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Dio guarda il cuore - Home - Fraternità di Romena · 2014-06-18 · ... sono sguardi di chi sembra...

Date post: 18-Feb-2019
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1 Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XVII n° 2 / 2013 Dio guarda il cuore
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2 /

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Dio guarda il cuore

SOMM

ARIO

Primapagina3

Dio guarda il cuore 4

Perché avete paura?6

Non ci si può mai salvare da soli10

Vivere come eterni principianti 8

Rischiare la speranza14

Perché non cambiate vita? 12

Il silenzio di Dio20

Una fede nuda 18

La fede ha bisogno di nudità 22

Far nascere Dio dentro di noi24

Credo nell’amore 26

Nuova Veglia - Prossime tappe28

trimestrale Anno XVII - Numero 2 - Novembre 2013REDAZIONElocalità Romena, 1 - 52015 Pratovecchio (AR)tel. 0575/582060 - [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILE:Massimo OrlandiREDAZIONE e GRAFICA:Raffaele Quadri, Massimo Schiavo

FOTO:Piero Checcaglini, Paolo Dalle Nogare, COPERTINA: Pablo Picasso “Bambina con colomba”

HANNO COLLABORATO:Luigi Verdi, Maria Teresa Marra Abignente, Giorgio Bonati, Luca Buccheri

Le sintesi degli interventi di “Perché avete paura?” e “Una fede nuda” non sono state riviste dagli autori.

Filiale E.P.I. 52100 ArezzoAut. N. 14 del 8/10/1996

Il giornalino è anche online suwww.romena.it

Nuove pubblicazioni 30

Romena. Incontro “Una fede nuda”. Apparentemente Ermes Ronchi e Marina Marcolini sono seduti davanti all’altare e ci parlano. In realtà camminano in mezzo a noi con un paniere in braccio, come i seminatori di un tempo, e spargono semi di bellezza e di amore. È una mattina di settembre, e la pieve intera è terra dissodata: noi ne siamo i solchi, final-mente aperti. Mi guardo intorno, mi specchio in quello che vedo: sono sguardi di chi sembra dire a se stesso “ma come, proprio a me!”, come se ciascuno si sentisse intimamente interpellato.Passa qualcosa di speciale tra chi parla e chi ascolta, un’energia creativa e creatrice. Un’energia feconda.

“Oggi le parole sono stanche” dice spesso don Luigi Ciotti. Le parole sono stanche perché girano troppo spesso a vuoto, lontane dalla realtà che vorrebbero rappresentare. E sono stanche perché devono sempre farsi largo in un dedalo inestricabile di messaggi che arrivano da ogni parte, spesso utili solo a confonderci.Quando, quest’anno, abbiamo pensato di proporre un cammino di incontri nuovo, non più ri-stretto alla dinamica di gruppo di un corso ma aperto a chiunque volesse parteciparvi, abbiamo avuto ben presente questo rischio. Il rischio di aggiungere parole magari belle, emozionanti, ma di vederle scomparire il giorno dopo, assorbite dalla bolla mediatica di cui siamo parte.Per fortuna no. Sia a luglio, con l’incontro “Perché avete paura?”, che a settembre per “Una fede nuda” abbiamo avvertito altro.

Essere saturi di parole non vuol dire non averne più bisogno. Ci servono però parole realmente attaccate alla vita, capaci di saldare l’autenticità di chi le pronuncia con i bisogni profondi di chi le ascolta. La mia sensazione è che non di rado queste condizioni si siano realizzate e voglio pensare che molto sia dipeso non solo dalla capacità di coinvolgimento dei temi scelti (le paure, la fede) e dal valore degli interventi, ma anche dal fatto di essere stati in tanti (ol-tre quattrocento per ogni incontro), di aver quindi segnalato a noi stessi un sano bisogno di relazione, di contaminazione, di condivisione.

L’incontro con Ermes, frate e poeta di Dio, e con Marina, insegnante e scrittrice, giunto all’epilogo del secondo cammino di incontri, ha saputo dare il nome giusto a quello che ab-biamo vissuto: fecondità. Avevamo e abbiamo bisogno di parole feconde, di parole cioè che sanno aprire il cuore e indirizzarlo verso una prospettiva più vasta, di parole che contengono squarci di nuovo, di parole che, in questi tempi difficili, covano germi di speranza.

È stato quasi naturale, dopo questi incontri, pensare che quello che avevamo respirato potesse diventare patrimonio comune, attraverso un numero speciale della nostra rivista.Ovviamente questo giornalino ha potuto accogliere, e in sintesi, solo una parte degli interventi. Ma è già qualcosa: è una traccia, è una scia, è una piccola, preziosa eredità.

“La vera fatica della vita – ci ha detto Antonietta Potente – non è l’accumulo di tutte le cose che devo fare: la vera fatica della vita è sapere cosa val la pena fare e cosa invece non val la pena fare”.Di questi due incontri non ho dubbi: valeva la pena organizzarli e viverli. E vale la pena raccontarli. Spero che questo arrivi, almeno un po’, anche a voi. Buona lettura.

Massimo Orlandi

PRIMAPAGINA

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Adamo dove sei? Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nasco-sto”. Così inizia la prima paura dell’uo-mo.

Ho paura della mia nudità perché più niente mi nasconde e diventano visibili a tutti queste mie mani vuote, il mio corpo fragile e indifeso e il mio cuore impaurito.

Seduto sulle ginocchia della paura, ho molte lacrime inghiottite, davanti a me

ho il terrore di disper-dere la vita e mi guar-do indietro per fuggire, quasi a voler tornare nel grembo di mia ma-dre.

Questo tremare mi possiede, tanto che mi sembra ci sia più notte dentro la notte, il cielo sia più stretto in questo cielo nero.

Ho il coraggio perso in questo labirinto, un co-raggio seduto davanti alla mia cella come il fal-so custode di un futuro assente.

Il cuore si arresta ed è quasi dolore riprendere il respiro, se non si uni-sce a un profumo fresco, se non tor-no a camminare sulla strada e non sull’amarezza accumulata.

È crudele la mia paura, come un filo di seta intreccia la mia vita: un filo sottile con cui ho disegnato le mie frontiere

Dio guarda il cuore“Una delle verità fondamentali del cristia-nesimo – scrive Simone Weil – è questa: ciò che salva è lo sguardo”. In questo numero speciale della nostra rivista potremo ascoltare tante parole, tante intuizioni profonde tra quelle che abbiamo ascoltato nei due incontri di lu-glio e settembre. Ma ci piace cominciare da ciò che le parole anticipa e oltrepassa: lo sguardo, cioè il nostro modo di guarda-re e di guardarci. Ed è proprio lo sguardo il protagonista di un libro che don Luigi Verdi ha com-pletato in estate, ponte ideale tra i due incontri. “Luigi – ha scritto Ermes Ronchi nell’introdu-zione – ha il dono antico della cardiognosi, ‘la co-noscenza del cuore’: ogni creatura riecheggia nel suo cuore, come il rumore del mare nella conchiglia”. In “Dio guarda il cuore”, Gigi ha provato a mettersi in ascolto di tanti cuori, so-prattutto di quelli feriti, per rivelarci cosa ha sentito, per dare “eco, sponda, ap-poggio”.Tra le pagine del libro, ne abbiamo scelta una in cui tutti possono ritrova-re qualcosa di sè. È una pagina nella quale Gigi si mette in ascolto del cuore di chi ha paura, di chi cerca di trovare il coraggio. È anche questo, forse, lo stato d’animo giusto per aprirsi all’ascolto di chi, nei due incontri, ci ha stimolato a non temere le tempeste della crisi, e a aprire di nuovo le vele alla ricerca di un senso verso cui destinare la nostra vita.

Dio guarda il cuore

Luigi Verdi

Prefazione

Ermes Ronchi

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Nella nostra vita tessuta a manoil filo può, a un tratto, strapparsi dalla cruna dell’ago:in quel preciso istante sai che non servono nè ansia, nè lamenti, ma solo occhi più desti per rinfilare l’ago e tornare a tessere la vita.

Luigi Verdi

e come ogni prigioniero so dove il mio chiudermi nel tempo mi porta.So che dovrei gettare un ponte fra i due cigli del baratro, fra la paura e il coraggio, anche se io così smarrito non so come attraversarlo.Il coraggio, questa vertigine che buca il buio mi chiede di aprire gli occhi e guar-darmi intorno, di raccogliere tutte le mie forze e saltare il muro di cinta con un bal-zo del cuore.So che dall’altra parte qualcuno attende di incontrarmi e di camminare con me.Ma se guardo bene ricordo che in ogni mia paura intravedevo una breccia in cui passava il segno della luce, simile alla luce dell’alba, quando incendia il cielo.Provo ad uscire dalla paura senza chiu-

dere gli occhi, senza affrettare il passo, con un cuore che torni a battere a ritmo di coraggio, che mi faccia sentire il sa-pore di incompletezza e mi ridoni il desi-derio di tornare a giocare con la mia vita smarrita.

Le chiese e i castelli abbarbicati sui monti mi dicono che ciò che è saldo pende sul vuoto.La fiducia sa soffrire a lungo e rimanere gentile, fino a quando la paura arretra e mi restituisce ciò che non le appartiene: la voglia di vivere.E quando la fiducia abbraccia il coraggio, sento dissolvere in me la paura più gran-de: quella di essere uomo.

Luigi Verdi

6

Perché avete paura?

Accade tutto d’improvviso. D’improvviso ci tro-viamo a essere in tanti, duecento, trecento, quattrocento.È arrivato il venerdì sera che abbiamo sognato, pensato, progettato da mesi. E si materializza in un secondo, portando con sé una naturalezza impensabile. Se la tocchi con mano, infatti, l’atmosfera è pro-prio quella che abbiamo conosciuto nei corsi e in tante attività di Romena, quell’atmosfera viva, aperta, stimolante, della quale non ti senti solo beneficiario, ma in qualche modo artefice. È quindi anche tua, dipende da te, ti appartiene. Si sciolgono così le nubi delle preoccupazioni: quello che proviamo quando siamo in venti suc-cede ora che siamo venti volte di più; anche se siamo in tanti nessuno grava sulle fragili spalle della fraternità, anzi fraternità è questo cammi-nare tutti insieme, tante storie diverse che ar-rivano da ogni angolo d’Italia. Insieme, per tre giorni. Bellissimo.

Gesù disse: “Passiamo all’altra riva”Il cammino ha per filo conduttore il racconto evangelico della tempesta sedata. In questo primo tratto ci lasciamo condurre volentieri dal-lo sguardo largo e aperto di un non vedente, il nostro Wolfgang Fasser, custode della casa di Romena a Quorle. Wolfgang porta in dote la saggezza dell’esperienza, e il dono della sempli-cità, coltivato nei suoi tanti viaggi in Africa. E sanno di Africa le foto che accompagnano il suo racconto. L’ultima che ci mostra è di una donna africana che porta in testa una macchina da cucire: “Questo so fare! ci dice questa signo-ra, e così si muove per i villaggi e va e fa” com-menta Wolfgang invitandoci a fare altrettanto: “Vai e fai!, non preoccuparti di essere imperfet-to, fidanti di ciò che sai fare”. È così che si può davvero muoversi verso l’altra riva, simbolo di ogni cambiamento.

La domanda di Gesù ci arriva dritta addosso. È una domanda che scuote, che tocca, che ci chiama a guardare, senza nasconderci, la nostra vita. Parte così il nostro incontro di luglio. Con la voglia condivisa di esplorare ciò che frena la nostra vita. E le condizioni per farla sbocciare.

È possibile ascoltare tutti gli interventi sulla pagina Podcast di www.romena.it

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Ed ecco levarsi una gran tempesta di vento…Il mattino del sabato porta su di sé l’architrave di pensiero su cui si regge tutto il resto.Roberto Mancini, filosofo appassionato, ci por-ta dentro la tempesta che stiamo vivendo, la analizza, la mette a nudo. “Non chiamiamo crisi la fase che stiamo vivendo - ci esorta - diamole il suo vero nome che è fallimento, fallimento di un sistema economico che ha ribaltato le rela-zioni tra l’uomo e le cose. E non aspettiamo che passi, ma utilizziamola per pensare un sistema diverso, che riporti l’uomo al suo posto, alla sua dignità”.

I discepoli: “Maestro non ti importa che noi moriamo?”Il racconto del Vangelo si addentra ora nei vi-coli bui che abbiamo dentro, nelle paure di cui ci sentiamo prigionieri. Un prete bresciano ci dice che si può anche andarci deliberatamente andare nei vicoli della nostra storia, e costruire speranza. Lui, Giacomo Panizza, lo ha fatto in Calabria, a Lamezia Terme. Lo ha fatto senza eroismi (“io la paura ce l’ho, ma sono bravo a non farmene accorgere”), semplicemente co-struendo relazioni: “La speranza è un frutto co-munitario”. Lui lì l’ha costruita con i rom (hanno creato una cooperativa per la raccolta differen-ziata dei rifiuti), con i malati di Aids, con i pazienti psichiatrici e soprattutto con un gruppo di disa-bili, la sua comunità: insieme hanno trovato il coraggio di prendersi una casa confiscata nello stesso androne dove vivono i boss della ‘ndran-gheta.

Gesù sgrida il vento e dice al mare: “Taci, calmati…”È l’egocentrismo, è il pensare di fare tutto da sé il più grande alleato l’alleato di ogni paura. I pensieri che maturano il sabato si ritrovano in quelli della domenica. L’intervento di Antonietta Potente, teologa, è di quelli che scuotono, che restano: “Basta con questo pensare alla nostra salvezza individua-

le, coltivando orticelli a sé stanti. A me, devo dirlo, non mi interessa campare da sola fino a 120 anni magari perché faccio una dieta ma-crobiotica. Preferisco morire prima, soffocata di inquinamento, ma insieme a tutti gli altri”. È una provocazione forte verso chi pensa di affrontare le crisi rinchiudendosi in una nicchia: non ci si deve nascondere davanti al vento, ma esporci tutti insieme. Solo così si calmerà.

“Perché avete paura? ”“Alzatevi, su!” L’invito di Filomeno Lopes non è metaforico: che ci si alzi per danzare e per cantare insieme. Filomeno è un giornalista e un musicista, ma prima ancora è un figlio d’Africa. La sua testimonianza parte dal corpo, lo chiama a esporsi, poi tocca l’anima, la invita a riscoprirsi nuda. Con la musica, con i ritmi, ora diventiamo un’onda vitale che propaga energia. Ci fa bene, fa bene: la gioia della festa sgretola i muri delle paure. Siamo all’epilogo. Ma prima di raggiungerlo c’è stato anche tanto altro, molto di più di quanto si possa raccontare. Le storie di vita, di dignità di amore che ci hanno portato Manuela Bondielli e Samuela Brunamonti, la colonna sonora mu-sicale di ben quattro cantautori, Luigi Grechi, Le-tizia Fuochi, Tiziano Mazzoni, Antonio Salis.E ora, per finire, c’è don Luigi Ciotti. Sì, c’è don Ciotti, anche se non c’è. C’è, anche se sappia-mo che non verrà per motivi di salute. C’è, lo rendiamo leggendo alcune pagine de “Il mor-so del più”, il libro che gli abbiamo dedicato, ascoltando il suo saluto registrato al telefono. C’è, perchè questa volta l’onda di coraggio e di speranza che ci porta ogni volta, siamo noi a inviargliela...

Trabocca la pieve, trabocca di gente e di emo-zione. Trabocca della voglia di continuare, di andare oltre, di dare le gambe alla bellezza che abbiamo vissuto. E il cammino dei tre giorni che finisce così, finisce con un inizio, finisce in un inizio.

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Scrive Martin Buber: “Bambino mio, ti si opporrà lo scuro, ti si opporrà all’inizio, nell’istante del compimento, a ogni svolta, col sembiante dell’ombra e col sembiante della vita. È la scorza che dovrai rompere, è l’abisso che dovrai oltrepassare in volo, è il resto di te: chiude il tuo cerchio e tu chiudi il suo. Verranno tempi in cui come un fulmine ti abbatterai sul suo ultimo rifugio e dinanzi alle sue potenze esso si dissolverà come una nube sottile e verranno tempi in cui ti assedierà con ombre di molle oscurità e tu sarai solo sul tuo scoglio, in mezzo al mare della tua notte. Ma quei tempi si squarceranno e questi tempi si squarceranno e tu sarai vincitore nella tua anima. E sappi, la tua anima è un metallo che nessuno può schiantare e solo Dio può fondere. Non temere dunque lo scuro, non temere nulla, mai.”Come sono intense queste parole, ci fanno coraggio ma ci fanno anche un pò tremare!Ci fanno capire che l’uomo ha in fondo bisogno anche della paura. E vogliamo allora trovare la forza, la speranza, il coraggio di ammettere le paure, di accoglierle, guardarle e liberarci, per non rimanere paralizzati. Vorrei proporvi alcuni suggerimenti.

Facciamo un passo indietroDalla natura impariamo sempre, la natura è nostra maestra e anche in questo caso ci insegna qualcosa che si collega all’esperienza della paura: quando incontriamo un animale selvatico, per esempio quando incontriamo una serpe, dobbiamo fermarci e fare un passo indietro e guardare meglio. Con quel passo indietro riusciamo a mettere come in cornice quel che ci fa paura, con quel passo

indietro possiamo osservare questa serpe, vedere cosa fa: forse prende il sole, forse ci guarda, forse mangiucchia qualcosa. “Fermati, fai un passo indietro, guarda meglio, esci da questa scena”. Così dobbiamo fare con le cose che ci fanno paura.

Apriamoci a uno sviluppo orizzontaleNoi tutti abbiamo delle aspettative sulla nostra vita, ma il più delle volte abbiamo delle aspettative sbagliate: ci ripetiamo “vorrei vorrei essere più consapevole, più intelligente, più spirituale”, seguendo cioè uno

sviluppo verticale, in profondità o in altezza. Mi dico cioè che vorrei essere libero dalle paure, dalle gelosie, dalle invidie, chiaro come un cristallo...ma è disumano pretendere questo. Io invece credo molto in uno sviluppo orizzontale, in un abbraccio che accoglie ogni cosa della vita, ogni cosa di me e dell’altro. E questo vuol dire che, così come accolgo le mie

competenze, la mia bellezza, la mia luce, non escludo la paura e la fragilità, l’immaturità, il limite, le difficoltà.L’abbraccio orizzontale è quando accolgo me con tutte le mie sofferenze, con tutte le mie paure, con tutta la mia meraviglia e bellezza: mi accolgo, mi abbraccio forte, e dico sì. Così posso anche permettermi di abbracciare l’altro, non solo perchè è bello e bravo, ma perchè è completo, è umano, con tutto se stesso, luci e ombre.. Smettiamola di pretendere di avere sempre successo, nell’amore, nel lavoro, nelle amicizie, accogliamoci come siamo,con le nostre luci e le nostre ombre, con questo abbraccio liberatorio.

Ciò che ci blocca, nella vita, è la paura dell’imperfezione, del non farcela, è l’essere talmente immersi nei nostri limiti da non riuscire più a collocarli. E questo avviene perchè abbiamo troppe pretese su noi stessi...

Wolfgang Fasser è custode dell’eremo di Quorle della Fraternità di Romena

“Vivere come eterni principianti”di Wolfgang Fasser

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Quando hai paura fermati, fai un passo indietro, guarda meglio.

Ritroviamo lo spirito della comunitàAbbiamo perso, nel nostro mondo dominato dal benessere, lo spirito della comunità, abbiamo perso cioè la capacità di prenderci cura delle fragilità dell’altro. Ognuno di noi è importante, ognuno di noi è corresponsabile della crescita della nostra società. Impariamo quindi a crescere con le esperienze di quelli che sono venuti prima di noi e nella consapevolezza di tutti quelli che verranno dopo di noi: questo è lo spirito della comunità. In Sudafrica viene chiamato “Ubuntu”: è lo spirito di chi è consapevole di quelli che erano prima di me, di quelli che sono con me, di quelli che verranno dopo di me. Smettiamola di vivere individualisticamente, smettiamola di personalizzare ogni cosa: se mi vesto di questo spirito di comunità inizio a camminare come figlio di questa famiglia umana e come figlio di Dio, con tutti. Essere uomo fino in fondo significa spogliarci delle nostre barriere, eliminare tutti i nostri confini e iniziare a sentirci uomini e donne in cammino con gli altri. Dice un proverbio africano: “da solo vai veloce, ma insieme vai lontano”.

Aggiustiamo le aspettativeLe nostre pretese di fronte alla vita sono a volte così vertiginosamente alte che ne abbiamo paura e abbiamo ragione perchè il fallimento è quasi garantito. Il momento della crisi, quella crisi che non vogliamo accettare, è invece il momento di riconfermarsi nella vita, nella famiglia, nella comunità. In Africa le persone, che hanno così poco, sanno vivere, sanno soffrire, sono orgogliose e fiere di sè, forse perchè si aspettano poco e tutto quel che hanno lo prendono come un dono della vita. Aggiustiamo anche noi le nostre aspettative verso la vita. Torniamo ad essere più modesti di fronte a ogni cosa, anche di fronte all’amore, torniamo modesti per non farci così paura. Permettiamoci di essere dei principianti: se partiamo con l’idea della perfezione ci spaventiamo, diamoci invece tempo per imparare. Buttiamoci, allora, ubuntu

Wolfgang Fasser

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Il testo della tempesta calmata, nella versione di Marco, chiude il cap. 4 e apre il cap. 5. Nel cap. 4 Gesù è molto critico con chi pensa di aver capito, di essersi già risvegliato e di sapere le cose prima e meglio degli altri. In questo senso il vangelo di Marco è molto interessante: immaginiamo che al momento della stesura del vangelo, la comunità di Marco raccolga tutta la tradizione orale e cominci a scrivere per ricordare quando ha avuto paura. In quel momento non avevano più vicino il loro Signore e Maestro e il grido “svegliati!” rivolto a Gesù ė il grido di quel momento, di quando non era più con loro. E qual è la paura? La vera paura è la trasformazione: qui nel testo in effetti non si cita nessuna trasformazione, ma si cita il mare, che è sempre stato il simbolo di grandi trasformazioni, sia individuali che sociali, pensate ad esempio al libro di Giona e a quello dell’Esodo.

Questi momenti, così altamente drammatici, sono duri, sono al momento incomprensibili, ma ci servono per imparare a vivere in un modo diverso, perché sono momenti di cambiamento, non di consolazione. E noi dobbiamo attraversare la paura e uscirne con degli elementi di trasformazione nelle relazioni interpersonali, comunitarie, politiche, sociali; anche di relazione con la natura, che non può solo essere accarezzata, ma deve essere conosciuta, interpellata, una natura con la quale dobbiamo entrare in dialogo, come fa Gesù.Allora qual è la paura dei discepoli?

Probabilmente essi sono in un momento di trasformazione e lui non c’è e si dicono: “proviamo a svegliarlo”. Ma c’ è una cosa molto bella in questo risveglio: Gesù non compie un miracolo, si mette a dialogare con queste realtà. Le acque si agitano se ci sono delle correnti, se ci sono dei venti forti e lui sgrida il vento. Gesù parla e sgrida ed è un dialogo molto

bello e molto logico, perchè prima sgrida i venti affinchè si fermino, cioè cerca di capire quali sono i motivi di questa agitazione, e poi tranquillizza il mare, che ritorna a bonaccia.E i discepoli possono passare all’altra riva, perché il problema è passare all’altra riva, è non tornare alla riva di prima. Molto probabilmente i discepoli , impauriti dal mare in burrasca, avevano pensato di tornare al

porto sicuro da cui erano partiti: no, il punto è arrivare all’altra riva, il punto è andare avanti, non fermarsi, non tornare indietro. Il punto è la trasformazione.

E qui sono chiamate in causa tutte le trasformazioni della nostra vita, non della vita degli altri, sono cioè degli impegni che dobbiamo prendere, sono delle fatiche che dobbiamo fare. Questa storia raccontata in questo brano del vangelo di Marco, è la storia di una comunità umana che ha bisogno di passare all’altra riva, perchè ha paura, e restare troppo tempo nella paura è pericoloso, perchė la paura paralizza.Ma quanta paura e quanto risveglio ci deve essere in noi! Noi chiediamo sempre a Dio

Il vero timore dei discepoli e, come loro, di ciascuno di noi, è il cambiamento. Da Gesù giunge allora un segnale forte: per affrontare le trasformazioni che ci chiede la vita bisogna uscire dal nostro egocentrismo.

Antonietta Potente è una teologa e una suora domenicana

“Non ci si può mai salvare da soli”di Antonietta Potente

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Non chiediamo a Dio di svegliarsisolo per ciò che ci interessa:dire “Salvaci!” è troppo poco,bisogna salvarci tutti.

Antonietta Potente

di svegliarsi solo per le nostre cose, eppure diceva s.Paolo “nessuno vive più per se stesso”. Nessuno: è questa la novità del cristianesimo. Dobbiamo risvegliarci a questa appartenenza comune degli esseri umani, uomini e donne, gigli del campo e uccelli del cielo. Se c’è da risvegliare Dio risvegliamolo per tutti, non lo possiamo chiedere solo per noi. ‘Salvaci’ è troppo poco, bisogna salvarci tutti. La mia sofferenza misteriosa deve circolare nelle sofferenze degli altri.

Ma come dialogare con un mare in tempesta, come fermare quelle correnti contrarie che non ci permettono di raggiungere l’altra riva? Nel vangelo di Marco c’è un’indicazione preziosa, infatti andando a rileggere il testo vedrete che poco prima Gesù aveva raccontato le parabole della semplicità: parla del piccolo seme che piantato in terra diventa un grande albero che ospita tanti uccelli del cielo. L’essenza del cristianesimo è questa: “ospita” tanti, cioè dà la possibilità ad altri di continuare a vivere, di far sì che le persone, che altri, tutti gli altri, possano vivere e vivere bene dentro. Gesù ci dice che si può passare all’altra riva spostando l’ego, aprendo le finestre dell’ego, trasformando l’ego in eco, che risuona anche per gli altri.

Non ho altro messaggio se non questo: cerchiamo di uscire dal nostro egocentrismo, egocentrismo di individui, egocentrismo di gruppi… e cerchiamo invece di diventare delle persone che ricostruiscono una storia con dei diritti che non sono più solo i miei esclusivi diritti. Cerchiamo di spostare gli sguardi. “Vivo senza vivere in me” diceva santa Teresa, ed è come se dicesse ‘è così alta la vita che spero, che muoio se continuo a vivere in questo modo’. Allora proviamoci: la tempesta è sedata, ma non drogata dalle consolazioni, è solo tornata al suo ritmo. Quanto durerà la bonaccia, la brezza, la calma dei venti forti? Non lo sappiamo, ma sappiamo che è possibile trasformarci e passare all’altra riva. Ma lo vogliamo davvero? Per favore, non lasciamo che il nostro cuore si addormenti.

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La domanda “Perché avete paura?” non è una domanda informativa. Mi pare, invece, che fosse una domanda che serviva a spostare il centro delle persone, il piano in cui si muove-vano. È come dire: perché non cambiate vita? Sapendo però, nel modo in cui la domanda viene posta, che non c’è un perché che sia veramente vincolante, si tratta piuttosto di fare i conti con rappresentazioni, con forme di attaccamento, a quello che ci trattiene nel-la solita vita. In fondo alla domanda posta, la prima idea è che vivere significa cambia-re vita, non significa continuare come prima.

Il fallimento di un sistemaOggi ci sono tante parole equi-voche, alla fine inutili, e una di queste è la parola crisi. Io non credo che noi siamo in crisi, perché la crisi è un periodo di passaggio un’esperienza limite, estrema, che ti porta o a una di-sfatta, una rovina, alla morte, oppure assomi-glia a un parto, a un momento di nascita, di trasformazione dell’esistenza. Questa di oggi non è una crisi: la parola giusta, a mio avviso oggi, è fallimento. Questo è il fallimento di una civiltà che ha creduto nel potere e ha trovato nel denaro la forma del potere puro cioè la vera onnipo-tenza: il potere politico, militare, ideologico, religioso, era potere; il denaro è onnipotenza e quindi ha radicalizzato questa sorta di cre-denza delirante.Dunque se tu dici che questo è un tempo di crisi pensi che tra poco passerà, poi immagi-ni che riprenderai a fare come facevi prima. Per cui dire crisi significa non riconoscere che

dobbiamo cambiare logica, che dobbiamo cambiare priorità, che dobbiamo cambia-re modo di stare al mondo. Dire fallimento, anche se lì per lì suona peggio, vuol dire: qui non c’è una strada, allora devo cambiare completamente sentimenti, modo di pensa-re, economia, politica, sistema educativo, re-ligione, cioè si tratta proprio di costruire in un altro modo la convivenza sociale.

Il rovesciamento delle istituzioniUn fattore che inibisce la capacità di cambiare

è appunto la paura. Uscire dalla paura vuol dire uscire dalla tom-ba. La domanda di Gesù è proprio l’idea di risvegliarsi da una vita che non sia sacrificata sull’altare della paura.Qual è il rimedio che storica-mente l’umanità ha trovato per proteggersi dalla paura? La cre-azione delle istituzioni. Tutte le

istituzioni, famiglia, stato, scuola, istituzioni religiose, servono a garantire protezione a una comunità, a ridurre il più possibile i fat-tori di precarietà, di vulnerabilità e proprio per questo ad aprire un futuro. L’istituzione deve garantire la continuità tra il presente e il futuro. Un’istituzione che non fa questo è un’istituzione pervertita, rovesciata. È quello che accade oggi: noi siamo alle prese con istituzioni come il mercato globale, che sono pericolose, non tutelano nessuno e se devono provocare un trauma nelle nostre vite lo fanno senza problema. Questo rovesciamento delle istituzioni sedi-menta così tanto la paura da diventare dispe-razione, cioè mancanza di visioni alternative.

Oggi potremmo riformulare così la domanda di Gesù. E chiederci perchè consideriamo ineluttabile e immodificabile il sistema economico che distrugge la vita di tante persone, inclusa la nostra...

Roberto Mancini, filosofo e scrittore, insegna all’Università di Macerata

“Perché non cambiate vita?”di Roberto Mancini

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Siamo nati per accogliere e condividere la vita, per trasformarla e arrivare cosìa una vita vera.

Roberto Mancini

La forza della nostra libertàMa se la paura è così potente nella società di oggi cosa possiamo fare? Credo che la grande forza che abbiamo sia quella della libertà: per quanto sia fragile, per quanto debba crescere, per quanto sia come un seme, come una piantina che deve poter trovare la sua possibilità di sviluppo, in realtà chiunque ha scommesso sulla cancellazione della libertà umana prima o poi ha perso la scommessa. La libertà è sempre risorta a dire di no, a dire che la vita era un’altra, che nessuno può vera-mente togliercela se noi non acconsentiamo a questo. L’altra grande fonte che noi abbiamo è il de-siderio di una vita vera, cioè vuol dire: tu nel cuore da qualche parte sai che non devi adat-tarti, accontentarti, obbedire, piegare la testa. Anche nel corpo, nella coscienza, nell’intelli-genza tu hai il desiderio di una vita vera. E qual è il luogo concreto per ritrovare questo desiderio? Il silenzio, il rallentare, l’esperienza di incontrare qualcun altro, l’esperienza della natura che ci umanizza.Ma tutto ciò non può che avere luogo in si-tuazioni di fraternità, di sororità, che vuol dire: l’altro per me non è più semplicemente l’altro, cioè uno che conta di meno, uno che viene dopo, l’altro invece diventa un fratello e una sorella cioè qualcuno la cui esistenza è pre-ziosa per me, qualcuno con il quale il legame inscindibile dura tutta la vita.Oggi non si può restare ai margini, bisogna andare nella città, bisogna andare nei partiti, nei sindacati, non per fare la cordata di quelli più puri, di quelli che hanno capito, non per essere i settari di turno ma per essere quel-li che apertamente, umilmente pongono a chiunque la questione della ineludibilità della giustizia. Allora se noi faremo questo non solo non sprecheremo l’efficacia della responsabilità, perché la responsabilità vera è efficace, le cose le cambia. Se tu ti metti in una dinami-ca concreta di responsabilità ti accorgi che le cose un po’ puoi davvero cambiarle.

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Cari amici, sinceramente mi dispiace davvero molto non poter essere con voi, ma sappiate che lo sono dal profondo del cuore. A Romena ho sempre desiderato esserci, ho condiviso con voi momenti importanti di riflessione e di preghiera; ogni volta che sono venuto ho imparato, mi sono arricchito, ho portato via sensazioni che mi hanno aiutato poi a saldare sempre di più un po’ di terra con il cielo. Di questo vi ringrazio. Oggi sto con voi in un altro modo. Devo fermarmi per un po’ per questioni di salute, ho bisogno di recuperare energie. Lo faccio con fatica ma con serenità soprattutto per continuare a guardare oltre.

È un momento di grande fragilità quello che stiamo vivendo: viviamo in una democrazia molto pallida nel nostro paese, con una politica che fa fatica a essere più vicino alla storia di chi soffre di più. Ma proprio in questo momento noi siamo chiamati a non lasciarci prendere dallo scoraggiamento, dalla paura, dalla rassegnazione: dobbiamo imparare a sentire forte, prepotente, la speranza. Sono tanti i modi di dare speranza: speranza vuol dire offrire opportunità, costruire progetti concreti, vuol dire realizzare politiche sociali per il lavoro, per la scuola, per sostenere le famiglie, per una sana partecipazione, speranza vuol dire mettere davvero al centro i nostri giovani: perché questa è una società che si preoccupa dei giovani, ma poi alla fine non se ne occupa.

È un momento di grande disorientamento, di fatica e anche di grande paura per molti. Solo poche cifre: in Italia siamo giunti a 9 milioni di poveri, di cui 4 milioni in condizione

di povertà assoluta, e siamo a un milione e 876.000 minori poveri di cui settecentomila in condizione di povertà assoluta. È da qui, è da loro, che si deve costruire speranza. Io credo che la speranza tenga proprio conto degli esclusi perché non possiamo costruire speranza se non partendo da chi dalla speranza è stato escluso. Sono queste persone, questi volti quelli con cui noi siamo chiamati a sperare e sono loro quelli

che ci fanno sperare. Sono loro quelli che fanno più fatica che ci offrono i punti di riferimento del nostro impegno e le coordinate politiche e sociali del nostro agire.

Quindi forza amici, dobbiamo imparare di più il coraggio, quel morso del più che io non mi sono mai stancato di dire alla mia coscienza e che voglio ancora

una volta condividere con voi. Bisogna imparare il coraggio di fare scelte scomode, di rifiutare i compromessi a cominciare dalle piccole cose dentro di noi. E voi mi insegnate che di fronte ai bivi della vita bisogna prendere posizione e decidere da che parte stare. E non temere di imboccare la strada più difficile che è quella in salita. Io verrò presto a Romena, per riflettere per pregare e per imparare ancora di più dentro di me il coraggio, il coraggio di guardare avanti e guardare oltre.

Ma oggi vorrei salutarvi attraverso le parole del grande Tonino Bello: “Delle parole dette mi chiederà conto la storia, ma del silenzio col quale ho mancato di difendere i deboli dovrò rendere conto a Dio”. Questo vale per tutti noi.

Vi abbraccio tanto. A presto.

Sono forti, vibranti, incisive le parole di don Ciotti. Anche via telefono ci arriva chiaro il suo invito a gettare il cuore oltre il limite, a seminare coraggio e speranza, a ritrovare il “morso del più”, del dare di più.

“Rischiare la speranza”di Luigi Ciotti

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Foto di Paolo Dalle Nogare

Dobbiamo sganciarci dalle nostre sicurezze e incontrarci dove la vita ci pungola, ci provoca, ci interpella. Perché questo è il compito che ci attende: diventare protagonisti del nostro tempo.

Luigi Ciotti

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Foto di Piero CheccagliniLa vita altro

non è che un pellegrinaggio verso il luogo delcuore.

Oliver Clément

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Una fede nuda

Più che un tema è un cammino. Più che un traguardo è un bisogno: il bisogno di dare una luce di senso alla nostra vita. Un tema grande, davanti al quale ci siamo messi in ascolto...

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È possibile ascoltare tutti gli interventi sulla pagina Podcast di www.romena.it

La forza di una carezzaVenerdì, ore 23. La prima serata sta per concludersi, ma non ci riesce. La testimo-nianza di Silvano Lippi, 92 anni, deportato a Mauthausen, è un fardello duro da lasciare in gola. Per oltre un’ora Silvano ci ha portati nell’in-ferno di un campo di sterminio. Le sue parole hanno percorso binari agghiaccianti di morte, di tortura, di insensibilità umana. I suoi occhi hanno rivisto tutto quell’orrore: “Voi potete non credermi. Ma io c’ero. Anzi, 70 anni dopo io sono ancora lì”.Volevamo cominciare così il nostro percor-so di una fede nuda: dal posto più lontano dall’uomo e da Dio. Ma ora quella scelta ci pesa, è un carico aspro. “Perché è potuto accadere? – chiede l’anziano deportato – Perchè Dio lo ha permesso?” Don Gianni Marmorini, che ha introdotto con grande delicatezza e sapienza l’incontro, non chiude queste domande, semplicemente prende la mano di Silvano, la stringe a sé.

Dopo di lui tutti i presenti, uno ad uno, si al-zano, raggiungono Silvano. E sono carezze, e sono parole sussurrate, e sono baci. Una fila lunghissima scorre lentamente verso l’altare: un fiume di commozione avvolge questa notte, e non la fa andare a dormire.“Fai bei sogni Silvano”, qualcuno gli dice, ricordando gli incubi che ha vissuto: sarà più facile, ora che l’aria di mille carezze addolcisce il suo viso.

Voglia di primaveraLa mattina del sabato porta con sé il profu-mo buono di questa partenza. Uno slancio prezioso per accogliere le scosse telluriche che ci porta ancora una volta Antonietta Potente: “Fede nuda è la fede che guarda prima di tutto l’uomo spogliato di tutti i diritti”. Un esempio? Ce lo offre l’ospite successivo, Franco Monnicchi, responsabile di una co-munità Emmaus, che aiuta i più emarginati e rifiutati della nostra società , e offre loro la possibilità, attraverso il lavoro e la comuni-tà, di riprendersi il loro destino: “Non so se

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credo in Dio – ci dirà - ma credo nella dignità di ogni uomo”.Corre veloce questa giornata. Però ora si ferma, si ferma davanti a una voce affettuo-sa, la voce di un uomo che da un balcone dice “Buonasera!” e poi chiede al popolo di benedirlo. La voce di chi sta portando pri-mavera, primavera vera, nella chiesa. Due giornalisti sono venuti a parlarci di Papa Francesco per rendercelo ancora più vicino. Gianni Valente lo conosce di persona da oltre dieci anni; un’amicizia semplice, la sera stessa della sua elezione il Papa ha voluto riconfermarla con una chiamata al telefono: “Non mi stupì quella chiamata, né quelle che ha fatto dopo a tante persone: è nel suo stile, ama stare accanto alle persone”. Raffaele Luise, vaticanista del giornale radio Rai, ci racconta la rivoluzione che passa per Roma: “È un cambiamento ra-dicale, ispirato alle radici evangeliche”, un cambiamento insperato che, ci raccomanda Raffaele, “va accompagnato, difeso, soste-nuto da parte di ciascuno di noi”.Silenzio, ora, ora è sera. Ora di nudo c’è la musica. Musica di chitarra, rivestita da una voce di poesia. Gianmaria Testa. “Qui ci voglio suonare”, ci aveva detto pochi mesi prima per dare un respiro allo stupore pro-vato entrando in pieve. Ed eccolo stasera, in un a solo incantevole. Una voce rauca, calda, la sua, che produce armonia quando canta, armonia quando parla. Anche i silenzi sono pieni: li riempie la nostra chiesa valorizzata dalla luce. La musica di questo cantautore, amatissimo in Italia, famoso soprattutto all’estero, sem-bra aver trovato la sua casa.

Terra da ribaltareDomenica. La poesia non se n’è andata. Si vede che qui si è trovata bene.

Stamani ha una duplice forma: quella di un uomo, Ermes Ronchi, e di una donna, Marina Marcolini. Non sono due incontri: è un incontro solo, a due voci. “Quanto si è perso nella chiesa, rinunciando a valorizzare i talenti delle donne!” dirà più tardi padre Ermes. Dà voce a un pensiero comune: le intuizioni femminili e maschili incrociandosi offrono continui squarci di luce, perché toc-cano luoghi e sensibilità diverse. La fede raccontata da Ermes e da Marina parte da due punti diversi per sfociare nello stesso mare: l’amore. E lo fa con un percorso così profondo, così vivo, che tutti si sentono in-clusi, le donne, forse ancora di più perchè finalmente accolte, senza distinguo. Non è un caso che il momento più bello della mattina sia la lettura di un monologo poetico di Marina dedicata a Maria Maddalena da parte delle attrici Maria Teresa Totti e Anna Branciforti e che l’indimenticabile finale del mattino sia ancora al femminile, con la voce appassionata di Anna Maria Iorio.

E, per finire, Maurizio Maggiani. O meglio, Maggiani per ripartire da capo. Le intuizioni, l’irritualità, l’autenticità di questo scrittore ci aiutano a fare ciò che è necessario, con la fede: non darla mai per scontata. Tutt’altro.“Io non ho fede, perchè la fede ha bisogno di essere nuda, e per essere nudi bisogna togliersi di dosso tutte le sovrastrutture di pensiero, di mente nelle quali siamo vis-suti. A me tutto questo non riesce. Così alla domanda Credi in Dio: io non saprei rispondere”.Palla al centro. Si finisce. Si ricomincia. Nessuno doveva convincere nessuno. Ma questo distendersi di diversità, questo fluire di declinazioni diverse al tema ci è entrato dentro, ha smosso. Si va verso l’autunno ed è questo ciò che ci serve: ribaltare la nostra terra. Nuovi semi germineranno.

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Un grande maestro come Paolo De Bene-detti, non iniziava mai un suo corso senza ricordare questa frase del teologo Jurger Kuhlmann: “Se la vostra teologia dopo Au-schwitz non è cambiata essa non vale niente.” Perché la pagina forse più brutta dell’uma-nità deve cambiare il mio modo di pensare Dio? Questa domanda mi ha accompagnato molto e vorrei condividerla con voi.

Nel nostro immaginario Dio è sempre pensato come l’On-nipotente. In realtà la parola ebraica “El Shaddai”, che viene tradotta come ‘”Onnipoten-te” significa “Il Dio del crinale delle colline”, che è un modo per dire “Il seno di una madre che allatta”. Quando noi dicia-mo Dio onnipotente, non c’è l’idea della forza del guerriero che vince le battaglie, ma quella di tutte le donne che hanno allattato i figli.

Tuttavia quest’idea di un Dio che può tutto ci ha penetrato. E da questa idea nascono problemi: per esempio, di fronte a eventi come la Shoah, Dio dov’era? Pensando a questa domanda mi vorrei sof-fermare sul Vangelo di Marco, ma non su una pagina, piuttosto su come Marco ha concepito il Vangelo. Marco è l’evangelista che racconta più di tut-ti i miracoli di Gesù, almeno fino a un certo punto, perché dal capitolo dieci di miracoli

non se ne trovano più. Inoltre, nel racconta-re questi miracoli Marco li accompagna con una raccomandazione, Gesù la ripete alme-no cinque volte, di non dire niente a nessu-no. Un altro atteggiamento particolare di Gesù è che, dopo ogni gesto significativo, si dilegua: “Vieni Signore, ti cercano tutti!” gli dicono gli apostoli, e lui scompare o invita gli apostoli a spostarsi da quel luogo.

Ma perché Gesù chiede ai suoi discepoli di non dire nulla dopo i miracoli, perché, proprio nel momento del “successo” , sparisce?La spiegazione potrebbe es-sere questa: che Gesù non si riconosceva nella figura di un Messia vincente, che risolve i problemi, che cambia le situa-zioni e le aggiusta.

Dopo il decimo capitolo Gesù non fa più miracoli, e gradual-

mente si avvia verso la sua Passione: verrà rifiutato, tradito, abbandonato, fino alla cro-ce, fino a quel grido: “Dio mio, Dio mio per-ché mi hai abbandonato?” Ed è sotto la croce che il centurione ve-dendo come Gesù muore dice: “Davvero quest’uomo è figlio di Dio!”Questa volta Gesù viene rivelato e non vie-ne più nascosto. E il figlio di Dio che viene rivelato non è quel Gesù che trova un leb-broso e lo guarisce, che trova un morto e lo resuscita, ma è lo sconfitto, il rifiutato, il crocefisso.

Dov’era Dio? Perchè non ha impedito tutto questo? Ha un compito difficile il nostro Gianni: deve introdurre con le parole la testimonianza di un uomo, Silvano Lippi, che ha visitato il punto in cui l’uomo è stato più lontano da se stesso e da Dio: un campo di sterminio nazista.

Gianni Marmorini è sacerdote e appassionato studioso della Bibbia

“Il silenzio di Dio”di Gianni Marmorini

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Il crocefisso ribalta il nostro mododi vedere Dio:non è lui che può aiutarcisiamo noiche possiamo aiutare lui.

Gianni Marmorini

Dovete sapere che il Vangelo di Marco, su questo concordano gli esperti, è stato al-lungato di almeno un capitolo. Nella ver-sione originale il Vangelo finisce poco ol-tre, quando le donne vanno alla tomba e l’angelo annuncia che è risorto. Quindi in Marco non ci sarebbero le apparizioni di Gesù. Pensate: negli altri Vangeli ci sono le apparizioni, in quello di Marco devi cre-dere al crocefisso, alle parole del centu-rione davanti al suo corpo nudo morto: “Quest’uomo è figlio di dio”! La fede è lì.

In che modo la Shoah può aver cambiato il nostro modo di pensare Dio? Io credo che in realtà non l’ha molto cambiato, perché per noi Dio è sempre colui che può risolverci i problemi. Questo Dio on-nipotente ci è forse entrato nel dna. Ma se noi invece di avere questa imma-gine di Dio, avessimo quella del crocifis-so, chi si sentirebbe di dire a quell’uomo morto sulla croce, tutto nudo, aiutami? Il crocefisso ribalta le cose: non è lui che può aiutarti, solo tu puoi aiutare lui.

Un’altra immagine della Bibbia molto bel-la, che mi è molto cara è in Isaia, quando dice: “Consolate il mio popolo” (cap 40.1). Questo versetto, secondo una lettura rabbinica, si può tradurre anche in un al-tro modo: “Consolatemi, consolatemi mio popolo” .C’è l’idea di un Dio che piange, che chiede di essere consolato, perché la vita in questo mondo non è quella che lui aveva sognato. Penso ancora alle parole di Paolo de Be-nedetti che diceva più o meno così: quan-do saremo di là, noi che ci aspettiamo di incontrare un Dio giudice, perché così ci hanno detto, chissà che invece non in-contriamo un vecchio che ha bisogno di essere consolato, con le lacrime sul viso, e il bisogno che siamo noi ad asciugarle a lui.

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Sono un uomo che non riesce a mettersi nudo e non ha fede. Se uno mi chiedesse: ma tu cre-di in Dio? Io non saprei rispondere. Ma se mi chiedessero: tu sei ateo? Risponderei di no. Non sono niente, ma spero di aver vissuto una vita abbastanza dignitosa per potermi merita-re qualcosa di meglio di un “a-privativo”. Però io ho a che fare con la fede, e ho a che fare con la fede nuda perché è un tema della dignità della mia vita, un tema non risolto.

“Ma tu credi in Dio?”. Ho posto questa domanda a un’amica. La conosco da quando era bambi-na, oggi è archeologa, ha sco-perto l’antico porto di Magdala sul Lago di Tiberiade. Ma quello che vorrei ricordarvi di lei è la sua risposta: sì, mi ha detto, io credo in Dio, perchè a me Dio è simpatico. Mi ha fatto molto pensare questa risposta, perchè arrivava da una persona completa-mente calva (stava facendo gli scavi in Ter-rasanta ma anche la chemioterapia) e anche per un altro motivo, che è, per me al centro di questo tema: una fede nuda.

Credo che conosciate il libro di questo posto, la Bibbia. Genesi, la storia di Adamo ed Eva. L’uomo che si sente solo, l’arrivo di Eva che scioglie le sue ansie e ripristina un perfetto equilibrio. Un equilibrio che però si rompe quando la più evoluta, la più avanzata, la più sveglia fra i due, Eva, fa una scelta, la scelta di rischiare anzi di rinunciare al perfetto equilibrio, alla vita, alla gioia, per gustare il frutto del bene e del male;

Eva sceglie di rinunciare al paradiso per poter essere libera di scegliere, di accedere alla co-noscenza e di affrontare un cammino distrutti-vo ma tuttora straordinario, pieno di incognite e di orrendi trabocchetti, il cammino verso la conoscenza. Sceglie di poter scegliere.

E cos’è la prima cosa che suc-cede appena Eva sceglie e fa scegliere al suo uomo? Scopre la sua nudità e la vergogna del-la sua nudità. Eva si nasconde con la mano davanti e Adamo ci mette una foglia di fico! Lei si vergogna, scopre la sua nudità e si vergogna. Perché Eva si vergogna? Perché scopre la cultura, la conoscen-za, la civiltà, la morale della ci-viltà. Per il popolo ebraico e per noi

inizia la storia quando l’uomo, che agisce fuori dall’Eden, fuori del paradiso, esercita il libero arbitrio, sceglie e agisce sulla terra, lavora la terra, suda, partorisce; allora inizia la storia, iniziano le culture, le civiltà.

Se c’è una cosa che il popolo ebraico ha ben chiaro in testa, e ce l’abbiamo chiaro anche noi, è che la femmina è portatrice di un bene e che questo bene va protetto, tutelato, reso irraggiungibile per chi non ha diritto: il bene è la sua nudità, sono i suoi organi riproduttivi. La femmina è colei che garantisce l’asse ere-ditario, il tramandarsi della dote, la ricchezza che resta nella famiglia e nei discendenti. È una proprietà nella cultura giudaica e nella nostra cultura: la femmina è un bene che va

Non ci servono costruzioni culturali o tantomeno teologiche per arrivare alla fede. Serve l’inverso. Un percorso di spoliazione totale. Perchè non c’è fede che non sia nuda.

Maurizio Maggiani è uno dei più apprezzati scrittori italiani

“La fede ha bisogno di nudità”di Maurizio Maggiani

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La fede è solo grazia, dono che facciamo a noi stessi.

Maurizio Maggiani

protetto, tutelato; lo strumento del suo bene, gli organi sessuali, devono essere nascosti perché siano chiaramente irraggiungibili al primo venuto, se ne può servire solo colui che è prescelto come avente diritto.

La cultura, la civiltà che genera quella cultura pretende il coprirsi, mentre la fede chiede di compiere il percorso opposto: non c’è fede senza nudità.

Se noi mettiamo la ragione nella fede, se noi mettiamo tutte le operazioni culturali dopo quel gesto di Eva così coraggioso, così folle, così pericoloso, se noi mettiamo una qualun-que delle idee, bellissime o bruttissime, che ci sono venute in mente negli ultimi trentamila anni, noi distruggiamo qualunque possibilità di fede. Perchè non c’è nessuna ragione per convincerci di credere in Dio... qualunque ragione noi adduciamo per convincerci di credere in Dio riduciamo Dio a noi stessi, alla nostra cultura, alla nostra civiltà, alla nostra morale. Così io non ho la fede perchè non riesco a spogliarmi dalla sovrastruttura complessa, articolata, convincente, funzionante che è la mia cultura, non riesco a denudarmi di tutto ciò per predispormi alla grazia irragionevole della fede.Io credo fermamente, con San Paolo se mi per-mettete, che la fede è solo grazia, dono gratui-to che facciamo a noi stessi. Gratuità ovvero senza nessuna ragione: io ti do una cosa senza nessuna ragione se non quella di dartela.

Ricordate la risposta della mia amica? Una ri-sposta meravigliosamente, straordinariamen-te priva di qualunque ragione: “Credo perchè Dio mi è simpatico”. Riesci a ridurre a ragione-volezza la simpatia?

Non ignoro cosa sia la fede, ma non riesco a pormi così libero da provare simpatia per Dio.E certo io invidio la mia amica che dice Dio mi è simpatico perché la sua mente, il suo cuore, la sua trippa, abitano in un luogo più vasto del mio.

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Come posso chiamare quello che ho vis-suto? Un’esperienza mistica? Ma a misti-co associamo cose che non hanno niente a che fare con quello che ho provato io, visioni, esperienze staccate dal quotidia-no, cose “dell’altro mondo”.

La parola ‘mistico’ ha la stessa etimolo-gia di mistero. Ma la vita, il reale, è pieno di mistero. Allora esperienza mistica è quando si scopre la profondità del reale, quando si sente che sotto ogni cosa c’è dell’altro, nei suoi occhi, in una rosa, in un dettaglio. “La fede dona un’intelligenza che penetra il minimo per scorgervi il massimo” (Giuseppe Barza-ghi).

Io ho scoperto che dentro di me c’era Dio, l’ho sentito. E allora ho cominciato a ve-dere Dio negli altri. Qualco-sa di grandioso ma al tempo stesso sem-plicissimo e familiare, come quando una donna sente dentro di sé un bambino. Allora mi chiedo: l’annunciazione riguar-da solo Maria o è qualcosa per tutti? E chi è Maria? Una superwoman perfetta e di-stante o una donna come me e te, che ha vissuto un’esperienza di vita spiazzante e forte, a cui ha risposto in modo libero e coraggioso?

Per ritrovare una fede nuda anche Ma-ria va liberata. La posta in gioco è alta, perché la sua storia è la nostra. Allora bisogna mandare gambe all’aria le sta-tue che le abbiamo eretto: Maria non è quella specie di semidivinità che ci guar-da pietosamente dall’alto del suo piedi-stallo, ma una donna che con la sua sto-ria ci racconta la nostra vera storia: c’è un pezzetto di Dio in noi e vuole venire alla luce. L’icona di Maria è la mia icona.

Maria, la madre di Dio, è stata chiusa in un bozzo-lo dorato di parole che non sono liberanti né per le donne né per gli uo-mini. Maria non è quella disincarnata figura, qua-si asessuata, cui ci hanno abituato, ma l’esaltazione dell’umano e dell’umano tutto intero, corpo e spiri-to, innalzato fino a partori-

re un Dio. La storia di Maria, la theotókos, colei che nel suo corpo genera Dio, parla un lin-guaggio tutto al femminile, una lingua che la chiesa non ha ancora imparato a parlare. Ma noi vogliamo una chiesa po-liglotta. La lingua delle donne, il racconto della loro esperienza, la loro intelligenza della vita e della fede, sono una ricchezza im-

Chi era Maria se non una di noi? Chi era Maria se non il segno che siamo chiamati a essere madri del divino che abbiamo dentro? Il nostro compito è lo stesso di una madre incinta: accogliere, dare spazio a ciò che ci abita dentro...

Marina Marcolini è docente universitaria, scrittrice e coautrice del programma “Le ragioni della speranza”

“Far nascere Dio dentro di noi”di Marina Marcolini

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Dentro la nostra nudità si può trovare un Dio vicinissimo, intimo come un amante.

Marina Marcolini

perdibile per tutti. Non sprechiamola più.

Maria incinta di Dio è l’immagine più potente che il vangelo ci dà sul senso e il fine della nostra vita. È una metafora prodigiosa. Essere incinti di Dio, incinti di luce, significa vivere alla presenza. Non occorre che pensi sempre a Dio, è già dentro di me. “Provo, crescente, una spe-cie di certezza interiore che esiste in me un deposito di oro puro da consegnare”.(Simone Weil)

Noi andiamo per il mondo con la pancia gravida di luce, incinti d’amore. La pancia, cioè non solo l’anima, ma tutta la persona. Benedetto sia questo nostro corpo, tanto spesso disprezzato, tanto da farlo intristire e ammalare. Benedetto sia questo corpo, il suo vigore, la sua bellez-za, la sua capacità di amare e di dare la vita.

Meister Eckhart scrive che tutta la scrittu-ra sacra, tutta la vicenda di Cristo hanno un solo scopo: fare nascere Dio in noi. “Tutti sono chiamati a essere madri di Dio. Perché Dio ha sempre bisogno di venire al mondo”. E allora le donne hanno molto da insegnare.

Ricordo il mio primo parto. Se mi ab-bandonavo al dolore, che era fortissimo, senza resistergli, nasceva in me, nel mio corpo e nel mio cuore, una forza che non veniva da me. Non eravamo soli, io e quel corpicino, a doverci dare da fare per quel-la cosa così difficile e paurosa, ma era lì presente qualcosa di grande che ci stava portando alla luce tutti e due. C’era un’onda calda, forte, immensamen-te forte, inarrestabile, che dentro di me, attraverso di me compiva l’opera. Io do-vevo solo accoglierla e farmi condurre e così scoprire che dentro di me la vita si muoveva al ritmo di quell’onda, tanto da sentirmi tutt’uno con lei.

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“Credo nell’amore”

Se ci chiedono: tu cristiano a che cosa credi? La risposta che ci viene immediata è: credo in Dio padre onnipotente, in Gesù Cristo, lo Spirito santo, i più acculturati tra noi aggiungeranno qualche altro particolare di fede… e tutto que-sto va bene. Ma san Giovanni nella sua prima lettera ha una risposta molto diversa:”Noi ab-biamo creduto all’amore che Dio ha per noi”. I cristiani sono quelli che credono all’amore. Non si crede ad altro, non all’eternità, all’onni-potenza, ma all’amore.E questo è importante perché all’amore posso-no credere tutti, giovani e meno giovani, cre-denti e lontani, chi ha un cammino spirituale chi è lontano da ogni via religiosa, l’omosessua-le e il risposato che scommette una seconda volta sull’amore.

Tu che cosa credi? Io credo l’amore. Non si cre-de ad altro. Aver fede nell’amore, avere fiducia negli innamorati. Non avvicinarli con la regola o il divieto, in tante situazioni di sofferenza, ma aiutarli a capire che c’è un annuncio di eternità dentro la relazione d’amore. Avvicinare con il divieto chi è in situazioni complesse con la nor-ma è sbagliato e talvolta vorrei dire criminale, è allontanarli per anni o per sempre dalla chiesa.

Se noi crediamo l’amore, ne possiamo fare non un luogo di moralizzazione ma di rivelazione. Il luogo privilegiato dell’evangelizzazione, il luogo privilegiato della teologia. L’amore rive-la qualcosa del volto di Dio. Ogni innamorato è un mistico, capisce che l’altro conta di più, che l’amore ha fame di eternità. Mi diceva il mio prof preferito, Olivier Clement, a Parigi: vuoi spiegare a qualcuno che cosa è l’inferno e che cosa è il paradiso? Usa il linguag-gio dell’amore. Ogni innamorato lo sa: l’inferno è la separazione, il tradimento, l’abbandono da parte del tuo amato.

Il paradiso invece è l’abbraccio, la comunione, lo stringersi dopo essersi perduti.

E poi portare Dio, che è amore, che è passione di unirsi a te, dentro la tua passione di unirti alle persone che ami. Ogni evento d’amore è sempre decretato dal cielo! Soprattutto è pos-sibile allargare lo spazio perché Dio abiti in ogni amore. In ogni storia d’amore concreta può vivere il mistero totale dell’amore, che è Dio. Quando amiamo profondamente qualcu-no, Dio sta già lì. Più che vedere i nostri amori in competizione con Dio, questi ci offrono luoghi in cui possia-mo montare la sua tenda.Lì dove ami devi onorare Dio, nell’amore. Non dobbiamo cercare Dio ai margini dell’esistenza, o alla fine di ciò che è umano. Dio è presente nel cuore della vita e ne avvertiamo la vicinan-za con tutti i nostri sensi. Più ameremo la vita senza riserve, più saremo anche capaci di pro-vare fede e felicità.

Credo nell’amore di Dio per me. Non nel mio per lui. «È un privilegio divino essere sempre non tanto l’amato quanto l’amante» (C. S. Lewis). La certezza di essere stato amato, un giorno, anche una volta sola, in modo disinteressato, salva dall’ignoranza della vita. E dall’ignoranza di Dio.Abbiamo tutti una memoria al fondo di noi stessi, quando sale dal fondo della notte come un canto lontano, l’assicurazione che al di là di tutto, al di là persino della gioia e della pena, della nascita e della morte, esiste uno spazio che nulla soppianta, più forte di tutte le minac-ce, che non corre alcun rischio di distruzione, uno spazio intatto, quello dell’amore che ha fondato il nostro essere.E io so che un giorno ci sarà dato di amare con il cuore stesso di Dio.

di Ermes Ronchi

Arrivano con il passo della poesia parole che abbracciano tutta la vita, che danno luce alla parola fede. L’invito è a gustarle lentamente, immaginando la voce calma e morbida di Ermes che ce le rende presenti...

Ermes Ronchi, frate dei servi di Maria, è poeta e scrittore. Conduce il programma “Le ragioni della speranza”

La fede ha tre passi:ho bisogno,mi fido,mi affido.

Ermes Ronchi

Foto di Piero Checcaglini

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Rischiamo il Coraggio

NUOVA VEGLIA

TrIEsTE 25 novembre 2013Parrocchia San Luca - via Forlanini, 26 ore 21.00 UdINE 26 novembre 2013Parrocchia di Pagnacco ore 21.00TrEVIsO 27 novembre 2013Parr. Assunzione B.V. Maria - Paderno di Ponzano Veneto ore 21.00pOrdENONE 28 novembre 2013Parrocchia San Lorenzo - Rorai Grande ore 21.00pAdOVA 29 novembre 2013Parrocchia S. Bartolomeo - via Montà, 208 ore 21.00prATO 3 dicembre 2013Parrocchia San Bartolomeo - p.zza Mercatale ore 21.00VALdArNO 4 dicembre 2013Pieve di Cascia - Reggello ore 21.00fIrENzE 11 dicembre 2013Parrocchia dei Salesiani - via Gioberti ore 21.00brEscIA 20 gennaio 2014Centro Mater Divinae Gratiae - via Sant’Emiliano, 30 ore 21.00bErGAmO 21 gennaio 2014Chiesa dei Frati Cappuccini - via dei Cappuccini ore 21.00mILANO 22 gennaio 2014Parrocchia B.V. Immacolata - Lavanderie di Segrate ore 21.00

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pIAcENzA 23 gennaio 2014Parrocchia Santa Franca - p.zza Paolo VI, 1 ore 21.00sIENA 28 gennaio 2014Parrocchia San Francesco all’Alberino ore 21.00ArEzzO 29 gennaio 2014Parrocchia San Marco alla Sella ore 21.00cATANIA 10 febbraio 2014Parrocchia SS. Pietro e Paolo - via Siena ore 20.30mOdIcA 11 febbraio 2014Chiesa di San Pietro - c.so Umberto I ore 20.00rAGUsA 12 febbraio 2014Parrocchia S. Pietro Apostolo - via Lazio, 89 - Beddio ore 19.00pALErmO 13 febbraio 2014Parrocchia San Gaetano - Brancaccio ore 20.00mEssINA 14 febbraio 2014Parr. San Giacomo Maggiore Apostolo - via Buganza, isolato 54 ore 20.00LOcrI - ArdOrE mArINA 24 febbraio 2014Parrocchia Santa Maria del Pozzo ore 20.30crOTONE 25 febbraio 2014Parrocchia del Sacro Cuore - Borgata San Francesco ore 20.00LAmEzIA TErmE 26 febbraio 2014Chiesa del Carmine - Sambiase ore 19.30cOsENzA 27 febbraio 2014Luogo da definire ore 20.30scALEA (cs) 28 febbraio 2014Parrocchia San Nicola di Platea - via San Nicola ore 20.30LE pIAGGE (fI) 5 marzo 2014Comunità Le Piagge ore 21.00rOVErETO 10 marzo 2014Parrocchia di Santa Caterina - Frati Cappuccini ore 21.00VErONA 11 marzo 2014Parrocchia San Nicolò all’Arena - p.zza San Nicolò ore 21.00ImOLA 12 marzo 2014Convento dei Cappuccini - via Villa Clelia, 16 ore 21.00bOLOGNA 13 marzo 2014Chiesa San Vincenzo De Paoli - via Ristori, 1 ore 21.00mOdENA 14 marzo 2014Chiesa San Barnaba - via Carteria, 108 ore 21.00

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NUOVO LIBRO

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“Amici,non dobbiamo sentircimai arrivati, mai a posto.Dobbiamo sempresentire prepotentedentro di noiil morso del più.”

Luigi Ciotti

Il morso del piùincontri con Luigi Ciotti

di Massimo Orlandi

È un incontro speciale quello che vi proponiamo con il fondatore del gruppo Abele e di Libera, con questo prete la cui parrocchia è la strada.È un incontro che contiene i passaggi più coinvolgenti dei tanti interventi di don Ciotti a Romena, è un incontro che porta con sè tutta la passione e la bellezza della sua testimonianza di vita. Lasciamo che le sue parole ci arrivino addosso: saranno ora pedata ora abbraccio, ora morso ora carezza. Ci faranno anche male, per farci, soprattutto, bene.

Edizioni Romena 2013Pagine 128Prezzo € 10,00ISBN 978-88-89669-52-5

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PROSSIMO NUMERO: il giornale in uscita a aprile approfondirà il tema: “Rischiamo il coraggio”.Inviateci lettere, idee, articoli, foto (termine ultimo: 28 febbraio 2014), preferibilmente alla nostra e-mail: [email protected] CONTRIBUTO: il giornalino è una pubblicazione gratuita e viene inviato a tutte le persone che hanno partecipato ai corsi di Romena o ne abbiano fatto richiesta. Aiutateci a sostenere le spese di realizzazione e spedizione inviando il vostro contributo col bollettino allegato, oppure effettuare un’offerta ai seguenti conti correnti intestati a Fraternità di Romena ONLUS, Pratovecchio (Arezzo):

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AGENDA 2014OGNI GIOrNO

2014Osare la bellezza

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“Ciò che oggi occorre è un sussulto,una fascinazione, un innamoramento,

l’emozione per la bellezza racchiusa ne frammento” Bruno Forte

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Edizioni Romena 2013Pagine 284Prezzo € 14,00ISBN 978-88-89669-51-8

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ei caduto nel mondocome un bacio,senza chiedermi preghiere,ma solo fiducia.

Luigi Verdi

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