decreto 8 gennaio 1985; Pres. Chiozzi, Rel. Schiavon; ric. Soc. AgridataSource: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 5 (MAGGIO 1986), pp. 1425/1426-1429/1430Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23187288 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Di poi l'art. 2503 c.c. è laconico, sicché è dubbio ed anzi da
escludere che il procedimento de quo sia da ritenersi di natura camerale con tutte le relative conseguenze, prima fra tutte la
reclamabilità del provvedimento che autorizza o nega l'attuazione della fusione opposta.
Si tratta, piuttosto, come si è rilevato, di incidente del processo contenzioso con la particolarità della risoluzione demandata non
al giudice istruttore, bensì al tribunale.
La competenza collegiale si spiega con il rilievo che, una volta autorizzata l'attuazione della fusione con la prestazione della idonea garanzia, in caso di accoglimento dell'opposizione, essendo stato già disposto per l'attuazione, che non può essere revocata, non prevedendolo la legge, la sentenza che decide dell'opposizione in tal caso si risolve nella declaratoria di legittimità della stessa e
di conferma della garanzia prestata. La disposizione di attuazione della fusione è provvedimento di merito e definitivo per la
irreversibilità della stessa, sicché è demandato al collegio (tribu nale).
Del resto, proposta opposizione che ha effetto sospensivo e
respinta comunque l'istanza di autorizzazione (e l'eventuale re
clamo, se si segue la tesi criticata), magari per non essere stata ritenuta idonea la garanzia, ne deriverebbe altrimenti una situa
zione di pendenza indefinita che la società potrebbe far cessare
nei soli modi di cui all'art. 2503/1 c.c., quand'anche fosse di
fatto infondata, con il conseguente impedimento all'attuazione della fusione.
A meno che, poi, non si ritenga addirittura che con l'ultimo comma dell'art. 2503 c.c. (e, quindi, degli art. 2306 e 2445, che
integrano il sistema delle opposizioni dei creditori sociali) abbia il
legislatore semplicemente inteso consentire al tribunale in sede di decisione sul merito dell'opposizione di disporre ugualmente per l'attuazione della fusione con prestazione di garanzia idonea, pur accertatane la fondatezza, sì da consentire il contemperamento degli opposti interessi: quello del creditore alla garanzia patrimo niale ed alla integra soddisfazione delle sue ragioni creditorie attentate in ipotesi da creditori concorrenti delle altre società, e
quello generale dell'economia e del commercio.
Ed è questa la interpretazione che forse è più aderente
all'intenzione del legislatore (art. 12 preleggi), poiché spieghereb be la mancata riproduzione dell'ultima parte dell'art. 195 (e 101) del codice di commercio, che disponeva la durata dell'effetto
sospensivo della opposizione fino al passaggio in giudicato della sentenza. Infatti, il tribunale con piena cognizione può disporre l'attuazione della fusione con la prestazione della idonea garanzia, nonostante la eventuale fondatezza dell'opposizione, il cui effetto
sospensivo viene così eliminato, con ciò ugualmente riconoscendo
e tutelando il diritto dell'opponente. Per questi motivi respinge l'istanza avanzata con il ricorso
proposto ai sensi dell'art. 737 c.p.c.
I
TRIBUNALE DI VENEZIA; decreto 8 gennaio 1985; Pres.
Chiozzi, Rei. Schiavon; ric. Soc. Agridata.
TRIBUNALE DI VENEZIA;
Consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi —
Società consortili — Principi di ordine pubblico — Inderoga bilità (Cod. civ., art. 2615 ter).
Non è omologabile l'atto costitutivo di una società consortile a
responsabilità limitata qualora nello statuto siano contenute
clausole in contrasto con la disciplina delle società di capitali
(nella specie, lo statuto prevedeva l'ammissione di nuovi soci
con criteri simili a quanto normalmente previsto per l'ammis
sione di nuovi consorziati nei consorzi di cui agli art. 2602 ss.
c.c. o nelle cooperative; l'esclusione dei soci quale sanzione
della mancata osservanza delle norme statutarie, dei regolamen
ti, delle deliberazioni assunte; la previsione del recesso dei soci
che non si fossero più trovati nella possibilità di avvalersi dei
servizi del consorzio-, l'applicabilità, senza limiti di sorta, delle
disposizioni di legge in materia di consorzi volontari). (1)
(1-2) L'art. 2615 ter, introdotto nel codice civile con la 1. 10 maggio 1976 n. 377, dispone che le società previste nei capi III e seguenti del
titolo V possono assumere come oggetto sociale lo scopo consortile ex art. 2602 c.c.
Il dettato normativo postula quindi la possibilità che i consorzi, per
conseguire i propri scopi, possono assumere la forma societaria. Tale possibilità aveva formato oggetto di opinioni contrastanti
Il Foro Italiano — 1986.
II
TRIBUNALE DI MILANO; decreto 12 maggio 1984; Pres. ed
est. Baldi; ric. Soc. Groupement d'entreprises Impresit costru
zione.
Consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi —
Società consortili — Finalità consortili e disciplina societaria —
Limiti (Cod. civ., art. 2615 ter).
Non è omologabile l'atto costitutivo di una società per azioni con
scopo consortile nel cui statuto siano contenute clauso
le tali da snaturare la forma e la struttura del tipo societario
adottato (nella specie, lo statuto nulla prevedeva circa il modo
della ripartizione, con criteri mutualistici, fra i singoli consor
ziati dei vantaggi derivanti dall'attività sociale; disciplinava una
serie di obblighi dei consorziati in modo del tutto avulso dagli schemi tipici societari; ignorava la sorte del capitale sociale in
caso di scioglimento automatico del rapporto limitatamente al
socio consorziato; adottava, in tema di deliberazioni assemblea
ri, l'art. 2606 c.c., eludendo le disposizioni inderogabili dettate
per le società per azioni).(2)
prima della novella del 1976, alla luce del disposto dell'art. 2620
c.c. che, estendendo i controlli dell'autorità governativa alle società co
stituite per raggiungere gli scopi ex art. 2602, era sembrato a taluno
autorizzare l'assunzione della forma societaria (per un esame delle que stioni agitatesi in dottrina e giurisprudenza si rinvia alla nota di
richiami di S. Di Paola a Cass. 4 novembre 1982, n. 5787, in Foro
it., 1983, I, 1657). Peraltro il nuovo art. 2615 ter, se da un lato ha fugato ogni dubbio
sulla possibilità di costituire società consortili, dall'altro ha creato, per la genericità delle sue previsioni, ulteriori problemi nella pratica. Infatti la determinazione della disciplina giuridica applicabile alle
società consortili costituisce un « nodo gordiano » per gli operatori del diritto.
Come ben sintetizzato dalla Suprema corte, nella recente sen
tenza, « si tratta... di stabilire se al consorzio costituito in forma
di società commerciale (e, più tecnicamente, in forma di consorzio-so
cietà) siano applicabili le norme proprie del tipo di società posto in
essere, o quelle proprie dei consorzi, tenuto conto che vengono a
trovarsi in posizione di conflitto due diverse esigenze: quella di dare
anche a tali consorzi una disciplina conforme allo scopo perseguito dai
consorziati, da un lato, e quella di rispettare la regola della tipicità delle norme regolanti la società commerciale che in concreto è stata
costituita, dall'altro » (Cass. 4 novembre 1982, n. 5787, cit.). I principali elementi di distinzione tra le società di capitali ed i
consorzi riguardano: a) lo scopo di lucro, che caratterizza le società
lucrative cede la prevalenza nei consorzi allo scopo mutualistico (in
particolare, per le piccole e medie imprese costituite in società
consortili, l'esclusione statutaria dalla ripartizione degli utili è condi
zione necessaria per poter fruire delle provvidenze tributarie e crediti
zie di cui all'art. 4 1. 30 aprile 1976 n. 374, ora riprodotto nell'art. 4 1. 21 maggio 1981 n. 240); b) il diritto di recesso, naturalmente caratterizzante i consorzi, viene limitato ad ipotesi tassa
tive nelle società lucrative al fine di evitare il depauperamento del
capitale sociale che costituisce l'unica garanzia per i creditori sociali
(art. 2609 e 2437 c.c.); c) le modifiche dell'atto costitutivo nei consorzi,
salvo patto contrario, richiedono l'unanimità dei consensi, mentre nelle
società si applica il principio maggioritario (art. 2607 e 2365).
Quanto al punto sub a) giova osservare che App. Ancona, decr. 10
novembre 1980 (id., Rep. 1981, voce Consorzi per il coordinamento della
produzione e degli scambi, n. 6) in riforma di Trib. Ascoli Piceno, decr.
2 ottobre 1980 (ibid., n. 7), ha riconosciuto la possibilità di omologare l'atto costitutivo di una società per azioni con scopo consortile che
esclude la distribuzione di utili ai soci. Sostiene all'uopo la corte che
« il consorzio è a struttura societaria (ai fini soprattutto dello stabili
mento di futuri rapporti con i terzi), mentre sostanzialmente esso
rimane sempre caratterizzato dalla sua causa giuridica (finalizzata alla
limitazione reciproca della concorrenza tra imprese attraverso un'orga nizzazione comune per la disciplina e lo svolgimento di determinate
fasi delle stesse imprese: art. 2602 c.c. nella dizione novellata), da cui
esula quella peculiarità (scopo di lucro e divisione di utili) tipica della
società». Quindi si può affermare che «l'assunzione della forma
societaria non comporta anche la sostanza societaria, rimanendo invece
quella consortile ». Quanto al sub b) sembra utile ricordare come la Suprema corte,
nella decisione sopracitata, abbia ritenuto applicabili le norme in
materia di consorzi e quindi consideri possibile il recesso o l'esclusio
ne dei consorziati rilevando, da un lato, che « la società non viene
impiegata nella sua funzione tipica, bensì' come particolare strumento
di attuazione di una volontà che la legge riconosce come meritevole di
particolare regolamentazione e tutela » e dall'altro che le norme sulle
società commerciali non esauriscono l'intera disciplina dei consorzi, « poiché residuerebbe necessariamente un margine di applicabilità di
alcune disposizioni tipiche dei consorzi (quantomeno quelle contenute
negli art. 2618, 2619 e 2620, 2° comma, c.c.) che mal si adattano al
sistema tipico delle società commerciali ».
Gli assunti sia della corte d'appello sia della Cassazione ven
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1427 PARTE PRIMA 1428
I
L'atto del quale si è chiesto l'ordine di trascrizione e di
pubblicazione riguarda la costituzione della società « Agridata-so cietà consortile a responsabilità limitata », il cui statuto contiene
alcune clausole nettamente in contrasto con la disciplina delle
società di capitali, tra cui: meccanismi di ammissione di nuovi
soci simili a quanto normalmente previsto per l'ammissione di
nuovi consorziati nei consorzi di cui agli art. 2602 ss. c.c. o nelle
cooperative (art. 6 e 8); esclusione dei soci quale sanzione della
mancata osservanza delle norme statutarie, dei regolamenti, delle
deliberazioni assunte (art. 10); previsione del recesso dei soci che
non si trovino più nella possibilità di avvalersi dei servizi del
consorzio (art. 11); applicabilità, senza limiti di sorta, delle
disposizioni di legge in materia di consorzi volontari (art. 33). Si pone, dunque, il problema — conseguente al disposto
dell'art. 4 1. 10 maggio 1976 n. 377 che, introducendo l'art. 2615
ter c.c., ha evidenziato la possibilità per le società commerciali di
perseguire, in via diretta, scopi consortili — della disciplina applicabile ai consorzi costituiti in forma societaria e, cioè, della
prevalenza o meno delle regole stabilite per il tipo di società
posto in essere rispetto a quelle previste in materia di consorzio. Non ignora il tribunale che con sentenza del 4 novembre 1982,
n. 5787 (Foro it., 1983, I, 1657) la Corte di cassazione si è
espressa per la tesi meno restrittiva sulla base di due fondamen tali considerazioni: 1) da un lato l'applicabilità delle norme dei consorzi si giustificherebbe con il rilievo che la società non viene
impiegata nella sua funzione tipica, bensì come particolare stru mento di attuazione di una volontà che la legge riconosce come meritevole di particolare regolamentazione e tutela; 2) dall'altro è stato osservato che, se si dovessero ritenere « applicabili le norme sulle società commerciali, queste non esaurirebbero sicuramente l'intera disciplina del consorzio-società, poiché residuerebbe neces
gono disattesi dai decreti che si riportano. Più specificamente il Tribunale di Venezia, con il decreto in epigrafe, censurando in particola re la decisione della Suprema corte, esclude l'esistenza di una norma da cui possa rilevarsi la prevalenza delle regole consortili rispetto a
quelle dettate in materia di società. Sostiene in particolare il tribunale che la previsione dell'art.
2615 ter, 2° comma — « l'atto costitutivo può stabilire l'obbligo dei soci di versare contributi in denaro » —, pur costituendo una
deroga agli art. 2345 e 2478 c.c., che in materia di s.p.a. e di s.r.l. escludono la possibilità che l'atto costitutivo imponga ai soci presta zioni pecuniarie oltre l'obbligo di conferimento, argomenta a con trario indica che « per tutto il resto le regole in materia societaria prevalgono rispetto a quelle dettate per i consorzi »; l'art. 2620 c.c. estende alle sooietà consortili solo le norme previste dagli art. 2618 e 2619 — in materia di controlli governativi — tralasciando tutte le altre in materia di consorzi. Detti controlli, peraltro, « non contrasta no affatto con la struttura e con la disciplina delle società consortili »; il recesso o l'esclusione dei soci « sono del tutto incompatibili con la fisionomia giuridica delle società a responsabilità limitata, in quanto suscettibili di alterare la composizione del capitale sociale costituente l'unica garanzia per i creditori».
Trib. Milano, dal canto suo, con una decisione più articolata e per taluni versi di maggiore utilità « casistica », nel ricercare elementi di coesistenza tra le due discipline, ha fissato i seguenti punti: 1) non si
può parlare di ripartizione di utili in proporzione alle azioni possedute eludendo i criteri mutalistici; 2) eventuali prestazioni accessorie addos
sate ai soci devono essere formulate con le precisazioni richieste dall'art. 2345 c.c.; 3) occorre la determinazione specifica delle cause di
scioglimento automatico del rapporto sociale e la regolamentazione della
sorte del capitale sociale in relazione alla disciplina societaria; 4)
bisogna conciliare la disciplina delle delibere assembleari consortili ex
art. 2606 c.c. con quella prevista da norme inderogabili in materia
societaria. In senso favorevole alla prevalenza, in via generale, della disciplina
societaria su quella consortile si è espresso di recente in dottrina
A. Borgioli, Consorzi e società consortili, in Trattato di diritto
civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1985, il
quale tra l'altro a pag. 160 afferma che « non vi è... inserzione
automatica della disposizione di carattere consortile nella disciplina delle società-consorzio, ma questo inserimento avviene per il tramite
dell'atto costitutivo » e a pag. 161 che « non vi è dubbio che — in
difetto di una clausola statutaria — continua ad applicarsi in tutto e
per tutto la disciplina societaria, perché ... la struttura organizzativa di
una società consortile è innanzitutto quella di una società e come tale
va trattata». Nello stesso senso in dottrina L. F. Paolucci, in Trattato di diritto
privato, diretto da Rescigno, 18, Torino, 1983, che tuttavia a pag. 438
osserva che comunque « nel caso di consorzi, costituiti in forma di
società di capitali, l'applicazione delle norme di queste ultime non
deve essere necessariamente traumatica, date le affinità strutturali
esistenti » (in dottrina cfr. pure V. Salafia, Consorzi e società consorti
li, in Società, 1985, 259). [A. Giacca]
Il Foro Italiano — 1986.
sariamente (anche per il chiaro disposto dell'art. 2620 c.c.) un
margine di applicabilità di alcune disposizioni tipiche dei consorzi
(quantomeno quelle contenute negli art. 2618, 2619 e 2620, 2°
comma, c.c.) che mal si adattano al sistema tipico delle società
commerciali ».
Tuttavia il tribunale non ritiene di condividere questa decisione
per i seguenti motivi: anzitutto si deve rilevare che l'art. 2615 ter
c.c. dopo avere (al 1° comma) espressamente previsto che l'attivi
tà consortile di cui all'art. 2602 c.c. può costituire oggetto delle
società regolate nei capi III e seguenti del titolo V (e cioè delle
società in nome collettivo, in accomandita semplice e per azioni,
per azioni ed a responsabilità limitata) — previsione, del resto, già
implicita nell'art. 2620 c.c. — soggiunge, al 2° comma, che « in
tal caso l'atto costitutivo può stabilire l'obbligo dei soci di
versare contributi in denaro ». Tale norma costituisce un'esplicita
deroga al disposto degli art. 2345 e 2478 c.c. secondo cui, nelle
società per azioni ed a responsabilità limitata, l'atto costitutivo
non può imporre ai soci prestazioni pecuniarie oltre all'obbligo del conferimento.
E da tale specifica previsione si dovrebbe, dunque, argomenta re a contrario che, per tutto il resto, le regole in materia
societaria prevalgono rispetto a quelle dettate per i consorzi.
D'altra parte l'art. 2620 c.c. — sul quale essenzialmente si fonda
la succitata decisione — estende alle società consortili non tutte
le norme sui consorzi, bensì soltanto quelle contenute negli art.
2618 e 2619 c.c., riguardanti l'approvazione da parte dell'autorità
governativa dei contratti costitutivi aventi particolare influenza
sul mercato generale dei beni in essi contemplati e la vigilanza sull'attività dei consorzi; controlli che non contrastano affatto con
la struttura e con la disciplina delle società commerciali.
Sicché non sembra esistere alcuna norma positiva dalla quale
possa trarsi la prevalenza delle regole dei consorzi rispetto a
quelle dettate in materia di società.
Si deve, per altro verso, osservare, con particolare riguardo alle
previsioni dello statuto della costituenda società di cui trattasi, che il recesso o l'esclusione dei soci sono del tutto incompatibili con la fisionomia giuridica della società a responsabilità limitata, in quanto suscettibili di alterare la composizione del capitale sociale, costituente l'unica garanzia per i creditori. Infatti, le
clausole che prevedono il recesso o l'esclusione nelle società
consortili finiscono per comportare la variabilità del capitale
(conseguente all'uscita dei soci dalla compagine sociale) e ciò in
contrasto non soltanto con la disciplina generale delle società
capitalistiche, ma anche con l'art. 5 dello statuto della società di cui trattasi, il quale dispone che il capitale sociale è di lire 60.000.000.
In definitiva, il solo scopo consortile inserito in una società a
struttura capitalistica non giustifica affatto — in assenza di
specifiche disposizioni normative — una deroga a principi di ordine pubblico propri del diritto societario.
II
Letto il ricorso del notaio Paolo De Carli diretto ad ottenere l'iscrizione dell'atto di costituzione della « Groupement d'entrepri ses Impresit costruzione s.p.a. Dipenta s.p a. società consortile per azioni » iscritto al n. 1679/84, osserva quanto segue. Si è indub biamente in presenza della costituzione di una delle società di cui all'art. 2615 ter c.c., che assumono la forma e la struttura degli enti previsti dal capo III e seguenti del titolo V del codice ma che tuttavia non rispondono allo schema sostanziale delle società lucrative (art. 2247 c.c.), assumendo come scopo non la distribu zione di utili, attraverso l'esercizio in comune di un'attività
economica, ma la disciplina e lo svolgimento di determinate fasi delle imprese partecipanti al consorzio (art. 2602 c.c.), al fine di realizzare mutualisticamente, per mezzo dell'organizzazione consor
tile, vantaggi per i consorziati.
La scelta di siffatto strumento operativo offerto dalla normativa fra quelli alternativamente possibili comporta, da un lato, che le norme che disciplinano il tipo di società adottato possono subire
modificazioni, rispetto agli schemi tipici, in relazione alle partico lari finalità consortili, senza peraltro che queste ultime finiscano
per vanificare la struttura in cui, per libera scelta delle parti, sono state inserite (altrimenti, ed è appena il caso di sottolinear lo, il disposto dell'art. 2615 ter citato perderebbe ogni significato anche in rapporto alle norme che disciplinano i consorzi in forma non societaria) e, dall'altro, mutatis mutandis, che' tali ultime disposizioni non possono essere trasportate di peso nell'ambito della struttura societaria, restando per cosi dire indifferenti alle esigenze della struttura stessa.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Cosi impostata la questione e passando all'esame dell'atto
sottoposto ad omologa, non può non rilevarsi che, alla luce anche
di quanto previsto nella 1. 240/81, sia pure concernente i soli
consorzi fra medie e piccole imprese, può senz'altro farsi rientra
re nel concetto di « fase » delle imprese gestite dalle società che
hanno partecipato all'atto costitutivo in questione l'assunzione di
un complesso contratto di appalto e lo svolgimento delle attività
successive.
Trattasi infatti di regolare l'eventuale reciproca concorrenza per
l'acquisizione dell'affare e di svolgere in comune una attività
lunga, complessa ed onerosa che corrisponde al concetto di
« fase », che ben può essere individuato non solo con riferimento
ai vari momenti dell'andamento per così dire verticale della
produzione (dall'acquisto delle materie prime al prodotto finito ed
al suo smercio) ma anche in rapporto all'arco delle scelte degli investimenti produttivi che ogni impresa ha davanti a sé, in
concorrenza con le altre, nazionali ed estere, scelte alle quali
ognuna delle imprese sarebbe teoricamente idonea, sotto il profilo
strutturale, essendo organizzata per fare fronte a tutto un ciclo
produttivo, ma che concretamente, in relazione ad una determina
ta ipotesi profilata dal mercato, non è in grado di affrontare da
sola o comunque di attuare nel modo più conveniente ed
economico.
Se ciò è vero, e se quindi sotto tale profilo l'atto costitutivo in
esame non presta il fianco a rilievi, è però altresì vero che le socie
tà Impresit e Dipenta che hanno manifestato la volontà di costitui
re una società per azioni con scopo consortile hanno, sotto vari
profili, del tutto snaturata la forma e la struttura del tipo di
società prescelto al di là dei limiti consentiti dal particolare scopo della società stessa.
In primo luogo, trascurando lo scopo consortile della società, nulla è stato detto circa il modo della ripartizione, con criteri
mutualistici, fra i singoli consorziati dei vantaggi derivanti dall'atti
vità sociale (consortile), mentre si è disciplinata (art. 23 dello
statuto) la ripartizione degli utili in proporzione alle azioni
possedute (il che tra l'altro svalorizza la tesi, prospettata nella
memoria del 27 aprile 1984, della attribuibilità del termine « utili » anche ai vantaggi mutualistici da distribuire fra i soci, cioè dei c.d. ristorni che la stessa dottrina richiamata dalle
interessate giustamente svincola dalla proporzione con l'ammonta
re del capitale posseduto dai singoli soci per riallacciarla all'atti
vità svolta dai singoli consorziati ed in proporzione di questa). In tal modo è venuta meno in realtà qualsiasi distinzione fra
società lucrativa in senso stretto e società consortile.
In secondo luogo si sono disciplinati, all'interno della struttura
sociale, una serie di obblighi dei consorziati del tutto avulsi dagli schemi tipici societari (art. 20 e 21 dello statuto).
Il collegio non ignora la polemica in tema di conciliabilità fra
finalità consortili e disciplina delle prestazioni accessorie nella
società per azioni (art. 2345 c.c.) ma non può escludere, nel
modo più reciso, che le finalità consortili possano giustificare la
formulazione di patti sociali del tutto contrastanti con la norma
tiva d'applicare.
Ciò comporta che il disposto del citato art. 2345 non possa essere saltato a piè pari, come è avvenuto nella specie, trascuran
do ogni precisazione circa le prestazioni addossate ai singoli soci
consorziati, potendo soltanto ammettersi che le precisazioni ri chieste dalla disposizione in questione possano trovare formula
zioni più o meno elastiche, ma pur sempre tali da soddisfare gli
scopi voluti dal citato articolo, evitando oltre a tutto incertezze
interpretative ed operative, quali quelle che scaturiscono in parti colare, nel caso in esame, dalla lett. b) dell'art. 20 e dell'art. 21.
Si noti al riguardo, che l'art. 2615 ter, 2° comma, espressamen te derogando, in tema di prestazioni in denaro, al disposto dell'art. 2345, finisce con il confermare, a contrario, la piena
applicabilità per le altre prestazioni.
In terzo luogo (art. 25 dello statuto) sono state disciplinate, in
forma oltre a tutto ambigua laddove si accenna alla incompatibi lità con « disposizioni imperative di legge », cause « di scioglimen to automatico del rapporto limitatamente al socio-consorziato » che
non solo, almeno per alcune, sono illogiche (ipotesi di sottoposi zione ad amministrazione controllata) ma che soprattutto nemme
no lontanamente pongono e risolvono il problema della sorte del
capitale sociale e della relativa disciplina societaria, che pure è
sicuramente investito dal predetto scioglimento.
In quarto luogo, infine, in tema di deliberazioni assembleari
(art. 12), si è adottato di peso il regime di cui all'art. 2606 c.c., dimenticando del tutto le inderogabili disposizioni in tema di
società per azioni. (Omissis)
Il Foro Italiano — 1986.
I
PRETURA DI ROMA; ordinanza 5 marzo 1986; Buzzi ed altri
(Avv. F. Pietrosanti) c. Min. grazia e giustizia (Avv. dello Stato Polizzi).
PRETURA DI ROMA:
Ordinamento penitenziario — Detenuti lavoratori — Determina zione delle mercedi — Questione non manifestamente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 36; 1. 26 luglio 1975 n. 354, norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misu re privative e limitative della libertà, art. 22, 23).
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costi tuzionale degli art. 22 e 23 l. 26 luglio 1975 n. 354, nella parte in cui consentono che le mercedi dei detenuti lavoratori
possono essere inferiori, sino ad un terzo, alle tariffe sindacali ed essere decurtate di ulteriori tre decimi per gli imputati ed i
condannati, in riferimento agli art. 3 e 36 Cost. (1)
II
PRETURA DI BRESCIA; sentenza 27 novembre 1985; Giud.
Terzi; Mestriner (Aw. Mina) c. Ditta Mestriner e Ottolini, Min.
grazia e giustizia.
Ordinamento penitenziario — Lavoro esterno del semilibero —
Remunerazione — Diretta percepibilità (L. 26 luglio 1975 n.
354, art. 21; d.p.r. 29 aprile 1976 n. 431, regolamento di esecuzione della 1. 26 luglio 1975 n. 354,. art. 51).
Il detenuto che, in regime di semilibertà, svolga all'esterno del l'istituto penitenziario attività lavorativa in favore di impresa privata, ha diritto di percepire la remunerazione direttamente dal datore di lavoro; va pertanto disapplicata la disposizione regolamentare (art. 51 d.p.r. 29 aprile 1976 n. 431) che ne
impone la percezione per il tramite dell'amministrazione peni tenziaria. (2)
III
PRETURA DI PADOVA; sentenza 17 marzo 1983; Giud. Jauch; Fagan (Avv. Zentil, Bonon) c. Soc. Valle Sport <Avv. Caiani) e Min. grazia e giustizia.
Lavoro (rapporto) — Attività lavorativa dei detenuti — Caratteri — Lavoro subordinato — Esclusione — Conseguenze circa la remunerazione (Cost., art. 36; 1. 26 luglio 1975 n. 354, art. 22).
Non ha natura di lavoro subordinato l'attività lavorativa di un detenuto (nella specie, imputato in attesa di giudizio) svolta all'interno di istituto penitenziario in favore di impresa privata che fornisce le attrezzature e la direzione tecnica delle lavora zioni, laddove all'amministrazione penitenziaria è riservata la scelta del numero e delle persone dei lavoranti, il potere di disciplina e la determinazione dell'orario di lavoro; pertanto, l'ammontare della mercede, determinata ai sensi dell'art. 22 l. 26 luglio 1975 n. 354, non può essere adeguato — nell'inappli cabilità dell'art. 36 Cost. — ai più alti parametri retributivi di cui ai c.c.n.l. di categoria. (3)
(1-3) A. - La questione della legittimità costituzionale delle disposi zioni dell'ordinamento penitenziario in tema di determinazione del compenso ai detenuti lavoratori (recte, nella lettera della legge: lavoranti) e delle sue ulteriori decurtazioni torna, con l'ordinanza del Pretore del lavoro di Roma che si riporta, all'esame dei giudici di palazzo della Consulta: questa volta nell'ambito di un processo di cognizione, instaurato da detenuti innanzi al pretore giudice del lavoro, dopo che la Corte cost. 11 aprile 1984, n. 103 (Foro it., 1984, I, 1182, con nota di richiami) aveva dichiarato inammissibile la questione medesima per essere stata sollevata ex officio dal magistrato di sorveglianza in sede di reclami di detenuti e, dunque, nell'ambito di un procedimento amministrativo e non giurisdizionale (da ultimo cfr., anche, Corte cost., ord. 2 aprile 1986, n. 77, in Gazzetta ufficiale, 1* serie speciale, 16 aprile 1986, n. 15).
La succinta ordinanza di rimessione non accenna a discutere circa la giurisdizione dell'a.g.o. o circa la competenza del giudice del lavoro a conoscere della domanda, implicitamente consentendo alla tesi della natura di lavoro subordinato di quello prestato dal detenuto nell'ambi to del trattamento penitenziario.
In senso contrario Pret. Padova 17 marzo 1983 che si riporta; nello stesso senso, invece, Pret. Parma 19 dicembre 1977 (Foro it., Rep. 1978, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 106 e voce Lavoro (rapporto), n. 871, e in Dir. lav., 1978, II, 93, con nota di R. Pessi, Il rapporto di lavoro del detenuto, che riconobbe al lavoro carcerario consistenza di rapporto di lavoro subordinato ed al detenuto lavoratore il conseguente diritto di percepire una retribuzione conforme al dettato dell'art. 36 Cost., previa la disapplicazione della relativa norma
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