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Decarta - 04 / 2013

Date post: 30-Mar-2016
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Andrea Seki - Il suono dell'Atlantico
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4 /13 OTTOBRE MENSILE DI DIVULGAZIONE CULTURALE - WWW.DECARTA.IT Andrea Seki Il suono dell’Atlantico
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4/13OTTOBRE

M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E - W W W. D E C A R TA . I T

Andrea SekiIl suonodell’Atlantico

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UNINDUSTRIA VITERBO

Via Fontanella del Suffragio, 14

www.un-industria.it

0761228101

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DECARTAScripta volant

Mensile di divulgazione culturaleNumero 4/2013 – Ottobre

Distribuzione gratuita

Direttore responsabileMaria Ida Augeri

Direttore editorialeManuel Gabrielli

RedazioneMartina Giannini, Gabriele Ludovici,Claudia Paccosi,Martina Perelli

Redazione web e photo editorSabrina Manfredi

DesignMassimo Giacci

EditoreLavalliere Società Cooperativa

Via della Palazzina, 81/a - 01100 VITERBOTel. 0761 326407

Partita Iva [email protected]

Iscrizione al ROCNumero 23546 del 24/05/2013

StampaUnion Printing SpA

Pubblicità348 5629248 - 340 7795232

I contributi, redazionali o fotografici, salvo diversiaccordi scritti, devono intendersi a titolo gratuito.

Stampa su carta uso mano riciclata Igloo offsetChiuso in tipografia il 01/10/2013

www.decarta.it

DECARTA OTTOBRE 2013 3

editoriale

Probabilmente chi questa mattina si è recato in una concessionaria per ritirareun’automobile, si è sentito consigliare di non far sforzare troppo il motore per iprimi km, o più precisamente di non farlo salire troppo di giri, questo processo

si chiama rodaggio. Odiernamente i nuovi sistemi produttivi permettono di pre-ro-dare i motori su un banco e grazie alle nuove tecnologie meccaniche e dei materiali ilrodaggio non è più così essenziale come poteva esserlo stato in passato. Ugualmenteperò ogni motore, anche il più moderno, ha bisogno di essere “slegato”, le sue com-ponenti interne appena assemblate si comportano un po’ come un piede dentro unascarpa di cuoio nuova, stanno un po’ scomode. Poi con il tempo cuscinetti, para-oli,bronzine si assestano e svolgono ogni giorno un po’ meglio il lavoro per il quale l’in-gegnere le ha disegnate.

Poi ovvio, non basta fare un buon rodaggio, ad ogni accensione, soprattutto du-rante le fredde mattine di inverno, è bene far scaldare qualche minuto la macchina,fare in modo che l’olio vada in circolo a lubrificare il tutto. Svolti nella maniera cor-retta ed uniti ad una manutenzione costante, questi processi faranno in modo che ilmotore ripaghi il suo proprietario della previdenza avuta negli anni. Detto questo,premetto che, nonostante un’incurabile fissa per tutto ciò che ha un motore, per ilmomento ancora non ho “svalvolato”.

Era mia intenzione creare questo contesto “meccanico”, perché vorrei far imma-ginare Decarta come il concept di una macchina e la sua redazione come il suomotore, le analogie sono tante. Direi che per motivi di gioventù la fase di ro-

daggio ancora deve arrivare, piuttosto in questo momento tutto quanto si trova inmezzo ad un test di affidabilità della fase di pre-produzione, gli ingegneri progettanoed i meccanici montano e smontano parti a seconda delle esigenze, è tutto meno cheun prodotto finito.

Per adesso c’è da ringraziare “operai” e finanziatori per i risultati ottenuti, dal 27giugno di quest’anno quando abbiamo presentato il nostro primo “concept”, fino adoggi. Il lavoro da fare è ancora tanto, ma sarà tutto in funzione della strada che ci ap-prestiamo a percorrere, perché prima di un buon rodaggio è necessaria una buonamacchina!

Manuel GabrielliPresidente Lavalliere Società Cooperativa

Sì, viaggiare…

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DECARTA OTTOBRE 2013

4/13OTTOBRE

erasmus & co.Una “mini-guida” su BochumMartina Giannini

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università

iconsEi fu DobiciMartina Perelli

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ippocampo

reportIn prima personaChiara Bartolucci

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incontriLotta individuale, lavorodi squadraGabriele Ludovici

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acido lattico

incontriIl suono dell’AtlanticoGabriele Ludovici

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insideApriamo i microfoniLorenzo Rutili

nota bene

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reportNon dite a mamma che…Sabrina Manfredi

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eventi

caos letterarioStorie di una libreria… / 2Claudia Paccosi

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carta stampata

reportUna missione per la vitaClaudia Paccosi

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xenofilia

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LAVALLIEREEditoria e Servizi editoriali

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Bochum è una città, della RenaniaSettentrionale-Vestfalia, che contapiù di 370.000 abitanti, di cui

un’alta percentuale sono studenti. Que-sta città è famosa per l’Università dellaRuhr, che è una delle più importanti inGermania. Bochum basa la sua econo-mia, in particolare, nel settore terziario,mentre in passato la principale fonte diguadagno era ricavata da attività diestrazione, in primo luogo dalle miniere.Essendo una città industriale, con iltempo è stata meta di numerose migra-zioni, soprattutto da parte di turchi,tanto da diventare un vero melting potculturale. La città è caratterizzata dallacontinua alternanza tra industrie, fab-briche e zone verdi, come lo Stadtpark oil Westpark. Inoltre lungo le coste delKamnader, uno dei fiumi della Ruhr,sono allestite diverse zone di balnea-zione, piste di pattinaggio, che consen-tono di godere di questi spazi durantetutto l’anno. Dal punto di vista turisticosi possono visitare il Deutsches Ber-gbau-Museum, ovvero il museo mine-rario tedesco, che è la testimonianza delvalore storico-culturale che ha avuto l’at-tività estrattiva per la città. Nella cittàsono presenti anche l’Eisenbahnmu-seum (Museo delle ferrovie) e lo Schul-museum (Museo della scuola).

Un altro simbolo della città è la cam-pana del Palazzo municipale (Rathaus),realizzata nella seconda metà dell’otto-cento in una fonderia di Bochum e che,a causa dei danni provocati dai numerosibombardamenti subiti durante la Se-conda Guerra Mondiale, è oggi espostanella piazza antistante.

La città è ben collegata con tutto ilLand e il resto della Germania, con pocomeno o poco più di un’ora si possonoraggiungere Düsseldorf, Essen, Colonia,Bonn e molte altre città. Ad Essen sitrova lo Stiftung Zollverein, che è dive-nuto patrimonio dell’Unesco nel 2001.

nostri pub/birrerie fino a locali dove bal-lare diversi generi musicali: latino-ame-ricano, dubstep, rock, indie, alcuni diquesti locali propongono anche serata atema musicale.

Tutta la zona è ricca di ristoranti, ci-nema, teatri, negozi e supermercati cherimangono aperti fino a tarda notte. IlBermudadreieck, per di più, ospita il piùgrande festival musicale di tutto il Land,ovvero il Bochum Total. Dal 1986, versola metà di luglio, questo festival permettea più di 70 band, tedesche e internazio-nali, di esibirsi su dei palchi dislocati pertutto il Bermuda, e a un numero infinitodi giovani e studenti di passare quattrogiornate all’insegna della buona musica edel divertimento. Un altro evento im-portante è l’Extraschicht, che offre unanotte di cultura industriale in tutte lecittà della Ruhr: ex fabbriche, miniere eofficine diventano luogo di spettacolo,con musica, danza, produzioni creativedi artisti provenienti da tutto il mondo.

Sempre in estate, alla fine dell’annoaccademico, la RUB organizza la Som-merfest, cioè la festa dell’estate, in cuivengono presentate numerose attivitàche coinvolgono dai bambini agli adultidi tutta la città: lettura di fiabe, concertidell’orchestra universitaria, gare sportivee manifestazioni culturali varie.

Cibi e bevande da assaggiare� Le patatine da Max Frituur.� Il Bratwurst e il Currywurst, alla Brat-

wursthaus.� La Schnitzel (fettina di vitello impa-

nata e fritta nello strutto).� La Fiege, ovvero la birra locale di Bo-

chum.Per la creazione di questa “mini-guida”devo ringraziare Ermanno Pernafelli,Francesca Monarca e Chiara Bartolucci,tre studenti dell’Università della Tusciache hanno vissuto a Bochum la loro espe-rienza Erasmus.

Trovandosi poi vicina al confine con iPaesi Bassi, da Bochum è possibile rag-giungere in treno, a modici prezzi, ancheAmsterdam e Rotterdam.

L’UniversitàL’Università della Ruhr è, come detto,

una delle università più importanti ditutta la Germania grazie, sopratutto, allasua organizzazione. Gli studenti sonoobbligati a frequentare i corsi, a numerochiuso, ai quali si iscrivono attraverso unsistema computerizzato detto VSPL(Verwaltung von Studien und Prüfun-gsLeistungen). Nell’arco della durata delcorso, gli studenti devono sostenere con-tinui test e, nel caso di più di una boc-ciatura, sono costretti a cambiare corso.Per quanto riguarda le tasse l’universitàrichiede una quota semestrale a prezziridotti, nel pagamento di tale tassa sonocompresi l’abbonamento ai mezzi pertutta la Renania-Vesfalia (con cui, nelfine settimana, può viaggiare, oltre alpossessore, anche un’altra persona).

All’interno dell’università si trovano:il Botanischer Garten, costruito nel1966, con il caratteristico giardino cinese“Qian Yuan” (giardino dei poeti e deglistudiosi); il Kunstmuseum, del 1960, ov-vero il museo d’arte; e infine l’Audimax,che viene considerato il centro dellaRuhr-Universität Bochum (RUB) e unodei simboli della città.

All’interno del Campus anche il Kul-turCafé che è il pub universitario, dovesi tengono le feste di facoltà e non solo;inoltre ogni studentato ha un propriobar/pub dove una volta a settimana vieneorganizzata una serata.

Vita notturna e festival culturaliPoco distante dal centro di Bochum

c’è il Bermudadreieck, ovvero il trian-golo dove si svolge buona parte dellamovida e dove si trovano diversi locali.Dai semplici Kneipe, che sono come i

università erasmus & co.

Una “mini-guida” su BochumMartina Giannini | [email protected]

Iniziamo un viaggio alla scoperta delle principali mete Erasmus.

DECARTA OTTOBRE 2013 5

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DECARTA OTTOBRE 2013

Il mio primo giorno alla Ruhr-Uni-versität Bochum (RUB) non sapevodove guardare: 50.000 studenti ca.,

giusto per darvi una vaga impressione.Gli spazi sono enormi e così la burocra-zia. Io ho impiegato circa un mese percapire come funzionava il tutto; per for-tuna il gruppo degli Erasmus StudentNetwork (ESN) segue tutti gli studentiinternazionali passo per passo, dall’iscri-zione all’università fino all’iscrizione alcomune. Quello che invece è un po’ sot-tovalutato dall’ufficio internazionale(che non è ESN) è ciò che riguarda i corsie quindi lo studio in sé: nelle universitàitaliane si paga la rata d’iscrizione e si èautomaticamente iscritti anche ai corsi.

Alla Ruhr Uni invece, ci si iscrive al-l’università e poi ai corsi di interesse, cheogni studente sceglie poiché non ci sonopiani di studio già fatti. Problema: i corsisono a numero chiuso di ca. 30 persone,e il partecipare o meno ad un corso di-pende tutto dal sistema “random” diVSPL (il sistema elettronico che ti per-mette di iscriverti ai corsi). E se nonrientri nel corso? Beh, aspetti un seme-stre nella speranza di poter rientraresuccessivamente, oppure cambi. E sesono erasmus e sono venuto addiritturada un altro paese per fare questo corso?Non importa a nessuno, poiché in Ger-mania (o almeno alla RUB) gli studentistranieri sono esattamente allo stesso li-vello dei tedeschi. Passata questa primadifficoltà del sistema VSPL (rigorosa-mente in tedesco), arriva il problemadell’ambientazione.

Ambientarsi alla RUB è un’impresa,non tanto per trovare i palazzi dove sitengono le lezioni, il problema, sono leaule. Allora se dovete orientarvi, vi con-siglio di imparare a decifrare i codici cheindicano i luoghi dove hai lezione, per

lezione ti rendi conto che quel giorno22.10.2012 è già la seconda lezione delcorso, dato che il 15.10 c’è già stata laprima, ma tu eri troppo occupato a ca-pire il funzionamento di VSPL per ac-corgerti quando iniziava il tutto. Quelgiorno stesso scopri che tutti i corsi sonoa frequenza obbligatoria e che si possonofare al massimo due assenze e che tu unate la sei già giocata, e usare la tecnica “per favore sono erasmus” vi assicuro chenon funziona.

All’inizio di ogni insegnamento (oquasi) c’è da aspettarsi la fatidicadomanda: “Come mai seguite que-

sto corso?” Questo è perché i tedeschisono un popolo programmato, tuttoquello che fanno deve avere un senso euna ragione. Tanto che quando al corsodi letteratura tedesca ti viene chiesto per-ché tu ti trovi lì, non te la senti proprio dirispondere “perché mi piace la lettera-tura tedesca” dopo che le cinque personeprima di te sono riuscire a rendere que-sta materia il loro scopo ultimo nella vitain cinque modi differenti: perché ti troviqui? Perché hai scelto la Germania? Per-ché questa città? Perché studi questo?Perché questo corso? Perché A e non B?E tu non lo sai! Diventa tutto una que-stione esistenziale.

Ora, per chi dice che i tedeschi sonofreddi: si sbaglia. Sono quasi più festaiolidegli italiani, poi, che loro non siano mi-nimamente interessati a te è un’altra sto-ria. Anche qui è ovvio che ci sonotedeschi e tedeschi, ma per la maggiorparte, ognuno vive la sua vita e non è mi-nimamente interessato ad includerti. Glistranieri fanno gruppo tra di loro di so-lito, poiché durante un corso puoi par-lare con un tedesco, puoi chiedergli delleinformazioni, e loro saranno molto gen-

es. GB 8/160 (esempio casuale) GB in-dica che la lezione sta nel palazzo deglistudi umanistici ‘G’ (Geistwissenschaft)nel palazzo B (sì, ci sono anche A e C),all’8° piano nella stanza n. 160 che po-trebbe trovarsi a nord o a sud del pa-lazzo. Fino a qui non è molto complicato,il problema arriva quando ti trovi un co-dice tipo: GABF 04/247 (esempio ca-suale): i palazzi A B e C sono sotter-raneamente collegati da ponti e capire ilcollocamento di queste aule ha una lo-gica tutta loro. Inutile chiedere informa-zioni ai tedeschi, neanche loro sannocome arrivarci. Ora che sei riuscito adiscriverti al corso e hai trovato l’aula puoifinalmente andare a lezione carico diaspettative e ansioso di vedere cosaverrà: segui 1h30’ di lezione totalmentein tedesco (ovviamente non hai capitonulla perché sei ad un livello A2) e a fine

università report

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In prima personaChiara Bartolucci

Un percorso difficoltoso per tornare a casa felicemente nostalgici.

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tili, ma è estremamente difficile chequalcuno ti inviti ad una festa o ad uscirecon i suoi amici. La maggior parte deicontatti che hai con i tuoi colleghi dicorso al di fuori dell’aula sono comun-que per preparare dei testi o delle pre-sentazioni per le lezioni. Se invece tuprovi ad invitare un tuo collega ad uscire,può darsi che ti dica di sì ma sarà giustol’incontro di una sera, se invece nonvuole uscire con te può capitare chemolto schiettamente ti risponda: “Noncapisco perché devo diventare amico diqualcuno che fra qualche mese se ne va.Questo non mi porterebbe a nulla”.

È tutta un’ altra storia se invece con-vivi con dei tedeschi. Allora diventi au-tomaticamente uno di loro, anzi il lorosuper cool coinquilino straniero, vieniiniziato alla movida tedesca e entrerai afar parte dello stretto gruppo di amiciche ogni buon tedesco che si rispetti ha.Ma non ci fate l’abitudine, alla fin finesono molti gli stranieri a Bochum quindinon sentitevi troppo speciali. Dopo averironizzato un po’, voglio precisare che stoscherzando e che non è per niente tuttocosì estremamente complicato.

Ci tenevo a parlare di alcune diffi-coltà che si possono incontrare,per non parlare sempre delle solite

cose. Tutto quello che all’inizio sembraun insormontabile ostacolo dopo pocotempo sembrerà che non sia mai esistito.Ci si ambienta, si impara dove sono leaule senza problemi e vi chiederete comecerti luoghi prima di quello non vi sianostati stretti. La soddisfazione e la consa-pevolezza che si raggiunge alla fine ri-paga di tutte le fatiche fatte se così sipossono definire; in fondo è tutto unasfida, che serve per mettersi alla prova,è per questo che si è parte o sbaglio?

Quello che io ho riportato a casa allafine di 10 mesi non è la difficoltà diVSPL o l’incapacità di orientarsi all’in-terno dell’università. Dell’esperienzastrettamente universitaria ho portato acasa tanto appagamento, coscienza dellemie capacità e l’esperienza stessa in sé(da non sottovalutare). Sono grata perl’opportunità che ho potuto vivere, no-nostante io sia magari rimasta indietronel mio studio universitario, nonostantenon mi sia stato riconosciuto quasi nulladi quello che ho fatto, nonostante tutto etutti ne è valsa la pena. Ne varrà sempree comunque la pena.

Porto nel cuore ogni giorno, ogniprofessore che mi ha lasciato qualcosa,ogni lezione e ogni compagno di corso.Porto nel cuore ogni viaggio in U35CampusLinie. Porto nel cuore ogniluogo, dal GB al Botanischer Garten, alcentro musicale universitario, fino allaBiblioteca, la mensa e l’Audimax. Portonel cuore ogni esperienza che mi ha per-messo di vivere l’università non solocome un’occasione di studio e di lavoro

ma anche come un’esperienza di vita, gra-zie ad eventi quali l’Unifest o tutti i corsisportivi e di danza e di teatro che la RUBoffre. Quando penso alla Ruhr Uni nonpenso allo studio in sé o agli esami o aipunti di credito, penso a un ecosistemache consiste in qualcosa di più che in deiprofessori che portano avanti dei corsi.

Il mio Erasmus non è un’esperienzaconclusa, è un seme, il seme di qual-cosa che deve ancora nascere e cre-

scere, e la sua capacità di svilupparsidipende da chi lo porta, da quanto gli stadietro, da quanto lo tenga con cura. Per-ciò siate fertili, pronti ad accettare lesfide e aperti ad accogliere tutto quelloche vi viene dato. La Germania può sem-brare un paese freddo e ostico, ma biso-gna solo saperlo prendere, così come itedeschi, alle volte vanno solamente unpo’ “ interpretati”, e anche loro saprannolasciarvi molto.

Io sono partita e non sapevo benecosa aspettarmi, né sapevo come prepa-rarmi. Ho solo cercato di non avere pre-giudizi e soprattutto mi sono ripromessache non avrei cercato “casa” in nessunluogo e in nessuna persona. Bochum èdiventata la mia nuova casa e la RUB lamia università. La realtà che io ho vis-suto è una realtà che mi ha aperto lamente, e che mi ha dato tanti nuovi sti-moli e curiosità. È ovvio che ora comeora ho nostalgia delle giornate passate emi manca tutto di Bochum e della Ve-stfalia in generale, ma è la fine che da va-lore a quello che c’è stato nel mezzo,quindi per me va bene concludere così.

DECARTA OTTOBRE 2013 7

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DECARTA OTTOBRE 2013

Il vocabolario Treccani alla voce igno-ranza recita “Con sign. ristretto,l’ignorare determinate cose, per non

essersene mai occupato o per non averneavuto notizia”. Ecco, che sia per noncu-ranza mia o casualità, io fino a pocotempo fa ignoravo chi fosse Cesare Do-bici. Di primo acchito sono portata apensare che non ci sia nulla di strano.Quel sottile senso di colpa viene a mani-festarsi solo quando scopro che Dobici hanatali viterbesi e, come viterbese, è piut-tosto celebre. O dovrebbe esserlo. Dicodovrebbe perché, come spesso accade,tendiamo a dimenticare ciò che di belloabbiamo in casa. Un po’ come la storia diquello che va in vacanza all’estero, giratutte le capitali europee e poi se gli chiedidove si trovi il museo civico della suacittà ti dice: “Ah, perché, esiste?”. Sì, esiste.

Un tempo esisteva anche Cesare Do-bici, brillante compositore. Nacque a Vi-terbo nel 1873 dove, sin dalla giovaneetà, scoprì le sue attitudini musicali. ARoma ebbe la possibilità di studiarecomposizione presso il Conservatorio diSanta Cecilia godendo della dottrina di

promosso da Pio XI e volto a riportare inauge la musica sacra, da troppo tempomessa in ombra dalla lirica. Il suo fu uncontributo costante che lo impegnò daun lato nella formazione delle “giovanileve” di compositori, dall’altro in una fe-conda produzione artistica. Di tutto ciòche di pregevole produsse, tuttavia, ve-dremo pubblicata solo la minima parte.Quasi un affronto: l’essere umano è ingrado di produrre tanta bellezza e il casovuole che nessuno possa goderne.

Qualcuno però non ci sta e ha vo-luto fare di questo patrimonio cul-turale perduto un bene pubblico, a

tutti accessibile, da ognuno godibile. LaCorale polifonica San Giovanni di Ba-gnaia s’impegna a fare questo: promuo-vere il bello, regalarlo ai concittadinidonando loro un po’ di quello che fu ilgenio del grande compositore.

Il progetto è partito lo scorso annocon un carrello di attività promosse dallaCorale e coadiuvato dal minuzioso lavorodi ricerca alla riscoperta del grandeautore dei maestri Maria Loredana Se-rafini e Ferdinando Bastianini. La que-stione non è semplice, occorrono impegnoe dedizione: i due riescono a contattare unparente del maestro ancora residente a Vi-terbo, attraverso la sua collaborazionerintracciano Cesare Dobici Jr., nipotedell’“Ei fu Dobici”. Da subito il rapportosi mostra fruttifero ed entusiasmante: ilnipote conserva gelosamente i ricordi delnonno, le sue corrispondenze, i ricono-scimenti che nel corso del tempo ha ot-tenuto. Alla disponibilità mostrata fannoseguito i fatti e il nipote cede di buongrado tutta la documentazione di cui èin possesso perché la Corale possafruirne e darle adeguata visibilità. Ora lapossibilità di omaggiare l’autore comemeglio conviene esiste: nel 2012 sonoistituiti una mostra e quattro incontri perpromuoverne la figura e la musica, in-

un insegnante autorevole come il DeSantis. Negli anni successivi alla forma-zione fece ritorno a Viterbo dove assunsela direzione della Cappella Musicaledella città. Intraprese poi la carriera dididatta al Pontificio Istituto di MusicaSacra e, ormai noto ai più, fece ritorno alSanta Cecilia, questa volta nelle vestid’insegnante. Di lui uno stimato allievo,don Tommaso Gardella, scrive: “Non eraavaro di lodi a chi le meritava e non de-moralizzava chi non riusciva. Per tuttibuono, comprensivo, vero Maestro, veroPedagogo insomma e perciò largamenteamato e stimato”. Ottimo didatta, mira-bile compositore, fu tra i maggiori espo-nenti di quel movimento ceciliano

ippocampo

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Ei fu DobiciAppuntamenti ed iniziative in direzione di una mostra permanente.Martina Perelli | [email protected]

icons

Il busto di Cesare Dobici a Prato Giardinoe, di lato, il nipote Cesare Jr.

La Corale polifonica San Giovanni di Bagnaia

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contri durante i quali intervengonoanche il nipote Cesare Dobici Jr. ed au-torevoli esponenti della Scuola Santa Ce-cilia e del Pontificio Istituto di MusicaSacra. Un successo garantito dallo stiledell’autore che lo stesso M° Bastianinidefinisce “elegante, colto nelle scelte ar-moniche, affascinante nella conduzionepolifonica ma soprattutto semplice nellelinee, umile, puro”. Le quattro confe-renze-concerto si concludono con unaintitolazione importante: mons. Valen-tino Miserachs Grau, preside del presti-gioso Pontificio Istituto di Musica Sacra,a conclusione dell’anno accademico, de-dica ufficialmente una sala al M° CesareDobici. La risposta di chi ha partecipatoalla rassegna musicale è entusiastica, ilriscontro c’è e dà una spinta tutta nuovaa chi ha creduto così fortemente nel pro-getto. Spinta che in questo anno 2013porta alla costituzione dell’associazionedi cui sono soci fondatori i maestri Ba-stianini e Serafini, la Corale polifonicaSan Giovanni, il M° Francesco Telli, do-cente al Santa Cecilia e partecipante sod-disfatto, e lo stesso Dobici Jr.

Finalmente Viterbo sembra pronta ariconoscere il suo Maestro. Unmaestro il cui ricordo è stato spesso

dimenticato, bistrattato. Eppure vivo neicuori di chi lo conosceva, di quei viter-besi di metà novecento che, al momentodella scomparsa, vollero intitolargli unavia. Basta scendere lungo via della Sa-pienza e nei pressi di piazza della Re-pubblica eccola lì: una viuzza nascosta,ma presente. Un nuovo omaggio è quellodel 1971 quando a Dobici è dedicato unbusto in quel di Prato Giardino. Non stoa raccontarvi come nel tempo la cittadi-nanza e le istituzioni tutte se ne siano di-menticate, lasciandolo in balia delleintemperie e all’incuria generale. Solo il25 aprile dello scorso anno, in occasionedell’anniversario della scomparsa delDobici (Roma, 25 aprile 1944), qualcunotorna ad averne cura: la Corale polifo-nica San Giovanni adotta il monumento,ha premura di ripulirlo da erbacce escritte e di riportarlo allo splendore ini-ziale. Nel corso della cerimonia è depo-sta una targa a rinnovarne il ricordo e,nello stesso giorno, è realizzato per l’oc-casione uno speciale annullo filatelico.

Un amore e un interesse che vanno

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consolidandosi, quelli per il composi-tore: Associazione e Corale tornano adomaggiarlo nel corrente mese di ottobreattraverso un laboratorio con prove diconcertazione ed esecuzione rivolto aidirettori di coro, una vera Master Classtenuta dal M° Giovanni Acciai. Una duegiorni particolare che si snoderà tra laChiesa della Trinità e la sala AlessandroIV (Palazzo Papale). A farla da padronesaranno la musica e i buoni propositi,primo fra tutti l’augurio di una ripresadell’attività bandistica a Viterbo. Non acaso la rassegna sarà chiusa dal concertodella Fanfara della Polizia di Stato, unchiaro segnale dell’impegno che gli stessimaestri Serafini e Bastianini impieghe-ranno nella promozione di questa attività.Perché, anche se poco risaputo, la banda

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comunale di Viterbo ha una sua storia enel 1961 fu intitolata proprio a Dobici.Purtroppo negli anni a seguire si andò aperdere, anche a seguito della morte delsuo direttore. Sembra sia giunto il mo-mento del ritorno di un’attività spesso pri-vata della sua dignità musicale e senzamotivi reali, a dire il vero. L’AssociazioneDobici se ne fa paladino e difensore, au-spicando un ritorno in grande stile. Chénon si dica che a Viterbo non c’è nulla dibello, ché non si dica che nessuno se ne fapromotore. Aspettando che i materiali, glispartiti, le corrispondenze e i ricordi delMaestro trovino una opportuna colloca-zione in una mostra permanente, l’ap-puntamento per tutti è per le giornate del19 e del 20. Per ricordare un viterbese eun patrimonio.

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acido lattico

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Lotta individuale,lavoro di squadraAlla scoperta del Brazilian Jiu Jitsu.Gabriele Ludovici | [email protected]

Gli appassionati degli sport di com-battimento conosceranno senz’al-tro la federazione statunitense

Ultimate Fighting Championship(UFC), in cui competono lottatori pro-venienti da tutte le discipline di lotta intornei di arti marziali miste. In questi in-contri, ad esempio, un pugile può tro-varsi di fronte ad un karateka e a vincereè colui che riesce a costringere alla resa o

a mandare k.o. il proprio avversario.Il 12 novembre del 1993, a Denver,

ebbe luogo il primo di questi tornei. Par-teciparono otto atleti di varie nazionalitàe ad imporsi fu il brasiliano Royce Gra-cie, il cui fratello Rorion era stato tra ifondatori della UFC. In seguito Royceriuscì ad aggiudicarsi tre dei primi quat-tro tornei, diventando uno dei lottatoripiù temuti del mondo e rimediando la

prima sconfitta nei match di arti marzialimiste solo nel 2000, dopo quasi setteanni. Eppure Royce Gracie era tutt’altroche imponente: superava di poco ilmetro ed ottanta e pesava circa ottantachilogrammi. Tuttavia, in quella storicaserata di Denver, costrinse alla resa atletienormi come il lottatore di pancrazioKen Shamrock ed il savateur GerardGordeau, ai quali cedeva una ventina dichili. E per “costringere alla resa” nonusiamo un eufemismo, visto che perchiudere gli incontri utilizzava una ma-novra di strangolamento nota come rearnaked choke. Classe 1966, Royce Gracieattualmente è semi-ritirato ma resta cin-tura nera di jiu jitsu brasiliano, una di-sciplina che affonda le radici proprio nelsuo albero genealogico.

Per saperne di più ascoltiamo le pa-role di Enrico De Paolis, che insegna jiujitsu brasiliano alla palestra Top Centerdi Viterbo: «Il jiu jitsu brasiliano è unavariante dell’antico jiu jitsu giapponese.La divisione è avvenuta all’inizio del No-vecento: da una parte si è sviluppato iljudo di Jigoro Kano, mentre la variantebrasiliana è nata più tardi, negli anniVenti, quando un istruttore di judo dinome Mitsuyo Maeda si trasferì in Bra-sile ed ottenne il sostegno di un politico

incontri

Royce Gracie, con accanto il padre Helio, vince il primo torneo UFC

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than Moggi Fight Clan, in memoria diun loro compagno scomparso, il che sot-tolinea l’alto valore dell’amicizia che per-vade la loro attività.

Questo sport è indicato davvero pertutti, vista la sua peculiare visionevolta a valorizzare gli atleti meno

dotati fisicamente: l’importante è averele motivazioni per intraprendere uncammino molto più ampio di quello cheappare. Per Enrico infatti nel jiu jitsubrasiliano c’è qualcosa che va oltre losport: «Si tratta di uno stile di vita. Nor-malmente il praticante deve esserecalmo, pacato, rilassato e seguire unostile di vita lontano dai vizi. L’allena-mento è quotidiano, e permette di stac-care col mondo esterno. Inoltre abbiamoun motto: there’s always an escape (“c’èsempre una via d’uscita”, ndr). Questovale anche nella vita, bisogna imparare amigliorarsi sempre e non arrendersi mai,mettendo da parte orgoglio ed invidia.Ci tengo poi a sottolineare che non c’ènessuna esaltazione in quello che fac-ciamo e siamo lontani da qualsiasi con-tatto con estremismi politici, perché nelrispetto e nella comprensione siamo di-sposti a lavorare con allievi di qualsiasinazionalità ed orientamento sessuale.Quindi nessuna ghettizzazione, ma mas-sima apertura».

Un messaggio importante, soprat-tutto in un paese come il nostro in cuipurtroppo alcuni aspetti della culturasportiva sono ancora infangati da epi-sodi di discriminazione.

Questo possiamo definirlo un bel co-ronamento per unastoria nata nelsecolo scorso,dalla forza divolontà di un ra-gazzo brasi-liano che nonaveva alcunaintenzione dicedere il passoalla forza bruta,sapendo di po-terla fronteggiarecon l’intelligenzae la tecnica.

locale, Gastão Gracie. Per sdebitarsi,Maeda insegnò le tecniche di lotta a terraalla sua famiglia, composta anche daifigli Hélio e Carlos. Hélio, che era gracileed asmatico, con l’applicazione riuscì asviluppare e praticare uno stile tutto suo,che gli permetteva di sfruttare l’inferio-rità fisica al cospetto di lottatori piùgrossi e violenti. Fu qualcosa di rivolu-zionario, perché in tutti gli altri sport dilotta a prevalere era sempre il lottatoreche si trovava sopra e non quello schienaa terra. In seguito, Hélio Gracie combattéin Giappone praticando il vale tudo (let-teralmente “vale tutto”, l’antenato dellemoderne arti marziali miste, ndr) congrande successo».

La particolarità di Hélio Gracie èstata quella di aver sconfitto molti atletidi discipline diverse tra cui pugili, stelledel wrestling e persino un lottatore disumo tra gli anni Trenta e Cinquanta.Dovette soccombere solo al campioneolimpico di judo, Masahiko Kimura: fuun evento di tale impatto che ancoraoggi la presa con la quale il judoka si ag-giudicò l’incontro è nota proprio comekimura.

Tuttavia, il jiu jitsu brasiliano rimaneuna disciplina di nicchia fino aglianni Novanta: il silenzio dei media

viene interrotto dopo il primo torneoUFC di cui abbiamo parlato all’iniziovinto da Royce Gracie, figlio di Hélio: «Siè trattato di una vera rivoluzione coper-nicana perché fino ad allora, nell’imma-ginario collettivo, erano note solo le artimarziali di percussione che si vedevanonei film di Bruce Lee e Chuck Norris. In-vece Royce Gracie riusciva a vincere itornei UFC senza riportare nemmenoun graffio, e questo diede giustizia adaltri tipi di arti marziali. In seguito, oltrealla UFC, in Giappone si è sviluppata lafederazione PRIDE, dominata per annida Rickson Gracie, altro figlio di Hélio».Attualmente le federazioni di arti mar-ziali miste vanno alla grande: i pay-per-view mensili sono seguiti in tutto ilmondo e gli atleti sono sempre più po-polari.

Parlando dell’ambito viterbese, chiedoad Enrico come è nata l’idea di avvici-narsi a questo sport: «Nei primi anni No-vanta un mio amico tornò da un viaggionegli Stati Uniti con alcune VHS dei

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primi match di Royce Gracie. All’iniziorimasi stupito e ben presto compresi cheil jiu jitsu brasiliano era quello che cer-cavo dalle arti marziali: un sistema in cuianche il più sfornito fisicamente potevariuscire ad avere la meglio. All’epoca inItalia non esistevano corsi di questa di-sciplina e dovetti ripiegare sul jiu jitsutradizionale e sul judo, ma non era lastessa cosa. Nel 2005 però Victor HugoCorrea Estaba, un insegnante venezue-lano di jiu jitsu brasiliano, venne a tra-sferirsi qui a Viterbo. Dopo la primalezione, io ed il mio amico Stefano Cian-chella stracciammo le nostre cinturenere di judo ed indossammo quelle bian-che per imparare da zero questa nuovadisciplina. Victor Hugo insegnò qui perdue anni, dopodiché iniziammo io e Ste-fano a lavorare come istruttori pur nonsentendoci dei veri maestri; tuttavia ave-vamo fatto nostro l’assioma del jiu jitsubrasiliano, ovvero la realizzazione del-l’individuo attraverso lo spirito di squa-dra ed i sacrifici dei compagni. Neglianni, con tanta umiltà, ricerca tecnica,stage e competizioni, siamo riusciti apreparare atleti di ottimo livello: possocitare Francesco Corbucci (campioneitaliano juniores e terzo classificato agliEuropei), Alessio Vittori (pluricam-pione italiano in procinto di diventareprofessionista), Valerio Zolla, MaurizioCianchella ed il giovane e promettenteLorenzo De Grossi».

Enrico De Paolis e Stefano Cian-chella nel 2005 hanno formato il Jona-

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La prima cosa che colpisce di An-drea Seki è il particolare equilibrioche riesce a mantenere tra il suo

modo di fare cortese ed il fervore concui vuole comunicare la sua più grandepassione. Definirlo semplicemente ungrande suonatore di arpa celtica nonrende bene l’idea; per lui la cultura degliantichi Celti in tutte le sue accezioni rap-presenta il centro gravitazionale di unavita, e la sua esperienza ha reso quest’in-tervista il nucleo di un discorso piùampio sulla storia della Tuscia, inqua-drata nel computo degli antichi culti cheaccomunano tanti popoli dal NordAfrica alla Scandinavia.

Incontro Seki al termine di un suotour italo-francese, dove ha avuto anchel’occasione di suonare al Caffeina MusicFestival. Il bardo si presenta in manierasemplice e senza troppi preamboli iniziaa parlare, col tono di chi è abituato adesporre i propri punti vista seduto al ta-volino di un pub.

Il punto di partenza è la sua patriad’adozione, quella Cornovaglia franceseche si affaccia sull’Atlantico ed ancoramantiene intatta la propria antica iden-tità: «Nel 1995 vivevo a Bologna e dopoun breve soggiorno a Londra decisi di vi-sitare la Bretagna. Quando raggiunsiQuimper ebbi la sensazione di essere tor-

Il suono dell’AtlanticoMusica e origini, dall’Etruria alla terra dei Celti.Gabriele Ludovici | [email protected]

nota bene incontri

nato a casa, anche se in quelle terre vi erostato solo una volta da bambino per unavacanza a Carnac».

Andrea Seki si sente un predesti-nato, come se non fosse stato luiad avvicinarsi alla cultura celtica

ma viceversa, se non addirittura un cer-carsi vicendevolmente. Prima di tornarein Francia aveva già intuito qualcosa del

suo futuro suonando il suo liuto in India;un giorno gli fanno notare come le suebelle melodie somiglino molto a quellebretoni.

Nei due mesi passati a Quimper siconvince della nuova strada da percor-rere, colpito da numerose esperienze incui avverte la sensazione di trovarsi nelposto più congeniale al suo modo d’es-sere; paradossalmente è solo nel viaggio

Andrea Seki, musicista e compositore, attualmente residente in Bretagna

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dievale e della cultura celtica fin da ra-gazzo e si appassiona in seguito anchealla storia dell’arpa, questo antichissimostrumento che le popolazioni pelasgiche– note anche come “i popoli del mare” –hanno introdotto in tutta Europa. Se-condo la tradizione celtica l’arpa è il vei-colo di comunicazione tra i messaggiancestrali dei cieli e la terra; il bardo è lafigura che alla musica aggiunge anche il

testo, riferendosi agli assiomi di questacultura. Il leitmotiv è il culto della DeaMadre, che si identifica nella natura eviene celebrato nei boschi attraverso lepietre. Un culto basato sull’armonia traarte e natura e non sulla violenza, ma no-nostante ciò quasi dimenticato dai libridi storia, che indugiano sulle culture chehanno posto le fondamenta dell’impe-rialismo e conquistato di prepotenza unposto nell’immaginario collettivo social-mente accettato.

Proprio su questo tema Seki vuolericordarci come la Tuscia svolga unruolo culturale importantissimo,

seppur non troppo noto: «L’Etruria,

incontri

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come l’Irlanda, è divisa in dodici cittàsacre, quattro regni ed un centro sacrorappresentato dal lago di Bolsena. Essocorrisponde a Dana e all’Avalon, rispetti-vamente centri dei regni celtici irlandesied inglesi. La Tuscia è piena di reperti col-legabili alle tribù antiche che coltivavanoil culto della Dea. A fondare i popoli celticisono stati i popoli del mare provenientidalla Mesopotamia, che passando perl’Egeo hanno colonizzato l’Europa primadella storia conosciuta, circa 7.000 annifa. Si tratta di periodi storici avvolti ingran parte nel mistero, ma attraverso ildruidismomoderno possiamo rievocare lecelebrazioni e i riti dei bardi antichi, tra-dizioni che si sono tramandate oralmente

di ritorno che conosce l’arpa celtica: «ANantes, tornando verso Bologna in auto-stop, conobbi per caso Jean-Luc. Facemmosubito amicizia ed in seguito si rivelò es-sere un druido: fu lui a farmi provare perla prima volta l’arpa celtica presso unafabbrica di arpe di proprietà di un suoamico musicista. Fino ad allora suonavo illiuto e l’esraj (il violino indiano, ndr) econ la mia prima band a Viterbo ero stato

il pioniere della musica rock e folk, con leinfluenze di quella musica medievale chemi ha sempre affascinato. Quel giorno,toccando per la prima volta le corde del-l’arpa, provai una sensazione incredibile.Tornato a Bologna continuai per un annoa suonare liuto ed esraj, fino all’incontrocon Alan Stivell all’evento “Torri di avvi-stamento” che si svolse a Viterbo nel set-tembre del ’96. Fu lui, leggenda dellamusica celtica, a proporsi per iniziarmiallo studio dell’arpa».

Un cammino che inizia con un mistodi eventi casuali legati alla consapevo-lezza sempre meno inconscia di comecerte passioni non nascano per caso.

Seki è un amante della cultura me-

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per secoli». Ed infatti, come già detto, èproprio attraverso il druido conosciutoa Nantes che si avvicina allo strumentoprincipe dei bardi celtici.

Seki sciorina nomi di antichi popolie di amici che lo hanno aiutato asaperne di più; parla anche di una

Stonehenge di tufo presente in Etruria,confermando ancor di più la necessità diapprofondire questo discorso sulle pa-gine della nostra rivista. Fonte inesauri-bile di citazioni, autori e siti archeologici,il bardo afferma la necessità che le nuovegenerazioni portino avanti il lavoro di ri-cerca sulle radici più antiche del territo-rio viterbese.

Spinto dagli insegnamenti di Stivell,artista di fama internazionale che ha col-laborato anche con Peter Gabriel, Seki silancia dunque nell’avventura musicale diarpista. La sua demo (Verso Is, 1998) ot-tiene un notevole riscontro ed un branoviene pubblicato sul cd allegato alla rivi-staCeltica. Si tratta del primo passo dellanascita del progetto Elfic Circle, chevede Seki come artista fisso in collabo-razione con numerosi altri musicisti.

Nel 2001 pubblica Fairylands, che sibasa proprio suVerso Is. Questo disco ot-tiene numerosi consensi ed un riscontrotalmente d’impatto da prestare il suonome ad un importante festival di mu-sica celtica – tutt’ora attivo a Guidonia –nonché all’etichetta discografica che al-l’epoca lo promosse. Seki riprende a viag-giare: in Irlanda ed India prosegue ilproprio percorso di conoscenza, ma nel2003 decide di ritornare nella Tusciaspinto da una proposta discografica dellaSony. Il terreno sembra fertile per pro-vare ad introdurre la sua amata culturaceltica in Italia e si apre una fase di in-tensa attività in cui continua a suonarein tutta Europa.

Realizza due album: A Journey toOther Lands (2005) e Arpe del Sidhe(2007), quest’ultimo complementare al-l’uscita del libro L’arpa celtica del Sidhe,opera che si pone come raccolta del per-corso spirituale dell’artista ed anchecome una panoramica delle sue ricerchepersonali in merito ai collegamenti tra i

miti degli antichi popoli presenti sul ter-ritorio italiano e la cultura celtica.

Di lì a poco produce il disco che loconsacra come uno dei migliori bardimoderni: «Nel 2010 realizzo un lavoro in-titolatoMistery of Dana; durante due mieserate a Roma e Firenze vengo ascoltatoda Renato Roversi, il quale rimane entu-siasta dei miei brani. Grazie a lui entro incontatto con Delmar Brown, tastieristache vanta collaborazioni con Sting e BruceSpringsteen; è lui a propormi di remixareMistery of Dana, che viene reintitolatoThrough the Passage ed esce, dopo la re-visione in uno studio orvietano, sotto lastorica etichetta Coop Breizh. Sono l’unicoitaliano ad aver prodotto dischi con loro».

Il bardo, come accennato, è una figuravitale per la cultura celtica e la sua for-mazione segue delle regole ben pre-

cise: «Un bardo deve dare ampio spazioall’immaginazione e conoscere le tre tra-dizione bardiche. La prima evoca la sferadella malinconia, la seconda quella dellagioia e la terza quella del sonno, intesocome luogo in cui prende vita il sogno».

L’ultimo lavoro del musicista acque-siano, prodotto sempre dalla CoopBreizh, si chiama Son Atlantel ed il filoconduttore delle tracce è legato all’amoredi Seki verso l’Oceano Atlantico. Si trattadi un disco molto peculiare, in cui siparla molto dei popoli del mare: «SonAtlantel ha già ricevuto glorificazioni inFrancia, in Inghilterra ed in Germania.Assieme a Through the Passage ed il librosono i miei lavori che hanno ottenutomaggior successo all’estero».

Andrea Seki è pronto a proseguire ilsuo tour in giro per l’Europa, ma artisticome lui vivono perennemente alla ri-cerca di nuovi stimoli culturali ed è comese il loro tour non finisse davvero mai.Attualmente ha formato un trio assiemea David Hopkins (percussionista irlan-dese) e Joe van Bowel (cantante e flauti-sta belga) con cui è pronto ad allietare ifestival di musica celtica: il suo Elfic Cir-cle Project procede a gonfie vele e, se trai suoi intenti c’era quello di suscitare l’at-tenzione verso le radici della nostra cul-tura attraverso la storia degli antichiceltici, si può dire che l’obiettivo sia statoraggiunto.

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Immaginiamo la situazione: lasciare ilproprio paese d’origine è come rico-minciare da capo...I vecchi amici e conoscenti non si

perdono affatto di vista, nonostante ledistanze ci accorrono in aiuto le teleco-municazioni e i social network; tuttavia,sarebbe un peccato non affiancare a tuttociò una vita sociale in carne ed ossa, ed èqui che ci si ricostruisce, dal momentoche appena arrivi all’estero sei uno sco-nosciuto totale che va a incontrare per-sone a te altrettanto sconosciute.

Nel caso mio personale, poi, io sonouna persona tendenzialmente timida,anzi diciamo pure una vera frana, che siapre al meglio sia attraverso “ganci” (aViterbo tutti conoscono tutti… dovrebbeessere eletta capitale mondiale della re-gola dei sei gradi di separazione) cheusando come pretesto la mia tanto be-neamata musica.

del numero di altri musicisti presenti allaserata, stabilisce il turno e la durata dellaperformance, che in genere è compresatra i 15 e i 30 minuti.

A fare gli onori di casa c’è sempre unartista o band che si esibisce a inizio se-rata, con una scaletta un po’ più lunga,per poi lasciare posto ai dilettanti allosbaraglio.

Si possono trovare open-mic presen-tati da band con strumenti elettrici, am-plificatori, batteria eccetera, ma lamaggior parte prediligono gruppi o so-listi acustici, ai quali viene comunquefatto usare l’impianto voci fornito dal lo-cale o dalla band d’apertura.

Una realtà quasi assente in Italia,dove di tanto in tanto si possono trovarerare serate di jam-session, ma principal-mente orientate sul jazz (contrariamenteall’open-mic dove passa di tutto e di più)dove si va a suonare i soliti standard cor-rendo appresso alle pagine del Real Booke al clima aperto e socievole delle seratebritanniche, si contrappone un’atmosferagenerale all’insegna del “vediamo se rie-sci a essere più bravo di me”.

Ad introdurmi all’open-mic per laprima volta fu, a Guildford, unaragazza che vidi esibirsi in centro:

si chiamava Lauren, ma gli amici la chia-mavano Lol, si trovava a Guildford perstudio, mancina come me, pettinaturacon dreadlocks come Bo Derek in 10,cantava accompagnandosi con la chi-tarra Long Train Running dei DoobieBrothers, una delle mie canzoni preferitedi sempre.

Avevo sulle spalle la mia chitarra espontaneamente mi unii a lei, al che cipresentammo e poco dopo mi invitò auna di queste serate, in un pub del posto.

Mi presentai lì e fu una rivelazione:in maniera totalmente improvvisata, sa-

Insomma, l’ideale per me sarebbeuna situazione in cui posso suonare ilpiù possibile, condividere la mia pas-sione, farmi notare, e al contempo strin-gere nuovi contatti anche al di là dellasfera musicale.

In Gran Bretagna esiste un’occasionecosì: come accennai la volta scorsa, sichiama “open-mic night”, ossia serata amicrofono aperto.

Si tratta di serate allestite nei pub incui chiunque ha la possibilità di salire suun palco ed esibirsi, a seconda del localela cadenza può essere settimanale, men-sile, quindicinale, bisettimanale, e chi piùne ha più ne metta.

Nella maggior parte dei casi unopen-mic è assolutamente gratis, a voltepuò occorrere prenotare il proprio spa-zio all’interno della serata, ma general-mente basta semplicemente presentarsial locale, al che l’organizzatore, a seconda

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nota bene inside

Apriamo i microfoniSeconda puntata di “nota bene - inside”, racconti e consigli di un musicistaviterbese emigrato in Gran Bretagna. In open-mic alla ricerca del prossimo.

Lorenzo Rutili

Lorenzo Rutili si esibisce dal vivo con la sua band nel corso di una serata “open-mic”

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limmo insieme a suonare, io facevo lachitarra solista, lei la ritmica e il cantato,e oltre a divertirmi un mondo suonando,mi divertivo anche conoscendo nuovagente.

Fu così che da allora divenni fisso aquell’open-mic, fin quando purtroppouna serie di motivi interruppero pro-gressivamente la mia frequenza, tra cuiil ritorno di Lol nella sua città natale, esoprattutto l’arrivo del mio primo lavorofisso che, a causa di orari sempre diversidi settimana in settimana, unitamentealla distanza tra Bracknell, dove mi sonopoi stabilito, e Guildford, rendeva diffi-cile i miei spostamenti specialmente inorari serali.

Ma non mi sono fermato lì: contem-poraneamente ho iniziato a bazzicarealtri open-mic nel territorio, per non re-stare fossilizzato su quello guildfordianoed espandermi.

Se a Guildford mi esibivo come chi-tarrista solista assieme ad un’altra musi-cista, altrove dovevo trovare un modoper lanciarmi autonomamente, e non es-sendo io mai stato un cantante eccelso,dovevo inventarmi qualcosa di partico-lare con la chitarra.

Occorre ora fare un piccolo passo in-dietro e dire che, poco prima di lasciarel’Italia, misi su un duo acustico insiemea colei che ancora chiamo la mia can-tante preferita, la brava Chiaretta Cele-stini, ci chiamammo, unendo i nostrinomi inglesizzati, Clarence.

Per quel duo, dopo essere stato peranni un chitarrista principalmente elet-trico, tornai alla chitarra acustica, necomprai una elettrificata e ricominciaiad esplorare quel tipo di strumento,

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opera di chitarristi quali Alex Britti eFausto Mesolella, collegai la chitarra elet-troacustica a tutti i pedali che avevo, di-storsore, wah-wah, eco e così via, e laLoop Station per ultima, e iniziai a caz-zeggiare un po’.

Scoprii così che potevo sfruttare iltutto per creare una sorta di one-man band: battendo sulla cassa

della chitarra o sfregando le corde, sipossono imitare suoni di percussioni, acui poi aggiungere una linea di basso,per poi passare all’accompagnamento, sucui cantare e poi improvvisare un assolo,magari trasformando la chitarra acusticain un’elettrica inserendo effetti più con-soni a quest’ultimo tipo di strumento.

Uno spasso, insomma, e un’idea che,pur forse non essendo nuovissima, ècreativa e di sicura attrattiva per il pub-blico.

Fu così che, spontaneamente, iniziaia buttar giù un arrangiamento per uno

usando insieme ad essa un effetto diver-tentissimo, chiamato Loop Station.

Cos’è la Loop Station? Trattasi di unpedale con al suo interno un registratoredigitale, lo si schiaccia una volta mentresi suona e inizia a registrare, lo si schiac-cia quindi una seconda volta e ciò che siè suonato inizia ad andare in loop, ossiaa ripetersi all’infinito, al che vi si possonoanche sovraincidere altre parti strumen-tali, una seconda, terza volta e così via.

Nei miei mesi all’ACM a Guildfordmi feci spedire la mia chitarra elettroa-custica insieme alla Loop Station, che al-lora ancora usavo semplicemente perregistrare sul posto una parte di brano,mandarla a loop e suonarci sopra un as-solo, per poi ritornare a finire il pezzo,senza far perdere pienezza al tutto; a Vi-terbo ero uno dei pochissimi che la usa-vano così.

Finita l’esperienza ACM, un giornotrovai l’idea giusta per girare negli open-mic: memore di esperimenti simili ad

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inside

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dei pezzi più insospettabili: BlueMondaydei New Order, brano notoriamente ese-guito con una strumentazione principal-mente elettronica, e la cui linea vocalenon richiede doti canore strepitose.

La presentai poco dopo all’open-micdel Jagz di Ascot, e fu un successo, da al-lora è uno dei miei cavalli di battaglia,insieme ad altri brani che ho riarrangiatocon questa tecnica.

Questo locale, per inciso, è uno diquelli a cui attualmente sono più affezio-nato, gestito da colui che, si narra, è statol’inventore dell’open-mic, oramai ognivolta che ci torno c’è sempre un clima digran familiarità con lo staff e con gli altriospiti fissi.

Sullo spazio del Jagz, come in ogniopen-mic, è passato di tutto, tutti igeneri dal blues, al folk, al jazz, al

pop più semplice… e tutti i tipi di perso-naggi che li interpretano.

Uno che è diventato a suo modo unbeniamino della serata è un simpaticocantautore noto ai più come “Pausa-Si-garetta”, poiché è quello che il pubblicotendenzialmente espleta appena la suaesibizione inizia, peraltro si esibisce sem-pre per ultimo, abile mossa strategica delgestore per segnalare la fine definitivadella serata.

Ha un talento particolarissimo:quando esegue canzoni di composizionepropria è in grado di cantare una can-zone e, al contempo, accompagnarsi suo-nandone una completamente diversasulla chitarra.

Oppure, se esegue cover, lo fa rigoro-samente a cappella, rifuggendo a ognischema di quadratura ritmica, regalan-doci pertanto preziosissime versioni pro-gressive-rock di brani anni cinquanta.

Dio lo benedica, il buon Pausa-Siga-retta.

Gli open-mic mi hanno offerto tanteopportunità per iniziare una mia car-riera musicale: in un locale di Bracknellmi hanno offerto uno spazio fisso pagatodi due ore al mese, in un altro pub hofatto amicizia con un cantante-chitarri-sta-fonico con cui in tante occasioni hofatto serate in duo, sia tutte nostre che, asua volta, come gruppo presentatore diun open-mic, sempre ad Ascot ho in-contrato un giovinotto di nome Nathan

Evans, in cerca di qualcuno con cui la-vorare su qualche canzone che aveva co-minciato a comporre, e da lì fondammoi Nevertones… e la strada prosegue,volta dopo volta, microfono dopo mi-crofono, tutto questo non è che l’inizio.

Bene, anche per questa volta ho rac-contato abbastanza, non me ne abbiatese sono stato un po’ più tecnico del so-lito, vi invito a vedere sul sito di Decartail video della mia performance di BlueMonday al concorso Bracknell’s GotTalent, e vi dò appuntamento alla pros-sima puntata.

See you soon!

Vai su Decarta onlineper vedere Lorenzo Rutiliin una strepitosa esecuzionelive di Blue Mondayal Bracknell’s Got Talent.

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fa in modo brillante, arguto e, nono-stante l’argomento, senza cadute di tono.La lettura scorre velocemente e dopo es-sere arrivati alla fine la domanda d’ob-bligo è: “già finito?”. Nel prossimonumero daremo notizie più approfonditesul libro e pubblicheremo un’intervistaall’autrice con il reportage dell’incontro.

L’appuntamento è per venerdì 11 ot-tobre alle ore 18,30 presso il Due RigheBook Bar.

Ospite d’eccezione Eva Henger, ac-compagnata dal marito, il produttore Mas-similiano Caroletti. Nel corso dell’incon-tro saranno letti alcuni brani del libro eproiettati documenti e foto d’archivio.

Vi aspettiamo numerosi.

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eventi report

Non dite a mamma che…Un simpatico “dietro le quinte” dell’industria dell’hard.Sabrina Manfredi | [email protected]

Noi “decartisti” ci occupiamo di di-vulgazione culturale sul e del ter-ritorio e vorremmo provare a farlo

a 360°. Siamo al nostro quarto mese divita e questo di cui vi parlerò è il primoevento pubblico che organizziamo, incollaborazione con Raffaella Sarracinonell’ambito della sua rassegna “Aperitivocon l’Autore”.

L’occasione è la presentazione dellibro di Debora Attanasio Non dite allamamma che faccio la segretaria. Memo-rie di una ragazza normale alla corte delre dell’hard. Il libro, a metà tra cronaca ediario, narra le “avventure” di una gio-vane segretaria che per 9 anni ha lavo-rato alla “corte” di Riccardo Schicchi: lo

venerdì, 11 ottobre 2013 : ore 18,30due righe book bar : via del macel maggiore 1/3 : Viterbo

Raffaella Sarracino incontra

Debora Attanasioautrice di

Non dite alla mammache faccio la segretaria.Memorie di una ragazza normale alla cortedel re dell’hard.

edizioni Sperling & Kupfer

Con l’autrice sarà presente

EVA HENGER

organizzato da in collaborazione con

LAVALLIEREEditoria e Servizi editoriali

Apertivo con l’AutoreRaffaella Sarracino

due righe book bar www.decarta.it

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Sapeva di sale quand’è arrivato, haportato con sé, sullo scaffale, ancheun po’ di sabbia, più che altro sas-

solini, fastidiosi, assai fastidiosi sulla miaschiena. 498 pagine, carta ruvida al tatto,giallastra, copertina lillà, un bel lillà nétroppo acceso né troppo spento, un co-lore che non avevo ancora mai avuto frai miei ospiti. Arrivò alla fine di agosto,come se fosse rotolato con l’ultima ma-reggiata della stagione trasportato dalleonde; ai bordi era liso e consumato, lacopertina aveva delle macchie provocate

dermi, e prendere La famiglia Karnowskidi Israel J. Singer, l’ho sfogliato, mi haraccontato la sua storia e così ho subitopensato che ai lettori di Decarta potessepiacere, lo scorso mese avevo consigliatoun thriller, un giallo, ancora non ho de-ciso a quale genere letterario ascriverlo,stavolta invece qualcosa di totalmentediverso proprio perché nella lettura, iocredo, da umile libreria di una studen-tessa inesperta di Lettere, bisogna va-riare, alternare, provare, conoscere autorilontani e vicini, storie terribili e roman-tiche, parole auliche e lineari. Perché lalettura è un piacere, una distrazione dallamonotona realtà, basta sdraiarsi sul di-vano mentre in pentola ribolle il mine-strone caldo, inforcare gli occhiali davista, poggiare sulle gambe una morbidacoperta e dopo solo uno sguardo si pre-cipita in un nuovo mondo, a volte anchein un’altra epoca, magari in una forestacon le foglie di piante selvatiche che piz-zicano le nostre braccia sudate o in unsalottino vittoriano costrette in un abitosfarzoso, dalla scomoda sottana in ossadi balena a sorseggiare un tè.

Ecco, quindi, vado a presentare il mionuovo amico. La famiglia Karnowski di

dal sole, eppure era bello, imponente,importante, sembrava darmi valore, conlui sulle spalle mi sono subito sentita unalibreria di tutto rispetto.

Tutto questo finché non ha comin-ciato a strepitare e urlare, a dimenarsiaprendo e chiudendo le sue pagine contonfi profondi, dentro c’erano tre gene-razioni, tre persone, tre uomini che liti-gavano, cercavano di comprendersi, siallontanavano, crescevano, una sera hopersino udito uno sparo e poi tanta con-citazione, fretta, chissà cosa era successo,sembrava che un padre e un figlio si fos-sero ritrovati, poi il silenzio, la calma.

Fra i miei scaffali disordinati è quindiarrivato un nuovo romanzo, rigorosa-mente in seconda fila, fra Tropico delCancro di Henry Miller e Lolita di Na-bokov, proprio davanti alla raccolta diromanzi di Carlos Ruiz Zafòn; non c’èdavvero più spazio, non c’è più spazio pervolumetti vezzosi dalla copertina lucidae morbida, le pagine sottili, i caratteri ac-catastati e le storie frivole, figuriamociper tomi di dimensioni spropositate convicende intrigate da raccontare.

Ho però voluto allungare un braccionella notte, quando nessuno poteva ve-

carta stampata caos letterario

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Storie di una libreriadisordinata / 2“La famiglia Karnowski” di Israel Joshua Singer:dopo 70 anni ripubblicata la vita di tre generazioni attraverso tre paesi.

Claudia Paccosi | [email protected]

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loro ferree regole; Georg è figlio di Davide affronta la vita in maniera totalmentediversa, diventa un medico affermato eintegrato nella società tedesca; peròl’ascesa del giovane dottore dovrà prestoarrestarsi per l’arrivo delle leggi razziali eavrà il più profondo tracollo nell’espe-rienza del figlio, Jegor.

La potente, ricca e rispettata famigliaebrea è costretta a trasferirsi a New Yorkper sfuggire alla persecuzione, Jegor, fi-glio di Georg vive inoltre la sua originecon un forte disprezzo di sé.

Il finale è sempre un mistero nei ro-manzi, ti lascia sospeso, ti sconvolge, avolte rimani a bocca aperta, ma non saròdi certo io a svelarvelo, anche se il mioospite sembra non riuscire a trattenerlo, lì,posato sullo scaffale, già con una sottilis-sima patina di polvere, dopo lo sconvolgi-mento di quella sera rimane nella quiete,respira con lentezza, come un bosco di al-beri millenari, inspira lentamente, espiracon dolcezza, quasi a non voler spostarenemmeno un filamento della sua lanugineprotettiva e rimane in silenzio quando “iprimi raggi dell’alba trafiggono la fittanebbia, illuminando le finestre con la lucelivida del sole nascente.”

Israel J. SingerLa famiglia Karnowski

Tit. orig. Di mishpohe KarnovskiTraduzione di Anna Linda CallowAdelphi, 2013pagine 498 - euro 20,00

I.J. Singer è stato da poco ristampato, nel1943 uscì per la prima volta, 70 anni fa,a quel tempo non avrà di certo avuto unacopertina così euforica né l’ampia tira-tura di questo anno, essendo uscito intristi tempi di guerra, ma il timbro delcapolavoro era marchiato in maniera vi-vida sulle sue spesse pagine.

Israel Joshua Singer per troppo tempoè rimasto all’ombra del fratello IsaacBashevis, vincitore del Premio Nobel

per la Letteratura, ma Adelphi dedicaalla sua storia, proprio nel 2013, un’ele-gante edizione.

Il romanzo è stato paragonato dallacritica ai Buddenbrook di Thomas Mann,esempio di quale sia lo spessore del libro;è la storia di tre generazioni di uominiebrei: David, il primo di cui viene narratala vita, lascia il piccolo shtetl polacco pertrasferirsi nella grande Germania e pro-prio da lui nasce il forte conflitto fra ebrai-smo e mondo esterno, fra nostalgia per leforti tradizioni familiari yiddish e vogliadi andare incontro ad un nuovo futuro.

I tre personaggi che attraversano illibro vivranno una vita in cui “essere ebreiin casa e uomini in strada” è la prima delle

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Karungu. Kenya. Africa. In unadelle zone a più alta diffusione delvirus HIV, virus dell’immunodefi-

cienza umana, padre Emilio Bagliana,appartenente all’ordine dei Padri Camil-liani della regione Veneto, ha fondatoun’organizzazione di supporto medico esociale per la popolazione africana dellerive del lago Vittoria. La missione è com-posta da due principali strutture: l’ospe-dale missionario e il centro orfani (DalaKiye). Il centro orfani ospita circa 600bambini e con il supporto di una strut-tura per le scuole e di nuclei abitativi ac-compagna la vita di molti piccoli, inoltrecirca 70 di loro sono sieropositivi e ne-cessitano di cure tramite farmaci antire-trovirali per evitare il contagio dimalattie opportunistiche e occasionali.

Giuliano Bacheca è un medico ra-diologo viterbese in pensione che ognianno, dal 1998, raggiunge Karungu persupportare la missione con il suo lavoro;grazie ad un incontro da lui concesso allarivista un’esperienza tanto lontana dalquotidiano mondo occidentale può es-sere trascritta su queste pagine e rag-giungere i concittadini.

15 anni fa comincia l’avventura dipadre Emilio che con il sostegno di al-cuni benefattori ha potuto costruirel’ospedale in questa zona del Kenya af-flitta da molti e diversi problemi.

Karungu si affaccia sulle rive del

mero da analizzare come nei nostri cen-tri specializzati, bensì è considerato inmaniera globale, la medicina è povera –nel Mission Hospital mancano apparec-chiature costose come la TAC e la riso-nanza magnetica – ma infine è utile lostesso.

Durante la sua permanenza inAfrica Bacheca può trasmettere aicolleghi le sue conoscenze, infatti

indice lezioni sulla tubercolosi, malattiache spesso colpisce i sieropositivi, eistruisce il tecnico radiologo per i pe-riodi in cui sarà assente dall’ospedale.L’ospedale ha infatti scarso personale,molti volontari giungono dall’Italia, maanche dall’estero, i medici però sonopochi. Padre Bagliana organizza l’annosecondo turni per non essere mai sco-perto, l’aiuto di nuovi medici sarebbeperò necessario. Giuliano ci confida cheè difficoltoso trovare medici volontari,dato che la sanità mondiale ne ha sem-pre bisogno anche nei paesi sviluppati, eche la sua partecipazione è così assiduaproprio perché in pensione.

La Catholic Relief Services (CRS -www.catholicrelief.org), associazioneamericana di supporto ai paesi in via disviluppo, invia però ogni anno uno o duevolontari che operano con una perma-nenza di un anno.

Il lavoro del medico, ci riferisce Giu-

grande lago Vittoria ed è popolata dacirca 30.000 abitanti, la zona ha un’altadiffusione del virus dell’AIDS a causadella frequente promiscuità praticata daipescatori del lago che spesso si trovanoa lavorare molto lontano da casa, coloroche ne scontano i danni sono però so-prattutto i bambini, spesso orfani, che,sieropositivi, necessitano di cure, atten-zione, affetto e di una mamma.

Grazie all’organizzazione attenta di StCamillus la loro vita può scorrere in con-dizioni migliori, abitano in casette agruppi di 10 bambini seguiti da unamadre adottiva della zona, frequentanole scuole e sono seguiti dalle cure del-l’ospedale missionario.

Giuliano racconta la sua esperienzacon emozione. Ogni anno abita a Ka-rungu per un mese e mezzo accompa-gnato da sua moglie Gabriella, lavoranell’ospedale nel reparto di radiologia edecografia, oltre alle visite quotidiane neireparti di medicina, chirurgia, pediatriae ginecologia. Nel pomeriggio dedica ilsuo tempo agli orfani con cui ama gio-care e ridere, la moglie invece cuce abitiper la popolazione povera. Giuliano viveun’avventura ricca di solidarietà e ci ri-vela la differenza netta fra occidente tec-nologico e Africa vera, povera, maumana; negli ospedali rurali come quellodi Karungu il malato non è più un nu-

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xenofilia report

Una missione per la vitaL’esperienza di Giuliano Bacheca, medico radiologo viterbese, nell’Africa dell’AIDS.Claudia Paccosi | [email protected]

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liano, mette alla prova. Deve combatterecon malattie infettive e parassitarie, chenei paesi occidentali sono ormai debel-late da anni, come la malaria che subiscepicchi alternati di diffusione. Negli ul-timi anni la prevenzione all’AIDS – im-munodeficienza che provoca il facilecontagio di tali malattie – è però aumen-tata ed è stata recepita in maniera piùcompleta e matura dalla popolazionedella zona, grazie anche alla mutata opi-nione della Chiesa riguardo all’uso deglianticoncezionali. La percentuale di ma-lati di AIDS della zona è quindi dimi-nuita passando dal 25% della popola-zione al 10/15%.

Le economie della medicina inAfrica sono però totalmente lontane dainostri livelli di sicurezza sanitaria, senzala presenza del Welfare spesso mancanoi soldi per attuare operazioni necessariee una diagnosi perfetta, studiata e sudatadiventa carta straccia per un bambino ilcui futuro sarà inevitabilmente breve.

L’Africa non è però solo malattia, po-vertà e guerra, vive sicuramente inuna situazione più difficoltosa della

nostra, ma Giuliano in tutti questi anni èriuscito ad odorarne l’essenza, a perce-pire un mondo differente, a conoscere lerelazioni fra la sua gente.

I media fanno apparire la parte peg-giore dell’Africa, scorrono in tv imma-gini terribili e tristi, terreni senza acquadalle crepe sul suolo e bambini dal ven-tre gonfio e dai grandi occhi implorantiaiuto; il grande continente ha tutto que-sto, possiede la miseria, la morte, la famee le malattie, ma fra la gente vive anchealtro, scorre nelle vene probabilmente opopola le menti una mentalità a noiestranea. “Umoja”, è chiamato così, lostare insieme, il senso di comunità e diaiuto reciproco, fra gli uomini e le donnedi Karungu conosciuti da Giuliano c’èquesto sentimento, questa umanità.

L’individualismo che pervade l’occi-dente facendo racchiudere ciascuno in sestesso e mostrare il lato più combattivoe feroce al mondo esterno per raggiun-gere quell’obiettivo nella carriera, nellavita privata e nella società in Africa nonesiste. A Karungu il villaggio raccogliefondi per un ragazzo che deve studiarefuori città, raccoglie fondi per una donnache deve praticare un costoso e compli-

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mensa gioia nel vederlo correre di nuovoinsieme agli altri piccoli del Dala Kiyecon il sorriso bianco circondato dallescura labbra screpolate.

La missione a Karungu di padreEmilio Bagliana ha bisogno del-l’aiuto di molti, di fondi, di volon-

tariato e soprattutto di attenzione,

desiderio che speriamo di aver esaudito,anche se nel nostro piccolo, tramite que-sto articolo.

Giuliano può essere contattato tra-mite l’indirizzo [email protected] perdomande a cui l’articolo non risponde,offerte di volontariato medico, infermie-ristico e non e per donazioni, il sito dellamissione è invece www.karungu.net e infondo alla sua pagina si possono trovaretutti i contatti di padre Emilio. La primadonazione significativa al St Camillusper la missione di Karungu è arrivatadall’associazione Viterbo con Amore epermise la costruzione delle scuole pri-marie. La nostra città ha quindi contri-buito molto per la missione in Kenya, hacontribuito con il validissimo supportomedico di Giuliano Bacheca e con le do-nazioni per la scuola; il percorso comin-ciato 15 anni fa ha necessità però dicrescere ancora, il sorriso di quel bam-bino guarito dalla tubercolosi deve ri-manere acceso grazie all'aiuto deivolontari, grazie alle medicine del Mis-sion Hospital e grazie alle carezze dellasua madre adottiva.

Karungu è solo un piccolo ospedale,è solo un centro orfani sulle rive del lago,è solo un bianco sorriso, ma quel sorrisoluminoso, quegli occhi profondi, sem-brano popolare il mondo intero quandosi ha la viva consapevolezza che un pro-prio piccolo aiuto sia servito a farlisplendere con forza.

cato intervento chirurgico a Nairobi, ilvillaggio aiuta, il villaggio sta insieme achi ha bisogno.

A conclusione del nostro incontroGiuliano Bacheca ci racconta le sue espe-rienze dirette, due in particolare: la piùdifficile e la più bella.

Alcuni anni fa si tennero le elezioni

presidenziali in Kenya proprio mentreGiuliano e Gabriella trascorrevano l’abi-tuale mese nel Mission Hospital e nelDala Kiye, l’etnia sconfitta attaccò la vin-citrice con scontri a fuoco che provoca-rono feriti, sfollati e 1.500 morti.Giuliano assistette con orrore dalle fine-stre dell’ospedale ai terribili scontri chesi avvicinavano con pericolosa inva-denza anche attorno alle zone abitatedalla missione del St Camillus. Grazie aljet di una coppia di volontari americaniriuscirono fortunatamente a lasciare infretta Karungu, anticipando la loro abi-tuale partenza.

L’esperienza più bella che invece ilmedico ricorda per le pagine di Decartaè legata a un bambino, un piccolo abi-tante africano dagli occhi scuri; era af-fetto da una meningite causata dalla suasieropositività, Giuliano riuscì però aguarirlo con le sue cure e provò un’im-

23Vai su Decarta onlineper sfogliare la galleriafotografica completa.

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