un'altra

    tradizione di ricerca e un'altra etica che si confronta con il loro problema di come trattare le ossa degli

    aborigeni, di come strutturare musei etnologici ecc. Noi, al contrario, dobbiamo porci questo tipo di

    domande: perché i resti umani rappresentano una documentazione straordinaria per la conoscenza di

    una città antica. È così che abbiamo cominciato, non solo grazie alla nostra antropologa, una ricerca

    osteologica potenziando anche il laboratorio di ricerche applicate, che ci permette di svolgere in loco

    tutta la prima fase delle indagini. Poi, grazie ad una convenzione con un istituto di Firenze per le

    analisi del DNA, completiamo l’iter di ricerca e il tutto ci restituisce una documentazione incredibile

    che, grazie al contesto, ci restituisce anche delle biografie – perché di una persona siamo in grado

    anche di ricostruire età e patologie.

    Nel caso che si vede, abbiamo appurato che si trattava di un soggetto claudicante e, quindi, si spiega

    il motivo per cui non era uscito di casa in tempo. La ricerca ci dice inoltre il genere, oltreché lo status:

    perché dai denti, che costituiscono veramente un elemento fondamentale per la biografia, si ricavano

    tantissimi dati se li si contestualizzano. Se questi dati poi li si incrocia con ciò che ciascuno portava

    con sé – ci sono matrone ricoperte di gioielli, c’è chi si portava appresso il sacco con l’argenteria, chi

    portava un sacchetto sul cuore con dentro la chiave di casa e poche monete d'argento e di bronzo, che

    sono l'equivalente di un mezzo stipendio di una famiglia medio bassa – emergono aspetti anche

    toccanti. Vedere esposte all’interno della vetrina di un museo tante “chiavi di casa” organizzate

    tipologicamente e tassonomicamente, queste ti dicono qualcosa fino a un certo punto. Qui invece

    anche gli oggetti hanno una biografia e per Pompei questo credo sia fondamentale. È importantissimo

    comprendere la biografia degli oggetti prima di poterli esporre, e per farlo c'è bisogno di una

    competenza seria da parte dei curatori.

  • 22

    In questo caso, c'è tutta un’altra vicenda da considerare. Per quanto riguarda questi resti, non

    riuscivamo a trovare il teschio. Pensavamo che durante il flusso piroclastico un blocco l’avesse

    colpito e ammazzato. Dalle analisi è invece venuto fuori che il soggetto molto probabilmente è morto

    per asfissia, o per shock termico. La testa era precipitata 2 metri più in basso, all’interno di un cunicolo

    di scavi clandestini – un fenomeno incredibile che non era mai stato documentato – e l'abbiamo

    trovata un mese dopo. Il tema degli scavi clandestini è davvero fondamentale a Pompei. Laddove gli

    scavi autorizzati sono quelli che cominciano nel 1748 sotto i Borbone, di quelli non autorizzati, a

    Pompei ve ne sono tracce ovunque. Le pareti delle case presentano spesso dei buchi, degli squarci. Si

    è spesso pensato che fossero i fossores, cioè abitanti di Pompei tornati a recuperare cose nelle loro

    case dopo l’eruzione; oppure si pensava ai lavori della commissione Restituendae Campaniae che

    l'imperatore Tito mise su per cercare di salvare il salvabile. Nella maggior parte dei casi, abbiamo

    capito, si tratta di scavi clandestini fatti da chi aveva intuito – lavorando per caso il terreno per

    costruire un pozzo o altro – che sotto lo strato vulcanico potevano esserci tesori da razziare. Fatto sta

    che grazie a questi nuovi scavi, è venuta fuori la pervasività delle indagini clandestine che,

    evidentemente, sono cominciate subito dopo l'eruzione e sono continuate fino al 1748.

  • 23

    Ora torniamo alle analisi del DNA. Grazie a quelle abbiamo la possibilità di capire, tra le altre cose,

    anche la composizione dei gruppi familiari. Ad esempio, in una delle case che abbiamo sondato è

    venuto fuori un contesto piuttosto sconvolto dagli scavi clandestini, credo seicenteschi. Nel caso di

    specie il contesto è stato oggetto di un saccheggio selvaggio, al punto che abbiamo trovato scheletri

    scomposti. A scomporli, era stato in parte il crollo del tetto sotto il peso del flusso piroclastico che

    aveva colto di sorpresa il gruppo di persone che si era rifugiato lì. Quando li abbiamo trovati, all’inizio

    non capivamo cosa fosse accaduto. Era una scena apocalittica. Grazie alla nostra antropologa, però,

    abbiamo ricostruito il contesto e abbiamo capito che erano resti di donne e bambini. Ora le analisi del

    DNA ci diranno se erano schiavi o padroni, ed eventualmente quali rapporti di parentela avessero:

    insomma, ne verrà fuori una biografia. Per rimanere in tema di trattamento dei resti umani, uno dei

    progetti che abbiamo voluto inserire nel Grande Progetto Pompei riguarda il restauro, la catalogazione

    e l’avvio delle analisi del DNA dei calchi. Come sapete tutti i calchi sono di fatto esseri umani e

    pertanto non hanno il numero di inventario. Non avendo numero di inventario non sappiamo quanti

    calchi ci siano in tutta l’area. Si aggiunga il fatto che una parte di essi – quelli bombardati nel ’43 –

    erano stati fatti piamente depositare da Amedeo Maiuri all'interno di un deposito di una casa

    pompeiana e lì dimenticati. Ad ogni modo, la cosa assurda era che ovunque si è parlato dei calchi e

    ovunque si sono fatte mostre, prodotti cataloghi e altre pubblicazioni. Tuttavia nessuno si era più

    posto il problema della materialità di questi calchi e della relativa documentazione d’archivio e

    riflessioni di tipo scientifico. Così come nessuno si era più posto il problema di andare a cercare gli

    originali dei calchi, che non fossero i soliti posizionati nel percorso di visita.

  • 24

    Cosicché ad un certo punto, uno studioso americano ha pubblicato un libro sulle Pompeii's Living

    Statues, cioè sui calchi fatti nell'Ottocento, dandoli tutti per distrutti nel bombardamento del ’43.

    Invece c'erano tutti: tant'è che abbiamo avviato un’operazione di catalogazione e poi un’attività di

    restauro che ha dato dei risultati straordinari, soprattutto perché abbiamo accompagnato il tutto con

    una attività di ricerca: TAC per studiare gli scheletri, (perché all'interno dei calchi ci sono gli scheletri)

    e poi analisi del DNA attraverso cui abbiamo sfatato anche alcuni miti.

  • 25

    Per esempio c'era un gruppo di calchi rinvenuti negli anni ’70 nella Casa del bracciale d’oro, da

    sempre considerato un gruppo familiare composto da padre, madre e due figli. Grazie all’analisi del

    DNA è invece venuto fuori che i calchi degli adulti appartengono a due uomini, forse schiavi (un

    articolo del Corriere della Sera uscito a margine di questa scoperta finì per argomentare, anche in

    maniera simpatica, che si era di fronte alla prima famiglia arcobaleno della storia).

    ***

    Ora vi mostro ora i risultati di questa ricerca.

    A sinistra si vedono gli scavi dell'800, dove i fanciulli e i bambini venivano utilizzati per portare via

    i cesti di lapilli. Si vedono inoltre gli scavi e quel cuneo, una sorta di penisola di circa mezzo ettaro,

    che era rimasta non scavata dall'800.

  • 26

    Rispetto all'estensione di Pompei, si vede sulla destra parte del plateau non scavato e l'appendice che

    stiamo scavando. Quest’ultima è composta, in fondo, da queste poche decine di metri quadrati di

    scavo, le quali però hanno portato alla luce cose davvero straordinarie. Considerate infatti che è stato

    possibile scavare una via intera, Vicolo dei balconi, che in parte era stata oggetto di scavo nell'800,

    in quanto era il bordo della Casa delle nozze d’argento.

  • 27

    Si è cominciato lo scavo prima a partire da questa casa che abbiamo chiamata “col giardino”, perché

    aveva un grande spazio destinato a giardino. Quì lavorando con la paleobotanica è stato possibile,

    facendo i calchi delle radici, ricostruire anche la composizione stessa del giardino. Da un lato la casa

    era abitata, dall'altro aveva due porzioni che erano in corso di ristrutturazione: il giardino e l'atrio

    della casa. Qui si vede il portico: le pitture di questo grande triclinio affacciato sul portico con sia

    scene mitologiche – una con Afrodite, Venere e Adone – sia scene realistiche, con la presenza di un

    ritratto femminile con pettinatura alla Agrippina, forse risalente agli anni ’40.

  • 28

    Una cosa interessante di questa casa è un’iscrizione che è stata rinvenuta e che è stata presa in

    considerazione per spostare la datazione tradizionale dell'eruzione dal 24 di agosto al 24 di ottobre.

    Si tratta di un indizio particolarmente importante perché rinvenuto nell'atrio della casa, che è la parte

    pubblica per eccellenza. È la parte dove tutti entrano, dai clientes a tutti quelli che portano derrate. Si

    consideri anche che era una porzione sottoposta a ristrutturazione: c'era una macina reimpiegata per

    fare la calce, così come sui muri c’erano graffiti, anche osceni, e caricature. In alto a sinistra si vedono

    dei volti di profilo, fatti a carboncino. Fra queste iscrizioni, ne abbiamo trovata una che riportava una

    data, 16 k, che sta per kalendae nov, cioè 16 giorni prima delle Calende di novembre. Da qui è

    scaturita una discussione - animata anche dai blog – che è durata finché non è intervenuta una docente

    della scuola Normale di Pisa, Giulia Malnati, che ha dato una interpretazione che credo sia quella più

    solida. Secondo l’interpretazione, l’iscrizione “in olearia proma sumserunt” seguita da una

    cancellatura sta a significare che “nella cella olearia il 17 di ottobre hanno ingressato o preso”

    qualcosa che è stato cancellato. Si trattava dell’appunto di qualcuno, probabilmente uno schiavo,

    messo sulla parete insieme ai graffiti, alle caricature, come qualcosa che non era destinata a durare a

    lungo. Qualcuno dice che potrebbe essere un’iscrizione risalente all'anno precedente: è difficile che

    sia così. Difficilmente una casa abitata ha lavori in corso nell'atrio – lavori per ridipingere l’atrio –

    che durino più di un anno. Motivo per cui credo che sia un buon indizio per confermare che l’eruzione

    di Pompei è avvenuta in ottobre. Due mesi di differenza cambia molto per Pompei: uno, perché è una

    delle date più celebri della storia e due, perché spiega tante anomalie.

  • 29

    Un’altra delle altre particolarità su cui si sta molto lavorando a Pompei riguarda il patrimonio di

    elementi organici, in relazione ai quali abbiamo iniziato anche una sistematica inventariazione e

    catalogazione del materiale, dal pane ai frutti. Come si vede qui, ci sono a Pompei – come a Oplontis

    – grandi quantità di melograni. La presenza di questi frutti ha sempre suscitato un po' di perplessità

    circa la datazione estiva dell’eruzione. D’altronde bastava fare una ricognizione delle fonti. Cassio

    Dione – l'altra fonte che oltre ai codici di Plinio parla dell’eruzione – dice che l’eruzione avvenne nel

    φθινόπωρο, che in greco antico vuol dire l'autunno. Gli stessi codici pliniani riportano datazioni

    diverse: alcuni riportano la datazione di novembre. Insomma, probabilmente la datazione suggerita

    da Dione va ricongiunta a tutta una serie di altri dati. Già nel tardo ‘800 l’allora soprintendente

    Ruggero aveva fatto un calco di una pianta di lauro che aveva delle bacche. In un suo celebre articolo

    dell’epoca lui già sosteneva che la presenza delle bacche non poteva essere compatibile con una

    datazione estiva dell’eruzione. Fino a qui vi ho fatto vedere la “Casa col giardino” che è quella sul

    lato destro. Dall’altro lato abbiamo la casa cosiddetta “del mosaico di Orione” e rappresenta una delle

    scoperte più straordinarie fatte in questi ultimi mesi, in quanto apre tutta una serie di riflessioni per la

    conoscenza della Pompei preromana. Si tratta di una casa dipinta e ci fa capire come questo tipo di

    abitazioni avesse facciate dipinte e pannelli in stucco, del cosiddetto primo stile in giallo e in bianco.

    Tra l'altro abbiamo rinvenuto anche iscrizioni elettorali e graffiti di tutti i generi.

  • 30

    Poi abbiamo la casa di cui abbiamo recuperato tutta la planimetria tranne quella che era stata già

    scavata. Tutta la casa è del II secolo A.C., con fauces, atrio e impluvio. Aveva dei cubicula che

    correvano tutt’intorno da un lato, mentre dall'altro lato c’erano ambienti di servizio con una scala che

    portava ai secondi piani. La cosa interessante, si noti, è che nonostante alcuni cambiamenti apportati

    successivamente, questa casa aveva mantenuto tutta la decorazione del suo primo stile, risalente al II

    secolo A.C. Qualcuno, quindi, non aveva voluto rinnovarla, come era accaduto per la Casa del Fauno.

    Probabilmente si trattava di una famiglia che aveva tradizioni antiche e, quindi, in questa casa

    bisognava ricordare il mos maiorum.

  • 31

    La casa aveva dunque pannelli in primo stile nell'atrio – con questi rossi, queste specchiature rosse e

    nere conservate benissimo – e anche graffiti, ovunque, anche cancellati. Ce ne è uno che riporta una

    offesa al padrone di casa, così come c'è una bella iscrizione che ci fa comprendere bene il livello di

    apertura e di connessioni mediterranee e di multietnicità che si aveva al tempo, a Pompei. L’iscrizione

    riporta un nome scritto in greco, Αϑήναις, e un nome scritto in latino, Balbus. Probabilmente Αϑήναις

    è il nome di una schiava greca e Balbus è forse il nome del suo proprietario latino. La cosa interessante

    è che questi due nomi sono insieme. La cosa forse sta ad indicare che c'era un rapporto fra i due.

    Potrebbe trattarsi dunque di uno sfottò, che mette in risalto un tipo di rapporti che tra l'altro sappiamo

    bene essere, al tempo, all'ordine del giorno. Una ricerca condotta dall’École Pratique e William Van

    Andringa nella Necropoli di Nocera permette, attraverso lo studio delle ceneri rinvenute all’interno

    di una tomba familiare di cui sono stati scavate e analizzate tutte le ossa, di ricostruire tutta la vicenda

    di una famiglia, arrivata da fuori, in età augustea. La vicenda avrebbe a che fare con una schiava e un

    pater familias. Poi si capisce bene che la schiava deve aver sposato il figlio tanto che nella tomba di

    famiglia le ceneri della schiava sono mescolate, nell’urna, a quelle del figlio, come a sancire una loro

    riunione. I graffiti, quindi, ci restituiscono uno spaccato incredibile della vita quotidiana.

    ***

  • 32

    Un'altra cosa molto interessante su cui stiamo lavorando riguarda gli alzati dei primi piani delle case

    di Pompei. Nella casa di cui stiamo parlando abbiamo ritrovato elementi di colonne del primo piano,

    ma il primo piano è inesistente. In questo caso, grazie alla collaborazione con la collega Luisa Ferro

    del Politecnico di Milano – tramite una Convenzione di ricerca – si sta lavorando alla possibile

    ricostruzione degli alzati delle case che è una delle cose meno note a Pompei. Qui, oltretutto, viene

    fuori anche una anomalia: la casa non ha l’impluvium. Potrebbe trattarsi di uno di quei rari atrii

    testudinati citati da Vitruvio per i quali finora si è avuto grandi difficoltà nel rintracciarli e, soprattutto,

    nel ricostruirli.

    ***

  • 33

    Vorrei, infine, chiudere con questi mosaici che, oltre ad essere dei capolavori, sono veramente

    interessantissimi per la storia della cultura del Mediterraneo in età ellenistica. Sulla pianta sono

    evidenziati due mosaici. Quello a destra è un pavimento in cocciopesto con tessere marmoree che

    dovrebbe risalire, anche questo, al tardo II secolo A.C.. La cosa da notare è che il mosaico viene

    rispettato – anche a costo di creare uno sgradevole gradino per poter accedere in casa – quando, in

    momenti successivi, il pavimento dell'atrio viene ristrutturato. Quello a sinistra, nell'altra stanza, è

    realizzato con la stessa tecnica, quindi stessa bottega, e risale allo stesso periodo. Ora, è da notare la

    stranezza delle due iconografie. Me ne sto occupando personalmente perché rappresentano veramente

    un'incognita, non senza paralleli. Vi dico brevemente qual è stato il mio percorso. Una prima parte in

    basso è verde e rappresenta un cobra. Poi c'è uno scorpione, di cui si vede la parte inferiore che emerge

    dalla terra. Poi ancora una strana figura, un essere alato a cui un demone incendia i capelli

    indicandogli l'alto. Infine, sopra, un erote che plana con un bellissimo scorcio. Sicuramente il modello

    è tratto da una pittura ellenistica, forse di ambiente alessandrino, con influenze provenienti

    dall’Egitto. Credo si possa parlare di Alessandria d'Egitto, perché nella biblioteca di Alessandria e

    nel museo di Alessandria si lavorava moltissimo sul tema astrologico, sotto i Tolomei, recuperando

    anche documentazione babilonese, assira, ecc. Al tempo si componevano opere come quella di

    Eratostene, Catasterismi, cioè relative ai processi di metamorfosi di eroi in stelle. Il mosaico potrebbe

    rappresentare la trasformazione in costellazione del gigante Orione, cioè la costellazione che ancora

    oggi vediamo nei cieli invernali e che è una delle più luminose. Fonti antiche riferiscono che Orione

    fosse una stella particolarmente luminosa, usata tra l’altro per orientare la navigazione. Orione dunque

    è un personaggio noto anche ad Eratostene, che lavora ad Alessandria, o ad Arato, che lavora invece

    nel III secolo presso la corte macedone di Antigono. Nel mito greco Orione è un bellissimo e

    gigantesco cacciatore che, come tutti i cacciatori, è affetto da hybris, tracotanza. Orione afferma di

  • 34

    voler cacciare tutte le bestie della terra e Gaia, la dea Terra, adirandosi fa sorgere uno scorpione

    gigantesco, che lo ferisce mortalmente con il pungiglione. Quello che è interessante è che noi siamo

    in grado di identificare questo personaggio con Orione grazie ad una serie di documenti che abbiamo

    a disposizione, come l’Atlante Farnese a Napoli, con la prima rappresentazione di un globo celeste e

    la rappresentazione delle costellazioni come se fossero viste dall'alto. Poi il codice Vaticano 1084, il

    codice greco che riprende l’epitome dei catasterismi di Eratostene, i testi di Arato, ecc. A questo mito

    è connesso anche quello dello scorpione dove Zeus, impietositosi per la morte di questo pur valente

    eroe, trasforma sia Orione che lo Scorpione in costellazioni. Il personaggio raffigurato potrebbe essere

    il proprietario, persona coltissima con legami nel Mediterraneo orientale, che potrebbe aver scelto

    questa rappresentazione per un legame con il proprio oroscopo. Non lo possiamo sapere ma è

    verosimile. Tutto questo ci permette di spiegare anche l'altro mosaico, purtroppo più danneggiato.

    Anche qui siamo di fronte ad una iconografia piuttosto strana. Nel mosaico vediamo una farfalla

    insieme ad un eroe. Si vedono le gambe e il braccio che al guinzaglio tiene delle bestie (una pseudo-

    Chimera con il serpente sulla coda zampe di capra e zampe leonine, un orso, una pantera, un

    coccodrillo, (ancora l'Egitto) un cinghiale, un'aquila, un cane e una volpe). Potrebbe trattarsi di Orione

    che voleva cacciare tutte le bestie della terra. Allora è possibile che questo mosaico rappresenti la

    parte del mito che precede il catasterismo. Le bestie sarebbero, appunto, la rappresentazione di tutte

    le bestie selvagge che Orione avrebbe cacciato. La farfalla probabilmente allude al destino successivo,

    quando Orione salirà in cielo con ali di farfalla. Voi sapete come in greco il termine farfalla sia ψυχή,

    ovvero la psiche, l'anima. Quella rappresentata - bianca e con le ali di farfalla – è dunque l'anima di

    Orione. Il catasterismo altro non è che la trasformazione dell'eroe, della sua anima, in una

    costellazione. Il demone in alto potrebbe essere colui che assicura il catasterismo. Se facciamo un

    salto di qualche secolo in avanti, troviamo anche nel mondo romano molti riferimenti al catasterismo.

    Troviamo Aion, personificazione del tempo e dell'eternità, che porta Antonino e Faustina in cielo.

    Troviamo Aeternitas, personificazione dell'eternità, che porta la moglie di Adriano, Sabina, in cielo.

    Guardate, il nostro demone ha lo stesso gesto di Adriano che indica verso l'alto: è il gesto che indica

    l’assunzione in cielo. In quel caso l’assunzione riguarda Sabina, ma Adriano sta preparando anche il

    suo di catasterismo. In coincidenza di questi lavori è uscito il libro di Carandini su Adriano ad Atene

    e Roma, nel quale Carandini dedica delle pagine alla sua ansia di eternità e alla preparazione di un

    catasterismo che non era cosa rara nel mondo romano. Ovidio racconta il catasterismo del divo

    Cesare. Quando Cesare viene ucciso nel Senato nel cielo sopra il Senato appare una cometa. Si dice

    che la cometa fosse Cesare. Ovidio lo dice in maniera molto chiara: quando viene ucciso Cesare, la

    grande Venere, sua madre – o comunque sua ava perché la famiglia Giulia discende da Venere -,

    invisibile, si ferma in mezzo al Senato e dal corpo del suo Cesare estrae l'anima non ancora liberata.

    L’anima, la psiche, quindi viene presa. I capelli si infuocano – segno che sta per diventare stella – e

    l'anima vola trascinandosi dietro una coda di fiamme che brilla. Avviene così il catasterismo di

    Cesare, sul modello più antico, del II secolo, del catasterismo di Orione.


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