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ANNO IX. NN. 45/46 ============ OSSERVATORIO LETTERARIO ============LU.-AGO./SETT.-OTT. 2005 E d i t o r i a le ___________________di Melinda Tamás-Tarr ___________________ Gentilissimi Lettori, dal nostro ultimo appuntamento di nuovo sono successi alcuni eventi storici: la morte del grande Papa polacco Karol Wojtyła - Giovanni Paolo II e l'elezione del nuovo Papa, il suo successore tedesco Joseph Ratzinger col nome Benedetto XVI. E di questi eventi traggo l'argomento del presente editoriale stavolta notevolmente più lungo del solito. Non si può nascondere la grande tristezza di tutti noi credenti e non credenti, perché a tutta la umanità viene meno la presenza visibile e la vicinanza della grande figura del papa polacco deceduto il 2 aprile scorso. Per capire la sua grandezza facciamo un po' di ritorno nella nostra memoria storica: il Novecento è stato il secolo delle grandi catastrofi umane. Due guerre mondiali ed il nazismo, tragedie dell'Armenia, del Biafra, del Ruanda e tanti altri paesi. L'Impero ottomano ha preceduto al genocidio degli armeni e la Germania a quello degli ebrei e degli zingari. L'Italia di Mussolini ha massacrato gli etiopi. I cechi ammettono a fatica che la loro condotta nei confronti dei tedeschi dei Sudeti, nel 1945-1946, non è stata delle più irreprensibili. La piccola Svizzera deve fare conti con il proprio passato di depositaria dell'oro rubato dai nazisti agli ebrei sterminati, anche se il grado di atrocità di tale comportamento non è assolutamente paragonabile a quello del genocidio. Il comunismo si inserisce nel medesimo lasso di tempo storico fitto di tragedie e ne costituisce uno dei momenti più intensi e significativi: è fenomeno fondamentale del Novecento dal 1914 al 1991, che preesisteva al fascismo e al nazismo ed è sopravvissuto a essi toccando i quattro continenti. Il comunismo reale ha messo in atto una repressione sistematica. Al di là dei crimini individuali, dei singoli massacri legati a circostanze particolari, i regimi comunisti per consolidare il loro potere hanno fatto del crimine di massa un autentico sistema di governo. I crimini del comunismo non sono mai stati sottoposto ad una valutazione legittima e consueta né dal punto di vista storico né da quello morale! I crimini contro le persone costituiscono l'essenza del fenomeno del terrore con uno schema comune: l'esecuzione capitale con vari metodi come fucilazione, impiccagione, annegamento, fustigazione, in alcuni casi gas chimici, veleno o incidente automobilistico; l'annientamento per fame (carestie indotte oppure non soccorse), la deportazione, dove la morte poteva sopravvenire durante il trasporto (marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo di residenza o di lavoro forzato (sfinimento, malattia, fame, freddo). Stalin ha ordinato e autorizzato numerosi crimini di guerra tra cui il più impressionante rimane l'eliminazione di quasi tutti gli ufficiali polacchi fatti prigionieri nel 1939, nell'ambito della quale lo sterminio di 4500 persone a Katyn' è soltanto un episodio. Ma altri crimini di portata assai maggiore sono passati inosservati, come l'assassinio o la messa a morte nei gulag, di centinaia di migliaia di militari tedeschi fatti prigionieri fra il 1943 e il 1945, a cui si aggiungono gli stupri in massa delle donne tedesche perpetrati dai soldati dell'Armata Rossa nella Germania occupata. Per non parlare del saccheggio sistematico delle strutture industriali dei paesi occupati dall'Armata. Appartengono ai crimini del comunismo l'imprigiona- mento e la fucilazione, la deportazione di militanti di gruppi organizzati che combattevano apertamente contro il potere comunista. Per assicurare il loro potere egemonico sugli esempi dei bolschevichi leninisti i regimi comunisti si sono inquadrati in una guerra di classe spietata, in cui l'avversario politico e ideologico e persino la popolazione renitente erano considerati e trattati alla stregue di nemici e dovevano essere sterminati eliminando sia legalmente sia fisicamente qualsiasi opposizione o resistenza, anche passiva da parte di gruppi di oppositori politici o di quelli sociali come la nobiltà, la borghesia, l'intellighenzia, la Chiesa, le categorie professionali (gli ufficiali, le guardie, etc.), e questa eliminazione ha spesso assunto la dimensione del genocidio. La «dekulakizzazione» dell'URSS del 1930-32 fu la ripresa su ampia scala della decosachizzazione: questa volta, però fu rivendicata da Stalin, la cui parola d'ordine ufficiale, strombazzata dalla propaganda di regime, era «sterminare i kulak in quanto classe». I kulak che resistevano alla collettivizzazione furono fucilati, gli altri deportati con donne, vecchi e bambini. Certo, non furono tutti eliminati direttamente, ma con il lavoro forzato al quale vennero sottoposti in zone non dissodate della Siberia e del Grande Nord, lasciò loro poche possibilità di sopravvivenza Anche in Ungheria, nella mia patria d'origine furono vari campi di concentramento e campi di lavoro forzato. Il terrore comunista non si differenzia a quello nazista. Poi non parliamo del fatto, che i vincitori del 1945 hanno legittimamente fatto del crimine, ed in particolare del genocidio degli ebrei È bene sapere che il potere di Stalin e dei sui emuli voleva regolare il conto con gli ebrei nell'apparato comunista internazionale eliminandoli definitivamente. Questi ebrei comunisti 1
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ANNO IX. NN. 45/46 ============ OSSERVATORIO LETTERARIO ============LU.-AGO./SETT.-OTT. 2005

E d i t o r i a le

___________________di Melinda Tamás-Tarr ___________________

Gentilissimi Lettori, dal nostro ultimo appuntamento di nuovosono successi alcuni eventi storici: la mortedel grande Papa polacco Karol Wojtyła -Giovanni Paolo II e l'elezione del nuovoPapa, il suo successore tedesco JosephRatzinger col nome Benedetto XVI. E diquesti eventi traggo l'argomento delpresente editoriale stavolta notevolmente più lungodel solito. Non si può nascondere la grande tristezzadi tutti noi credenti e non credenti, perché a tutta laumanità viene meno la presenza visibile e la vicinanzadella grande figura del papa polacco deceduto il 2aprile scorso. Per capire la sua grandezza facciamoun po' di ritorno nella nostra memoria storica: ilNovecento è stato il secolo delle grandi catastrofiumane. Due guerre mondiali ed il nazismo, tragediedell'Armenia, del Biafra, del Ruanda e tanti altri paesi.L'Impero ottomano ha preceduto al genocidio degliarmeni e la Germania a quello degli ebrei e deglizingari. L'Italia di Mussolini ha massacrato gli etiopi. Icechi ammettono a fatica che la loro condotta neiconfronti dei tedeschi dei Sudeti, nel 1945-1946, nonè stata delle più irreprensibili. La piccola Svizzeradeve fare conti con il proprio passato di depositariadell'oro rubato dai nazisti agli ebrei sterminati, anchese il grado di atrocità di tale comportamento non èassolutamente paragonabile a quello del genocidio. Ilcomunismo si inserisce nel medesimo lasso di tempostorico fitto di tragedie e ne costituisce uno deimomenti più intensi e significativi: è fenomenofondamentale del Novecento dal 1914 al 1991, chepreesisteva al fascismo e al nazismo ed èsopravvissuto a essi toccando i quattro continenti. Ilcomunismo reale ha messo in atto una repressionesistematica. Al di là dei crimini individuali, dei singolimassacri legati a circostanze particolari, i regimicomunisti per consolidare il loro potere hanno fattodel crimine di massa un autentico sistema di governo.I crimini del comunismo non sono mai statisottoposto ad una valutazione legittima e consueta nédal punto di vista storico né da quello morale! Icrimini contro le persone costituiscono l'essenza delfenomeno del terrore con uno schema comune:l'esecuzione capitale con vari metodi comefucilazione, impiccagione, annegamento, fustigazione,in alcuni casi gas chimici, veleno o incidenteautomobilistico; l'annientamento per fame (carestieindotte oppure non soccorse), la deportazione, dovela morte poteva sopravvenire durante il trasporto(marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo diresidenza o di lavoro forzato (sfinimento, malattia,

fame, freddo). Stalin ha ordinato eautorizzato numerosi crimini di guerratra cui il più impressionante rimanel'eliminazione di quasi tutti gli ufficialipolacchi fatti prigionieri nel 1939,nell'ambito della quale lo sterminio di4500 persone a Katyn' è soltanto unepisodio. Ma altri crimini di portata assaimaggiore sono passati inosservati,

come l'assassinio o la messa a morte nei gulag, dicentinaia di migliaia di militari tedeschi fatti prigionierifra il 1943 e il 1945, a cui si aggiungono gli stupri inmassa delle donne tedesche perpetrati dai soldatidell'Armata Rossa nella Germania occupata. Per nonparlare del saccheggio sistematico delle struttureindustriali dei paesi occupati dall'Armata.Appartengono ai crimini del comunismo l'imprigiona-mento e la fucilazione, la deportazione di militanti digruppi organizzati che combattevano apertamentecontro il potere comunista. Per assicurare il loropotere egemonico sugli esempi dei bolschevichileninisti i regimi comunisti si sono inquadrati in unaguerra di classe spietata, in cui l'avversario politico eideologico e persino la popolazione renitente eranoconsiderati e trattati alla stregue di nemici edovevano essere sterminati eliminando sia legalmentesia fisicamente qualsiasi opposizione o resistenza,anche passiva da parte di gruppi di oppositori politicio di quelli sociali come la nobiltà, la borghesia,l'intellighenzia, la Chiesa, le categorie professionali(gli ufficiali, le guardie, etc.), e questa eliminazioneha spesso assunto la dimensione del genocidio. La«dekulakizzazione» dell'URSS del 1930-32 fu laripresa su ampia scala della decosachizzazione:questa volta, però fu rivendicata da Stalin, la cuiparola d'ordine ufficiale, strombazzata dallapropaganda di regime, era «sterminare i kulak inquanto classe». I kulak che resistevano allacollettivizzazione furono fucilati, gli altri deportati condonne, vecchi e bambini. Certo, non furono tuttieliminati direttamente, ma con il lavoro forzato alquale vennero sottoposti in zone non dissodate dellaSiberia e del Grande Nord, lasciò loro pochepossibilità di sopravvivenza Anche in Ungheria, nellamia patria d'origine furono vari campi diconcentramento e campi di lavoro forzato. Il terrorecomunista non si differenzia a quello nazista. Poi nonparliamo del fatto, che i vincitori del 1945 hannolegittimamente fatto del crimine, ed in particolare delgenocidio degli ebrei È bene sapere che il potere diStalin e dei sui emuli voleva regolare il conto con gliebrei nell'apparato comunista internazionaleeliminandoli definitivamente. Questi ebrei comunisti

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ANNO IX. NN. 45/46 ============ OSSERVATORIO LETTERARIO ============LU.-AGO./SETT.-OTT. 2005

non aderivano alla confessione ebraica. La loroidentità sembrava, invece, legata alla nazione nellaquale si erano integrati oppure alla loro appartenenzaalla comunità comunista internazionale. Permancanza di testimonianze e di fonti non si sa comequesta identità fosse stata influenzata dall'esperienzadel genocidio. Si sa, tuttavia, che molti dei loroparenti erano morti nei campi di sterminio nazisti.Questi ebrei comunisti, fortemente rappresentatinell'appa-rato dell'Internazionale comunista,continuarono dopo la guerra a occupare posti chiavein parecchi partiti ed apparati di Stato d'Europacentrale. Nella sua sintesi sul comunismo unghereselo storico Miklós Molnár scrive: «Al vertice dellagerarchia, i dirigenti sono quasi sempre di origineebraica, come pure, sebbene in proporzioneleggermente minore, nell'apparato del Comitatocentrale, nella polizia politica, nella stampa,nell'editoria, nel teatro, nel cinema… La forte edindubbia promozione dei quadri operai non puònascondere il fatto che il potere decisionaleappartiene, in larghissima misura, ai compagniprovenienti dalla piccola borghesia.» Nel gennaio1953 il capo della Sicurezza di Stato ungherese ed examico di László Rajk, Péter Gábor, fu arrestato comecospiratore sionista. Il discorso ufficiale di Rákosi,anch'egli ebreo comunista, che lo bolla con ilnomignolo di «Péter e la sua banda» (lui e alcuniufficiali della Sicurezza) ne fa un capro espiatorio. La repressione dei regimi comunisti in Europa, èdefinibile terrore di massa, si basava sulla violazionee l'eliminazione delle libertà dei diritti fondamentali, ilche, del resto, costituiva il suo scopo. L'assolutachiusura degli archivi nei paesi governati dai regimicomunisti, il totale controllo della stampa, dei massmedia e di tutte le vie di comunicazione con l'estero,la propaganda sui «successi» del regime, tutto questodispositivo di blocco dell'informazione mirava in primoluogo a impedire che si facesse chiarezza sui crimini.Non contenti di nascondere i loro misfatti, i carneficihanno combattuto con tutti i mezzi gli uomini chetentavano di informare l'opinione pubblica. Il terroredi massa come metodo di repressione non erascomparso neanche negli anni 70-80! Particolarmentealla fine degli anni 70 ed all'inizio degli anni 80 inUngheria anch'io con la mia famiglia ero vittimaprotagonista mirata della persecuzione spietata delregime comunista di Kádár dello Stato-partitoungherese. Fino al cambiamento del regime del 1989un apparato di spionaggio vastissimo funzionava nonsoltanto contro i presunti nemici esteri, ma contro «inemici» interni etichettati «nemici di classe»,«persone non grate». Di fronte alla propaganda comunista l'Occidente hadato prova a lungo di una straordinaria cecità(voluta?)! La chiamerei piuttosto omertà. (Non era unaccordo tra i paesi occidentali?) Questocomportamento è stato alimentato e quasi legittimatodalla convinzione dei comunisti occidentali e di moltiuomini di sinistra che questi paesi stessero

«costruendo il socialismo». All'ignoranza, voluta omeno, della dimensione criminale del comunismo si èaggiunta, come sempre, l'indifferenza deicontemporanei. Gli archivi interni del sistema direpressione dell'ex Unione sovietica, delle exdemocrazie popolari e della Cambogia mettono unarealtà terribile: il carattere massiccio e sistematico delterrore che, in molti casi, è sfociato nel crimine control'umanità. La strategia ragionata della repressione comunista,volta ad instaurare il potere assoluto, dopo avereeliminato i concorrenti politici e tutti coloro cheavevano o potevano avere un «potere reale» - fra glialtri, i quadri dell'esercito e della Sicurezza - a rigor dilogica avrebbe dovuto attaccare gli organismi dellasocietà civile coloro che volevano assicurarsi ilmonopolio del potere e della verità dovevano colpirele forze che avevano o potevano avere un poterepolitico-sociale: dirigenti e militanti politici o sindacali,ecclesiastici, giornalisti, scrittori, etc. La vittima venivaspesso scelta fra coloro che occupavano un postochiave negli organismi della società civile: partiti,chiese, sindacati, ordini religiosi, associazioni, organidi stampa, potere locale. Il potere totalmentesottomesso all'Unione Sovietica, ordinava di spezzaretutti i numerosi legami della società civile con l'estero. Le dittature comuniste temevano gli spiriti creativi,la loro libertà di parola. Le Chiese rappresentavano per il potere comunistail grande problema nel processo di annientamento odi controllo degli organismi della società civile. Lastrategia di Mosca era ben definita: rompere i legamidelle Chiese, cattolica o greco-cattolica, con ilVaticano e sottomettere al potere le Chiese divenutenazionali. Per raggiungere il loro scopo - ridurrel'influenza delle Chiese sulla vita sociale,sottometterle al minuzioso controllo dello Stato etrasformarle in strumenti della loro politica - icomunisti si avvalsero congiuntamente dellarepressione, dei tentativi di corruzione edell'infiltrazione nella gerarchia. L'apertura degliarchivi ha smascherato l'attività di collaborazione dimolti ecclesiastici, vescovi compresi, con la poliziasegreta. Quindi la vita della Chiesa nei paesi caduti dal 1945sotto l'egemonia ed oppressione sovietica fu moltodifficile. Dopo gli arresti, le condanne, la prigionia o larelegazione della maggioranza dei vescovi cattolicinegli anni posteriori al 1945 e la rottura delle relazionidiplomatiche con il Vaticano, nei paesi dell'Europacentrale ed orientale era scesa sulla chiesa unapesante coltre di gelo. Pastori incarcerati e confinati,case religiose e monasteri confiscati, seminari chiusi oridotti al minimo, congregazioni religiose, scuolecattoliche ed organizzazioni giovanili soppresse, curievescovili controllate da emissari governativi, clerofalcidiato e tenuto estraneo a ogni realtà sociale, igiovani, i funzionari, i militari, gli insegnanti impeditinel frequentare le chiese. Unica eccezione era lapatria del Giovanni Paolo II, la Polonia, dove la Chiesa

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con il vigore di una fede antica e fervente e col suoforte radicamento nella realtà nazionale, riusciva atener testa, tra privazioni e sacrifici, alle pressioni delregime rosso. Le strutture del «socialismo reale» apparivanofortissime, inespugnabili. L'elezione a papa del cardinale Karol Wojtyła il 16ottobre 1978 fu l'improvviso evento che ha sommossodal profondo la realtà dei paesi a regime comunista.Apparve subito che il papa venuto dalla lontanaPolonia portava in una personalità vigorosamentecarismatica, alcuni elementi che nel decennio dal1979 al 1989, alla caduta dei regimi totalitaricomunisti vennero fattori di sfida e di totaleconfronto: l'esperienza personale che un pastore dellaChiesa aveva delle oppressioni e ingiustizie soffertenel copro e nello spirito, della propria gente;l'affermazione che i diritti dell'uomo affondanonell'unica radice della dignità della persona, sonostrettamente connessi fra loro - scelte di coscienza,espressioni del pensiero, libertà di lavoro e diassociazione, etc. - e costituiscono la verifica per lalegittimità degli Stati e dei governi; la fierezza di unanazione che, come diceva il cardinale Wyszyński,avendo avuto confiscate la libertà e sovranità,rivendicava la restituzione della propria dignità storicae cristiana. Ed ora il nuovo papa, successore del Grande ecompianto papa Wojtyła ha il compito di continuaretale missione che ha guadagnato la fiducia e lagratitudine di papa Giovanni Paolo II, che in lui hatrovato la garanzia dell’ortodossia e il collaboratorecompetente, grazie al quale ha pubblicato enciclichecome la «Fides et Ratio» e ha portato a termine quel«Nuovo Catechismo» che ha fissato i confini al di làdei quali si esce dalla comunione di fede. Il nuovopapa Joseph Ratzinger, Benedetto XVI vuolecontinuare senza cambiamenti l'opera di vita del PapaGiovanni Paolo II e dei suoi predecessori annunciandoanche che non risparmierà «sforzi e dedizione» perproseguire «il promettente dialogo» avviato dai suoipredecessori con le diverse civiltà «perché dallareciproca comprensione scaturiscano le condizioni diun futuro migliore per tutti». Ha anche detto: «È miodesiderio proseguire questo fruttuoso dialogo econdivido, in proposito, quanto ha osservato GiovanniPaolo II che cioè "il fenomeno attuale dellecomunicazioni sociali spinge la Chiesa ad una sorta direvisione pastorale e culturale così da essere in gradoda affrontare in modo adeguato il passaggio epocaleche stiamo vivendo".» E qui devo sottolineare - sia per l'Ungheria che pergli altri Stati d'Europa - che quanto sia importantecontinuare il cammino sulle stracce dell'ereditàgreco-romana-cristiana, di cui alimentavano quelleculturali, artistiche da parte di ciascuna nazione senzaperdere la propria identità nazionale (!). Perché tuttequeste radici tradizionali insieme hanno formatol'Europa quella che è ora. E per questo dobbiamoricordare assolutamente anche al grido di Giovanni

Paolo II: «Non si tagliano le radici dalle quali si ènati», perché gli elementi più preziosi e prestigiosidell'identità culturale europea, gli elementi chedefiniscono l'Europa come tale sono particolarmente:le radici cristiane e l'eredità greco-romana. [N.d.A.: Aproposito di questo argomento potete leggere una selezionedei testi da me curata nella rubrica «L'ECO & RIFLESSIONIossia FORUM AUCTORIS».] Mi riempie di gioia, che il papa Ratzinger conoscebene anche noi magiari - come anche Giovanni PaoloII che spesso ribadì anche gli episodi della nostrastoria comune cioè quella dei Polacchi e Magiari -, haanche visitato più volte la mia Patria la quale eglivuole bene. Nel suo messaggio inviato tramite ilprimato Péter Erdő ha espresso il suo salutoaffettuoso per il popolo ungherese chiedendo labenedizione del Dio per esso. Ringraziandola pregoper lui che possa portare avanti la sua grandemissione per il bene dell'intera umanità!

POESIE & RACCONTI Poesie_________

Clara Ferreira — FerraraPASSI

Risuonano di affollate solitudinicome minuti io voglio infiniti -echi in sentiero fugace per rene o nevi,del turbine che l'orma dissolve più lievi,grevi quanto dell'uccello di fuoco la piuma:una promessa, un cenno… un niente e la redovacomincia sconosciuta, avvolge, attraenell'inesorabile rapida popoliinteri. Scompaiono fra orridi di atra schiumafelicità innocenti carpite al futuro,follemente si abissano indispensabililumi. Senza Volontà? Silenzio!I nostri passi stanno scrivendo la Storia…

Luca Viglialoro — [email protected] VOLONTÀ DI POTENZA

Se tu fossi un albero spogliodai frutti, attenderei.Ogni seme maturo, epifaniadi senso, miracolo antropico.

Se tu fossi Dafne, nel verde sertocingerai la chioma apollineae penetrando le salde radiciprometterai felicità ai sensi.

Vorrei essere materia forteper bruciarti col mio sole.

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L'ABBANDONO

Mi abbandono, oltrumana Sorte,ché l’ ombra di qualche vita non miatrema corrusca e allusiva.

Navigo in una marcia lentache mi brandisce a suono della Noia.

Un anonimo nome e cognomeuna metafora canonizzatadi menzogne che spirano.

Eli, Eli, lamma sabacthani!

Daniele Virgillito — [email protected] DI GIOCATTOLI

È l'infima coscienzadi un ladro di giocattoliche falcia l'innocenzain mezzo a dei viottolidi occhi spaventatidal tuo sguardo severoli avevi ricercatiquegli occhi, non è vero?Tua complice facestiingenuità d'infanteper disgustosi gestidi innaturale amanteodio ricevi adessoe rabbia, e poi galeraper ciò che n'è concessonella più vil maniera"Non dirlo alla tua mammasarà un segreto, giuranon spegner la mia fiammache ardo a dismisura"uccider non volevigiocar solo con loroCon chi non può capireil male che subisceche non può concepirela bestia che colpisceper qualche fugacissimoistante di follia.

Racconti_________

Gianmarco Dosselli ― Flero (Bs) L'URAGANO DEL DIO ONNIPOTENTE

La prima volta arrivò alle Isole Palau nel lontanoanno1987, territorio impossessato da dodicimilaanime sotto la sede governatoriale americana. DaniloSavoldi rimase affascinato oltre che dalla bellezza dei

paesaggi, dall’accoglienza cordiale degli isolani. Virimase approdato quattro mesi, girando in largo e inlungo sulle sette isole maggiori e tutte le restanti, unaventina, di quelle minori, prevalentemente d’originevulcanica e corallina. Era interessato perl’esportazione della bauxite e dei fosfati da "condurli"nelle sue cinque fabbriche della regione marchigiana.Dimorò da una gentile famiglia, in una quasi degnaabitazione del capoluogo Koror. Le isole Palau: l’azzurro profondo del mare che, avolte, volse al verde glauco nelle piccole insenature,"il violento infrangersi dei cavalloni, continuamenteall’assalto della barriera a fior d’acqua, cheminacciava gli isolotti sabbiosi fissati da unavegetazione cespugliosa sempre coperta di polvere". L’amore per le Palau incoraggiò Savoldi il desideriodi trascorrervi successive vacanze biennali.Quest’anno vi ritornò con la famiglia "costruita" inmatrimonio: la moglie Adelina e il piccolo pimpanteMatteo che festeggiò, proprio sull’isola esotica, il suoprimo compleanno. L’hotel (se così si potrebbe definire) era la casa-baracca la cui tettoia era coperta da foglie dipandano, ceduta in "affitto" dal proprietario del luogo,un sovrintendente alle operazioni di carico delle mercisu navi d’alcune nazionalità. Il piccolo Matteo comprese l’euforia del luogo:giochi d’acqua, bagni, strani cetacei, viaggi frequentisul cutter di proprietà di Manui, l’unico metereologo amodo suo. Quattro giorni dopo l’approdamentosull’isola, Danilo fu convocato nell’abitazione di Manuinell’istante preciso che i raggi del sole si oscuraronodalle nuvole di un "probabile" uragano. La brezza delvento si fece, poi, sempre più potente. Il barometrodello svampito meteorologo indicò l’ago sceso verso ilbasso: indice di una pessima perturbazione. Daniloadottò delle immediate precauzioni; nella difficile lorolingua madre "spiegò", quasi mimando, ai duedomestici, Juni e Toki, la ricerca un rifugio per sé e lafamiglia. Risposta negativa: nessun luogo sicuro v’eralì, nei paraggi, se non nell’isola (minore) natia di Toki,consistente di una grotta ben "programmata" dalleintemperie. Arrivò la pioggia tendente alla tenacia tempestiva.L’acquazzone tropicale era accompagnato daifrastuoni delle ondate che frangevano contro la riva.Il mare si prodigava ad un irriconoscibilerigonfiamento! Un lampo pauroso segnò le sueirregolari forme tra il cielo oscuro; il tuono scosse lecose tutte intorno. Diluvio, tuoni e vento compirono iprimi catastrofici passi! Le onde mugghiavano; le piùalte riversavano violente su fazzoletti di spiagge, conforza devastante. Danilo ne fu scosso. La moglie Adelina, tremolante,teneva stretto il figlio che urlava di terrore per quellasconosciuta identità bruta della natura. Un’ondataimpetuosa risalì la zona "abitabile" della coppiavacanziera, lambendo i bassi tronchi degli alberi dicocco.

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ANNO IX. NN. 45/46 ============ OSSERVATORIO LETTERARIO ============LU.-AGO./SETT.-OTT. 2005

La situazione peggiorò. Le furiose onde replicarono,ogni secondo, l’infrangersi bestiale sulle spiagge,divorandole; esse avanzarono fino a toccare altrecase-capanne. Ogni infrangersi, le finestre vibrarono; i vetri siruppero e il vento completò l’opera distruttrice allemisere mobilie. Le pareti del leggero fabbricato diDanilo cedettero formando un giro di novanta gradisulle sue fondamenta, poi, successive ondate lerasero al suolo. Parecchie centinaia d’uomini, donne e ragazzi sierano riparati sugli alberi; i più abili arrivarono sullacima e le donne, oramai, esposte al rischio dellapropria vita. Il vento potenziava la velocità: si tramutòin uragano! Molti alberi furono sradicati, lanciando aterra il suo carico d’esseri umani inghiottiti, infine, dafuribonde ondate. Danilo teneva stretto la sua consorte che, a suavolta, teneva avvinghiato a sé il suo pargoletto. Ancheil "suo" albero ondulava, mentre altri ancoracadevano, col suo carico, incrociandosi comebastoncini dello sciangai. Altra ennesima spaventosamuraglia d’acqua si gettò contro nove alberi di cocco,"decapitandone" quattro anch’essi occupati dadisperati: i corpi caddero, inghiottiti da acqueschiumose e color marrone, e l’onda ritirandosimostrò corpi già cadaverici e altri che si dibattevanodisarcionati. Un’altra onda, più colossale, di quante neavesse viste Danilo, "decapitò" la pianta con cui sitrovò con moglie e figlio.

L’alba. Il silenzio. Nasceva il sole più bello delmondo su un mare rabbonito. Danilo parve destare dopo una nottata con cui maiarrivò ad un risveglio. Appena il suo cervello acquistòintelletto e "costruì" in lui la propria indole, osservò iparaggi sconvolti e desolati e "occupati" da cadaverilacerati. Danilo s’accasciò dall’improvvisadisperazione. Prima che potesse appropriarsene il suoio di sempre, altre ore trascorsero fintanto il sole nonsi posizionò nella parte alta del cielo. Egli camminò,esaminando ogni corpo, finché trovò il cadavere dellamoglie, seppellito per metà in acqua. Si genuflette,sfogando la più nera disperazione con lamenti rauchie bestiali. Dei tremila tra civili e indigeni, occupanti le rive Estdi tutte le Isole Palau, che erano in vita il tramontoprecedente non ne restavano che duemila. Tratti dispiagge erano coperti da un disordinato ammasso dicadaveri. Non una casa né baracca né capanna era inpiedi. Niente acqua piovana poiché le cisterne eranosalate; per combattere la sete era guerra, anchefratricida, per conquistare noci di cocco sparse sulterreno. La fame s’impadroniva negli stomaci degliscampati, ma nonostante ciò cercavano pesci emolluschi da mangiare crudi, anche immergendosinelle acque dell’Oceano fino al collo: i loro mortigalleggiavano all’intorno; alcuni giacevano impigliatinel fondale, e spesso inciampavano in essi.

Il secondo giorno di tempo sereno i cadaveri furonoracimolati alla rinfusa e bruciati. Molte navi dellevicine Filippine e della Nuova Guinea giunsero per iprimi soccorsi umanitari…

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Ritornato nella natia Fossombrone, Danilo si rifugiònella fede dell’eremo di una casa benedettina. Il suocarismatico confidente, padre Antonino, lo aiutò aconcentrarsi nella quiete. Non sempre. Danilo,smagrito, depersonalizzato, indisposto verso altri…volle cercare una risposta. "Perché Dio ha permesso tutto questo, padre? Lavita di tutti, di mia moglie… del mio bambino non piùritrovato, inghiottito e sotterrato dalle furiose onde…Il Dio che per tutti è un Onnipotente non hanemmeno usato il proprio potere per fermarel’uragano sterminatore! Lui è il Creatore di tutto,come ha potuto far scatenare una natura foriera!" Padre Antonino si precipitò a lui con parole chepotessero essere bene delucidate. "Figliolo, dirimpetto a tanta catastrofe, anche io midomando quale avviso il Signore ha voluto inviarci,ma come uomo di fede non posso che inchinarmidavanti a Dio Padre e dichiarare: 'Sia fatta la Tuavolontà'. Sappi, figliolo mio, che il male haeternamente minacciato l’uomo e che Gesù è scesosulla terra non per eliminare le catastrofi naturali, maper lenire, con il suo esempio e insegnamento, lesofferenze cui l’uomo è sottoposto durante la suapermanenza terrena… Gesù è venuto tra noi percondividere la nostra esistenza e che, anche, nelleprove difficili e dolorose, non ci abbandona mai se noiseguiamo il suo insegnamento." "Padre, Dio mi ha strappato il mio unico figliolo!" "Non mi stancherò mai replicare… Sarebbe scioccodare colpa a Dio di ciò che è successo. Dio non ci hamai promesso di liberarci dalle catastrofi naturali;nemmeno Lui se le crea: sarebbe cosa o ideeassurde! In fin dei conti, insegna come l’uomo puòmigliorare se stesso e affrontare dolore e sofferenze." "Padre, continuerò versare lacrime di desolazioneper un Dio che tanto ho amato e pregato!" "Per un cattolico come te, Danilo, le lacrime didisperazione sarebbero inutili; desteresti gaiezza soloa Satana! Delle sciagure alle Isole Palau, il motivo loconosce solamente Dio, che non sta in alto dei cieli afarsi beffa di noi, ma quel Dio che è venuto a farcicompagnia sulla terra e che, dando un significato aldolore, è finito in croce per noi, tra atroci sofferenze.Rifletti, caro Danilo, un po’ di più su queste cose. Nonsiamo dei noi uomini ed il dolore, volenti o nolenti, èparte integrante della nostra esistenza." Danilo chiese un rosario che padre Antonino porse ilsuo personale. L’affranto uomo chiese la solitudineper sentirsi avvolto nel calore di pace e serenitàfinché s’immaginò il sorriso d’incoraggiamento diGesù.

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ANNO IX. NN. 45/46 ============ OSSERVATORIO LETTERARIO ============LU.-AGO./SETT.-OTT. 2005

Fernando Sorrentino ― Buneos Aires (Argentina)QUATTRO GIGLI(Cuatro lirios)

1. La musica preferita (La música favorita)

Alcuni giorni or sono uscii di casa e presi perOlazábal. Camminai per qualche isolato e, prima digiungere a via Cuba, vidi una vecchietta dalla facciasimpatica ed allegra. All’improvviso, le cadde unabusta dalla borsa. La vecchietta non se ne avvide.Accorsi, afferrai la busta di nascosto e constatai checonteneva un bel po’ di soldi.

Corsi a casa e nascosi il denaro nel libro dimatematica. Pensai che con esso avrei potutocomprarmi alcuni dischi della mia musica preferita, lapiù sensazionale al mondo, e pensando a ciò misi ilmio impianto audio a tutto volume per schiarirmi leidee.

Il giorno seguente mi resi conto di non essermicomportato bene: decisi di fare un sacrificio e, invecedei dischi, comprare a mia mamma un tritacarne o uncoltello elettrico.

Mi diressi allora verso viale Cabildo per andaread informarmi sul prezzo del tritacarne e del coltello.Presi per Mendoza ma piegai per Olazábal, e colàc’era ancora la vecchietta. Camminava da Arcos finoCuba e da Cuba fino ad Arcos, con lo sguardo fisso allastricato, come se cercasse vada uno a sapere checosa.

Udii che il portinaio d’un condominio diceva ad unasignora:

— È che ha perso la busta con la pensione. Hapassato tutta la notte a cercarla.

Io andai allora a casa volando e presi i soldiche avevo nascosto nel libro di matematica. Buttai labusta nella spazzatura e mi cacciai i biglietti nellatasca dei pantaloni. E, come una palla, corsi, corsi,corsi fino a viale Cabildo ove comprai i dischi dellamusica più sensazionale al mondo.

2. La formula magica (La fórmula mágica)

Sabato notte ho sognato un fattucchiere. Eravestito come i fattucchieri dei racconti, con una tunicanera ed un altissimo cappello a punta. La tunica ed ilcappello erano stampigliate di tante mezzelune estelle argentate. Il fattucchiere era magrissimo, moltovecchio ed aveva un naso assai ossuto, barbalunghissima e bianchissima. L’importante però è chemi rivelò in sogno gli ingredienti della formula magicadell’invisibilità. Si vede che ho di questi sogni poichémio papà è farmacista e quindi sono abituato alleformule.

Appena sveglio annotai tutto in un foglio ed andaia cercare il mio amico Marcelo giacché volevo dividerel’esperienza con lui. Ci chiudemmo nel laboratorio delretrobottega e mettemmo in azione un esercito di

tubi, provette, alambicchi, e ci passavamo l’un l’altroacidi, polveri ed altre porcherie che lì abbondavano eche non so a cosa mai possano servire. C’eravamoentusiasmati e, a dire il vero, già non ci attenevamopiù alla formula del fattucchiere e ci lasciavamopiuttosto guidare dalla nostra iniziativa che consistevanell’aggiungere sempre altri ingredienti finché nonriempimmo fino all’orlo un enorme flacone con unliquido nero, spesso e gorgogliante. Marcelo mescolòil tutto con un cucchiaio di legno e versò una certaquantità del liquido in un tubo di vetro.

Trassi allora il mio cagnolino Lucas, e poichéesso faceva resistenza in mille modi, fui costretto adobbligarlo: gli tenni fermo con forza il muso e gli fecimandar giù l’intero contenuto del tubo. Il vetro tra lemie dita scottava e Lucas strabuzzava gli occhi.Quando lo mollai il cane ebbe una strana cosa, comeuna serie di colpi di tosse o starnuti, e restò poiquieto, respirando appena. Io e Marcelo loosservammo con attenzione per oltre un’ora, nullaperò avvenne che fosse degno di nota. — Questa formula con i cani non funziona — dissi,constatando che Lucas era morto.

— Bene — replicò Marcelo—. Vediamo se laformula del fattucchiere va bene per noi.

Tornammo a riempire il tubo due volte e prima io,poi lui, bevemmo una buona porzione di quel liquidonero e fumante. A tratti sembrava sciroppo per latosse, ad altri pareva zolfo o polvere. Marcelo, comeLucas, ebbe un po’ di soffocamento e starnutì piùvolte di fila, a me però, per contro, gli occhis’inondarono di lacrime e sentii in faccia e nellostomaco una vampata di calore.

Aspettammo con gran pazienza un’ora, poiun’altra, poi un’altra ora. Come vedemmo che nulla ciaccadeva, sedemmo a guardare la televisione edovemmo convenire che il fattucchiere s’eramiserabilmente burlato di noi.

3. Il mago( El mago )

Per il mio compleanno mamma mi chiese sedesideravo venisse un pagliaccio o un mago. Ipagliacci mi paiono stupidi, cosicché scelsi un mago.

Costui si rivelò essere un uomo magro e pallido,ma con alcuni dettagli neri: i capelli, i baffetti, losmoking, il nodino a farfalla e la sua meravigliosavaligia.

Egli salutò con un gesto desueto e gentile, ed iragazzi cominciarono a gridare:

— Il ma-go, il ma-go, il ma-go, il ma-go!Il mago sorrise compiaciuto e realizzò diverse

prove — che già io avevo visto fare da altri maghi —,quali, ad esempio, moltiplicare un unico fazzoletto insette o otto, od estrarre da un cappello a cilindro nerouna colomba bianca. Fece anche, con le carte che siusano nei film del lontano west, una quantità ditrucchi che non riuscii ad afferrare.

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— Questo prestidigitatore è molto buono — dissepapà a bassa voce.

Il mago, non so come, lo udì.— La ringrazio per la sua opinione — rimandò —.

Io però non sono un prestidigitatore bensì un mago.— Bene — replicò papà con la sua consueta

sufficienza —. Diciamo che lei è un mago e non unprestidigitatore.

— Vedo che lei non mi prende sul serio. Perché siconvinca vado a trasformarla in un qualche animale.Quale preferisce?

Papà dette in una risata da lasciarci quasi sordi,con una gran bocca spalancata, come fosse unippopotamo. Parve leggermi nel pensiero poiché,puntuale, disse:

— Giacché mi lascia scegliere, mi trasformi in unippopotamo. Ed i restanti, negli animali che più lepiacciono.

Il mago fece una breve smorfia e mosse le dita ele braccia, e papà si trasformò in ippopotamo: neisuoi occhi globosi permase alcuni istanti un piccololampo di terrore.

— Questo ippopotamo occupa tuttol’appartamento — disse con disapprovazione il mago—. Sarà meglio che io prosegua con animali piùpiccoli.

Trasformò quindi mamma in tucano approfittandodel fatto, credo, che ella avesse un naso piuttostopronunciato. Trasformò poi mia nonna in tartaruga.Con le mie zie zitelle si distinse: creò una civetta, unarmadillo ed una foca, tutto secondo lo stile diognuna. Trasformò quella sposata, ch’era autoritaria,in ragno, e suo marito sottomesso in mosca.

Con i bambini si dimostrò dolce: li convertì manmano in animali graziosi e simpatici, coniglietti,scoiattoli, canarini. Gabriel però, che aveva una visolargo e brufoloso, lo trasformò in rospo. Alla piccolaLucila, di solo due mesi, dette il sembiante d’uncolibrì.

Quando non restai che io da essere trasformato ilmago mi pose una mano sulla spalla e mi disse:

— Tu dovrai incaricarti della cura di questi animali.Il ragno e la mosca comunque, ed alcuni altri, se lasbrigheranno da soli.

Ripose tutto nella sua meravigliosa valigia, e se neandò.

Per quattro giorni provai a prendermi cura di loroed a nutrirli, ma mi resi ben presto conto che talelavoro costituiva per me uno sforzo fuori dal comune.Chiamai allora per telefono il Giardino Zoologico; miringraziò ed accettò la donazione il suo direttore inpersona.

All’inizio andavo a visitare la mia famiglia e i mieiamici ogni giorno, poi una volta alla settimana e, ora,verità è che non vi vado quasi mai.

4. Uno scherzo di cattivo gusto ( Una broma pesada )

Quando stamane suonò la campanella dellaricreazione io rimasi in aula poiché dovevo terminareun compito che avevo lasciato incompleto.

Per tramare di nascosto qualche cattiveria, eranorimasti anche Beveretti e Campitelli i quali in quattrocose assomigliavano: erano entrambi alti, spettinati,biondi e discoli.

Essi giocherellavano con una cosa nera edisordinata. Era un ragno enorme, grosso e peloso,non però vero bensì di gomma, di quelli che vengonovenduti per fare scherzi.

Con sorrisi di perfidia Beveretti e Campitellisistemarono il ragno nell’astuccio porta occhiali dellasignorina Mónica. La maestra era una donnamagrissima e spigolosa, dall’aspetto di disgraziata. Ioprovavo per lei tanta pena poiché avevo sentito direche non s’era sposata per prendersi cura di suamamma paralitica la quale passava la vita in unasedia a rotelle. Comunque, chi avrebbe voluto ad ognimodo sposare una donna così brutta e miope come lasignorina Mónica?

Fosse come fosse, però, io non intendevoperdermi l’istante in cui la signorina Mónica si sarebbeimbattuta con il finto ragno.

Tornata in aula, la signorina Mónica sedette allasua cattedra e, guardando noialtri, allungòmeccanicamente — come faceva sempre — la manosinistra per cercare i suoi occhiali.

Toccando assieme alle lenti il corpo del ragno,dovette girare la testa per vedere cosa diavolo fossequello.

La sua espressione fu d’enorme sorpresa:— Oh! Un ragno! — esclamò — Il mio piatto

preferito!E, senza inforcare gli occhiali, portò il ragno alla

bocca e, con morsi affilati e precisi, cominciò atagliargli le zampe che divorò voracemente. Mangiòcosì le otto estremità, i pedipali ed i cheliceri. Inseguito, quegli affilati denti bianchi che recidevanocome ghigliottine si piantarono con precisionemetallica nell’addome e nel cefalotorace.

In estasi di piacere, gli occhi verso il soffitto, lasignorina Mónica masticò e divorò ciecamente lagomma dura ed indigesta. E mangiava con tanto etanto piacere che né Beveretti, né Campitelli, né io,né nessun’altro ci azzardammo a disilluderla e quindinon l’avvertimmo che invece d’un delizioso ragno veroaveva solo mangiato un insipido ragno giocattolo.

[dal quotidiano La Prensa, Buenos Aires, 1° luglio 1984]

Traduzione © di Mario De Bartolomeis

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Umberto Pasqui — ForlìLA DOLCE EVASIONE

1Ogni giorno, verso le due del pomeriggio, siconsumava la fine del mondo.Un fischio sinistro, un borbottio che promanava fumoda qualcosa di grigio che aveva il fondo infuocato,avvertiva che da lì a poco la giustizia avrebbe fatto ilsuo corso. I superstiti della strage erano costretti adassistere impotenti alla fine di un loro amico, con cuifino a poco prima avevano condiviso ricordi esentimenti, consapevoli che prima o poi sarebbecapitato anche a loro. Era questione di giorni, solo ilcaso poteva sapere quale prigioniero dovesse esserprelevato dalla cella e sciolto, e quando. Nessunoconosceva, nemmeno il boia, nemmeno il giudice,nemmeno il carnefice: era tutto affidato alla sorte.L’unica certezza era che prima o poi tutti coloro cheavevano avuto la sfortuna di essere chiusi nellaprigione di vetro sarebbero stati eliminati, e cioèsciolti in un liquido caldissimo. In questo liquido, nerocome la paura, sarebbero sprofondati e scomparsi,sino a diventare tutt’uno con la sostanza mortifera.Pessima fine, era davvero una pessima fine.

Di notte, nella prigione di vetro, i morituri siscambiavano opinioni:– Siamo stati creati per questo – dicevano i piùfatalisti.– Se siamo qui ce lo siamo meritato – sicommiseravano altri.C’era chi piangeva, chi ingannava il tempofischiettando, chi dettava le sue ultime volontà, chis’agitava frenetico. In cinquanta erano lì statirinchiusi, ed ora erano rimasti sette: ogni giorno sisopprimevano uno o due prigionieri. Venivanoprelevati dall’alto (e nella prigione si diffondeva ariafresca che faceva rabbrividire i condannati), separati,e fatti cadere nel liquido fumante. La fine era cosìrepentina che non s’avvertivano grida di dolore.

Qualcuno si chiedeva perché la prigione fossetrasparente, di vetro; tutti, così, potevano osservarela fine dei propri amici, immaginandosi la loro. Checosa crudele era questa, davvero il carnefice nonaveva un minimo di sensibilità. Durante le esecuzionimolti carcerati chiudevano gli occhi, rifiutandosi diassistere al supplizio, ma ciò li confortava ben poco,anche perché chi voleva vedere raccontavadettagliatamente ciò che succedeva. Ora che erano inpochi, tutto sommato, le loro condizioni eranomigliorate: infatti, nella prigione (più alta che larga)stavano tutti ammassati l’uno sull’altro. In cinquantamancava l’aria e la prigionia era davveroinsopportabile, in sette stavano più larghi, benchésapessero di avere i giorni contati.

2Durante una notte senza rumori uno dei carcerati,chiamato Plinio, prese la parola:– È da diverso tempo che siamo qui, che vediamosparire i nostri compagni a poco a poco: ma qualcunosi è mai chiesto perché siamo qui?– Ah, non ricordo proprio – sbadigliò un certo Mevio.– Il nostro destino è essere sciolti nel liquido, è unacondanna ingiusta ma ineluttabile – pontificò Pipino.– Ma per che cosa siamo condannati? – domandòl’irrequieto Plinio.– Quante cose vuoi conoscere… - sbuffò Pipino – epoi sapere perché siamo qui cambierebbe la nostracondizione?– Se siamo qui per una giusta causa – sentenziò Plinio– giusto sarà il nostro supplizio. Ma se così non fossedobbiamo andarcene!– Andarcene? E dove? – si risvegliò Mevio.– Plinio è un folle! – sbraitò Tizio.– Folle? – lo redarguì Plinio – folle sei tu che attendi lamorte entro quest’orrida prigione; fuggiamo,scappiamo… andiamocene!– Andarcene? E dove? – ripeté Mevio.– Mi preoccupi… - sospirò Pipino.– Ce ne andremo, vivremo liberi, oltre questo vetro, enessuno potrà mai eliminarci senza motivo! – tentò diesortarli Plinio.– Quindi tu – intervenne Pipino – hai già deciso chesiamo qui senza ragione…– Se siamo qui per una giusta causa, giusto sarà ilnostro supplizio – lo canzonò Tizio.– Nessuna causa può giustificare questa fine –proclamò a gran voce Plinio – fate come volete: io mene vado.– Andarcene? E dove? – sussultò Mevio indormiveglia.– La cosa m’interessa – disse la sua Sempronio.– Non abbiamo nulla da perdere, fratelli, fidiamoci diPlinio! – esortò gli altri il buon Ottone.– Bisogna fare in fretta – parlò anche il più ansioso,Caio – perché temo che presto arriveranno altriprigionieri che ci schiacceranno nel fondo dellaprigione sicchè la nostra evasione sarà pressochéimpraticabile.– Caio ha ragione – applaudì Plinio – o adesso o maipiù!– Fratelli – mormorò Tizio – , ognuno di noi vorrebbeessere libero, ma senza un piano e con sole belleparole la nostra fine sarà come quella di tutti gli altri.– Prepariamo un piano, allora! – gridò entusiastaPlinio.

Il profumo della libertà aveva riscaldato i prigionieri,riempiendoli di vita; così discacciarono la loro tristezzae ciascuno di loro pensò in silenzio ad un progetto cherendesse fattibile e concreta l’evasione.Passò così la notte senza rumore, e le prime lucidell’alba illuminarono la prigione trasparente.

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3La prigione di vetro aveva una sola apertura nellaparte superiore, e nemmeno se si fossero messi unosull’altro tutti e sette non l’avrebbero raggiunta tantoera alta. Pipino era un po’ scettico, ma capiva chePlinio aveva ragione, ed anche Tizio, che prima gli eraostile, collaborò con lui fattivamente.Perfino Mevio, il più sonnolento, si dava da fare.Ottone rivelò che la prigione era su un soppalco chedava nel vuoto, una specie di precipizio, non tantoalto, ma parimenti pericoloso.– Dobbiamo spingere fino a far precipitare la prigione:è rischioso, ma è l’unico modo – osservò Sempronio.– Non sopravviveremo al salto – rabbrividì Caio.– Meglio morire così piuttosto che nel liquido –sentenziò Plinio.– Non è così semplice… - riflesse Pipino – è vero chesiamo su un soppalco, ma esso è protetto a sua voltada una lastra di vetro che il carnefice apre soloquando è giunta la nostra ora…– Ed oltre quella lastra di vetro c’è il vuoto – aggiunseOttone.– Quindi possiamo farlo solo quando il boia è davantia noi – convennero i più.– Non si può fare! – tremò Caio.

A metà mattina tutti, proprio tutti, era convinti delpiano: quando il carnefice avrebbe aperto la lastra divetro avrebbero spinto dall’interno fino a farprecipitare con la prigione nel vuoto.Erano consapevoli che alte erano le probabilità di nonsopravvivere, ma ormai nessuno di loro voleva vedergiustiziato il proprio fratello. Attesero con ansiaalternata ad euforia il momento in cui avrebberorespirato l’aria della libertà.

4Il carnefice arrivò e cominciò a sentirsi lo stranoborbottio della macchina di ferro, e il fumo soffiòtalora fischiando: era l’ora del giudizio. Era giunto iltempo in cui il destino di qualcuno di loro fosseportato a compimento. Il liquido nero era sempre piùvicino.Plinio lo guardava con aria di sfida, Caio eraterrorizzato, gli altri oltremodo inquieti.Il piano poteva non funzionare perché aveva centodifetti, poteva portarli alla morte; ma almenosarebbero spirati felicemente.

La lastra di vetro era aperta. Il boia era vicinissimo, eproprio mentre stava avvicinandosi alla portasuperiore della prigione i sette spinsero verso il vuoto.La fatica era tanta, ma un inspiegabile tremore liaiutò facilitando la caduta. Il carnefice urlò con unboato pazzesco, ma la prigione era ormai infranta.E i sette prigionieri erano salvi, anche se un po’ rotti,giacché erano atterrati su una specie di pratosintetico.– Ce l’abbiamo fatta, ci siamo tutti – sussurrò Plinio.

– Non dobbiamo farci vedere… su muoviamoci… –mormorò Pipino.I sette evasi corsero nel prato sintetico e sisporcarono.Il boia, che li stava cercando, in breve tempo peròriuscì a sorprenderli e li catturò tutti.L’evasione era finita, finita male; ma almeno avevanoassaporato la libertà, avevano dato un senso agliultimi istanti della loro vita. Non si erano rassegnati alfato, ma, come sosteneva Pipino, il loro destino era“essere sciolti nel liquido”.E Pipino era uno che raramente sbagliava.

– Chi l’avrebbe mai detto? – sospirò Tizio.– Avrei pensato di morire nel salto, ma mai così… –pianse Sempronio.– Andarcene? E dove? – chiese Mevio, cheevidentemente non aveva capito nulla.– Fratelli, siamo degli eroi – dichiarò con forza Ottone– abbiamo fatto ciò che nessuno ha mai osato,abbiamo accarezzato il nostro sogno.– Eroi, eroi… – borbottò Pipino – martiri, direi…– Qualcuno si ricorderà di noi, e tramanderà la nostrastoria di padre in figlio fino a che diventerà unaleggenda, ne sono sicuro – asserì con certezza Plinio.Si abbracciarono e si salutarono per l’ultima volta: illiquido nero avrebbe inghiottito presto uno o due diloro.

5E invece non andò così.Il boia, una volta catturatili, li gettò in una prigioneenorme e piena di cose, calda e confortevole, buia maaccogliente.Forse era un premio, forse non era una prigione,perché da lì nessuno di loro fu mai prelevato peressere disciolto nel liquido nero. I sette evasi lì dentrosi sentivano liberi e felici: avevano spazio per farequalsiasi cosa e, soprattutto, non vedevano più ilcarnefice. O, se lo vedevano, non era presagio disventura poiché appariva solo per introdurre qualcunaltro o qualcos’altro.La felicità dei sette era tale che gridarono eschiamazzarono fino a farsi sentire da lontano.

FinaleFu così allora che sette zollette di zucchero evitaronodi essere sciolte nel caffè che, ogni giorno verso ledue del pomeriggio, un tranquillo vecchietto inpensione beveva alla fine del pranzo. Ogni giorno, alborbottio della caffettiera, apriva l’anta di vetro delmobiletto della cucina, stappava il barattolo vitreo incui c’erano le zollette sollevandolo un po’ dallamensola e prelevava uno o due cubetti di zuccheroper poi discioglierli nel caffé. Quella volta, però, il vecchietto urtò il barattolo fino afarlo cadere a terra, così s’infranse e le zolletterotolarono sul tappetino sottostante.

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I sette cubetti, sporcatisi una volta caduti, erano statigettati nel bidone dell’immondizia.

Umberto Pasqui — ForlìL’OGGETTO INCOMPRENSIBILE

1– Scusi, lei ha mai vissuto sugli alberi?– Sugli alberi? No… mai!– Capisco…– Perché? Che cosa capisce?– Ah, niente, immaginavo…– Immaginava cosa?– No, no, non si preoccupi… niente d’importante.– Mi permetta… vorrei sapere…– Be, se proprio vuole…

Chi vive (o ha vissuto) sugli alberi vede la città inmodo diverso, con una prospettiva del tuttoparticolare. D’estate, infatti, si guarda senza esserevisti; le fronde verdissime proteggono dall’altruisguardo.Per una serie di strani motivi Tobia, da qualche anno,aveva cominciato a vivere su di un robusto leccio cheombreggia ancora oggi la piazza del mercato.Dapprima si era accontentato di un comodo ramosinuoso su cui si poteva adagiare come se sistendesse in un’amaca piuttosto rigida ma spaziosa.Poi, giorno dopo giorno, aveva allestito un rifugio,piccolo e angusto: formato da tela impermeabiletirata da corde spesse.Ben presto se ne stancò e volle progettare una vera epropria casa sull’albero.Costruì un piano con assi di recupero isolandolo contela impermeabile, quindi le pareti con un gioco dicorde che s’andavan ad intrecciare coi rami dellapianta.Poi ultimo venne il tetto, costruito con la solita telaimpermeabile.Come ci si poteva immaginare un similecomportamento non poteva passare inosservato: lagente comune si radunava spesso in crocchiincuriosita al di sotto del leccio abitato e commentavacon stupore e irrisione ciò che l’arboricolo facevadurante le ore del giorno.La polizia municipale intervenne ben presto, senzaperò ottenere grossi risultati, anche perché Tobia nonarrecava molestia a nessuno, non sporcava, non erapericoloso né fonte di pericolo.Un giorno finì in Questura, ma alcuna misura fu presacontro di lui anche perché era un nullatenente, e poi,giorno dopo giorno, in molti si erano affezionati aquesto personaggio bislacco. Nessuno ebbe la forzad’impedirgli di stare dove stava, nemmeno i merli che,all’inizio, lo mal sopportavano.

Di tanto in tanto scendeva dalla casetta raccontandola sua vita a chi era seduto sulle panchine. E semprerompeva il ghiaccio con la frase "Scusi, lei ha mai

vissuto sugli alberi?" In genere la gente lo ascoltavavolentieri, infatti, pur essendo alquanto bizzarro, eraevidente che fosse di buon cuore, ispirava fiducia etenerezza.Viveva dignitosamente di elemosina, che maichiedeva, ma chi incontrava era sempre così liberale ebendisposto nei suoi confronti che Tobia, ogni seraalle undici, poteva permettersi una birra media primadi coricarsi.Era felice, perché aveva tutto ciò che voleva.

2Quando spuntò l’alba di quel giorno i piccioni nonvagavano per la piazza alla ricerca di cibo poichéquello era un giorno di mercato e già gli ambulantistavano arrivando.Tobia scese dalla sua casetta e passeggiò tra lebancarelle che a poco a poco sorgevano.Un tale che conosceva, chiamato popolarmente "ildottore", gli offerse la colazione (un cappuccino e unapasta) e seco si mise a parlare di economia e finanza.Insieme curiosarono tra le bancarelle salutando tuttiquelli che incontravano.Una domanda che si ponevano a vicenda e chestuzzicava le loro menti era la seguente: cambia più infretta il mercato o la gente che ci va?Perché se cambia la gente deve cambiare anche ilmercato, altrimenti nessuno compra più. Ma se ilmercato non cambia, la gente vi si adegua?Le bancarelle, notavano, da un po’ (troppo) tempoerano le stesse, immutabili nell’offerta e nellapresentazione dei prodotti. Chi passeggiava, invece,era cambiato, e stava cambiando; non solo perché iltempo passa per tutti, ma perché i gusti e le modesubiscono trasformazioni inesorabili, e a volteincomprensibili.Tuttavia si comprava ugualmente, forse perché nonc’era altro, forse perché quel mercato, benché antico,andava ancora al passo coi tempi.I volti degli ambulanti, provati dalle intemperie e conocchiaie scavate dalle poche ore di sonno, scrutavanobasiti Tobia e il dottore mentre confabulavano e noncompravano.

– Voi due potreste aver ragione – parlò una ragazza,mai vista prima, che teneva due pesanti borse dellaspesa – ma non avete guardato bene… - tacque perun po’, appoggiando le borse per terra allo scopo difar riposare gli arti – laggiù all’angolo c’è unabancarella del tutto nuova!Il dottore era più preoccupato per il respiro affannosoe stanco della ragazza che di quello che la ventenneaveva appena finito di dire. Non aveva mai fattomistero della sua misoginia e poco gli interessavano leopinioni di una donna, giovane, per giunta.Così si offerse di aiutarla nel trasporto delle borse, maella rifiutò.Tobia era invece incuriosito da lei, e le domandò diaccompagnarlo alla bancarella "del tutto nuova". Lagiovane acconsentì e diede all’arboricolo una sporta

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per alleggerire il peso. Il dottore inventò una scusa elasciò i due soli, decisamente seccatodall’intromissione della ragazza.

3Giunsero assieme dinanzi alla bancarella "del tuttonuova" e Tobia rimase a bocca aperta.Da un furgone bianco avorio (probabilmente lavatomolto di rado) si apriva un tavolaccio alla buona sucui c’erano tante scatoline chiuse e impacchettate concarta diversamente colorata e, appeso con puntine aibordi del tavolo, stava un cartellone rosso con unagrande "O" stampata.Di tanto in tanto qualcuno si avvicinava al tavolaccio,chiamava l’attenzione del venditore, acquistava unascatolina e se ne andava via tutto contento.– Vede – disse la ragazza – lì vendono l’oggettoincomprensibile…Tobia stava osservando che chi comprava da talebancarella sembrava non sapesse cosa acquistasse, visi appropinquava mesto, poi, quando notava unascatolina di suo gusto, s’illuminava in volto e laprendeva felicissimo.Era davvero una scena molto strana: e che cos’era poiquest’oggetto incomprensibile?La ragazza si scusò ma disse di dover andare via:ormai era ora di pranzo, lo salutò con un grandesorriso e scomparve tra la folla.

Tobia notò che gli acquirenti aumentavano a poco apoco in misura sempre più ragguardevole. Avrebbevoluto tanto domandare che cosa fosse l’oggettoincomprensibile a chi l’aveva appena comprato, maera troppo timido e beneducato per farlo.Davanti a lui passavano giovani e vecchi, donne efanciulle, tutti con la scatolina colorata. A volte nefermava uno, poi, colpito da un’improvvisa afasia, lolasciava andare senza aver ricevuto alcunainformazione.Vinse la sua timidezza e si rivolse alla bancarellaaccanto, che vendeva scarpe.– Scusi – chiese – vorrei un’informazione.– Prego, mi dica– Sa mica cosa vendano qua accanto?– L’oggetto incomprensibile, non vede?Il commerciante fu poi distratto da una signora cheintendeva pagare un paio di scarpe: quindi laconversazione finì subito.

Sapeva bene che ora, per soddisfare la sua curiosità,sarebbe dovuto andare dall’uomo barbuto chevendeva le scatoline misteriose per chiedere a luiinformazioni: ma si sentiva come bloccato, provavasoggezione per quella bancarella.Si sedette dunque sul ciglio del marciapiede.

4Raramente nella sua vita si era sentito infelice(ultimamente mai) ed in quei momenti lo era perchéinsoddisfatto: voleva risolvere il mistero, ma non

sapeva come riuscirvi, o non trovava il coraggio né laforza per compiere il passo decisivo.Perché quella gente comprava ed era felice?Che cosa comprava?Sentiva dentro di sé un calore che avvampava fino apropagarsi come un incendio così forte da incenerireviscere ed anima.Del suo stato s’accorse soltanto una tortora che gli siavvicinò mormorandogli parole di conforto. Tobia,rincuorato, anche se non appieno, si sollevò conl’intenzione di tornare nella sua casetta perdimenticare questa brutta storia senza senso.

– Ehi, ci siamo già visti noi… - avvertì una voceelevarsi sopra quelle della gente.Era la ragazza, la stessa che prima se n’era andatacon le sue borse della spesa, ma questa volta ne erasprovvista.– Mi fa piacere incontrarla di nuovo… - sorrise Tobia –ma che fine ha fatto il suo pranzo?– Oh, mi sono dimenticata del pane, ora entro in unforno e risolvo il problema: sperando di trovarne unoaperto!– All’angolo c’è una latteria, è sicuramente aperta…– Grazie, è molto gentile; se vuole può venire amangiare da me.– No, no, grazie ma non me la sento.Tobia esterno tutta la sua amarezza alla giovane,sempre bendisposta ad ascoltarlo, ed ella gli consigliòdi comprare un oggetto incomprensibile al più presto.Però egli si rammaricò di non avere soldi, quindiprocacciarsi una delle misteriose scatoline era per luiimpossibile.La ragazza, sospirando come se stesse per spifferareun segreto, rivelò che l’oggetto incomprensibile nonha prezzo, non costa nulla e rende felici chi locompra.– Ora devo andare o farò tardi – disse lei – allora nonvuole venire?– No, scusi ma preferisco rimanere qui…Così la ragazza scomparve di nuovo tra la folla.

5Stando così le cose Tobia era doppiamente infelice:vuoi perché non riusciva a svelare il misterodell’oggetto incomprensibile, vuoi perché la ragazzase n’era andata e, quasi certamente, non l’avrebbepiù rivista, o almeno così presagiva.Sentì a poco a poco nascere in lui un sentore dicoraggio che lo spinse, finalmente, ad avvicinarsi allabancarella perché era convinto che solo là recandosiavrebbe potuto ritrovare la felicità.La tortora che poco tempo prima lo aveva consolatogli si poggiò sulla spalla destra, quasi volesseinfondergli animo.L’uomo barbuto in piedi dietro il tavolaccio erasempre più vicino ed ormai di lui si scorgevano lerughe che solcavano orizzontalmente la fronte: aveva

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i capelli brizzolati e mossi, e sulla fronte scavata daltempo disegnavano tante "G" grigiastre con ricciolidisordinati e poco forbiti, come del resto lo era labarba.Tobia gli andò incontro fingendo disinteresse, buttòl’occhio sulle scatoline ancora un po’ rattristato e nescelse una.

Si potrebbe dire che scelse a caso, ma forse così nonera, perché la sua mano s’avventò decisa sul suooggetto incomprensibile.Appena toccò la scatolina sentì come un brividopizzicargli le membra, poi lo scosse donandogliun’improvvisa allegria, benché apparentementeingiustificata: non sapeva ancora dietro cosa c’era.Ringraziò l’uomo barbuto che, come sapeva, non vollenulla in cambio e, volte le spalle alla grossa "O" nerasu cartoncino rosso se ne tornò dond’era venuto.Avvertì che la scatolina non era leggera né pesante,era bella e dava gioia.Uno stormo di storni volava nel cielo quando Tobiaaveva raggiunto il suo albero: lì avrebbe aperto la suascatolina, ma la sua allegria era più forte dellacuriosità tanto che volle seguire, come un àugure, ilvolo degli uccelli finché non scomparvero dalla suavista.Quindi salì la scaletta di corde, raggiunse il suo rifugioe, finalmente, l’arboricolo aperse la scatola, e capìtutto.

FinaleOgnuno di noi cerca un modo per essere felici, a volteci riusciamo, altre volte no. Perché non sempre si sache cosa ci renda felici, o pensiamo che qualcosa citolga l’infelicità mentre la sospende soltanto per pocotempo.L’oggetto incomprensibile è ciò che veramente ècapace di fare felici ciascuno di noi; è una cosa chenon conosciamo ma che ha il potere in sé di cambiarcila vita.

Enrico Pietrangeli — RomaPRIMAVERA DEL ’44

Primavera del quarantaquattro, la giornata èvanamente tiepida e serena, continuano movimenti ditruppe tedesche che si susseguono da giorni. Dalfronte adriatico, sotto l’alto comando del generaleKesselring, confluiscono a contrastare le armatealleate su quello tirrenico. Puntuali, da qualchegiorno, sfrecciano incursioni di caccia britannici perintercettare linee e rifornimenti del nemico. Roma nonè lontana, dista meno di cinquanta chilometri, e quil’orizzonte è contornato di aperta campagna: per lopiù ulivi tra ondulati pendii di colline. Sento e comprendo quanto sta accadendo, neconosco i luoghi, lo spazio e persino il tempo. Lo vedoin prima persona, senza neppure essere statoconcepito, attraverso gli occhi di mia madre e sottoforma di coscienza astrale. Di primigenia essenza ho

facoltà di percepire, disincarnato nell’ovocitaquiescente. Un destino sospeso tra ipotalamo edipofisi che, in balia di ormoni, mi porta all’infuori deltempo, tra gli eventi di quella stessa visione. Miamadre, giovane donna provata ma forte, gode diun’ottima funzione ciclica dell’ovaio, con mestruazioniregolari impiantate da una buona produzione diormoni steroidei.Stamani attraversa i campi, guardinga e ancora un po’bambina, trasformando l’incombente pericolo in unasorta di gioco, per trovare, nella fantasia, un’ulteriorevia di uscita. Porta nel ventre, stretta, una borsad’acqua calda con dentro olio fresco di molitura. È apochi passi dalla via Salaria, da più di quindici minuti ilfuoco sembra tacere e, tra le retrovie, transitanoancora reparti di SS in scorta a munizioni erifornimenti. Un camion la nota e si ferma; il sergenteBrunner, in uno stentato ma collaudato italiano, lainvita, educatamente, offrendole un passaggio. Leiindugia, ma non più di qualche istante, per poiprendere posto tra i commilitoni, sopra casse diproiettili e dinamite. Il percorso è lungo e, di mezzi civili, all’epoca se nevedevano davvero pochi. Lui, il sergente, continua ditanto in tanto a sghignazzare raccontando improbabilibarzellette tra tedesco ed italiano. Lei, da parte sua,sembra quasi incurante del pericolo di tuttoquell’arsenale ma, nondimeno, è rigida e timorosa neltrovarsi sola, in una morsa di uomini a farle contorno.Lo sguardo di Brunner, tra una battuta e l’altra, silascia distrarre da quel poco di caviglia che fuoriescedalla gonna. Poi, all’improvviso, un rombo cupo siaddensa, ovunque, nello stomaco. Il sergente dàordine di lasciare il veicolo, tutti corrono lungo lascarpata. Giallo! Vedo giallo negli occhi di mia madre che fugge,corre via accasciandosi a terra. La scarica diadrenalina si assesta, frazioni di secondi, e la polveresollevata riprende un grigio, più naturale colore, tra ilsangue e le grida soffocate dal rombo dei motori, nelboato della deflagrazione. Fluttuo, a mia volta,terrorizzato, spintonato tra altri oviciti. È unacarneficina, diversi non arriveranno ad assestarsi,predisponendosi ad una futura, più feconda vita:nobili ovulazioni pronte a rincorrere il sogno di baciarelucenti getti di spermatozoi e divenire esistenza! Io,con la più paradossale delle fortune, quella delsopravvivere, dal menarca mi assesto nella zona piùattiva e prossima alla menopausa. Sarò uno degliultimi superstiti all’atresia, nonché predestinato aconcepimento; uno strano frutto di quel primo "boomeconomico", in bianco e nero, ancora in odore didopoguerra… L’insolito incontro con l’ostinata volontàdi un flusso spermatico tardivo ma innamorato delvivere e, soprattutto, di mia madre. Come loro hoconosciuto l’amore, nella strisciante guerra di unaprotratta pace, attraverso gorghi d’egoismo esolitudine, sentendomi ancora vivo.

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Luca Viglialoro — [email protected] LA CHIMICA DEI SENTIMENTI

«No…No… che stai dicendo?», disse mia madre, chesentiva la gola indurita e raggelata, come le pescheche ci sono nel nostro giardino, in tardo autunno. «Glielo dirò…», ed abbassò la cornetta, mentre ilghiaccio era diventato il fuoco delle nostre estatiassiepati tra i vigneti, ed uno sciroppo di lacrime esingulti le scorreva nel canale della trachea, ribollendocome magma incandescente di dolore. Di dolore e morte.Chiesi cosa stesse succedendo, e mi disse che mio zioera morto.Morto, pensai io; come può essere morto mio zio? La vidi colare come le sue lacrime, che le rigavano legote di feroci traviamenti. Ho sempre avuto unamente fortemente analitica, e la osservavo con tuttome stesso. Mi schermì, per dissimulare una certaindifferenza; però, dentro di me, la domanda, Perchémio zio?, io me la continuavo a fare, e non mi riuscivadi trovarvi risposta. Era un uomo ancora forte, almenosecondo la mia impressione, col senno di poi assaifutile. Volevo capire perché mia madre soffrisse cosìtanto, ma non vi riuscivo. Ero capace solo di pensarea delle frasi che potessero ghermire, adombrare unsentimento a me estraneo quale la rielaborazione diun lutto. Scrissi su di un foglio: «La condizione dirielaborazione del lutto è molto simile a quelladell’esilio: entrambe si cibano di una memoria chenon serve a nulla.»¹. Presi talmente sul serio quel defunto, che miimbronciai di non riuscire a versare neanche una solalacrima. Che mi prendeva, Cristo! Quando ero piccolopiangevo per ogni insulsa vicenda, e ne traevo tantodi quel piacere sentimentale, che ora vi guardavo conuna certa nostalgia. Mia madre era lì, seduta sullo sgabello dell’ ingresso,che si spezzava le unghie sui tasti del telefono, perinformare mio padre che il fratello era morto. Aveva,in quegli istanti, i suoi begli occhi grandi, gonfi aforma della sultanina che cresce solo qui da noi:rossa, piena di dolce ebbrezza e di un pathos tuttoparticolare, che le altre uve non hanno. Invidia; ecco, sì, invidia. Un’ invidia che mi rodeva letempie, e non si reprimeva. Eppure, mio zio, allepartite mi ci aveva portato, me li dava i soldi allefeste, e sicuramente qualche buona preghiera ingloria sui riteneva di meritarsela. «Rimani qui. Ti passiamo a prendere dopo, così fai unsaluto allo zio…»Saluto, alla mia salute. Alla sofferenza di mia madre, aggiunsi quella di miopadre appena arrivato. Stavo cercando dicommuovermi davanti a lui, perché avrei potutospaventarlo. Lo atterrì la mia tiepidezza. 'Conosco le tue opere,non sei né freddo né caldo. Oh, fossi tu freddo ocaldo!'² sta scritto sulla Bibbia. Interruppi gli studi.Devo trovare un chimica dei sentimenti³, pensai.

Mi preparai, entrai nella stanza dove c’era mio zioadagiato, e lo baciai. Nulla. Corsi in bagno, mi infilaidella carta igienica in un occhio, e tornai lacrimando. Piangevo. Rip. Requiescat in pace, mi augurai.

¹ Camus – «La peste»² Dostoevskij – «I demoni»³ Nietzsche – «Umano, troppo umano»

Grandi Tracce… Grandi Tracce… Grandi Tracce…

Leon Battista Alberti (1404-1472)

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Io vidi già seder nell'arme irato uomofurioso palido e tremare;e gli occhi vidi spesso lagrimareper troppo caldo che al core è nato.E vidi amante troppo adoloratopoter né lagrimar né sospirare,né raro vidi chi né pur gustarepuote alcun cibo ov'è troppo affamato.E vela vidi volar sopra l'onde,qual troppo vento la summerse e affisse;e veltra vidi, a cui par l'aura ceda,per troppo esser veloce perder preda.Così tal forza in noi natura immisse,a cui troppo voler mal corrisponde.

EPISTOLARIO

Leon Battista Alberti (1404-1472)

1.

Preclarissimo viro Johanni Cos. de Medicis amicissimoin Florentia. Salve. Che tu pigli chonfidentia in me mi piace. Et faiquello che si richiede alla benivolentia nostra antiqua.Et io, perché chosì chonosco essere mio debito, peròdesidero et per te et a tua richiesta fare qualunquechosa torni chommodità a chi te ama. Et maximemolto mi diletterà far chosa grata al tuo Sandro, perchui tu mi chiedi certa chomutatione di terreni alborgho. Sono certo, se non fusse chosa iustissima,non la chiederesti, né lui metterebbe te interpetre. Mapur ti pregho lo chonforti, et io sarò, credo, chostì franon molti dì, et vederemo la chosa, et sarò cholloarchiepiscopo, senza cui consiglio proposi più fa di farnulla, et quello che tu stessi statuirai, farò di buonavoglia. Interim vale.

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Ex Roma x aprilis, tuus Baptista de Albertis

[databile intorno al 1450]

2.

Prestantissimo viro Matheo de Pasti et caetera amicodulcissimo. In Arimino.

Salve. Molto mi fur grate le lettere tue per più rispetti,et fummi gratissimo el Signior mio facesse chome iodesiderava, cioè ch'el pigliasse optimo chonsiglio chontutti. Ma quanto tu mi dici che 'l Manetto afferma chele chupole deno esser due largezze alte, io credo piùa chi fece Therme et Pantheon et tutte queste chosemaxime che a llui, et molto più alla ragion che apersona. Et se lui si reggie a oppinione, non mimaraviglierò s'egli errerà spesso.

Quanto al fatto del pilastro nel mio modello,ramentati ch'io ti dissi, questa faccia chonvien che siaopera da per sé, peroché queste larghezze et altezzedelle chappelle mi perturbano. Richordati et ponvimente che nel modello sul chanto del tetto a manritta et a man mancha v'è una simile chosa: e dissi,questo pongho io qui per choprire quella parte deltetto, idest del choperto, qual si farà entro la chiesa,peroché questa larghezza dentro non si può moderarechon la nostra facciata, e vuolsi aiutare quel ch'èfatto, e non guastare quello che s'abbia a fare. Lemisure et proportioni de' pilastri tu vedi onde ellenaschono: ciò che tu muti si discorda tutta quellamusica. Et ragionamo di choprire la chiesa di chosaleggiera. Non vi fidate su que' pilastri a dar lorocharicho. Et per questo ci parea che lla volta in bottefatta di legniame fusse più utile. Hora quel nostropilastro, se non risponde legato chon quello dellachappella non monta, peroché quello della chappellanon harà bisognio d'aiuto verso la nostra facciata, etse bem gli bisognerà, ello è sì vicino et quasi legatoch'el arà molto aiuto. Adonque se chosì per altro vipare, seghuite el disegnio quale a mio iuditio stabene.Del fatto delli occhi, vorrei chi fa professioneintendesse el mestier suo. Dichami perché si squarca

el muro et indeboliscono lo edificio in far fenestre?Per necessità del lume. S'tu mi puoi chon menindebolire havere più lume, non fai tu pessime farmiquel incomodo? Da mam dricta a mam manchadell'occio riman squarciato, et tanto archo quanto elsemicircolo sostiene el peso di sopra: di sotto stanulla più forte el lavoro per essere occio, et èobturato quello che debba darti el lume. Sonci molteragioni a questo proposito, ma sola questa mi basti,che mai in edificio lodato presso a chi intese quelloche niuno intende oggi, mai, mai vederai fattoviocchio se non alle chupole in luogho della chericha; equesto si fa a certi tempii, a Iove a Phebo, quali sonopatroni della luce, et hanno certa ragione in la sualarghezza. Questo dissi per mostrarvi onde escha elvero.Se qui verrà persona, quanto sarà in me darò ognimodo di satisfare al Signiore mio. Tu preghotiexamina, et odi molti, et referiscimi. Forse qual chesia dirà chosa da stimarla. Raccomandami, s'tu lo vedio scrivi, al Signiore a chui desidero in qualunquemodo essere grato. Raccomandami al magnificoRuberto et a Monsigniore el prothonotario, et a tuttiquelli a chi tu credi che me amino. Se harò fidato, vimanderò Ecatomphile et altro.

Vale ex Roma XVIII Novembris [1454]Baptista Alberti

(Fonte: http://bepi1949.altervista.org/alberti/lettere.html)

Leon Battista Alberti nacque a Genova nel 1404.Studiò a Padova e a Bologna, dove nel 1428 ottennela laurea in diritto canonico.Visse in seguito sempretra Firenze e Roma. Oltre ad essere architetto fuletterato, filosofo e poeta, si occupò teoricamentedelle varie arti scrivendo numerosi trattati tra i quali ilDella Pittura scritto nel 1436 circa, il De ReAedificatoria scritto tra il 1450 e il 1472 e il De StatuaScritto intorno al 1464.L'ideale estetico di Leon Battista Alberti si basa sullaricerca dell'armonia proporzionale, sulle formeproporzionate e modellate sull'uomo.La sua cultura lo rese ricercato presso le piùimportanti corti del Quattrocento: fu a Ferrara doveper gli Estensi progettò l’Arco del Cavallo sul qualepoggia la Statua equestre di Nicolò III d’Este e ilcampanile della cattedrale della città. A Roma PapaNicolò V gli diede l'incarico del riordino urbanisticodella città e del restauro di S. Maria Maggiore, S.Stefano Rotondo, S. Teodoro.A Rimini, nel 1450, per Sigismondo PandolfoMalatesta, progettò il rivestimento con nuovestrutture della chiesa gotica di S. Francesco a Rimini,che divenne il Tempio Malatestiano in aperta lite conPapa Pio II il quale disse "riempito di tante operegentilesche che non sembra un tempio dei cristianibensì di infedeli adoratori di demoni".L'interno dell'edificio è a navata unica con cappelle

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laterali. All'esterno la facciata incompiuta è formatada tre arcate divise da semicolnne in cui quellacentrale inquadra il timpano sul portale, mentre lelaterali dovevano inquadrare i sepolcri di SigismondoMalatesta e della moglie che oggi invece sonocollocati all'interno.A Firenze per il mercante Giovanni Rucellai edificò unpalazzo che divenne modello dei palazzi signorili delrinascimento. La facciata composta di conci lisci aordini sovrapposti, è divisa in senso verticale dalesene e in senso orizzontale da cornici marcapiano.Sempre per Rucellai seguì altre opere: la Cappella diSan Pancrazio e il compimento della facciata di SantaMaria Novella, adottando in quest'ultima unrivestimento a marmi policromi seguendo un disegnochiaro e lineare.Progettò per i Gonzaga a Mantova le chiese di SanSebastiano a pianta centrale e di Sant'Andrea a piantalongitudinale.Leon Battista Alberti morì a Roma nel 1472.

- A cura di Mtt -

Savona, 15 novembre 2004

Carissima Amica Melinda,

ti chiedo anzitutto di scusarmi per il lunghissimotempo che ho lasciato trascorrere tra l'ultima tualettera datata 15 giugno e questa mia risposta. Tisarai chiesta perché. Ebbene, é stato (ed é ancora)un periodo intensissimo, non solo per i miei doveriprofessionali e i miei appuntamenti letterari. Prima ditutto, questa estate ho dovuto far installare nel mioappartamento l'impianto di riscaldamento autonomo.La conseguenza é stata che i muratori hanno dovutorompere tutti i muri per poter mettere i tubi. Non tidico la polvere, i detriti, il disagio che ho dovutosopportare! Per fortuna, i miei padroni di casa mihanno concesso l'uso della loro cantina, in cui hotrasferito gran parte dei libri, dei quadri e deglioggetti più delicati. Finiti i lavori, durati circa un mese,ho dovuto passare il mese seguente a ripristinare lacasa: ho fatto ritinteggiare i muri e pulireradicalmente la casa. […] Parallelamente, ho ottenuto il trasferimento allescuole medie di Vado Ligure, località che dista solocirca 8 km da Savona, mentre per raggiungere lasede di prima dovevo farne quasi 30! Sono anchesempre stato impegnato in conferenze, presentazioni,preparazioni di interventi ed eventi culturali. Si vedeche quando tu mi hai telefonato, non mi hai trovatoperché io a casa ci sono veramente poco. Ti consigliodi chiamarmi sempre sul telefonino cellulare, di cuisotto ti do il numero.Recentemente mi sono dedicato anche, su invito di unmio amico ceramista che ha lo studio ad AlbissolaMarina, alla preparazione di giudizi critici per artisti(pittori, scultori, ceramisti, ecc.) da inserire in un

grande catalogo annuale che verrà edito a Palermo.Abbiamo ripreso gli incontri, l'ultimo venerdì di ognimese, del "Caffé fílosofico" in un bar di Savona: unappuntamento culturale-mondano di sempre maggiorsuccesso; a giugno siamo riusciti a far venirenientemeno che Gianni Vàttimo, che tu certamenteconoscerai in quanto è uno dei maggiori filosofiitaliani, studioso di Heidegger e di Nietzsche,collaboratore fisso sulla prima pagina de La Stampa diTorino.Non ho trascurato poi la mia personale produzione:sono usciti ben 4 volumi di grande formato contenentiil testo delle 4 conferenze che ho tenuto tra febbraioe maggio presso la Società Cattolica "Nostra Signoradi Misericordia" di Savona; e stanno per uscire duemie raccolte poetiche degli anni '70 e un breveriassunto della tesi di laurea di mia moglie. Da tuttoquanto finora ti ho detto, potrai forse comprendere ilfatto che io abbia avuto un periodo veramente super-impegnato!Va bene lo stesso che gli articoli mio e di mia moglieche ti sono arrivati in ritardo vengano pubblicati sulnumero di autunno-invemo della Rivista, il cui invioattendo ansiosamente. Sto già preparando i prossimiarticoli tra un ritaglio di tempo e l'altro. Per ora timando un cordialissimo saluto e attendo una tuagradita risposta. Ciao dal tuo

Aff.mo Marco

Savona, 19 gennaio 2005

Carissima Amica Melinda,

ti mando i due nuovi articoli per la Rivista: il mio,Alfieri: itinarario per una rilettura, dove propongo unpercorso per rileggere uno dei più grandi eattualmente dimenticati classici italiani; e Eternità,infinito, amore intellettuale di Dio in B. Spinoza diGabriella, dove é tracciato il pensiero di uno deimassimi fílosofi dell'età moderna. Scusa se sono unpo' più lunghi del solito, ma ritengo che sianoparticolarmente validi e degni di esser letti da molti,compresi i "non addetti ai lavori".Spero che tu abbia trascorso piacevolmente levacanze natalizie; io ho fatto un lungo "ponte" ascuola ed ora ho ripreso a pieno ritmo, poiché siavvicina la fine del primo quadrimestre e ci sono gliscrutini e, come tu sai, la Riforma Moratti ha portatomolte novità, non tutte positive.L'ultimo venerdì di ogni mese abbiamo anche ripresola tradizione (ormai questo é il quarto anno) del"Caffé filosofico" in cui ci riuniamo in un bar qui aSavona per discutere di fílosofía... ma non solo,secondo il monito di Seneca chefacere docetphilosophia, non dicere.

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Penso che anche tu sarai molto impegnata in ognicampo; ti faccio quindi, anche se un po' in ritardo, imigliori auguri per un proficuo e sereno 2005 affinché

sia un anno pieno di soddisfazioni!

Un carissimo saluto dal tuo aff.moMarco

DIARIO DI LETTURA & PRESENTAZIONI

____________Galleria Letteraria & Culturale Ungherese____________Lirica ungherese

Juhász Gyula (1883 – 1937)ADAGIO

Úgy szálljon hozzád ez a dal,Mint csillag fénye alkonyórán,Szelíden, csöndesen mosolygván,Te szép, te kedves, fiatal:Úgy szálljon hozzád ez a dal.

S úgy szálljon hozzád ez a dal,Mint hófehér galamb az estve,Fáradtan enyhelyet keresve,Míg csöndben zörren az avar:Úgy szálljon hozzád ez a dal.

Ne legyen soha ez a dalBúgó siráma bánatomnak,Én hordozom csak, én tudom csak.Sugaras, rózsás, fiatal:Mint te, olyan épp ez a dal!

Gyula Juhász (1883 – 1937)ADAGIO

Per te voli così questa canzone,Come la luce della stella nel tramonto,Soavemente, in silenzio sorridendo,Tu bella, tu cara, giovine:Per te voli così questa canzone.

Per te voli così questa canzone,Come alla sera una colomba bianca di neveChe stremando sta cercando un rifugio,Mentre le foglie secche crepitano in silenzio:Per te voli così questa canzone.

Non sia mai questa canzoneIl pianto rombante del mio dolore,Soltanto io lo porto, soltanto io lo so.Giovine rosea e raggiante:Questa canzone è pure come te!

Traduzione © di Melinda Tamás-Tarr

József Attila (1905-1937)A BÁNAT

A bánat szürke, néma postás,sovány az arca, szeme kék,keskeny válláról táska lóg le,köntöse ócska meg setét.

Mellében olcsó tik-tak lüktet,az uccán félénken suhan,odasimul a házfalakhozés eltűnik a kapuban.

Aztán kopogtat. Levelet hoz.

Attila József (1905-1937)IL DOLORE

Il dolore è un grigio, muto postino,con occhi azzurri e con magro volto,dalle spalle strette pende il borsetto,il suo mantello è scuro e meschino.

Un modico tic-tac pulsa nel suo torace,sulla via paurosamente fugge, striscia contro le pareti delle casee sotto il portone sparisce.

Poi bussa: c'è posta per te.

Traduzione © di Melinda Tamás-Tarr

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Prosa ungherese

Éva Janikovszky (1925–2003)A ME SUCCEDE SEMPRE QUALCOSA

(Velem mindig történik valami)– Frammenti (6) –

A Bimbo è successo che la zia amministratrice, il cuimarito è un macellaio, è venuta per due giorni di filaa fargli la visita portandogli delle ossa, poi il terzogiorno si è portata via il Bimbo e al suo posto ci haportato un’anatra. Però non viva.Ormai so che era del tutto inutile essere l’amico piùfedele di Bimbo, visto che ha addirittura scodinzolatomentre lo portavano via e non si è nemmeno giratoper vedere chi aveva dato per lui le proprie mancette.

A Tarka invece è successo che l’hanno riconosciutanel parco anche se non era apparsa in tivù. Ma dueragazzi vedendola si sono messi a gridare "ma guardalà, quella è la Komis, la cagna del pasticciere" e allorala Tarka voleva subito strappare dalla mia mano ilguinzaglio, come se il nome Komis fosse più bello.

E di sera ci è anche venuto il pasticciere a prenderla eappena le ha fatto un fischio lei è corsa giù da lui atutta velocità. E non ci ha portato nemmeno unpasticcino, ma comunque non importa, noi abbiamo acasa sempre le caramelle. E quando riceverò di nuovodelle mancette comprerò a Pacitaci dei wurstel.

Abbiamo già ricevuto la pagella e abbiamo anchechiuso l’anno scolastico per paura che rimanga apertomentre noi andiamo fare le vacanze. E poi abbiamofesteggiato la mia pagella e abbiamo festeggiato lapagella di Bori come pure anche il fatto che la vicinaha scambiato casa con la famiglia di Gábor.

Io sono tanto contento che la famiglia di Gábor vienead abitare qui, perché così papà potrà vedere che nonsono l’unico a cui succede sempre qualcosa, maanche agli altri.

Quando loro hanno sistemato tutto e Gábor non hapiù dormito da noi ma da loro, mio papà ha detto cheora vuole qualche giorno di riposo, per cui ci metteràsul treno dato che fa bene anche ai nonni un po’ digioia, ma non vuole poi sentirli lamentarsi di noi.

Io gli ho promesso che non sarà così, perché la mianonna non è mica una tipa così lamentosa.

(Fine)

Traduzione di © Éva Gács- Tavagnacco (Ud) -

Sándor Lénárd (Budapest, 1910 - Brasile, 1972)STORIE ROMANE

1938

A volte il sole splende per giorni interi. Passeggiandoper il Pincio persino il povero senzatetto si rammaricaper quelli che non possono godersi la bellezza dellacittà – della Città. E’ stato forse Schiller a scrivereun’ode invidiosa dei mendicanti romani? Ringrazio aloro nome.Tutto sommato ho una casa. Grazie alla signora Elsapasso gran parte del giorno nell’appartamento di Viadella Vite dormendo nel letto di Aldo o in quello diPietro. Pietro sta poco a casa, è già in trattative conl’Opera e il suo nome, sebbene solo a caratteri piccoli,è comparso già su uno o due manifesti. Talvoltadormo dal mattino fino a mezzogiorno, il pomeriggioda Kulcs, di sera di nuovo qui – e penso che possadurare così in eterno. Soltanto da mezzanotte alle seidel mattino ho dei dubbi sul mio tipo di vita.Aldo mi aggiorna fedelmente sulla lotta perl’autarchia. In generale la parola lotta è parteindispensabile di questa e di tutte le attività.Seminare, raccogliere, erpicare e arare: la battagliaper il grano. Allattare e lavare i pannolini: battaglia

per il bambino. Si fermerebbero gli attrezzi dascrivania del ministero senza lotta, senza raduni sottoil vessillo, senza attacco e vittoria. Manifestiproclamano: andiamo in guerra contro le mosche!Il lavoro è indisturbato solo nella zona tra Teruel eBarcellona: i legionari ripuliscono le colline,organizzano le postazioni, collaborano con la guardiamarocchina.La prima vittoria della lotta senza quartiere perl’autosufficienza: dalla caseina è stato prodotto un filoresistente. L’Italia ha bisogno di lana – invece diprodurre formaggio filano il latte. "Cannoni o burro?"– domandava Goebbels. "Formaggio o pantaloni?" –tuonano gli Aldo. Dal profumato Belpaese si possonofilare camicie, anzi, camicie nere. Illustrazione: laprima camicia nera fatta col formaggio.Il Parmigiano sarà orgoglioso per aver contribuito – ilprezzo scatterà da una lira e venti a due lire. Articolioscuri minacciano gli speculatori.D’altronde a che serve il formaggio? Abitudinedecadente, stile borghese. Il fascista si nutre dicarboidrati. Mangia zucchero. Che si può ottenere,grazie al benedetto acido solforico, persino dal legno.

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ANNO IX. NN. 45/46 ============ OSSERVATORIO LETTERARIO ============LU.-AGO./SETT.-OTT. 2005

E se ci sono pochi alberi – in Italia sono pochi i boschi– ecco la lana della buona pecora nazionale. Dallalana e dalla resina artificiale si può comporre unmateriale che sostituisce perfettamente il legno deimobili. Illustrazione: vero violino cremonese fatto conla pressa.Immedesimatevi nel mistero dell’autarchia,echeggiano tutti i giornali. La lingua italiana siarricchisce di nuove espressioni: finora la robaccia eradefinita "per uso familiare". Ora c’è di peggio: tipoautarchico¹.Grazie alla lotta per l’autarchia ho potuto imparare aconoscere il mondo interiore del mio barbiere e siamodiventati molto amici. Anche lui ha avuto un’idea: Mipiace la musica – ha detto, guardando il violino -, epiù di tutto mi piace "Giovinezza". Vorrei sentirlasuonare su questo violino.E guardandomi profondamente negli occhi haaggiunto: - La corda del sol la strizzerei dalle budelladel Duce!Non saprei elencare gli oggetti fatti con la pelle diconiglio, con le patate, con la farina delle nocciole,perché dedico il mio tempo a Sommer.Alla Società Britannica della Bibbia abbiamo trovatouna Bibbia norvegese e dalle visioni di Giovanniproviamo a tirare fuori quegli elementi grammaticaliche potrebbero tornare utili per un dentistaungherese che parte su una baleniera.Sommer mette in un magazzino il trapano, perché insegreto spera di poter tornare. Regala gli oggettipiccoli: a me la siringa, una scatola di novocaina,acqua distillata, un vecchio stetoscopio, un paio diampolle di calcio, e mi domanda:Vuoi il mio misuratore di pressione? Non posso micaportare questa grossa scatola alla fine del mondo!?Un pensiero attraversa il mio cervello assonnato:"Forse è Sommer la persona, di cui ha parlato lazingara? Forse questa scatola diventerà la mia casa?"Potrei provare ad offrire di misurare la pressioneporta a porta! La misurerei per una lira e cinquanta.Se trovo dieci persone, riesco a sopravvivere. Maanche con cinque. Con tre ho casa. Torno nella felicecomunità di quelli che dormono in un letto!Dammelo, ti pagherò con i verbi irregolari!Al Ponte S. Angelo una vecchia vende semi digirasole. Ha davanti a se trenta buste di semi –questo è il suo negozio. Di notte dorme in un letto. InPiazza Bernini un uomo tiene un tavolino con uncacciavite, un pacco di ovatta e una boccetta dibenzina. Lo vedo da settimane ed è ancora vivo. Vivecon la ricarica e riparazione di accendini. Con unascatola nera, una manica di gomma e un tubo con ilmercurio si può sopravvivere senz’altro. Pietro, ilcalzolaio abruzzese, sta diventando il barbiere diSiviglia – ed io forse sarò promosso a misuratore dipressione romano.Nella scatola nera potrei vedere anche il necessariomiracolo: la cura del signor Kulcs è terminata. Cisalutiamo commossi. Oddio, lui è abituato ad essere

abbandonato dai clienti. Ha perso l’abitudine di dire:arrivederci.Guardo felice il tesoro. Nessuno ha passato delle orecosì felici, voluttuose sulla sedia da dentista diSommer come quelle che ho passato io. Due notti hopotuto trascorre lì. Così, sognando, mi preparavo allanuova professione.Sono pronti i documenti di Sommer – la navenorvegese arriva a Civitavecchia – ma luiall’improvviso ci ripensa. Non parte. Non può. E’ quida anni, ama il vino di Frascati, la pastasciutta, lacupola di San Pietro, i pazienti, il trapano – labambina piange da giorni e giorni. Detesta i verbiirregolari norvegesi. Devo restituire l’apparecchio. Checi vada Gyurka Molnàr, lui resta.Quel giorno a Parigi un ebreo polacco pronto a tuttospara ad un impiegato dell’ambasciata tedesca.Finalmente i tedeschi hanno il pretesto per mettere inmoto il pogrom organizzato con la precisione di unorologio. Incendiano con puntualità, distruggonocome da progetto, uccidono secondo elenco. C’è statoil tempo quando un uomo ha sofferto per colpa dimolti. Ora non è sufficiente il numero di quelli chesoffrono per colpa di uno. L’umanità impara unanuova lezione: quella delle stragi elaborate negli ufficisu carta e con matita. Finora al massimo un singolouomo uccideva a sangue freddo – le masse lofacevano solo condotte dalla passione. Facciamoprogressi.Il giorno dopo Sommer e Gyurka Molnàr partono perCivitavecchia.Ed io parto coraggioso, cerco il sangue, la cuipressione potrei misurare.Ho fortuna. La seconda o la terza porta si apre. Laapre un vecchio grasso. Misura la pressione? Volevofarmela misurare proprio ora. Troppo alta. Vengapure. La pressione è a centocinquanta. Il mio paziente– se posso chiamarlo così – è felice.La volta scorsa era centoottanta.Aspetti, non andrebbe da un mio amico qui vicino? Hatempo? Lo chiamo, la annuncio.Quanto? Due lire? Benissimo².Anche l’amico paga, anche lui mi raccomanda ad unaltro. Il nuovo paziente zoppica. Che cosa ha?Sciatica.Nient’altro? Possiamo guarirla.Ho con me tutta l’eredità di Sommer: gli aghi, lesiringhe, la novocaina. Con l’acqua al 4 percento ladiluisco a metà. Scelgo l’ago più lungo. Dove fa male?Si metta sdraiato. Vado in fondo fino ad un nervo,inietto la soluzione. Si alzi. Fa male ancora? Non famale!Tutto è stato tanto veloce che il paziente quasi non cicrede. Non è un imbroglio? Non torna il dolore? Noncredo – dico – ma male che vada torno e lorifacciamo.Quanto devo?So che è questo il momento adatto: devo pronunciareun numero rapidamente, con calma.

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Raccolgo il coraggio e dico con decisione: trenta lire.Il paziente infila la mano in tasca. "Oddio – penso – avrei potuto dire anche cinquanta!Non importa. Stasera dormirò in un letto!"Continuo come un fortunato giocatore di carte. Alpomeriggio ho in tasca più di quaranta lire. Per oggibasta. Vado dal barbiere che mi è diventato talmenteamico da concedermi un debito di tre lire. Parliamo.Sa di una stanza qui vicino? Oppure di un letto?Figaro sa tutto.Come no! A due passi, nel palazzo vicino al mio.Conosce Via della Rapa? Gira lì, poi a destra, dritto edi nuovo a destra. Il numero civico quindici, primopiano. Per trenta lire danno un letto. Una bravadonna, la conosco.Parto già come un nuovo Archimede: dammi un lettodove dormire e sposterò il mondo!Le strade indicate mi portano nella Roma di alcunisecoli fa. Primo piano. Il campanello è attaccato aduna catena. Qui danno un letto. Proprio qui.Nell’ingresso, o meglio nello sgabuzzino che dàsull’ingresso e che è separato da una tenda. Questa volta non guardo la padrona di casa, ma suamaestà il letto. Un vero letto. Ha quattro gambe diferro, un materasso e sopra una coperta. Guardocome Sommer la locomotiva norvegese.Ha bagagli?Poi porto la valigia.Ha il documento della polizia?Certamente…Professione?Dico con orgoglio e sicuro di me: Specializzato inmisurazione della pressione.Vedo che fa una buona impressione. Ora comincio iocon le domande:Lenzuola?No. Ma può portarle.Lavabo?Non c’è ma ci si può mettere d’accordo con la famigliadi fronte. Se tiro la tenda e sto sul letto, posso restareanche durante il giorno. Oltre a me c’è un altroinquilino: Mario. Impiegato statale, lavora in un ufficiodi fronte a Sant’Andrea della Valle. Le trenta lirevanno anticipate.Cerco di imitare il gesto pieno di dignità di Amadeo.Ecco. Stasera verrò con il bagaglio. Lascio qui ilmisuratore di pressione. Ci faccia attenzione. Ha uncerto valore, è insostituibile!A Via della Vite racconto di aver trovato un alloggioappropriato. La signora Elsa e Francesca sonosinceramente contente. Anche Pietro se ne va –nell’ultima settimana il suo nome è cresciuto di uncentimetro sui manifesti: ha ricevuto un contratto. Vaad abitare accanto all’Opera. Aldo mi chiede di darglidue lezioni di tedesco alla settimana: la sua carriera alministero dipende da questo. Tra dieci anni qui non sipotrà avere una posizione importante senza laconoscenza del tedesco. In pagamento mi offre unpaio di pantaloni. Le ginocchia sono perfette. Accettocontento il contratto, so quanto è importante, nella

professione libera, non far vedere il ginocchio destroattraverso i pantaloni.Il letto – come il figliol prodigo – mi riceve conbenevolenza.Mi sveglio dopo mezzanotte: penso come sarebbe oragirare sulla circolare traballante per Roma… ascoltarei rintocchi dei campanili…se comincia la pioggianotturna… e mi addormento felice, come un bambinosul seno della madre.Mi sveglio alle otto. Sono in un letto. Sono tornato.

In italiano nel testo² In italiano nel testo

Traduzione di © Andrea Rényi- Roma -

Melinda Tamás-Tarr — FerraraFIABA DELLA SERA: LEGGENDE POPOLARIUNGHERESI…

LA CONQUISTA DELLA PATRIA I Magiari furono costretti a partire dall’Etelköz*,luogo in cui avevano fatto il patto di sangue, pertrovare una nuova patria. Essi erano circondati da duepopoli battaglieri: ad occidente dai Bulgari chevivevano sulla riva del basso Danubio, ad orienteinvece dai Peceneghi. Con quest’ultimi avevano giàfatto la guerra a Levédia. I Magiari non erano riusciti adifendersi contro di essi, nonostante che con il pattodi sangue la loro forza fosse aumentata notevolmente.Perciò abbandonando l’Etelköz, il capo dei Magiari,Álmos, condusse il suo popolo - guerrieri, donne,bambini - fino alle catene dei Carpazi. Qui egliconsegnò il potere a suo figlio, il principe Árpád cheguidò i Magiari, conquistatori della patria, nel territoriodell’Ungheria attuale. Tanti popoli si trovavano nelbacino dei Carpazi prima della conquista della patria;tra essi i più numerosi erano i Moravi, i Bulgari, gliÁvari e gli Slavi. Secondo le leggende il principe Árpád inviò un cavallobianco con una sella dorata e con una briglia decoratacon diamanti in dono al re dei Moravi. Il re moravogradì molto i regali del principe Árpád e disse al legatomagiaro: «Rispetto il tuo capo, devi dirgli che ho gradito i suoiregali. Ne deduco che egli vuole essere il mio servoobbediente.» «Lo riferirò, signore.» sorrise il legato. Ma dopo brevetempo egli ritornò. «Che cos’hai portato di nuovo?» s’incuriosì il re deiMoravi. «Un messaggio dal capo dei Magiari. Egli dice disparire dal tuo paese perché tu l’hai venduto?!» «Come mai l’ho venduto?!» «Eh, sì, l’hai venduto. Noi l’abbiamo comprato incambio del cavallo bianco dotato della sella dorata edella briglia decorata con i diamanti.»

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Il re dei Moravi s’arrabbiò e rispose: «Farò uccidere quel cavallo bianco, farò buttare lasella dorata nel fiume e farò nascondere la briglienell’erba.» «Non fa niente. La carne del cavallo ucciso saràmangiata dai nostri cani, la sella dorata lapescheranno i nostri pescatori e la briglia con idiamanti la troveranno i nostri soldati.» Allora il re fece suonare il corno ma non ottenneniente. Anzi, il suo esercito fu cacciato via dai Magiariin un attimo come un forte vento avrebbe fatto con lapaglia. Dopo questo episodio Árpád inviò ricchi doni al re deiBulgari. Anche questi fu molto felice per i regali offertida Árpád e chiese al legato magiaro: «Che cosa dovrei dare in cambio?» «Il mio capo non vuole niente, soltanto una broccadell’acqua dolce del Tibisco, un pugno di terra delcampo e d’erba del prato.» rispose il legato. «Che modesto il tuo padrone, l’ospiterei moltovolentieri!» rispose il re bulgaro. Si meravigliò molto il re dei Bulgari quando perrisposta i Magiari si presentarono come ospiti conl’intero esercito armato di spade e di clave. «Che cosa volete?» chiese spaventato. «Vogliamo la tua patria! Ci hai mandato in pegno unpugno di terra, uno d’erba ed una brocca d’acqua.»risposero i Magiari. Árpád con i suoi guerrieri conquistò il Paese: nellabattaglia di Alpár vinsero contro i Bulgari. Árpád non assicurò soltanto la terra al suo popolo,ma diede ad esso anche le leggi che poteronorafforzare la nuova patria. Alla pianura di Pusztaszer**fu organizzata la prima assemblea magiara (cheprecedette il Parlamento) in cui fu diviso il territoriodel bacino dei Carpazi secondo i meriti deiconquistatori della Patria. Árpád ed i suoi successori assoggettarono quindi lapopolazione che, insieme con i Magiari, si mise acoltivare la terra, a pascolare le mandrie oppure apescare ed a cacciare nelle regioni in quel tempocoperte di boschi, ricche di pesci e di uccelli acquatici,mentre una casta di combattenti cercava la fortunanelle spedizioni militari che procuravano bottini. Iveloci cavalieri ungheresi che combattevano con lefrecce fecero la loro comparsa dappertutto in Europa,dai Pirenei all’Impero Bizantino, o come alleati deiprincipi dell’Europa occidentale, oppure solo perraccogliere prede. I Magiari fecero scorrerie adottandoun orrendo modo di combattere e terrorizzando tuttal’Europa. I cavalieri al galoppo fingevano di fuggirepoi, volgendosi indietro sulla sella, scoccavano freccemortali. I loro archi particolari tiravano le frecce acentinaia di metri. Nelle chiese dell’Europa occidentalesi sentiva spesso la preghiera: «Dalle frecce deiMagiari salvaci, oh, Signor!» Questi feroci cavalierinon risparmiarono neanche l’Italia: attraversando lapianura Padana travolsero Berengario*** e dopopochi mesi si ritirarono lasciando lo stesso ricordodegli Unni.

A porre fine alle loro scorrerie furono due sconfitte,per opera della cavalleria tedesca negli anni 933 e955, rispettivamente a Merseburg e ad Augsburg.

*Etelköz: il territorio esteso tra il basso Danubio ed il Don.**Pusztaszer: luogo storico dell’insediamento di Magiariconquistatori della Patria sulla Grande Pianura Ungherese,sulla «Puszta», tra il Danubio e Tibisco.***La battaglia con Berengario I si svolse a Tebbia il 24ottobre 899.

Elaborazione in italiano © di Melinda Tamás-Tarr

Fonte: Da padre a figlio I-II vol. di Melinda Tamás-Tarr,Edizione O.L.F.A., Ferrara, 1997/2002/2003, Versionedigitale: http://mek.oszk.hu/00800/00868/index.phtml

Saggistica ungherese

ASPETTI GENERALI DELLA CULTURAUNGHERESE

- A cura di Melinda Tamás-Tarr -

EVENTI STORICI-POLITICI E CULTURALIDELLA SECONDA METÀ DELL'OTTOCENTO

II.La rivoluzione e la guerra d'indipendenza del

1848/1849

Quando Ferdinando V aprì, nel novembre del 1847,la Dieta di Pozsony (Bratislava nell'attuale Slovacchia),nessuno poteva supporre che gli stati d'Ungheria sistessero riunendo per l'ultima volta.

Le speranze dei sostenitori dell'instaurazione di unasocietà borghese erano più che mai vive, tanto piùche avevano la maggioranza - debole, ma indiscutibile- alla Camera bassa e che il loro portavoce era LajosKossuth - eletto per la prima volta alla Dieta - il cuiprestigio non poteva essere uguagliato sul versantedei conservatori. Alla Camera alta, parecchiepersonalità influenti - compreso il conte LajosBatthyány, presidente del partito di opposizione -affermavano nei loro discorsi, di fronte a unamaggioranza conservatrice, la necessità delcambiamento. Ma invano. Col passare del tempo, isegni premonitori dello scacco finale dell'opposizionesi moltiplicavano. Anche il problema più pressante,l'abolizione completa e definitiva della servitù allagleba, non era ancora regolato in modosoddisfacente. L'autorizzazione del riscatto dalleprestazioni servili (1840) nella maggioranza dei casirimase lettera morta, tanto più che i servi alla glebache potevano disporre delle somme necessarieall'affrancamento dalle prestazioni signorili erano ineffetti poco numerosi. Inoltre, i dibattiti dei primi mesi

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non portarono risultati concreti non solo per laresistenza dei conservatori, ma anche a causa dellamancanza di unità e di fermezza da parte dei liberali. La maggior parte dei medi proprietari, che soffrivadi una penuria di danaro cronica, non potevaaccettare la liberalizzazione dei suoi servi alla glebasenza una contropartita e senza trovare un sistemache permettesse loro di compensare quella perdita.L'introduzione di una politica economica favorevole ingrado di stimolare lo sviluppo dell'industria e dideterminare, conseguentemente, una rapida crescitadel mercato interno avrebbe offerto nuove possibilitàper i prodotti agricoli. Ma una tale soluzione sarebbestata impensabile fino a quando i liberali non avesseroassunto la leadership della politica interna, assicuratisiil consenso delle masse contadine attraversol'affrancamento dei servi della gleba, e non avesseroconquistato il potere amministrativo. La situazione cambiò completamente nel marzo del1848. Dopo avere sommerso mezza Europa, l'ondatarivoluzionaria penetrò nell'impero degli Asburgo eraggiunse Vienna il 13 marzo. Nei giorni successivi,diverse manifestazioni rivoluzionarie ebbero luogo aPest, a Milano, a Venezia. Questa svolta imprevistapermise ai liberali ungheresi, anche senza assicurarsil'appoggio preliminare delle masse contadine, ditentare di prendere le redini nell'ambito degli affariinterni del paese. Kossuth e i suoi seguaci nonmancarono di approfittare della contingenzafavorevole: il 15 marzo inviarono a Vienna unadelegazione della Dieta, che rientrò dopo due giorniportando l'atto di nomina del conte Lajos Battyánycome capo del governo e con la promessadell'imperatore di non approvare qualunque propostadi legge che la Dieta gli avesse sottoposto nei giorniseguenti. I capi dei liberali erano consapevoli della necessità diagire rapidamente per conquistare le simpatie delleclassi rurali, benché l'andamento della situazionepermettesse loro di non tenerle in nessun conto. Cosìla Dieta si pronunciò il 15 marzo a favore deldefinitivo affrancamento dei servi della gleba erovesciò a carico del Tesoro reale l'onere delrisarcimento a favore dei proprietari terrieri. Talepresa di posizione in realtà non subì alcun ritardopoiché continuava ad aumentare l'influenza deiradicali, riuniti a Pest attorno al poeta Sándor Petőfi.Per indurre le masse a fare pressione sulla Dieta, essidiedero un tono estremamente radicale allerivendicazioni di programma liberale conosciute sottoil nome di Dodici Punti della Gioventù di marzo. (Varicordato, a titolo di esempio, che l'articolo col qualerivendicava l'abolizione completa e definitiva dellaservitù della gleba non faceva cenno in alcun mododell'eventuale compensazione, anche da parte delTesoro reale, dei signori terrieri). Quando la notiziadella rivoluzione di Vienna arrivò a Pest, Petőfi ed isuoi amici mobilitarono nello spazio di poche ore lemasse urbane e le decine di migliaia di contadinivenuti a Pest per la fíera di San Giuseppe e fecero

stampare, senza la preventiva autorizzazione, i DodiciPunti e il Canto nazionale (Nemzeti dal), poema diPetőfi caratterizzato da un ardente patriottismo cheimponeva la libertà di stampa; i radicali in seguitocostrinsero il Consiglio municipale e il Consiglio diLuogotenenza ad accettare le loro rivendicazioni. Allafine ottennero con la forza la liberazione immediata diMihály Táncsics, un radicale imprigionato da più di unanno per aver preso le parti dei contadini. Dopo i nuovi avvenimenti di Pest, la Dieta decise, il18 marzo, che i servi della gleba dovessero essereaffrancati senza alcun indugio dalle prestazioni afavore dei signori terrieri anche se il risarcimento sifaceva attendere. Tale decisione, che aveva unaimportanza rilevante per la situazione concreta delprogramma, fu seguita da tutta una serie di leggi chedelineavano i contorni del cambiamento: creazione diun corpo legislativo rappresentativo, responsabilitàdel governo davanti al parlamento, autonomiadell'amministrazione interna, uguaglianza dei nobili edei contadini davanti alla legge, abolizione dellacensura, creazione di una guardia nazionale,partecipazione di tutti i cittadini alle cariche pubbliche,soppressione della decima ecclesiastica, riunionedell'Ungheria e della Transilvania, etc. Per mezzo delleleggi adottate, la Dieta creò così le condizioni perriunire le fasce sociali più diverse della societàungherese e compattarle verso l'instaurazione di unasocietà borghese e verso lo sviluppo del paese.

Dopo la chiusura dell'ultima Dieta della storiaungherese, i ministri del governo Batthyány sidedicarono ai rispettivi impegni con la convinzione chel'applicazione delle leggi di marzo non avrebberoincontrato alcun serio ostacolo. Furono costrettituttavia ad abbandonare ben presto il loro ottimismoe ad ammettere di avere sottovalutato le mirecontrorivoluzionarie di Vienna. Benché fosse costrettaa cedere, la corte conservava intatto il nucleoessenziale del suo potere - comprese le forze armate- e non era affatto disposta a rassegnarsidefinitivamente al cambiamento di marzo.

È anche vero che adesso il movimentoantiasburgico in Ungheria era molto più forte diquanto non lo fosse stato alla fine del Settecento,cosicché anche la corte non poteva immaginare diridurre il paese a uno stato di soggezione pari aquello precedente. L'Ungheria, da parte sua, nondisponeva ancora della forza necessaria almantenimento duraturo dell'autonomia amministrativache aveva strappato nel marzo del 1848 solo perl'eccezionale coincidenza di circostanze estremamentefavorevoli. Le difficoltà momentanee degli Asburgomascheravano il pericolo di un nuovo intervento: lemigliori unità dell'esercito imperiale erano occupate areprimere le province dell'Italia settentrionale che sierano sollevate, mentre la stessa Vienna eraminacciata da sussulti rivoluzionari. Tali incidenti,comunque, erano lontani da indurre la corte adaccettare lo status quo con l'Ungheria: unaconferenza segreta decise che la corte avrebbe

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dovuto continuare a dare segnali d'amicizia algoverno Batthyány, aspettando il momento favorevoleper mettere l'Ungheria al passo. Le difficoltà alle quali il governo Batthyány dovevafar fronte non cessarono di moltiplicarsi. La questionecontadina si pose di nuovo in maniera pressante.Dopo le calorose testimonianze di riconoscenzaseguite all'abolizione della servitù della gleba, icontadini reclamavano ora la soppressione dei pesi -che non erano dei pesi signorili veri e propri, ma cheessi erano pur sempre obbligati a rispettare - incambio dell'uso delle terre non servili il cui regime nonera stato in alcun modo modificato dalla Dieta diPozsony. Le loro rivendicazioni si accompagnaronospesso al rifiuto dei servizi collettivi e perfino altentativo di occupazione delle terre. II governo, però,non poteva assumersi la responsabilità di fare dellenuove concessioni ai contadini imponendo nuovicarichi al Tesoro reale, tanto più in quanto eraevidente che, a causa dell'insufficienza dei mezzifinanziari disponibili, l'indennizzo per l'abolizione delleprestazioni signorili si prolungava molto più delprevisto, cosa che scoraggiava notevolmente lanobiltà terriera. I capi della rivolta, dunque, opposeroalmeno temporaneamente un rifiuto categorico allerivendicazioni contadine, correndo il rischio, in talmodo, di compromettere nel tempo l'alleanza dellanobiltà liberale con le classi rurali.

II problema più pressante, però, era quello dellenazionalità. Accogliendo con entusiasmo le conquistedi marzo, i politici liberali e radicali delle minoranzeetniche reclamarono dalle prime settimane dellarivoluzione l'uguaglianza nazionale delle popolazioninon ungheresi. II governo era pronto a soddisfare leloro rivendicazioni di ordine culturale o ecclesiastico,ma si rifiutava di riconoscere le etnie non ungheresicome nazioni propriamente dette e di far diventare iloro idiomi lingue ufficiali dei territori abitati dalleminoranze stesse. Di fatto, pur essendo statiinizialmente sostenitori del cambiamento, i politicidelle minoranze nazionali - o almeno la maggior partedi essi - finirono poi con l'opporsi alla rivoluzioneungherese. Poiché essi non esitavano a fare causacomune con i contadini, beneficiarono ben presto delsostegno delle masse rurali, in particolare per il fattoche lo statuto dei contadini-soldati della Frontieramilitare, croati, serbi e romeni, non era statomodificato dalla legge di marzo che aveva affrancati iservi. Questi, dunque, ben presto fecero eco ai motinazionalisti scatenati dai politici. La situazione siinaspriva in modo irrimediabile: in giugno i serbidell'Ungheria meridionale presero le armi contro larivoluzione ungherese, seguiti in autunno dai croati,dagli slovacchi e dai romeni. L'aggravarsi del problema delle nazionalità avevacostretto il governo a cominciare, dal mese di maggio,il reclutamento di unità annate - battaglioni di honvéd("difensore della patria", soldato che serviva sotto labandiera ungherese e non nell'armata austriaca) - per

difendere le conquiste della rivoluzione e per metterein piedi rapidamente un esercito nazionale. La posizione degli Asburgo, in realtà, si erariaffermata in maniera considerevole durante l'estate:all'inizio di agosto l'esercito imperiale era riuscito asoffocare la rivolta in Lombardia, mentre la corte,attraverso instaurazione in Austria di un regimeparlamentare e per mezzo di altre concessioni dellostesso genere, era arrivata a neutralizzare e persino ariportare sulle proprie posizioni la borghesia austriaca- ancora rivoluzionaria nel mese di marzo - cheguardava anch'essa con inquietudine alla secessionedegli ungheresi. In tal modo, per gli Asburgo fupossibile nell'agosto 1848, prendere in considerazioneun intervento armato in Ungheria. Alla metà di agosto, anche gli elementi più moderatidel governo Batthyány furono costretti ad accettareciò che solo Petőfi e pochi altri radicali avevanoprevisto da molto tempo, che cioè il paese era sulpunto di scegliere fra una temibile alternativa: odover rinunciare al contenuto essenziale delleconquiste di marzo o prendere le armi per difendersi.Batthyány diede vita, pertanto, a un ultimo tentativoper placare le controversie e in tale ottica si recòpersonalmente a Vienna con l'intenzione di porre unaseria limitazione alle competenze del governoungherese, se non si fosse riusciti altrimenti a evitarelo scoppio della lotta armata. Batthyány propose, in particolare, la soppressionedei ministeri ungherese e austriaco della Guerra edelle Finanze e la creazione del ministero comuneaustro-ungherese, cosa che d'altronde corrispondevaall'equilibrio delle forze delle due parti. La corte, però,non era affatto disposta ad accettare deicompromessi più di quanto non lo fossero stati iliberali ungheresi nel momento di maggioreentusiasmo delle giornate di marzo. Batthyány rientròdunque a Pest a mani vuote, il 10 settembre;l'indomani, le unità dell'esercito imperiale chestazionavano in Croazia invasero l'Ungheria alcomando del generale Jelačić, bano di Croaziaassolutamente devoto agli Asburgo. La nobiltà liberale, che aveva accettato l'abolizionedella servitù della gleba solo con la speranza diconquistare l'autonomia di governo, non tardò arilevare la sfida. Dopo le dimissioni del governoBatthyány, la prima Assemblea nazionalerappresentativa riunita nel luglio del 1848 conferì ilpotere esecutivo a un Comitato di Difesa nazionale -presieduto da Kossuth ed essenzialmente compostoda uomini politici radicali - che ben presto si posel'obiettivo di mobilitare la popolazione, in particolarequella contadina, scoraggiata dall'incomprensione delgoverno nel corso dei mesi precedenti. Con grande sorpresa di molti, gli sforzi del Comitatodella Ditesa nazionale furono coronati da successo.Quattro giorni dopo l'invasione dell'esercito di Jelačić,l'Assemblea nazionale decretò che fossero esenti dalladecima i vigneti che non comportavano alcunaprestazione signorile; tale decisione convinse i

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contadini che avrebbero potuto ottenere concessionidi tipo analogo e li indusse a resistere semprefermamente agli invasori. Allo stesso tempo essitemevano, invero senza una vera ragione, che lavittoria della controrivoluzione avrebbe comportatonon soltanto la mancanza di nuove misure rivolte adampliare il raggio delle libertà contadine, ma anchel'abrogazione delle leggi di marzo relativeall'abolizione della servitù della gleba. Inoltre leespressioni che esaltavano il sentimento nazionale,alle quali fino a quel momento avevano fatto eco sologli uomini politici, questa volta vennero riprese dallemasse contadine; queste diedero loro credito quandovidero che gli abitanti non ungheresi del paese eranoprimi a prendere le armi contro la rivoluzioneborghese. Grazie al successo della campagna dimobilitazione, gli eserciti rivoluzionari fermarono letruppe di Jelačić vicino a Pákozd, il 29 settembre; lemigliori unità dell'armata imperiale, però, penetraronoanch'esse in Ungheria a metà dicembre, al comandodel principe Windischgrätz e si spinsero fino a Pest eBuda e anche fino a Kolozsvár (Cluj nell'attualeRomania). Malgrado questi rovesci, la resistenza eralungi dal crollare: rifugiato nella città di Debrecen, ilComitato di Difesa nazionale si impegnòenergicamente a mettere in piedi gli uni dopo gli altri inuovi battaglioni di honvéd. Le operazioni assunseropresto un nuovo corso: l'armata di Transilvania,comandata dal generale polacco Joseph Bem, sferròl'offensiva dalla fine di dicembre e inflisse pesantisconfitte agli imperiali, da Csucsa fino a Nagyszeben,passando per Piski, liberando in meno di tre mesi laquasi totalità del territorio transilvano. Verso la finedel 1849, il grosso delle forze ungheresi riunite adEger al comando del generale Görgey si mise inmarcia contro il nemico; dopo le clamorose vittorie diHatvan, Tápióbicske ed Isaszeg - e dopo aver cacciatogli imperiali dalle regioni situate fra il Danubio e laTisza - l'esercito di Görgey continuò ad avanzare sullariva sinistra del fiume, liberando le fortezze diKomárom, circondata dal mese di dicembre, ecostringendo gli imperiali a lasciare Pest senza colpoferire e a ripiegare fino alla frontiera occidentale. Nondimeno, la campagna vittoriosa di primaveracondusse ad un indebolimento della rivoluzionepiuttosto che al suo rafforzamento; il fatto chel'esercito ungherese avesse respinto il nemico senzaessere però riuscito a infliggergli un colpo decisivo,mostrò agli occhi di tutti che, a causa dell'equilibriodelle forze, nessuno delle due parti belligeranti eracapace di avere ragione sull'altra per poter imporre lasua volontà. Tale evidenza portò la nobiltà liberalesulle posizioni di Görgey e persuase l'ala destradell'Assemblea della necessità di cercare uncompromesso con gli Asburgo. I radicali, così come iliberali moderati, avevano un bel mettere in guardiadicendo che non c'era per il momento nessun segnoche indicasse la disponibilità della corte a negoziare eche gli sforzi di riconciliarsi avrebbero potuto portaread una via senza uscita, la gran maggioranza dei

liberali persisteva irremovibilmente nella convinzioneche le vittorie riportate fino a quel momentodall'esercito ungherese potessero servire da solitabase per l'apertura di trattative di pace fruttuose.

Quando il giovane Francesco Giuseppe I salì altrono, il 2 dicembre 1848, concesse ai popoli del suoimpero una "costituzione" assolutista, che inquadraval'Ungheria, la Transilvania (di nuovo staccatadall'Ungheria), la Croazia e la Frontiera militare, tra leprovince ereditarie e le privava di ogni realeautonomia. L'Assemblea nazionale ungherese diedeuna risposta ambigua a questo atto d'arbitrio: da unaparte, su iniziativa di Kossuth e sotto la pressionedelle folle mobilitate a Debrecen dai radicali, essaproclamò la detronizzazione della casa d'Asburgo-Lorena e l'indipendenza completa dell'Ungheria difronte all'Austria, inoltre elesse Kossuth presidente-governatore del paese; dall'altra privò Kossuth delpotere esecutivo per affidarlo al governo presiedutoda Bertalan Szemere, composto interamente daelementi reclutati fra la maggioranza disposta alcompromesso. I seguaci più devoti e più coerenti del cambiamentoguardavano con crescente inquietudine l'evoluzionedella situazione interna. Molti tra loro finirono perconcludere che non si potesse sperare in una svoltafavorevole come quella del settembre del 1848 se nonnel caso in cui la rivoluzione fosse riuscita ad allargarele sue basi, ma ciò presupponeva in primo luogo unasoluzione soddisfacente del problema contadino edella questione delle nazionalità. Fra le massecontadine serpeggiava un grave malcontento, inquanto si erano rese conto che mentre gli austriaci -poco desiderosi di attirarsi l'odio di parecchi milioni dicontadini - non pensavano di rimettere in discussionel'abolizione della servitù della gleba, al contrario lanobiltà che guidava la rivoluzione si rifiutava dicontinuare sulla stessa strada intrapresa con lasoppressione della decima sui vigneti nel settembredel '48. Così parecchi radicali proposero all'Assemblea, nellaprimavera i 1849, di votare senza esitazionil'abolizione dei pesi feudali ai quali i contadini eranoancora soggetti; il più radicale fra di essi, MihályTáncsics, arrivò fino al punto di chiedere, fra maggioe giugno, l'esproprio delle terre che superassero iduemila acri di terra per dividerli fra gli indigenti.Queste iniziative, anche le più moderate, cozzavanocontro la maggioranza liberale e il fardellodell'insoddisfazione dei contadini pesò sempre piùsull'avvenire della rivoluzione. Allo stesso tempo, il problema delle nazionalità sicontinuava a porre con maggiore acutezza: città evillaggi saccheggiati, migliaia di borghesi massacrati,lotte nei territori a popolazione mista, costituivanoaltrettanto orribili testimonianze di passioniesacerbate. Dopo i radicali, anche i liberali finironoper riconoscere la necessità assoluta dellariconciliazione con le altre nazionalità. I commissaridel governo, successivamente, iniziarono dei negoziati

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con Iancu - capo dell'ala sinistra del movimentonazionale romeno e degli insorti romeni diTransilvania (aprile) - con il barone Kušljan, uno deicapifila più influenti dei liberali croati (maggio), e conStratimirović, portavoce dei liberali serbi (inizio digiugno del 1849). Le trattative, però, non raggiunsero alcun risultato,poiché il governo ungherese accettava tutt'al più diaccordare loro l'autonomia dei comuni, mentrecontinuava a rifiutare di riconoscere gli abitanti nonungheresi del paese come individui appartenenti anazioni differenti. I capi liberali della rivoluzioneungherese rimasero sordi alle proposte di AlbertoPálfy, membro dei Giovani di Marzo e di László Teleki,capo storico dell'opposizione alla Camera alta, cheraccoglieva vari elementi provenienti dalla sinistraradicale, i quali sostenevano - dopo la promulgazionedella "costituzione" di Francesco Giuseppe - che il solomezzo di salvare la rivoluzione era il riconoscimentodell'autonomia nazionale (compresa quellaterritoriale) delle minoranze etniche e, pertanto,propugnavano l'instaurazione di una repubblicafederale ungherese. Nel luglio del 1848 si vide, infine, il cambiamentodella politica del governo ungherese nei riguardi delproblema delle nazionalità. Costretto ad emigraredopo che era stata annientata, nell'autunno del '48, larivoluzione in Valacchia, il suo capo più illustre,Balčescu, si recò in Ungheria e negoziò con Kossuthun accordo che riconosceva l'autonomia nazionale deiromeni di Ungheria e permetteva così ai romeni - congrande compiacimento di Iancu - di prendere in manola direzione dei comitati nei quali essi avevano lamaggioranza. Alla fine dello stesso mese, unadecisione dell'Assemblea nazionale accordò gli stessi

diritti a tutte le minoranze nazionali di Ungheria,creando così le basi di un radicale cambiamento neirapporti di forze fra Ungheria e Austria. Ma la rivoluzione ungherese non aveva ormai chequalche settimana di vita. Dopo le sconfitte subitenella primavera del 1849, il governo di Vienna capìche l'Austria non era in grado di sottomettere, dasola, l'Ungheria; tuttavia, nonostante le attese dellanobiltà liberale, il governo, invece di cercare una pacefondata su concessioni reciproche, decise di chiederesoccorso all'armata russa, "gendarme d'Europa". Surichiesta di Francesco Giuseppe, l'immenso esercitodel principe Paskevič penetrò in Ungheria nel giugnodel 1849 per aiutare gli imperiali, il cui comando stavaper essere affidato al generale Haynau, perschiacciare la rivoluzione ungherese. Due mesi piùtardi, il 13 agosto 1849, il principe iniziò il rapportoredatto per lo zar Nicola I con le seguenti parole:«L'Ungheria è ai piedi di Vostra Maestà».

Fonte: «Magyarország története» di Hanák Péter, Budapest,1986.

15) Continua

________L'Arcobaleno________Rubrica degli Immigrati Stranieri in Italia

oppureAutori Stranieri d'altrove che scrivono e traducono in italiano

Daniela Raimondi ― Londra/Sermide

ÉS EKÖZBEN TE

A házadhoz közeli utcákon sétáltam.A levegő tiszta volt. Az ötórai nap szétomlott a hajamközt. A becsukott erkélyeken ragyogott a muskátlikégett-sárga levele.

A kezemmel a falakat simogatva sétáltam, lassan.Utcák mindenféle emlékek nélkül. Történetünk vagy asóhajom közönyös szegletei.A cukrászdákban unott emberek egy-egy csésze forrócsokoládét ittak, ujjaik egy kicsit elszíneződve anikotintól, piszkosan a cukortól és a vaníliától.

E TU INTANTO

Ho camminato nelle strade vicino a casa tua. L’aria era chiara. Il sole delle cinque si scioglieva fra icapelli. Sui balconi chiusi brillava il giallo bruciato deigerani.

Camminavo sfiorando i muri con le mani, piano piano.Strade senza nessuna memoria. Angoli indifferentialla nostra storia, o al mio respiro. Nelle pasticcerie gente annoiata beveva tazze dicioccolata calda; le dita un poco tinte dalla nicotina,sporche di zucchero e di vaniglia.

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Erősen dobogott a fájdalom, hogy ott kellett hagyjalakazok között a dolgok közt, amelyek nem az enyémek.Olyan, mintha én sosem lettem volna én, és az abérház, az a fa, az az öregember az utcán sokkalinkább a te részed lenne, mint az én szememé. Én pedig, mint egy elvetett ötlet.

Én, egy lassú ébredés után.És eközben te, eközben te gondolkodsz, élsz, szobárólszobára haladsz. Te mozgattad volna a karod, a fejedés az ajkaid. Te, anélkül, hogy felismernél ezután. Tefolytattad volna az életed a létezésem, az érzéseim,az értelmem nélkül.

Batteva forte il dolore di doverti lasciare fra cose nonmie. Come se io non fossi mai stata io, e quelpalazzo, quell’albero, quel vecchio per strada fosseropiù parte di te dei miei occhi. Io, come un’idea scontata.

Io, come dopo un lento risveglio. E tu intanto, tu intanto a pensare, a vivere, ascivolare lento di stanza in stanza. Tu che muovevi lebraccia, e la testa, e le labbra. Tu senza più ricono-scermi. Tu che continuavi ad esistere anche senza ilmio esistere, senza il mio sentire, senza il mio capire.

MEGSIMOGATOM MAGAM

Megsimogatom magam a kezemmel.Könnyedén.Ujjaim a hasamon.Megérintem lassan a megfeszült bőrt, amely tégedrejt. A legérzékenyebb bőrt. Belőlem élsz, a véremből és a húsomból. A szívemmel dobbansz. Növekszel. Minden nappal egyre nősz. Ez rémisztő! Rémisztő… Nem is a fájdalom vagy a félelem miatt.Hanem a szorongástól, ami nem hagy élni. Nincs uralmam feletted. Semmiféle uralmam. A létezésed egy szörnyű kín.Magány és félelem.Félek… Félek attól, hogyan fogom magam érezni holnap. Mindenki azt akarja, hogy megszabaduljak tőled. Aztmondják, hogy nincs orvosság. Legalábbis nem az én koromban.Simogatom még magam, lassan. A méhembe kapaszkodva létezel. Nőiességemlegeldugottabb, legtávolabbi, legbecsesebb részében.Te vagy a női mivoltom alapja a zsigerek sötétjében.Egy nő, aki holnap már nem létezik.Egy üres nő.

Az orvos megesküdött nekem, hogy minden rendbenlesz: rutin műtét, mindenféle kockázat nélkül. „Vissza fog térni az életbe. El fogja felejteni.” –biztosított róla. El fogom felejteni, hogy voltál. Hogy a részem voltál,hogy fájdalmasan szívtad el az életem.

Holnap el fognak távolítani a méhemből. Egy maszkaz arcomra, és már vége is lesz. Azt mondták, hogy szükségem lesz lábadozásra, denem nagyon sokáig. Pszichológiai segítségre, erkölcsitámogatásra. Szükségem lesz szeretetre.Szeretetre és belenyugvásra.

MI ACCAREZZO CON LA MANO

Mi accarezzo con la mano. Leggera leggera. Dita sul ventre. Tocco piano la pelle tesa che ti nasconde. La pelle più tenera.Vivi di me, del mio sangue e della mia carne. Batti con il mio cuore. Cresci. Cresci ogni giorno di più. È spaventoso! Spaventoso… Non è per il dolore, o la paura.È che quest’ansia non mi fa più vivere. Su te non ho controllo. Nessun controllo. Il tuo esistere è una terribile agonia. Solitudine e paura.Ho paura… Paura di come mi sentirò domani. Tutti vogliono che mi liberi di te. Dicono che non c’èrimedio. Non alla mia età, comunque.Mi accarezzo ancora, piano piano. Esisti aggrappato al mio utero. Nella parte piùnascosta del mio essere femmina, la più lontana, lapiù preziosa. Sei quel mio essere donna fino in fondo, nel buio delleviscere. Una donna che domani non esisterà più. Una donna vuota.

Il dottore m’ha giurato che andrà tutto bene:un’operazione di routine, senza nessun pericolo. Tornerà a vivere. Dimenticherà – mi assicura. Dimenticherò che c’eri, che eri parte di me, che misucchiavi la vita, con dolore.

Domani ti estirperanno dal mio ventre. Una mascherasul viso, e sarà finita. M’hanno detto che avrò bisogno di convalescenza, manon più del tanto. Di aiuto psicologico, di supportomorale. Avrò bisogno d’amore. D’amore, e di rassegnazione.

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De mit tudnak erről az orvosok! Mit tudhat egy férfi amenstruációról, a terhességről, a mellek és a hasnövekvő rugalmasságáról. Arról a könnyűösszehúzódásról ott lent, belül, amitől nőnek érzedmagad, amitől úgy érzed, hogy élsz?Élsz! Igen, élsz, élsz! A fenébe!

Élsz, mint minden nő, aki az utcán sétál! Egy nő, akitszerethet, és széppé tehet egy férfi! Igen, széppé.Széppé és termékennyé, megfeszült hassal, életteltelve.

Egy élettel teli nő….

Megsimogatlak. Megsimogatlak lassan, utoljára. Mindenki azt mondta, hogy nincs más választásom. Az én koromban nincs. Vagyis ebben a stádiumbannincs. Holnap kisbőrönd, kék kosztüm, a kulcs duplánráfordítva és indulás. El fognak távolítani a testemből, mint egy gonoszgyomot.Fel fognak nyitni, felvágnak éles késekkel, pengékkel,amelyek a húsom sötétjében csillannak meg.Te egy műanyagzsákban végzed majd, nőimivoltommal együtt. Daganat – mondták. Asszonyom, sajnáljuk, rosszindulatú. Több mint kétkiló. Nem, sajnos semmit nem lehet megmenteni. Améheltávolítás az egyetlen megoldás ilyenhelyzetben. Az egyetlen. És holnap már élő test leszek, csak üres. Egy test kicsi petesejtek, hónapról hónapra érettenlehulló piros cseresznyeszemek nélkül. A lábak köztmelegen lecsorgó vér nélkül. Anélkül az erős izomnélkül, amelyik készen áll kitágulni, megtelni vérrel ésoxigénnel, hogy befogadjon egy új életet. Össze fognak varrni ott lent a végén.

Csak félig leszek nő.Egy üres test.Ma che ne sa il dottore! Che ne sa un uomo dellemestruazioni, delle gravidanze, del lievitare soffice deiseni e del ventre. Di quel contrarre leggero laggiù,dentro, che ti fa sentire donna, che ti fa sentire viva? Viva! Sì, viva, viva! Maledizione!

Viva come ogni femmina che cammina per strada!Una femmina che un uomo può amare e renderebella! Si, bella. Bella e feconda, con il ventre teso,pieno di vita.

Una femmina piena di vita….

Ti accarezzo. Ti accarezzo piano, per l’ultima volta.Tutti m’hanno detto che non c’è scelta. Non alla mia età. Non a questo stadio comunque. Domani valigetta, tailleur blu, giro doppio di chiave,e via. Ti estirperanno dal mio corpo come malvagiagramigna.Mi apriranno, mi taglieranno con coltelli affilati,lame che brillano nel buio della mia carne.Finirai in un sacchetto di plastica, tu con il mioessere donna. Un cancro m’hanno detto. Signora, ci dispiace: è maligno. Più di due chili. No, purtroppo non si può salvare niente.L’isterectomia a questo punto è l’unica soluzione.L’unica. E domani sarò un corpo vivo, ma vuoto. Un corpo senza piccoli ovuli, rosse ciliege checadono mature, mese dopo mese. Senza il caldofluire del sangue fra le gambe. Senza quelmuscolo forte pronto a espandersi, a riempirsi disangue ed ossigeno per accogliere nuova vita. Mi cuciranno, lassù, in cima. Sarò solo una donna a metà. Un corpo vuoto.

Traduzioni dall'italiano in ungherese di /Fordította © Olga Erdős - Hódmezővásárhely (H) -

Ivan Plivelic — FerraraQUINDICI MARZO

Stasera sono ripiombato nel passato. Ho acceso latelevisione ungherese e improvvisamente mi sonoaccorto: domani è il 15 marzo, festa nazionale inUngheria! Come potevo dimenticarla? Forse non l’honemmeno dimenticato, al massimo, lo nascosto dietroa tanti problemi quotidiani, magari anche dietro a unrisentimento personale, dietro a quei comportamentiirrazionali che sempre più sovente stiamo esercitando.Domani è grande festa, festeggiano nuovamentel’inizio della rivoluzione contro gli Asburgo, là lontano,nella terra dove sono nato anch’io. Talvolta rischio didimenticarla.

Ora ricordo; era il 1948, il centenario dell’evento e noipiccoli studenti eravamo pieni di entusiasmonell’attesa del giorno più importante della nostrastoria. Da allora abbiamo un altro di simile, sempreintriso di sangue soffocato sotto il tallone dellostraniero occupante, chi da ovest, chi dall’est, domanichissà chi sarà di turno – lo vuole il destino magiaro –forse siamo già di nuovo sotto ma non ce neaccorgiamo. Sarà come sarà, non è ancora successoche in qualche modo non fosse successo, dice l’anticoproverbio ungherese – forse non tutti lo capiranno, enon sarà l’unica cosa misteriosa.

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Io ero il caposquadra nel preparare e affiggere ledecorazioni, la nostra classe era piena di fotografie diKossuth, di Petőfi e di Táncsis, gli eroi di quella chesfociò in guerra di indipendenza. Preparavamo dellescritte con lettere cubitali, inchiodandole sui muri congli spilli sottratti a mia madre sarta. Non le dispiaceva,lei amava visceralmente la patria e tranquillamente sisarebbe immolata per difenderla, altro che unamanciata di spilli. Io tredicenne, gustavo la storia unpo’ di riflesso: erano i nostri che l’hanno scritta, iosarei stato un degno discendente per ricordarla. Nullami faceva pensare che non molto tempo dopo misarei trovato io sulle barricate per cacciare lo

straniero, per mettere fine alla tirannia. Meno che maiavrei creduto di essere dimenticato o peggio, taciutodi invenzione. Io veneravo gli antichi eroi,ingenuamente credevo che avrei ricevuto anch’io lamia riconoscenza. Qui, dove vivo, non sanno anzi, nonvogliono sapere ma non sarebbe meglio nemmeno seritornassi. Sarei il vecchietto sorpassato che vive neiricordi. Domani è grande festa e se mi ricordo, mi mettoanche la coccarda tricolore. Mi guarderannocredendomi impazzito, ma io sarò contento: io socosa ho fatto, il mio conto è a posto.

Melinda Tamás-Tarr — FerraraLE NUOVE AVVENTURE DI SANDY

I. UN INCONTRO INSOLITO

Vi ricordate di Sandy, della ragazzina ferrarese cheebbe un’inconsueta avventura con il Grande MagoGrammat nell’Impero di Discorsopolis? Sì, proprio lei èla protagonista anche di queste storie che vi storaccontando: stavolta ella fa un lungo viaggio neltempo in compagnia di un personaggio curioso. Conchi? Questo lo saprete se comincerete subito aleggere questo libro. La nostra piccola Sandy incompagnia di questo misterioso personaggio, ebbemolte curiose e straordinarie avventure. Quali?Leggete questo libro per scoprirle! Allora via, e, buonalettura, buon divertimento!…

«Uffa! Quanti compiti devo ancora fare! Mammamia, ho quasi scordato la storia! Devo ancora farealcune ricerche ed un componimento d’italiano…Quanto odio la scuola! Non ci lascia liberi neanche perle vacanze d’estate…», brontolò Sandy che volevasoltanto giocare, giocare e giocare… «Ma come faccio? Il tempo è troppo breve!…», siagitò sempre di più. Mancava soltanto una settimana all’inizio del nuovoanno scolastico ed ella si disperò perché, nonostante icontinui avvertimenti dei genitori, aveva lasciato icompiti da fare per l’ultimo momento. Nell’ultimasettimana delle vacanze, dalla mattina fino alla sera,si sedette davanti alla scrivania per finire i rimanenticompiti che non erano affatto pochi. A tre giornidall’inizio della scuola Sandy, dopo aver ripassato lastoria, si concentrò per scrivere il componimentod’italiano. Ad un certo punto ella si sentì esaurita edincapace di farcela, anche perché, oltre l’italiano,aveva ancora qualche ricerca di storia da realizzare.In quel momento si agitò eccessivamente e nonriuscì più a fare niente. Ella sentì intorno a sé tutti irumori di casa raddoppiati e particolarmentefastidiosi: i genitori si trovavano nelle altre stanze elavoravano. La mamma scriveva i suoi articoli critici sualcuni libri recentemente pubblicati, il papà invece

finiva i lavori d’ufficio portati a casa. La stanchezza lefece scoppiare la testa. Dovette fare qualcosa, usciredi casa per prendere un po’ d’aria. Anzi, le venneun’idea migliore: per realizzare la sua ricerca di storia,pensò di andare a piedi alla biblioteca. Così, durante ilpercorso della strada fino ad essa, avrebbe potutofare anche una bella passeggiata e prendere un po’d’aria… «Mamma! Devo uscire…», gridò ad un certo puntoalla madre verso il suo studio. «Perché? Dove devi andare?» «A respirare un po’ ed alla biblioteca per la ricercastorica…» «Va bene, ma aspettami, devo andare anch’io, cosìpossiamo uscire insieme. Anch’io ho bisogno di alcunimateriali…» le rispose la mamma e dopo pocofacevano la strada insieme verso la sede dellaBiblioteca Comunale Ariostea di Ferrara, in via delleScienze, nel centro storico. Arrivando alla biblioteca, Sandy e sua mamma sisepararono all’entrata della sezione per i ragazzi,dandosi l’appuntamento tra tre ore. Dopo che la ragazza si sistemò nell’angolo piùlontano della sala, improvvisamente dietro le suespalle avvertì la presenza di qualcuno. Pensò chefosse il bibliotecario e volle chiedere qualcheinformazione: perciò Sandy si girò indietro. Vide unsignore anziano che la stava fissando sorridendo. «Chi è lei e perché mi guarda? Che cosa vuole dame?… Qui non possono entrare gli adulti, soltanto noiragazzi!… Aiuuu…» volle chiedere l’aiuto, ma ilsignore anziano le evitò di gridare: «Ssss!… Non urlare! Se gridi, la gente penserà chetu stia male oppure che sei pazza! Nessuno mi vede,soltanto te!… Così non ti crederanno e ti potrannogiudicare pazza… Non ti faccio male! Ascoltami: iosono il Babbo Historicus e posso aiutarti, se vuoi!Penso che tu abbia proprio bisogno d’aiuto…», egli lerispose ed in quel momento la circondò con uno

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strano cerchio d’aria che rese i movimenti di Sandyper gli altri impercettibili: i piccoli lettori ed ilbibliotecario videro soltanto Sandy che faceva laricerca, non si notò alcuno strano movimento o non sisentì la loro conversazione. Perciò essi poteronoanche dialogare tranquillamente. «Chi-i-i-i è-è-è le-e-e-i-i-i? Ba-a-ab-bo-o-o Hi-i-i-sto-o-o-ri-i-i-cu-u-us?!…», balbettò Sandy singhiozzando erimase poi senza voce e quasi paralizzata dal terroreche si impadronì di lei mentre ascoltava questo stranoospite che la sorprese nella sala di lettura dellabiblioteca. «Sì, esattamente. Hai sentito bene. Posso aiutarti»,e tirò fuori un libro gigante dal suo zaino: «Ecco “Ilmagico libro della sapienza”. Se sfoglieremo insiemele sue pagine mormorando i versi d’incantesimo, citroveremo indietro nella storia. Se vuoi, ti facciovedere alcune cose, dimmi che cosa vuoi sapere!»,egli disse amichevolmente a Sandy. «Lei può veramente farmi vedere tutto quello chedesidero con quel libro e con la magia nella nostraepoca del computer?», domandò al Babbo Historicusriprendendosi dallo spavento iniziale. «Certo, sono un mago delle scienze storiche edattendo soltanto le tue domande. Supero anche letecniche elettroniche più avanzate, quindi anche ilcomputer…» la incoraggiò. «Dovrei fare ancora tre ricerche storiche e l’ultimocomponimento d’italiano, ma ho complessivamentesolo tre giorni. Potrò farcela?» Sandy domandò congrand’angoscia e si rese conto che era veramenteincosciente di lasciare i compiti per l’ultimo momento. «Sì, ma soltanto in quel caso se in futuro ticomporterai bene: farai i compiti d’estate in tempo enon all’ultimo momento!» «Grazie, lo prometto.» «Va bene, ma se non manterrai questa promessa,dimenticherai tutto quello che avrai scoperto con ilmio aiuto. D’accordo?» «Sì… ma come avrò il tempo per scrivere tuttoquanto?» «Ti regalerò una penna magica con cui potraiscrivere tutto quello che hai visto e che vuoi ancoraaggiungere… Poi non ti devi preoccupare, nessuno siaccorgerà della tua assenza: gli altri continuerannovederti qua…» «Grazie, Babbo Historicus. Possiamo anchecominciare. Prima del nostro viaggio, però, vorreisapere di più di questo “Magico libro della sapienza”.Che tipo di libro è? Di dov’è?» chiese Sandyincuriosita.

«Era del mio re, che visse tanto tempo fa ed io eroil suo primo consigliere scientifico. Io sonosopravvissuto, poi ho continuato ad aggiornarlo fino alpresente. Con questo libro, posso farti vedere soltantoil passato. Anche questo libro ha la sua storia eadesso te la racconto…, eccola: Il mio re, che si chiamava Savio, ebbe una granfama non soltanto per il suo grande impero e per lesue infinite quantità di tesori, ma anche per la suagran voglia di sapere. Invitò tutti gli illustri scienziatidel mondo al suo palazzo per trascorrere le suegiornate in compagnia loro dalla mattina fino allatarda notte. Egli raccolse anche tantissimi libri persapere sempre di più, ma non si accontentò mai.Invecchiando perse la sua forza e perciò ordinò a noistudiosi di raccogliere le informazioni più recenti.Aggiungemmo ancora tanti libri e di conseguenza nelpalazzo si trovava già poco spazio. In quel momento ilre Savio ci ordinò di selezionare le cose estremamenteimportanti che potessero stare soltanto in una sala delcastello. Ma il compito non era facile neanche un po’:dovemmo collezionare i volumi in cui si trovavanotutte le informazioni indispensabili di cui un re dovevaessere sempre al corrente. C'erano tante scienze daconoscere! Quando il mio re Savio fece fatica anche avedere, riuscimmo a creare “Il magico libro dellasapienza”. Così abbiamo costruito la cosiddettaenciclopedia. Egli fu molto felice, ma non ebbe iltempo per sfogliarlo fino alla fine. Prima di morire miha chiesto di dirgli in un'unica frase le cose piùimportanti del mondo. Allora io gli risposi: “Maestà, lacosa più importante è questa: il mondo è moltocomplicato…” Da allora aggiorno questo libro giorno dopo giornocon i fatti principali. Ed ora, se sfoglieremo le suepagine, potremo sapere tutto quello che ci interessadel passato… Se vuoi, possiamo cominciare…»,concluse la storia del “Magico libro della sapienza” ilBabbo Historicus. Vedendo il consenso della ragazza,egli lo aprì alla prima pagina e mormorò i versidell’incantesimo: «Abracadabra, ciribù-ciribà,vogliamo trovarci dove desideriamo, così sia!». Inquel momento Sandy e Historicus si trovarono in unmondo molto strano: come se fossero in un paesemaledetto delle fiabe… «Che ambiente brutto! Dove ci troviamo? Mi fatanta paura! È molto diverso dal mio mondo in cuivivo!» esclamò la ragazza. […]

Dal libro inedito scritto nel 1997.1) Continua

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Posztmodern magyar költészet/Poesia ungherese postmoderna

Legéndy Jácint ― Gödöllő (H)KIHÍVÁS

összegereblyézni a lehullottfaleveleket van olyan kihí-vás mint rövidre nyírni azútszéli bokrok hajzatát vagyeljutni egy nő bokájától a

vénuszdombjáig hisz gondosanfigyelni kell a részletekrepéldául az eszköz irányá-

ra s mozgatásának sebességérenem cibálhatom ész nélkülahogyan dilettáns kertész a

sövényvágó ollót különben fo-gai megakadnak a felgyűrődöttanyagban akár türelmetlen uj-jak a szoknyában és csúnyán

összesebződik az anyaföld éppelőbukkanó darabkája azutánhátravannak a formák melyek-

re óhatatlanul ügyelni illiktehát kúp esetleg félgömbalakúra igazítom a faleve-

lekből épített halmot mikénta puszpángok buksiját vagy alehúzott ruhákat s végül át-

gereblyézem az ágyást hogy agyönge fűszálak érzéki rend-ben csillogjanak rajta mint

pihék egy humuszbarna combon

Legéndy Jácint ― Gödöllő (H)LA SFIDA

rastrellare le foglie cadute è una sfi-da come accorciare

sul ciglio stradale la chioma dei cespuglioppure approdare dai colli del piede d'una donna

fino al monte di Venere però si deve scrupolosamentefar attenzione ai dettagli

per esempio al sen-so del mezzo e allo scatto del suo movimento

non posso scuoterlo senza ragionamentocome un giardiniere dilettante

che con le forbici taglia la siepealtrimenti i suoi mor-

si si fermano nell'increspaturadella materia come le di-

ta impazienti nella sottana e sgradevolmentesi fa ferita su una parte a stento evidente

della terra materna poirestano le forme alle qua-

li si deve star senz'altro attentiquindi assesto le fo-

glie in forma di cono o di mezzo globo comela testolina degli arbusti sempre verdi oppure

le vesti tolte ed infine rastrel-lo ancora i morbidi fili d'erba perché le

tenere calugini splendano in ordi-ne sensuale come

le lanugini sulle coscedi color marron di terriccio

Traduzione © di Melinda Tamás-Tarr

_______ Recensioni & Segnalazioni _______

Melinda Tamás-Tarr (1953)

LE NUOVE AVVENTURE DI SANDY

Presentando sul N. 11-12/1999 de l'OsservatorioLetterario il primo libretto di Melinda Tamás-TarrBonani dedicato alle avventure di Sandy (Girovagandonell'Impero di Discorsopolis), affermavo che l'Autriceha saputo mescolare in giusta dose parte fantastica eparte didattica, in modo da rendere piacevole escorrevole l'apprendimento della grammatica aigiovanissimi let-tori. Lo stesso discorso vale ora per queste Nuoveavventure di Sandy, in cui la ragazzina, che devesvolgere una ricerca storica, fa la conoscenza nellaBiblioteca Comunale Ariostea di Ferrara di uno stranopersonaggio, Babbo Historicus. Sfogliando il "Magicolibro della Sapienza", i due protagonisti si possonotrovare per incanto in qualunque epoca del passato. Ecosì, eccoli nella Preistoria, alle origini della Terra, poinell'èra dei dinosauri, in séguito a fianco dei primiuomini seguendo la loro evoluzione: homo abilis,

homo erectus, uomo di Neanderthal, homosapiens di Cro-Magnon, homo sapiens sapiens… Questo nella prima parte. Nella seconda e terzaparte il salto all'indietro avviene nel pieno delMedioevo, e Sandy ha modo di apprendere molteinteressanti notizie sull'epoca feudale e in particolaresui Magiari in Italia: un argomento che i nostri libri distoria in genere non trattano. Nella quarta ed ultima parte la ragazzina fa laconoscenza di Mater Fabula, moglie di BabboHistoricus, e apprende altre nozioni sulla storia e lacultura italiana e ungherese. Alla fine, dopo averdomato una rivolta di libri nella Biblioteca Ariostea(stufi di essere maltrattati o poco consideratl dalpubblico), ha la sorpresa di incontrare di nuovo unsuo vecchio amico: il Mago Grammat.

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Questa, in sintesi, la trama del libro. Mi preme oradi dire due parole sulla didattica della storia, al fine diinserire le avventure di Sandy in questa prospettiva. La didattica della storia e stata per lungo tempoinfluenzata negativamente dalla concezione che diessa hanno avuto i moderni, nel senso che essa estata proposta come un'arida carrellata di battaglie,paci, trattati, re, imperatori, dinastie, etc., il che haper lo più sempre implicato uno studio mnemonico eprivo di adeguata motivazione (D. Di Maggio). Molto più "attuali" erano i Greci, che consideravanola storia come "ricerca", esposizione di cose viste econtrollate personalmente; Tucidide studiava lecause, esaminava criticamente i documenti e rifiutavauna concezione "di parte". Per fortuna, negli ultimi 30 anni circa la didatticadella storia, sia a livello di scuola elementare sia alivello di scuola media, si è completamente rinnovatae tende a far "rivivere" in prima persona all'alunnol'esperienza del passato, a farlo calare nel tempo chefu in modo che egli possa ricostruire i fatti attraverso idocumenti, attraverso gli apparati iconografici,attraverso le testimonianze degli storici antichi emoderni. H.I. Marrou ha scritto: "La fecondità dellaconoscenza storica risiede soprattutto nel dialogo cheessa fa sorgere in noi tra l'Altro e l'Io", dove per"l'Altro" s'intende la realtà individuale e collettiva, ilgrande protagonista degli eventi e l'uomo comune,l'uno tra i molti; e per "l'Io" si intende chi legge ostudia gli avvenimenti storici, si pone delle domande,si rapporta costruttivamente con l'esperienza e ilmodus vivendi del passato. In questa prospettiva e nell'ottica di un piacevoleapprendimento-fiaba si colloca il libro della Tamás-Tarr Bonani, che ha anche un forte valoreincentivante per promuovere le ricerche in biblioteca(proprio dalla biblioteca, abbiamo visto, prendono lemosse le avventare di Sandy), in modo che il giovanestudente non abbia a disposizione solamente il libro ditesto (che può essere ottimo, ma può capitare siapessimo), ma venga anche in contatto con altre fonti. II tutto è calato nella cornice fiabesca già presentein Girovagando...; ma l'evasione nel fantastico èpienamente integrata nel processo storico, al fine diuna sicura e solida "presa di coscienza" di esso. Un'ultima annotazione: Sandy ha madre ungheresee padre italiano; sarebbe auspicabile che tutti iragazzi che hanno i genitori di nazionalità diversa(attualmente sono sempre di più e in futurocresceranno ancora) apprendessero non soloentrambe le lingue, ma anche entrambe le storie (e lefiabe, le leggende, le tradizioni, il folklore...) dei Paesid'origine dei genitori. Sarà sempre un arricchimentoculturale ed una preziosa guida per capire più a fondoil passato, la realtà presente e la vita in generale.[POST-SCRIPTUM (2001)]

Marco Pennone– Savona -

CORRUPTION di ANTONIO SPAGNUOLOUn percorso di analisi nella poesia con radici

nel lontano dopoguerra

Spagnuolo, classe ’31, napoletano,torna, dopo un paio d’anni dalla suaultima pubblicazione: “Rapinandoalfabeti”, con una raffinata edizionedella Gradiva Publicationstradotta, per la prima volta,completamente in inglese, per ilmercato americano. L’autore, di cui

sono stati già prodotti testi in inglese oltre che infrancese, greco, serbo-croato e spagnolo, si avvale, inquesto libro, della collaborazione di Luigi Bonaffini.Quest’ultimo, fra i tanti, ha tradotto lavori di DinoCampana, Luzi e Pierro ricevendo plurimiriconoscimenti. Rappresentativa ed essenziale l’immagine dicopertina, “Dama nel sipario” (’02), opera diGuglielmo Roeherssen. Si direbbe immergersi, nellaprospettiva, tra quelle terre dell’Es tanto careall’autore, medico prima ancora che affermatopoeta con radici nella dissolvenza di un climada dopoguerra. In un panorama ancora intriso dineorealismo e dove, contemporaneamente, siguardava avanti, a posizioni che sfoceranno nelGruppo ’63. La sua produzione, tuttavia, prenderàconsistenza a partire dagli anni ottanta, attraversouna più profonda maturazione degli originali esiti delloscrittore. Con “Graffito controluce” (’80), si avvia unciclo che mette in evidenza, fra le altre, opere come“Fogli dal calendario” (’84), “Candida” (’85) e “Diecipoesie d’amore e una prova d’autore” (’87). Lapeculiarità di Spagnuolo si avverte nello stile quantonei contenuti. Oltre, in quanto medico, ad attingereda certe terminologie scientifiche, in lui persiste, difronte al perpetuarsi dell’esistenza, un drammaindagatore espresso in un costrutto che riportaall’idea psicoanalitica. Asor Rosa, inserendolo nel“Dizionario della letteratura italiana del novecento”, lointerpreta come “affiorare di un elemento prelogico”che comporta “il rifiuto di una sintassi vincolante, sulpiano del linguaggio come su quello del senso”.Quella di Spagnuolo è una sofferta, continua ricercache, in primo luogo, passa attraverso l’Eros, e quindianche Tanatos, con tutto l’orrore per quanto restanella dissoluzione dello scorrere della vita. Tra lepagine di Corruptions, lo ritroviamo nell’incomberedella solitudine: “Ogni lanterna, nelle stanze deserte,sbircia il tuo volto” (“Every lantern, in the desertedrooms, eyes your face”), nel “sesso oscuro” che offre“inaspettate solitudini” tra “braccia trapassate dagliinganni”. Talvolta assume particolari forme come“l’impasto delle tue mammelle” (“the kneading ofyuor breasts”) o “Ronza alle cosce, per svuotar le mievene” (“drones at my thighs, to empty my veins”).Solo attraverso un “naufragare sul mio sesso” il poetatroverà un compimento della fase libido-morte“Trasformo e cancello: ora non cedo a rabbie” (“I

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trasform and erase: now I do not yield to rages”),ovvero nell’anteposto dramma di un ipoteticoperpetuarsi: “Se ci sarà un’altra volta / il mio folleracconto / rattopperà lenzuola, mentre ancora alito micirconda” (“if there is another time / my mad tale /will patch up bedsheets, while still a breath surroundsme”). Le tematiche della spiritualità, che trovanoadempimento in “Venticinque poesie intorno allacroce” (’99), sono pure dolore insopportabile per lanatura umana propria all’autore. La vita è già di persé dolore perché Spagnuolo possa abbracciare deltutto il martirio rinnegando la sua natura più laica eraziocinante che, d’altra parte, pare alimentare,seppure in una tensione, il suo stesso sentiremetafisico. “Attratto dalla croce, Spagnuolo non vis’abbandona totalmente, forse perché già la vita ècrocifissione, calvario” commenta Dante Maffia alriguardo e “l’ombra lunga e proiettata della Croceoccidentale, risalta forse ancora più necessaria,ancora più pura di laicità” scrive, a tal proposito,Plinio Perilli. In Corruptions, letteralmente“Corruzioni”, certi toni divengono più accesi e, dinanziun’evidenza epocale: il terrorismo, il poeta manifesta“rabbia per una guerra non santa”. Dio, in questocontesto, viene nominato persino con sfumature piùconfidenziali: “per quel Caino che decapita lo spazio /del vecchio Dio” (“for that Cain that beheads thespace / of the old God”). Prende forma un’”Invenzione del dubbio” nel “riaccendere lepreghiere” (“Invention of doubt reignite prayers”) perpoi, improvvisa, infervorarsi “Iddio è una fornacelungo le mie carni” (“God is a furnace along myflesh”) in una continua oscillazione dove “Gli artiglidella fanciullezza” sono rinvenuti tra “ gli spariti deltempo” e “… ghermisce l’angoscia contro Iddio. /Eppure”, nondimeno, “all’orizzonte si allontana ilbagliore di una vela” (“I’m gripped by anguishagainst God. / And yet the gleam of the sail fades offagainst the horizon”). Nella coltre del fitto mistero diquesta vita, tra rughe che segnano il tempo ed ilcorpo, s’intravede una luce, fuggevole, comel’emozione, ed illuminante, come il pensiero, scorrerenell’essenza della sua stessa poesia “Odo l’informedesiderio di Dio” (“I hear the shapless desire forGod”) dichiara Spagnuolo nel penultimocomponimento, in quello che lui stesso definisce“presagio oscillante con i raggi del sole” (“an omenwavering in the sunlight”).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTEAntonio Spagnuolo (Napoli, 1931), poeta e scrittore italiano.Antonio Spagnuolo, “Corruptions”, Gradiva Publications,New York 2002.Approfondimento in rete: Antiarte / Vico Acitilio.

Enrico Pietrangeli– Roma -

Amin MaaloufGLI SCALI DEL LEVANTE

pp. 192;€ 7,00

Con una voce armonica edolcemente ritmata sulle melodieorientali Amin Maalouf trasportaancora una volta il lettore nellaStoria, in quelle stesse grandipagine della Storia che riempionodi parole e di fotografie i manuali

scolastici. Ed è proprio da una di quelle foto,stampate su di un manuale sfogliato milioni di volte,che inizia il suo romanzo Gli Scali del Levante, conl’incontro fortuito in una giornata parigina con uno deiprotagonisti di quella storia che troppe volte sembrafatta solo di fredde e irreali parole. Attraverso la storia personale di questo insolito equasi involontario partecipante libanese dellaResistenza francese, Maalouf ripercorre gli anni dellacaduta dell'impero ottomano fino alla nascita dellostato d'Israele, guardando a tutti questi avvenimentiattraverso gli occhi di un discendente della dinastiaottomana decaduta che, fermamente avverso allaguerra e all'odio tra gli uomini, si oppone con la suavita, le sue amicizie e il suo amore alla caduta diquesta pacifica Babele rappresentata dagli Scali dellevante, di quell'epoca "in cui uomini di tutte le originivivevano gli uni accanto agli altri, e mescolavano leloro lingue", in un continuo dialogo e arricchimentoche fece così grande la cultura umana. Ossyan, questo il nome del protagonista - che inturco significa "disobbedienza", "rivolta" -, nasceappunto al tramonto di quell'epoca felice dimescolanza e di pace, epoca a cui anela, che cerca dimantenere e di ricreare intorno alla sua persona,passando, talvolta in modo del tutto fortuito,attraverso le grandi guerre e la nascita delle grandiincomprensioni tra gli uomini, cominciando,parallelamente alle grandi guerre che tutt'orainteressano il Medio Oriente, una guerra personalecontro il mondo e i suoi impetuosi cambiamenti. Infuga dal sogno paterno che lo vuole dirigenterivoluzionario, Ossyan approda in Francia agli inizidella dominazione tedesca, dove - entrato nellaResistenza -incontra Clara, una donna ebrea chediventerà sua moglie: ed è proprio attraverso il suoamore per lei che Ossyan, tornato come un eroe inpatria alla fine della Seconda guerra Mondiale,comincerà la sua guerra personale contro la divisionetra musulmani ed ebrei, guerra che lo condurrà, dopoanni di impedimenti e di ostacoli alla sua felicità, dinuovo a Parigi, per scoprire, vent'anni dopo, se daquesta incredibile guerra l'uomo sia uscito vincitore ovinto. Maalouf , ascoltatore attento e partecipe a cui èdato solo di registrare la voce viva di Ossyan, lasciainfine rispettosamente il suo protagonista a scoprirecosa farà di lui la storia, così come lascia in sospeso il

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lettore sul filo della speranza, a chiedersi se la Storiaha infine mietuto tutte le sue vittime.

Flaviana Zaccaria- Roma -

AMIN MAALOUF nasce a Beirut nel 1949 da unafamiglia di letterati e giornalisti. Dopo gli studiuniversitari nel campo dell'economia e dellasociologia, intraprende la professione di giornalistache lo porta ad occuparsi di politica internazionale e aviaggiare in diversi paesi come inviato. Collaboratore del quotidiano libanese Al - Nahar, nel1976, quando la guerra civile dilania il suo Paese sitrasferisce in Francia, dove diventa redattore capo diJeune Afrique. Nel 1983 esordisce con il saggio Les croisades vuespar les arabes (Le crociate viste dagli Arabi, 1989)che suscita subito vasta eco e lo proponeall'attenzione internazionale. Questo successo lo porta

dal 1985 a diventare scrittore a tempo pieno.Nel 1986 pubblica il romanzo storico Léon l'Africain(Leone l'Africano, 1987 e 1995). Nel 1988 riceve ilPremio des Maisons de la Presse per Samarcande (Ilmanoscritto di Samarcanda, 1989 e 1994), libro chetrae ispirazione dalla vita di Omar Khayyam, poeta eastronomo persiano scomparso all'inizio del XIIIsecolo. Nel 1991 dà alle stampe Les jardins delumière (I giardini di luce, 1993, 1996 e 2000), operariguardante la vita di Mani, il profeta fondatore delmanicheismo. L'anno dopo è la volta del romanzo Le premiersiècle après Béatrice (Il primo secolo dopo Beatrice,2001) che precede la pubblicazione di Rocher deTanios (Col fucile del console d'Inghilterra, 1994 e1999) che gli vale l'assegnazione del Premio Goncourtnel 1993. Nel 1996 pubblica Les echelles du Levant(Gli scali del Levante, 1997 e 2000) con il quale siaggiudica, nel 1998, i premi letterari Vittorini eNonino. Nel 1998, esce Les identités meurtrières (L'identità,1999) che viene premiato dalla Fondazione CharlesVeillon nell'ambito del Premio Europeo di Saggistica.Del 2000 il suo ultimo lavoro di narrativa, Le périplede Baldassare (Il periplo di Baldassarre, 2000), chericeve il Premio Grinzane Cavour edizione 2001.Srittore e saggista di successo i suoi libri sono tradottiin trenta lingue. Maalouf è anche autore di un librettod'opera L'amour de loin che, con musica dellacompositrice finlandese Khaija, viene rappresentata alFestival di Salisburgo nell' estate del 2000. Vive elavora a Parigi.

A cura di Mtt- Ferrara -

TRADURRE - TRADIRE - INTERPRETARE - TRAMANDARE

– A cura di Meta Tabon -–

Aldo Palazzeschi (1885-1974)KI VAGYOK?

Talán költő vagyok?Á, dehogy.Lelkem tolla nem ír mást,csak jó dili-vallomást: «tébolyulás» .Tehát festő vagyok?Á, sehogy.Lelkem egy színű paletta, egy kolor van rajta:«melankónia».Netalán muzsikus?Már nehogy.

Aldo Palazzeschi (1885-1974)CHI SONO?

Sono forse un poeta?No, certo.Non scrive che una parola, ben strana,la penna dell'anima mia:«follìa».Son dunque un pittore?Neanche.Non ha che un colorela tavolozza dell'anima mia:«malinconìa».Un musìco, forse?Nemmeno.

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ANNO IX. NN. 45/46 ============ OSSERVATORIO LETTERARIO ============LU.-AGO./SETT.-OTT. 2005

Nincs más hangbillentyűimen, csak«nosztalgia».Vajon senki vagyok?Szívemheznagyítót teszek,úgy jobban látható.Én vagyoka lélek komédiása.

NAP

Bejárnám Spanyolországotegy vörös ernyő alatt.

Bejárnám Olaszországotegy zöld ernyő alatt.Egy kicsiny bárkával,tengerre szállnék

egy azúr ernyő alatt,így jutok a Parthenonbaibolya esőben,rózsaszín ernyő alatt.

Non c'è che una notanella mia tastiera dell'anima mia:«nostalgìa».Son dunque… che cosa?Io metto una lentedavanti al mio cuoreper farlo vedere alla gente.Chi sono?Il saltimbanco dell'anima mia.

SOLE

Vorrei girar la Spagnasotto un ombrello rosso.

Vorrei girar l'Italiasotto un ombrello verde.Con una barchettina,sotto un ombrello azzurro,

vorrei passare il mare:giungere al Partenonesotto un ombrello rosacadente di viole.

Traduzioni in ungherese di © Melinda Tamás-Tarr e György Szitányi

Daniela Raimondi — Londra/SermideA PANZIÓ

A férfi nem vitte fel a lakására. Azt mondta, hogytakarítania kellene, hogy nagy a rendetlenség, éshogy már lefoglalt egy szobát egy panzióban atengerhez közel. Nem, nem vacsoráztak volna együtta barátaival. Túl unalmas népség, elhiheted. Megaztán, csak veled akarok lenni.

Elérkezett a délután. Az állomás nyugodt volt.Kezében egy ki sem nyitott magazin, egy már gyűröttblézer, a szemei hatalmasan tükröződtek vissza azújságos bódé piszkos üvegén. A vonat ugyanazzal afémes csikorgással érkezett az állomásra, amit ő isérzett a szívében.A férfi nem volt ott. Még dolgozott.

A taxi elvitte a címre, amit előző este firkált fel, a füleés a válla között tartva a telefonkagylót. A vágy, hogyújra lássa őt, erősen égette a gyomrát, gyengédenbele is hasított kicsit.

Később a halványzöld, fátyolos tengert bámulta,amely kitöltötte a szoba ablakát. A szekrénybennaftalin szag volt, a levegőben pedig a sirályokkiáltása. A következő reggel egy kórházi kontrollvizsgálata volt. A daganat nem olyasmi, amire fittyet

Daniela Raimondi — Londra/SermideLA PENSIONE

Lui non l’ha portata a casa sua. Le ha detto chedoveva fare le pulizie, che c’era un gran disordine eche allora aveva prenotato in una pensione vicino almare. No, non avrebbero cenato con i suoi amici.Gente troppo noiosa, te lo assicuro. E poi vogliostare solo con te.

È arrivata di pomeriggio. La stazione era tranquilla.Aveva in mano una rivista mai stata aperta, unsoprabito ormai sgualcito, occhi troppo grandi riflessinel vetro sporco dell’edicola. Il treno era entrato nellastazione con lo stesso cigolio metallico che lei sentivanel cuore. Lui non c’era. Stava ancora lavorando.

Il taxi l’ha portata all’indirizzo che avevascarabocchiato la sera prima al telefono, la cornettaintrappolata fra orecchio e spalla. La voglia dirivederlo le bruciava forte nello stomaco ferendola unpoco, con tenerezza.

Più tardi fissava il mare verdognolo e opaco cheriempiva la finestra della stanza. C’era odore dinaftalina nell’armadio e un grido di gabbiani nell’aria.Il mattino dopo aveva un esame di controlloall’ospedale. Un cancro non è cosa che ti lasci maihányhat az ember.

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ANNO IX. NN. 45/46 ============ OSSERVATORIO LETTERARIO ============LU.-AGO./SETT.-OTT. 2005

A férfi közvetlenül az irodából érkezett 6:30-kor.Rögtön felismerte a lépteit a folyosó parkettáján, deamikor kinyitotta az ajtót, azt gondolta, hogy más lettaz arca. Minden alkalommal egy kicsit jobban ismertemeg, egy nem is tudni milyen szorongással ésaggodalommal: egy apró anyajegy a karja belsőfelén; ahogy a torkát köszörüli, ami elárulja azidegességét; az a hirtelen mozdulat, hogy elrejtse abe nem vallott félelmeit.

Belépett - meglazított nyakkendő, egy táska a hónaalatt a váltás ruhákkal. Megölelte, aztán szájoncsókolta és megfogta a fenekét.

Később szeretkeztek. A sötétben sós pára illataérződött.

A nő megkapta, amit lehetett. Lehunyta a szemét,kitalált magának egy többé már nem magányoséjszakát; egy árnyékok nélküli felvételt a tüdejéről;egy szeles reggelt.De volt egy sáv, ami átjutott a csukott szemeken;keserű fáradtság; egy éles hasítás, ami fájt, amiégette a torkát, miközben a testek egymástérintették: a nő végtelen szorongással, a férfi egyrerövidebb sóhajjal. A nő kezei lágyan a háta köréfonódtak. A férfié már nem simogattak többé, hanemfájdalmat okoztak, miközben az erőszak lassanbeszivárgott a lepedők közé. De a nő azt gondolta,hogy ez is szerelem, ez is szerelem.alle spalle.

Lui era arrivato direttamente dall’ufficio alle 6:30. Aveva riconosciuto subito i suoi passi sul palquet delcorridoio, ma quando si era aperta la porta avevapensato che il viso era diverso. Ogni volta loconosceva un po’ di più, con un non so che di ansia edi trepidazione: un piccolo neo all’interno del braccio,un modo di schiarirsi la voce che tradiva ilnervosismo, quello scatto improvviso per nasconderepaure inconfessate.

Era entrato, la cravatta allentata, una borsa con uncambio di abiti sotto il braccio. L’aveva abbracciata,poi l’aveva baciata in bocca e le aveva palpato ilsedere.

Più tardi avevano fatto l’amore. C’era odore disalsedine nel buio.

Lei ha preso quel che ha potuto. Ha chiuso gli occhi,si è inventata una notte senza più solitudine; unalastra senza ombre ai polmoni; un mattino di vento.C’era un solco da superare ad occhi chiusi; una faticaacerba; una crepa tagliente che faceva male, chebruciava nella gola mentre si toccavano i corpi, lei contrepidazione infinita, lui con il respiro sempre piùcorto. Le mani di lei si avvolgevano lievi intorno allasua schiena. Quelle di lui non sfioravano più,facevano male, mentre la violenza si infiltrava pianofra le lenzuola. Ma lei pensava che anche quello eraamore, anche quello era amore.

Traduzione dall'italiano in ungherese di /Fordította © Olga Erdős, Hódmezővásárhely (H)

Tamás-Tarr Melinda — FerraraFURCSA ÉBREDÉS

Réges-régen, egy Sandy nevű tízéves kislány, kiakkor az alsó tagozat negyedik osztályába járt, egynapon felébredvén egy furcsa világban találta magát.Hol is volt tulajdonképpen? A Szó folyó partján. Tágra nyitott szemekkel meredt erre a nagyon-nagyon furcsa folyóra. S magában kérdezte: «De hátmicsoda helyen találom magam?» s közelebb ment aparthoz. Nézzétek csak micsoda csoda! Sandy azt látja, hogya szavak és a betűk hatalmas hullámokat vetvehömpö-lyögnek. Ezek a hullámok különböztekegymástól: az egyikben nagy- és kisbetűk koccantakössze; a másikban viszont különböző szavakversenyeztek ki tudja hová akartak célba jutni. Sandy,minthogy nagyon kíváncsi kisleányka, tudni szeretettvolna mindent, s éppen ezért elhatározta, hogybárkával fogja követni a Szó folyó sodrását. Körülhordozta tekintetét, de nem látott maga körülsenkit sem. «Van itt valaki?» - kérdezte többszörhangosan kiáltva.«Itt vagyok én!» mondta egy remegő hang ésmegjelent egy pici kis öregember.

Melinda Tamás-Tarr — FerraraUNO STRANO RISVEGLIO

Tanto tempo fa, Sandy, una bambina di dieci anni,che allora frequentava la quarta classe elementare,un giorno si svegliò trovandosi in un mondo strano.Dove si trovò? Sulla riva del fiume Parole. Sandy con gli occhi spalancati guardò questostranissimo fiume e domandò a se stessa sottovoce:«Ma in che razza di posto mi trovo?» - e si avvicinò. Guardate che miracolo! Sandy vide che le parole ele lettere rotolavano facendo grandi onde. Questeonde si differenziavano l'una dall'altra: in una siurtavano le lettere, sia le maiuscole che le minuscole;in un'altra invece danzavano già varie parole facendogara per arrivare chissà dove... Sandy era una bam-bina molto curiosa, volle sapere tutto, perciò decise diprendere una barca per seguire il corso del fiumeParole. Girò lo sguardo, ma non vide nessuno intorno a sé.«C'è nessuno?» - chiese gridando forte più volte.«Eccomi, ci sono io» - disse una voce tremolante e sipresentò un piccolo uomo anziano.

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«Jó napot kívánok! Sandynek hívnak. Megkérdez-hetem, hogy ön kicsoda?»«Szervusz Sandy! Én vagyok a Nagy GrammatVarázsló. A keresztapámtól kaptam ezt a nevet,hazájának nevéből ered.»«Akkor hát az ön országa a Grammatilandia! Igaz?Hű, a mindenit!... Csudajó!» válaszolt a leányka.«Pont önre van szükségem! Bizonyára tetszene tudnisegíteni nekem.»«Attól függ. Mit szeretnél tőlem?» kérdezte a NagyGrammat Varázsló.«Szeretnék egy csónakkal kiruccanni ezen a folyón.Szeretném tudni hová folyik és hogy milyen világbacsöppentem.»«Rendben van, nagy örömmel teljesítem kívánságod.Várj csak, keresnem kell egy ladikot, aztán indulunk.Először is megmutatom neked a folyó szigeteit,amelyek a Szófajország Birodalmához tartoznak.»Ebben a pillanatban a Nagy Grammat Varázslófüttyentett egyet s a folyóhullámokból magához hívtaa «BÁRKA» olasz szó betűit s elrendelte nekik, hogyigazi csónak alakjában rendeződjenek. S ilyenformájúvá alakultak:

A szerző eredeti rajza alapján Gabriele Muscolini illusztrálta

Sandy és a varázsló beszálltak a vitorlásba. Ezzelaztán kezdetét vette kalandjuk a SzófajországBirodalmában…

(Vol. Prosa) di Melinda Tamás Tarr e Mario De Bartolomeis,Edizione O.L.F.A., Ferrara, 2002

(Melinda Tamás-Tarr Bonani: «Girovagando nell'Impero diDiscorsopolis [Barangolás Szófajország Birodalmában]»,Taurus Editore, Torino, 1996) Da: «Traduzioni/Fordítások»

«Buongiorno! Mi chiamo Sandy. Posso sapere chi èLei?»«Ciao, Sandy! Io sono il Grande Mago Grammat. Horicevuto questo nome dal mio padrino, deriva dalladenominazione della legge della sua patria.»«Allora il suo paese è la Grammatilandia! È vero?Uao!... È strabuono!» - rispose la ragazzina - «Hobisogno proprio di Lei!... Forse lei mi potrebbeaiutare...»«Dipende...Che cosa vorresti da me?» - chiese ilGrande Mago Grammat.«Mi piacerebbe fare una gita con una barca su questofiume. Vorrei sapere dove scorre, in che tipo dimondo mi trovo...»«D'accordo, questo tuo desiderio sarà esaudito congran piacere. Aspetta, devo procurare una barca, poipartiremo. Prima ti farò vedere le isole di questo fiume, cheappartengono all'Impero di Discorsopolis...» A questo punto il Grande Mago Grammat fischiò echiamò le lettere maiuscole dalle onde del fiume e lecompose per creare la parola BARCA e ordinò loro didisporsi a forma di imbarcazione. Essa si materializzòcosì:

Illustrazione ideata dall'autrice, rielaborata da Gabriele Muscolini

Sandy e il Grande Mago Grammat salirono. Così ebbeinizio la loro avventura nell'Impero di Discorsopolis...

Fonte: Girovagando nell'intero di Discorsopolis di MelindaTamás-Tarr, Taurus, Torino, 1996, pp. 64.

Traduzione ungherese dall'originale irìtaliano di © Melinda Tamás-Tarr

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COCKTAIL DELLE MUSE GEMELLE Lirica - Musica -Pittura ed altre Muse

PAROLA & IMMAGINE

Ma ficca gli occhi a valle: che s'aprocciaLa riviera del sangue in la qual bolleQual che per violenza in altrui noccia.

(Dante: Divina Comedia, Inferno, Canto XII. 46-48 )

Béla Gy. Szabó: La Divina Commedia di Dante Alighieri/Lapalude di sangue (incisione sul legno) Foto dell'incisionestampata: di Mario De Bartolomeis,

MARIO GIOVANETTI«Escursioni nel sogno»

Venerdì 6 maggio alle ore 18,30 alla Galleria "del Carbone" di viadel Carbone, 18/a è statainaugurata la mostra personale di Mario Giovanetti, interessanteartista bolo-gnese che verràpresentato da Franco Farina eFranco Basile. Giovanetti daparecchi anni speri-menta l'uso edil riuso di materiali diversi: il legnood il metallo ad esempio, conrisultati estremamente raffinati siadal punto di vista plastico chepittorico, ci trasporta in un mondodi sogno dove il viaggio è ilprincipale stimolo espressivo. Nelcatalogo Franco Farina descrive lapreziosità creativa di Giovanetti:[...] Volendo si possonoconsiderare "astrazioni" queste fatiche recenti chenon sono vacue e mai meramente decorative,esprimenti piuttosto una severa indagine di presenzache si impone coinvolgendo sentimenti, fantasia estati d’animo che testimo-niano attraverso unpeculiare linguag-gio un personale percorso estetico.[...]. La mostra è stata aperta fino al 29 maggio 2005.

L’operare artistico non è costituito di solaconsapevolezza e per quanto possa essere operantela tensione ed il vaglio critico, spinte ed intensesottese si infiltrano arricchendo ed allargando gliorizzonti interpretativi che inglobano anche brandelli

di significante quotidiano. Parlo diaspetti che sono costanti nelle opered’arte degne di questo nome e chehanno riscontri in opere lontane neltempo e che tuttavia ne costitui-sconotraccia e testimonianza. La riduzionedella pittura in parole è peraltrosempre manchevole anche perfocalizzare i lavori meno recenti erecentissimi di Mario Giovanetti chevanta nel suo curriculum decenni diproficua attività ed estesiriconoscimenti. Infatti, il suo inte-resse per l’arte è caratterizzato dauna "vocazione" adulta attraverso lascorciatoia del collezionismo che lo haaffinato facendogli scoprire leinnumerevoli potenzialità cromaticheinsite nella materia, materia che

possiede fra le molte qualità una sua intima"intelligenza", ricchissima di modalità ed esperienze –come la tarsia ad esempio- che nuove sintesi formalipossono agevolmente offrire aspetti e letture altre. Daqui anche la dimensione fantastica chiamata adorganizzare un mondo coloristico davvero particolarecon recuperi che si spingono in una affascinanteinfinita affabulazione, un percorso che si snodaattraverso cicli compatti come si evince da questa

significativa rassegna titolata: "Escursioni nel sogno".

Sono variazioni su un ipotetico tema, dove MarioGiovanetti si palesa ancora sedotto dalla ricerca edattratto in periodi alterni sia dal figurativo, sia

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dall’astrazione, trovando il necessario collante nellapreziosità dell’esecuzione che sempre si ripropone conrinnovata forza, quasi con malcelata misuratamalinconia per il bello, dove non è assente il fortedesiderio di essere attraverso le opere. Volendo sipossono considerare "astrazioni" queste faticherecenti che non sono vacue e mai meramentedecorative, esprimenti piuttosto una severa indaginedi presenza che si impone coinvolgendo sentimenti,fantasia e stati d’animo che testimoniano attraversoun peculiare linguaggio un personale percorsoestetico.

Volendo ancora, è avvertibile una certa edonisticasensualità pittorica, una sorta di manierismoideologico che si sublima in esibizioni di bravura,trasfigurazioni da dove emergono attraversamentiaffidati per lo più al collage che sottolinea unostudiato ed attento contrappunto materico: leggere

graniture neutre si staccano evidenziandosi da unsupporto pittorico ricco e soffuso di velaturepolicrome.Logica consequenzialità vuole che l’appropriazione el’equilibrio delle diverse tecniche siano affrontatesinergicamente ed artatamente. Il risultato è evidenteperché convoglia in una unica opera che vuoleesprimere il proprio tempo fattori ed aspetti diversidando vita ad un "racconto" contemporaneo.Sempre volendo, si potrebbe dare inizio a discorsi altricome l’individuazione in queste opere di un sistema disegni oppure insistere sulle persistenze e sui residui dipratiche di superfice, ma è bene chiudere qui ilpossibile intervento esplicativo sui lavori di unostimato amico. [Franco Farina]

A cura diLucia Boni - Paolo Volta

- Ferrara -

SAGGISTICA GENERALE

LA POESIA PER L'INFANZIA: BREVE EXCURSUS

Le prime raccolte di poesie espressamente dedicateall’infanzia risalgono ai primi anni dell’Unità d’Italia:nel 1869 uscì un’antologia di liriche per le famiglie eper le scuole curata da Niccolò Tommaseo: il grandeeducatore, romanziere e poeta dimostrava la suamultiforme operosità e l’intuizione di ciò che allascuola ed all’infanzia poteva riuscire vantaggioso egradito. Poco dopo veniva pubblicata la prima raccoltadi poesie per l’infanzia: L’arpa della fanciullezza delmilanese Luigi Sailer (1825-85), di cui fa parte lanotissima poesiola La vispa Teresa.Altri versi per fanciulli scrissero in quel tempo ErminiaFuà Fusinato, educatrice e patriota, Felicita Morandi,Onorata Grossi Mercanti, Pietro Paolo Parzanese,Giuseppe Capparozzo.Fra i poeti della seconda metà dell’Ottocento e deiprimi decenni del Novecento, molti hanno scrittoqualche poesia che anche i bambini od i ragazzipossono gustare: Emilio Praga, Vittorio Betteloni,Giovanni Marradi, Giosuè Carducci (le famosissimePianto antico e San Martino), Severino Ferrari,Giovanni Bertacchi, Guido Mazzoni, Giulio Salvadori,Giovanni Alfredo Cesareo, Arturo Graf, Giulio Orsini,Enrico Panzacchi, Alfredo Baccelli, Pietro Mastri,Giovanni Cena e, più frequentemente, il grandeGiovanni Pascoli, che amò l’infanzia e sentìprofondamente la bellezza delle cose umili esemplici. Poesie come L’aquilone, Valentino, LaBefana, I due fanciulli, I due orfani, La cavallinastorna, X Agosto, Gesù e molte altre restanoindelebilmente impresse nell’animo del fanciullolettore.

Tra i poeti che già si affacciano sul Novecento o chedi questo secolo fanno parte a pieno titolo, ricordiamoi crepuscolari Guido Gozzano con La notte santa eSergio Corazzini con La crocetta d’oro e il futuristaAldo Palazzeschi con Rio Bo. E non possiamo nonmenzionare il ligure-apuano Ceccardo RoccatagliataCeccardi (La preghiera dei bimbi) e poi Ada Negri,Antonino Anile, Angela Talli Bordoni, Antonia Pozzi,Francesco Pastonchi, Lionello Fiumi, Angelo Gatti,Giuseppe Villaroel, Virgilio La Scola, Francesco Chiesa,Luigi Ugolini, Angiolo Orvieto, Corrado Govoni (Latrombettina è un capolavoro assoluto), Umberto Saba(Favoletta alla mia bambina, Goal!), LeonardoSinisgalli (Monete rosse), Attilio Bertolucci (Fuochi innovembre), Mario Dell’Arco (Aprile), Antonio Barolini(Il primo giorno d’estate), Luigi Bartolini, CesareZavattini, Cesare Vivaldi… Ma qui in modo particolare devono essere ricordaticoloro che all’infanzia ed alla fanciullezza hannodedicato intere e specifiche raccolte di versi, comel’onegliese Angiolo Silvio Novaro (1866-1938), autorede Il Cestello (1910), Il piccolo Orfeo, Tempietto. IlNovaro interpreta le voci della natura (Lapioggerellina di marzo, Il fanciullo e l’albero fiorito, Ilruscello); ci dà dei bei quadretti (I doni delle stagioni,Il canto del gallo), verseggia leggende (SanFrancesco e il lupo), illustra personaggi storici(Garibaldi). Non sempre è facile, il suo è unlinguaggio a volte un po’ ricercato; ma ci offreimmagini leggiadre, esprime teneri affetti, sente earmoniosamente rende le voci della natura; ci dà,insomma, della vera poesia, che anche l’infanzia

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intuisce come tale e che anche gli adulti possono (omeglio, dovrebbero) riscoprire.Un altro notissimo libro di poesia per i fanciulli(contenente anche pagine di prosa poetica) è IlCampanellino del veneto Diego Valeri (1887-1976),uno dei migliori poeti italiani del Novecento,ingiustamente sottovalutato dalla critica corrente.Valeri è l’erede più compiuto del Pascoli: tale si rivelaanche nei versi e nelle prose di questo libro, ricchi dimusicalità e di colore, manifestando un vivo amore eun grande rispetto per l’infanzia. Vi sono in questovolume liriche che sono veri gioielli (L’Ave, Chi sa?, Lagioia perfetta ecc.). Renzo Pezzani (1890-1951), nativo di Parma, nel 1926pubblicò il suo primo volume di versi, La rondine sottoil tetto. Più tardi vennero le raccolte per i fanciulli:Sole, solicello, Angeli verdi, Il sogno di un piccolo re,Belvedere, Il fuoco dei poveri. Nel 1950 pubblicòInnocenza e, alla vigilia della morte, Odor di cosebuone. La sua poesia s’ispira alla bontà e all’amore:amore per le cose umili, per la gente semplice, amoreper la madre e la famiglia, amore per l’umanità e perla patria. Qualche volta la forma può sembrare un po’dimessa, un po’ incerta l’espressione, forse neldesiderio di manifestare affetti e idee inesprimibili:ma le sue poesie illuminano aspetti e cose buone ebelle. I piccoli d’un tempo lo avevano capito, e alungo la sua poesia è risuonata tra i banchi d’ogniscuola, specie delle più umili, alle quali il Poetaregalava un po’ della sua ricchezza spirituale.Dante Dini scrisse le raccolte Le voci dell’alba e Lozufolo, che sono una festa di voci e di canti; una terzaraccolta, Alle porte del cuore, è più pacata e talvoltatriste, nel ricordo del figliolo morto.Il crepuscolare Marino Moretti (1885-1979) ci halasciato Il ciuchino, raccolta di poesie graziose,semplici, che parlano al sentimento. Molte di esse,incluse poi nell’edizione definitiva di Poesie scritte collapis, restano vive nel ricordo anche per l’originalitàdel contenuto, come Il burattinaio, La fiera delvillaggio, Prime tristezze (…Ero un fanciullo, andavo ascuola, e un giorno / dico a me stesso:”Non ci voglioandare”…).Giuseppe Fanciulli (1881-1951) è più noto comeeducatore e scrittore in prosa per la gioventù, per laquale ha lasciato una produzione pressochésterminata; ma ha tentato anche la via della poesia,sempre con l’intento di gettare nei cuori un seme dibontà e di amore.Molte sono le raccolte poetiche dedicate ai più piccini;tra le poetesse più note, citeremo Lina Schwarz,Arpalice Cuman Pertile, Milly Dandolo, RosaFumagalli, Edvige Pesce Gorini, Camilla Del Soldato,Etre Maria Valori, Anna Paola Bonazzoli, Térésah,Hedda (pseud. di Lucia Maggia), Zietta Liù (pseud. diLia Bartorelli Maggiulli), Graziella Ajmone, Lina Galli,Romana Rompato, T. Romei Correggi, Dina Mc.Arthur Rebucci, Lucia Salvatore, Adele Albieri, RosaliaCalleri, Lidia Torretta, Irene Maria Brinati, Lina

Carpanini, Maggiorina Castoldi, Luisa Nason, GianninaFacco, Stefania Plona.Un posto a parte merita Ugo Betti, il magistrato diCamerino (1892-1953) purtroppo ancora oggi notoquasi esclusivamente come drammaturgo e pocoapprezzato come poeta. Le raccolte bettiane non sonostate dedicate specificamente all’infanzia, ma ci sonoin esse moltissime liriche che, al pari delle più celebrifiabe di Perrault o dei fratelli Grimm, incantano ibambini. Ne Il re pensieroso (1922) il motivo centraleè uno stupendo mondo fiabesco popolato di cavalieri,fate, re e principesse che vivono in superbi castelli ein giardini con cigni e fontane. Il poeta guarda conocchio di fanciullo i problemi del reale e li risolve tuttiin modo idillico, utopistico. Magnifico è l’incipit de Laprimavera (Quando il cielo ritorna sereno / comel’occhio d’una bambina, / la primavera si sveglia…). InCanzonette – La morte (1932) dòmina unainquietudine, un mondo fiabesco inteso comedesiderio inappagato d’ingenua gioia e di sconfinarenel meraviglioso onde trovare ciò che è più adeguatoal sentire intimo del poeta. Famosa la rivisitazione deLa bella addormentata (… Ella che dorme, lui che sidispera; / mormora mormora la foresta nera) efamosa anche la poesia Piccola nuvola di primavera(Dopo l’acquata le nuvole, pronte, / pigliano il volo,scavalcano il monte…). Lo stile di queste due raccolteè di Realismo utopistico o fantasioso.Tra i poeti più recenti, un posto d’onore spettaovviamente a Gianni Rodari (1920-80), di Omegna,che con la sua opera contribuì a svecchiare laletteratura per l’infanzia, creando testi di grandeinteresse; delicato autore di filastrocche, poesie efavole per bambini, riesce a cogliere in modo semplicee immediato la voce dei più piccoli, i loro pensieri, iloro problemi. Alieno da sentimentalismi e dapreoccupazioni moralistiche, spesso è ironico; èsempre intelligente e spiritoso; fa riferimento alla vitaconcreta, quotidiana, a ciò che sta fuori, nel mondo ditutti i giorni (C’è una scuola grande come il mondo).E’ a volte allegramente rivoluzionario, tanto da avercostituito, in anni non troppo lontani, una spina alfianco della scuola autoritaria e degli educatorirepressivi.Autore di nonsense su modello dell’inglese EdwardLear è il romano Toti Scialoja (1914-1998), ancherinomato pittore e tra i fondatori del “Gruppo 63”.Pubblicò poesie aventi come protagonisti gli animali,come nelle raccolte Amato topino caro (1971), Unavespa! Che spavento! (1975), La stanza, la stizza,l’astuzia (1977), Scarse serpi (1983). La sua raccoltacomplessiva s’intitola Versi dal senso perso.Tra gli altri autori contemporanei, i cui versi sonofruibili anche da parte dei ragazzi, ricordiamo SergioDe Guidi, Tonino Guerra, Pino Ruffo, PasqualeRuocco, Sebastiano Saglimbeni, Giovanni Serafini,Amalia Vago, Raffaello Bertoli, Attilio Carosso, FrancoRiccio… E ci scusiamo se, per ovvi motivi di spazio,non possiamo nominarne altri, compresi quellidialettali.

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E’ auspicabile che la tradizione di scrivere raccoltepoetiche per i più piccini, per i fanciulli ed i ragazzi,dopo una straordinaria stagione creativa che spaziaper oltre cento anni, dalla seconda metàdell’Ottocento fino agli anni Sessanta-Settanta delNovecento, venga ripresa e rinverdita anche in questoinizio di nuovo millennio, per alti fini morali ededucativi (*).

(*) Si sono consultati, per il presente articolo, G. FANCIULLI- E. MONACI, La letteratura per l’infanzia, S.E.I., Torino,1941 e O. BONAFIN, La letteratura per l’infanzia, La ScuolaEditrice, Brescia, 1961, nonché storie della letteratura edantologie per le scuole elementari e medie.

Marco Pennone- Savona -

NARRATIVA ITALIANA: STILE DA “FLOP”

Un lettore bergamasco, inviò ad un quotidianonazionale la seguente missiva: “Sto leggendo “Ilpartigiano Johnny” di Beppe Fenoglio e “L’odore dellanotte” di Andrea Camilleri. Il primo è scritto a metà initalo-piemontese e metà in inglese; e, come vicendapartigiana non è un gran che. Il secondo, in italo-siciliano ed è di una grande banalità. Entrambi inpratica sono illeggibili. Come facciano i critici a lodaretali opere è un mistero. Insulsi e supponenti trovo,poi, Umberto eco ed Alberto Bevilacqua, mentreAlberini (il filosofo dell’ovvio) rappresenta il nulla”. Dunque, la narrativa italiana va sprecandosi?Almeno a giudicare da un frazionato sondaggio traalcuni distributori e imponenti librerie, la narrativaitaliana “viaggia poco”. Pur criticato da quel lettorebergamasco, Andrea Camilleri (lodato businessman) asuo tempo accusò i colleghi romanzieri di non saper“tirare bene” il ritmo e la sostanza del romanzo; nonper nulla, in un convegno romano (presso laBiblioteca Ruspoli), ammise con tenacia che “nonsiamo noi giallisti ad uccidere la letteratura. È ilromanzo italiano che si sta suicidando!”. Camilleri(pure io lo critico “male”) affermò che il motivo deldisamore del pubblico, verso la letteratura, vaimputato agli scrittori “che hanno rinunciato araccontare emozioni”. A titolo personale, metterei, con onore, alla gogna inomi di Giorgio Soavi, Alberto Bevilacqua, Aldo Busi(per citarne alcuni): i loro romanzi sono ricchi diciancieria che più s’avanza nella lettura più si rischial’embolia cerebrale. Non ho potere diffondere appelloper sostenere che non è poi così difficile scrivere perfar sì che il lettore provi spasmo, entusiasmo esoddisfazione a fine lettura. Un romanzo italiano deveessere avvincente, tale da invitare chi legge a “voltarepagina”; bisogna creare un’opera che sa catturarel’attenzione sin dalle prime righe e mantenerla desta,con ausilio alla sostenutezza del ritmo narrativo;

usare sempre l’estrema fluidità del linguaggio,accessibile alle più varie categorie di lettori. Le note giuste hanno colore “giallo”; il “giallo”possessore di suspense, brividi, sorprese, attimi ditensione per l’avvicinarsi al nome del colpevole:ingredienti ben amalgamati, succosi e appetibili allettore. Chi piacesse trame sentimentali, con focosibaci tra protagonisti di spicco, il piatto è unico: sichiama serie “Harmony”. “La narrativa italiana è, come genere, all’ultimoposto nelle vendite di libri.”, spiega Vincenzo Nagaridella Distribook, società con sede a Milano. “In questocampo, i profitti sono scarsi. Un autore italiano,magari esordiente e pubblicato da una piccola casaeditrice, raramente vende più di mille copie, cioèmolto meno di un ricettario di cucina o di una guidapratica di giardinaggio.” Marco Tommaso, già responsabile della principalelibreria milanese Rizzoli e ora al megastore Fnac, cosìsentenzia: “Se un autore vende 20-30 copie qui,presubilmente sta andando bene dappertutto. Ma gliitaliani sono pochi. A volte, le vendite avvengono intempi lunghi; sono favorite da iniziative del libraiostesso, come conferenze, presentazioni,un’esposizione privilegiata sui banchi e negli scaffali.”

Gianmarco Dosselli

- Flero (Bs) -

Giuseppe Miccichè — [email protected] NOTA SU MORAVIA E TOZZI

La concezione della realtà come “allegoria vuota” hanotevolmente ridotto lo scarto,rendendolo sottile,diremmo esilissimo nei caratteri fondamentali tral’esistenzialista avant la lettre, Alberto Moravia, chenon ha certo bisogno di presentazioni, e il granderomanziere e novelliere tra Otto e Novecento:Federigo Tozzi. Lo iato fortissimo tra ordo idearum eordo rerum e la conseguente incapacità di spiegare ilreale tipico del mondo tozziano, ha permesso aMoravia di riconoscere il suo debito nei confronti delsenese. La stessa aderenza al cattolicesimo da partedi Tozzi nel sessennio romano (1914-1920) più cheessere un’ideologia capace di cogliere il reale divieneal contrario una religione carica di mistero,nonottocentesca, che non offre agli uomini nessun sensoalla realtà. È fuor di dubbio quindi che la definizione discrittore senza ideologia data da Moravia cogliel’essenza della prosa tozziana oltre che connotarel’individualità dello scrittore romano2. Considerate talipremesse,un confronto tra i due scrittori è un passoobbligato. È da puntualizzare,a scanso di equivoci,che il giovanissimo e precoce scrittore de Gliindifferenti presumibilmente non aveva avuto modo dileggere le opere del senese,vittima quest’ultimo perun quarantennio della più grave congiura del silenzio.Nonostante ciò, la prima produzione moraviana quellacioè che va da Gli indifferenti ad Agostino presentanumerose assonanze con la narrativa del senese.

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L’immaginario tozziano prefigura quello moraviano. Lacondizione di Carla ne è l’emblema. Nella suaimmensa solitudine dapprima «intuita» poi«inevitabile», e nella sua emarginazione dalla società,in quanto ragazza assai «screditata» come dirà Leonel XV capitolo e che costituirà l'ossessivo problemaper la ricerca di un marito borghese, Carla è vittimanon solo dei desideri sessuali di Leo ma ipoteticavittima da dare in sposa a Merumeci, cui pensa ilfratello Michele per ristabilire la crisi economica dellafamiglia Ardengo.Carla, insomma,nell'illusione leopardiana di "unanuova vita" è corrosa da una sorte non dissimile dall'Elena Spadi di Una gobba o la giovine de Il Crocifissosegnate anch'esse da un ostracismo sociale, vittimedella comunità ed emarginate.

‘Se mi avesse amata’ si ripeteva ‘mi avrebbeconsolata… e invece niente: ha spenta la luce e si èvoltato dall’altra parte’. Quella solitudine che primaaveva appena intuito, ora le appariva inevitabile; sicoprì gli occhi col braccio nudo;ebbe se la sentì sulvolto, una smorfia di amaro dolore: ‘Non mi ama….nessuno mi ama’, non cessava di ripetersi. [corsivinostri]3

Carla anticipa l’esclusione dei personaggi moraviani.In un mondo in cui dominano le leggi della forza, delsesso e del denaro la distonia prevale sulla sintonia e ipersonaggi non riescono a inserirsi in una classesociale. Così Michele de Gli indifferenti non riesce ainserirsi nel mondo borghese, Girolamo del raccontoInverno di malato e Agostino dell’omonimo romanzosono esclusi dal mondo popolare in cui vorrebberopure inserirsi. Gianmaria del racconto L’imbroglio,isolato dal consorzio sociale, viene lusingato e poitruffato da Santina,ragazza senza scrupoli (il cui nomesuona dunque antifrastico). La principessa di Delittoal circolo del tennis in seguito al crollo finanziarioviene «esiliata» dalla società mondana senza riuscirea integrarsi nel mondo borghese. Anche i personaggitozziani sono degli esclusi. Ma essi a differenza diquelli moraviani non riescono a inserirsi nellacomunità,non in un ambiente sociale ben definito,colpevoli di essere “diversi”. La loro sorte connaturataalla diversità sarà quella di essere prima emarginati epoi da fungere da capro espiatorio. In tale casisticarientrano i personaggi di alcune novelle come lamaestrina di Un’osteria, la prostituta de Il crocifisso,la matta dell’omonima novella e il protagonista di Miamadre che pagano con l’isolamento e l’emarginazione.Nel romanzo Il podere, il protagonista Remigio Selmi,incapace di aderire alla logica paterna e diveniredunque amministratore della proprietà terriera pagala propria inettitudine con l’emarginazione e lapunizione da parte della comunità che isola il diversoe poi lo sopprime. Berto, l’assalariato, infatti uccideRemigio con un colpo d’accetta sulla nuca.Altro elemento parallelo e analogico è la ritrattisticasadica e grottesca, in cui prevalgono i dettagli isolati

dal tutto con la tecnica della “zumata”, in cuil’espressionismo raggiunge il parossismo:

Vicino a me era venuta,senza che me n’accorgessisubito, una ragazza: scalza, con i capelli neri, pochi etenuti fermi dietro la testa da una forcella sola. Questicapelli erano come certi ragnateli che fanno schifo.Aveva la fronte grassa, ricoperta da ciccelli grinzosi.Una veste sbiadita e vecchia; che non le stava su edoveva tenerla ai fianchi con le mani. Pareva che lefossero caduti addosso chi sa quali trogoli di sporcizieche lasciano le macchie per sempre4.

Curvo, seduto sul divano, egli osserva la fanciulla conuna attenzione avida: gambe dai polpacci storti,ventre piatto, una piccola valle di ombra fra i grossiseni, braccia e spalle fragili, e quella testa rotondacosì pesante sul collo sottile. [OB, p. 6]

All’espressionismo della ritrattistica non corrisponde,come in Tozzi, un espressionismo onirico e visionario.In Moravia l’ancoraggio al reale è molto forte, dominaincontrastato il realismo, tranne in passi come questo:

‘Andiamo da Leo’ si ripeté. Ora lo spazio grigio eimmobile pareva deformarsi ogni tanto di labililacrime; all’angolo della strada c’era una specie diofficina meccanica per riparazioni; sulla soglia dellaporta un uomo vestito di uno scafandro sudiciosmontava una ruota di bicicletta; faceva caldo; nonuna sola voce; le lacrime del cielo deformavano al loropassaggio delle case di sei piani,ecco, le vedevatorcersi, piegarsi flessibilmente con tutte le lorofinestre,ma non lasciavano traccia sulle pietre delmarciapiedi; dei larghi sputi giallognoli or qua or làma nessuna lacrima;allucinazione? [OB, p. 261]

Collimano,oseremmo dire, due tendenze complemen-tari e oppositive che si smorzano e si escludono avicenda costituendo,all'interno della ritrattistica, i duepoli della stessa dialettica: una che tende aindividuare in modo scaltro,soggetti ben precisi,dotati di una forza propria, a volte con delleambiguità ideologiche. È il caso di Michele. L'altra,ingenua, che tende a destrutturate, tramite laparatassi, qualsiasi tipo di gerarchie, mortificando eappiattendo ogni peculiarità; è la frequente anima-lizzazione, per l'appunto, che accomuna Moravia aTozzi. Dunque polifonismo e animalizzazione.Ma attenzione: l'animalizzazione moraviana, cheaccredita ulteriormente il suo moralismo, funziona inmodo antifrastico. Non si tratta, in questo caso,dell'impotenza dell'uomo a riemergere dal peccatooriginale, ma di una desublimazione dell'uomo, acausa di un suo vizio, al livello della bestia5. Moraviaimbocca una strada nuova: quella dell’antifrasiradicale.

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Tale fantasia, per dirla in breve, consistevanell’immaginare quale aspetto avrebbero avuto lepersone che conosceva, se, abbandonando leconsuete sembianze umane, avessero ad un trattoassunto figure di animali; ciascuno secondo il propriopreciso valore morale e intellettuale e le proprie piùsegrete tendenze. [OB, p. 1446]

Abbiamo parlato del parallelismo ideologico. In effettila concezione della realtà come “allegoria vuota”determina in entrambi gli scrittori una costante cupaangoscia, lontana dalla leggerezza di Calvino, che sisnoda in una contemplazione evenemenziale. Moltesono le assonanze, come ho dimostrato preceden-temente, fra i due scrittori che si formano suDostoewskij. L’isolamento della parte rispetto al tutto,la tecnica espressionistica della zumata, l’anima-lizzazione, la violenza deformante della ritrattistica,l’incapacità di porsi sopra i propri personaggi tipicodel Pirandello umorista, l’interesse rivolto alla logicaeconomica, la mancanza di comunicazione tra ipersonaggi sono tratti indiscutibilmente comuni._______________________ È questa l’interpretazione di Romano Luperini, in FederigoTozzi. Le immagini, le idee, le opere, Roma-Bari, Laterza,1995, pp. 64- 65.2 È la tesi di A. Moravia, Invito alla lettura in Federigo Tozzi,Novelle, Vallecchi, Firenze, 1976 p. VII3 Gli indifferenti in Opere/ 1 Milano, Bompiani, 2000, p. 180.Abbrevio con OB il riferimento all’edizione alle opere/1Bompini.4 Federigo Tozzi , Opere, Romanzi, Prose, Novelle,Saggi, acura di Marco Marchi, Introduzione di Giorgio Luti, Milano,1993, p. 808.5 E’ questa l’interpretazione di Luigi Baldacci riguardol’impotenza dell’uomo a riemergere dal peccato originalenell’opera tozziana, in Tozzi moderno, Einaudi, Torino,1993, p.12.

GIAN DOMENICO ROMAGNOSI: giurista, economista, scienziato, storico,

filosofo e pedagogista

Gian Domenico Romagnosi, una delle più eclettichepersonalità di intellettuale a cavallo tra XVIII e XIXsecolo, nacque a Salsomaggiore, nel ducato borbonicodi Parma e Piacenza, nel 1761. Allievo interno deigesuiti di Piacenza al Collegio “Alberoni” (dove studiòanche il poco più giovane Melchiorre Gioia, 1767-1828), mentre attendeva agli studi di scienze naturalie di fisica, gli capitò di leggere il “Saggio sull’originedelle conoscenze umane” del Condillac (1715-80) e sisentì attratto verso gli studi filosofici. Si formò suitesti empiristi e sensisti (per tutta la vita fuammiratore di F. Bacone e di J. Locke; inoltrericordiamo che il sensista Condillac aveva insegnato aParma nel decennio 1757-67) e sulle operedell’Illuminismo francese. Si laureò in giurisprudenzaall’Università di Parma nel 1786. Fece il notaio aPiacenza, indi il pretore e il potestà a Trento, doverimase per oltre dieci anni esercitando nel contempo

l’avvocatura. Si occupò anche di scienze fisiche eosservò per primo la deviazione dell’ago magneticosotto l’influenza della corrente galvanica, scopertafondamentale per gli studi sull’elettro-magnetismo.Aderì alla Massoneria fondando con A. Saffi la “LoggiaGioseffina” e fu a capo di un club giacobino. Nel 1791pubblicò la sua prima opera importante, per cui vieneconsiderato tra i fondatori del moderno diritto penale:la “Genesi del diritto penale” (III ed. riveduta edampliata, 1823-24), in cui dimostrava il fondamentoesclusivamente sociale del diritto di punire(riprendendo una tesi già avanzata dal Beccaria nelsuo famoso opuscolo “Dei delitti e delle pene”) edapplicava alle scienze giuridiche e sociali il metododell’esperienza, al quale resterà sempre fedele.Scoppiata nel 1789 la Rivoluzione Francese, ilRomagnosi pubblicò due opuscoli: “Che cos’èuguaglianza” (1792) e “Che cos’è libertà” (1793), incui rivelava simpatie rivoluzionarie. Nel 1796, sotto iFrancesi, pubblicò un memoriale in cui sosteneva lariforma del sistema carcerario e della pubblicaistruzione: ciò gli valse, tornati gli Austriaci nel ’99,l’incarcerazione a Innsbruck sotto l’accusa di altotradimento. Liberato l’anno successivo, si compromisenuovamente nel 1801 durante l’invasione francese delTrentino, assumendo l’incarico di segretario generaledel Consiglio Provvisorio. Nel 1802 divenne professoredi diritto pubblico all’Università di Parma. Nel 1805pubblicò l’”Introduzione allo studio del diritto pubblicouniversale”, con ampie aperture alla storia dellaciviltà. Chiamato l’anno dopo a Milano, contribuì allapreparazione del codice penale e di procedura penaledel Regno Italico e fu consultore del ministero digiustizia e professore di alta legislazione nelle scuolespeciali di diritto, da lui stesso progettate e realizzate.Nel 1807 ebbe la cattedra di diritto civile a Pavia.Durante il periodo milanese (1807-14), la fama el’influenza del Nostro crebbero sempre più, ed eglipartecipava alla vita culturale e pubblica moltointensamente: elaborò la “Scienza delle costituzioni” ei “Princìpi fondamentali di diritto amministrativo”(1814); pubblicò vari studi di carattere tecnico;collaborò a prestigiose riviste del tempo: le milanesi“Biblioteca italiana” e “Annali universali di statistica” ela fiorentina “Antologia”. Dal 1811 al ’14 diresse il“Giornale di giurisprudenza universale”. Con la cadutadel Regno d’Italia e il ritorno degli Austriaci inLombardia, si aprì per il Romagnosi un periodo disospetti e persecuzioni. Nel 1815 aveva pubblicatoanonimo, a Lugano, “Della costituzione di unamonarchia nazionale rappresentativa”, schema dicostituzione da lui concepita, che gli procurò due annipiù tardi la perdita della cattedra e la soppressionedelle scuole speciali di diritto. Da allora si diedeall’insegnamento privato: tra i suoi discepoli, C.Cattaneo, G. Ferrari, C. Cantù, G. e D. Sacchi. Nel1818 con Pellico, Confalonieri ed altri patrioti, fondò ilfoglio scientifico-letterario “Il Conciliatore”. Legato agliambienti progressisti, nel 1821 venne arrestato sottol’accusa di non aver denunciato alcuni cospiratori e

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incarcerato a Venezia; assolto per insufficienza diprove e rimasto senza lavoro, non poté accettarel’invito del governo inglese di andare a insegnaregiurisprudenza teoretica all’Università di Corfù, poichéle autorità gli negarono il passaporto; gli fu ancheproibito l’insegnamento privato. Tornato a Milano,infermo a séguito di un attacco di emiplegia fin dal1812, costretto alla miseria, con il solo conforto deifedeli amici e discepoli che segretamente loaiutavano, poté continuare la sua attività intellettualedando consultazioni legali e attendendo agli studiprediletti, tanto che gli ultimi suoi anni furono anche ipiù intellettualmente fecondi. Oltre allaspecializzazione giuridica, i suoi studi spaziarono sullaproblematica filosofica, che divenne centrale, nontrascurando, ecletticamente, molte altre branche delsapere. Le opere di questo periodo sono: “Assuntoprimo della scienza del diritto naturale” (1820), in cuiconcilia il principio di libertà con quello di ordinesociale (il Romagnosi propugnò una scienza dellaciviltà di tutti i popoli, la etniarchìa, basata sulprincipio della sovranità nazionale); “Dell’insegn-amento primitivo delle matematiche” (1822), “Dellacondotta delle acque” (1822-25), “Che cos’è la mentesana?” (1827), “Questioni sull’ordinamento dellestatistiche civili” (1827-30), “Della suprema economiadell’umano sapere in relazione alla mente sana”(1828), “Della ragion civile delle acque nella ruraleeconomia” (1829-30), “Vedute fondamentali sull’artelogica” (1832), “Dell’indole e dei fattori dell’incivi-limento con esempio del suo risorgimento in Italia”(1832, in cui tratteggia l’evoluzione dei popoli comeprocesso comprendente morale, politica, economia ediritto: l’indagine storiografica si allarga in unaprospettiva complessa di storia della civiltà ancor oggidi grande interesse), “Vedute eminenti peramministrare l’economia suprema dell’incivilimento”(1834). Sempre fedele alle proprie idee liberali,avverse all’assolutismo e favorevoli ad un sistemaparlamentare rappresentativo, nel 1834 il Romagnosifu nominato membro dell’Accademia di Scienze Moralie Politiche di Francia. Morì nel 1835 a Carate Brianza,stroncato da un attacco di apoplessia. Secondo le suevolontà, venne ivi sepolto. Lo stesso anno dellamorte, il discepolo G. Ferrari aveva pubblicato il libro“La mente di Gian Domenico Romagnosi”, in cui siribadisce l’importanza attribuita dal Nostroall’esperienza e all’analisi sperimentale. Postumeuscirono: “Ricerche sulla validità dei giudicii delpubblico a discernere il vero dal falso” (1836, a curadi C. Cattaneo), “Giurisprudenza teorica ossiaIstituzione di civile filosofia” (1839, in cui sostenevauna scienza intermediaria tra la pura filosofiarazionale analizzante l’uomo interiore e la scienzadella legislazione), “Della vita degli Stati” (1845),“Diritto naturale politico” (1845), “La scienza delleCostituzioni” (scritta nel 1815 e pubblicata nel fatale1848, in cui indicava nella monarchia temperata laforma capace di armonizzare il potere del governocon i diritti dei cittadini). Tra le ultime fatiche del

Romagnosi, va anche annoverata la traduzione, nel1832, di buona parte del “Manuale di storia dellafilosofia” di Guglielmo Tennemann. Tralasciando il Romagnosi giurista, economista estorico (del quale abbiamo dato succinte notizieenumerando le varie opere in tali campi), ci interessaqui soprattutto il Romagnosi filosofo e peda-gogista. Il primo risentì l’influsso, come già dettoall’inizio, del Sensismo condilacchiano e dell’Empi-rismo inglese, per cui le conoscenze derivano dallesensazioni e dall’esperienza; pertanto rivendicòl’importanza del metodo sperimentale e induttivo,che già il pensiero illuminista aveva accolto qualesostanziale opposizione al pensiero metafisico. Incampo gnoseologico, giunse ad un agnosticismorelativamente all’essenza delle cose, in favore di unavalutazione pragmatistica della conoscenza stessa(in tal senso, può essere considerato un precursoredel Pragmatismo). Romagnosi non risparmiò le suecritiche a Kant, ma soprattutto all’Idealismopostkantiano, affermando in tutte le sue operel’esistenza di leggi oggettive della Natura chel’intelletto umano ha il còmpito di rivelare. Ma ilRomagnosi sottolinea altresì la complessità deiprocessi cognitivi e il dinamismo del reale, attenuandoil rigido sensismo e arrecandovi delle modificazioni.Nella sensazione egli vede infatti un momentoprimigenio passivo, da cui la conoscenza si eleva aduna fase superiore: la percezione, che implicaun’appropriazione sostanzialmente attiva del datofornitoci dai sensi; egli introduce il concetto di sensologico, distinto dall’attenzione e dal giudizio,anteriore alla coscienza stessa, perché nella coscienzasiamo contemplatori, mentre nella funzionesoggettiva del senso logico siamo operatori delfenomeno. Mediante il senso logico noi connettiamo leimpressioni, le coordiniamo, le valutiamo. Attribuiscea questo senso la doppia funzione differenziale eintegrale, precorrendo il positivista Spencer (1820-1903), che riponeva in queste funzioni il processodell’intelligenza.Per quanto attiene ai problemi della società e dellamorale, il Romagnosi è un deciso sostenitore dellatesi naturalistica: lo sviluppo della società dipende,secondo lui, da leggi costanti come quelle naturali. Inmodo analogo, la moralità è la ricerca di condizioniatte a realizzare la vita sociale dell’uomo ed arispondere ai suoi triplici fini naturali: laconservazione, il perfezionamento, la felicità. IlRomagnosi non riesce a superare i limiti dell’eudemonismo illuministico, affermando che non vipuò essere una radicale opposizione tra l’utile ed ilgiusto (in ciò si accosta agli utilitaristi inglesi come ilBentham), ma insiste sulla necessità che l’uomoimpari a seguire le norme universali dettate dallaragione. La sua formula è: “Conoscere con verità peroperare con effetto”. E l’effetto ultimo cui l’uomotende è quello del conseguimento della propriafelicità, la quale non può andar disgiunta da quelladegli altri, come deve avvenire in una “culta e

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soddisfacente convivenza”. La dottrina dell’incivi-limento svolge ed approfondisce tale concetto,sforzandosi di analizzare i fattori e le leggi storicheche hanno determinato la convivenza umana. Fra talifattori, lo Stato ha una parte importantissima: essodeve tutelare ed educare i cittadini.Il Romagnosi pedagogista (che aveva attentamentemeditato sui testi di Locke, Rousseau, Pestalozzi)inquadra il problema dell’educazione in una visionegenerale del momento storico. Per lui, soggettodell’educazione è l’uomo nella concretezza della vitasociale, quale si è costituita attraverso lo svolgimentostorico di un dato popolo. Egli dà la massimaimportanza ai fattori dativi dell’incivilimento(colonie, conquiste, legislatori) rispetto ai fattorinativi e attribuisce il maggior valore all’operalegislativa dei governi per l’educazione.L’istruzione è un diritto e un dovere, tantodell’individuo verso la società, quanto della societàverso l’individuo. Essa deve essere ginnasticaintellettuale, deve sviluppare la facoltà di pensare, equindi è una istruzione educante. Scopodell’istruzione, che si fonda sull’intuizione, è quello diplasmare la mente del ragazzo in ogni fase del suosviluppo, di formare il suo senso logico. L’erudizioneverrà in un secondo momento: “L’educazione devesviluppare e rendere attiva la facoltà di pensaredell’allievo più che renderlo addottrinato”. L’uomodeve imparare a seguire le norme universali dettatedalla ragione; la formula giusta è: “Conoscere laverità per operare con effetto”. Per sviluppare ilpensiero, le operazioni sono quattro: ben assumere,ben discernere, ben concludere, ben esprimere: diqueste quattro attività la mente sana deve mostrarsipienamente capace. Come criteri didattici, ilRomagnosi sostiene il principio della gradualità, percui occorre seguire il grado di sviluppo psichico delfanciullo non impartendo insegnamenti inadatti all’età;il ricorso all’esercizio, senza però dare direttivetroppo rigide ma semplicemente seguendo eindirizzando l’attività personale dell’allievo;l’importanza di suscitare l’interesse del discepolo permantenere desta l’attenzione, condizioneindispensabile per l’apprendimento. Raccomanda ilmetodo, già sperimentato in Inghilterra da Bell eLancaster, del mutuo insegnamento, per cui i ragazzipiù grandicelli insegnano a quelli più piccoli. Convintoche la scuola elementare sia indispensabile al buonfunzionamento della società, afferma che la scuola

primaria deve essere statale, obbligatoria egratuita; ma per quella media e superiore ci deveessere una libera scelta, secondo il principio dellalibera concorrenza. Il Romagnosi era contrario nonall’educazione religiosa, ma ad ogni indebitainterferenza della Chiesa nell’attività dello Stato, percui ritenne l’istruzione pubblica quale sommo ufficiodello Stato.Quella del Romagnosi è una pedagogia a sfondosociale, per una educazione creatrice di autenticaciviltà. L’opera educativa dev’essere per lui unitaria:distingue un’educazione naturale, domestica, sociale,politica, religiosa, straniera; ma è nell’unificazione diquesti diversi aspetti che pone l’efficazia dell’azioneeducativa. Identica preoccupazione di integralità egliprospetta anche trattando delle diverse fasi dellosviluppo psicologico dell’allievo; il predominio in essedi una o l’altra caratteristica peculiare non dà origine– come per il Rousseau – ad un’educazionesuccessiva, ma anche tutte le altre potenzialità delragazzo devono essere curate e seguite, in ogni fasedel suo sviluppo (*).

(*) Fonti del presente articolo: G. SEMPRINI, Nuovodizionario di coltura filosofica e scientifica, F.I.D.E.S.,Genova, 1951; A. NORSA, Breve storia della Filosofia edella Pedagogia, Signorelli, Milano, 1950, vol. III;Enciclopedia Europea Garzanti, vol. 9, s. v.; EnciclopediaMultimediale Rizzoli-Larousse, s. v.; Dizionario Enciclopedicodi Pedagogia, vol. IV, s. v.; Dizionario Enciclopedico Labor,vol. IV, s. v.; Storia del pensiero filosofico e scientificoGarzanti, a c. di L. GEYMONAT, vol. III; F. FIORENTINO,Compendio di storia della filosofia, a c. di A. CARLINI,Vallecchi, Firenze, 1932, voll. II e III.

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Kusturica, in parte conferma quanto già avevamovisto del regista bosniaco, in parte ci propone dellenovità. Il déjà vu è costituito dall’impianto generaledella storia, con un’atmosfera creata da personaggistralunati che vivono esperienze caotiche. Come neiprecedenti lungometraggi del cineasta, il ritmo non dàtregua, le situazioni di febbrile follia si accavallano, ilgrottesco e il poetico si fondono, un senso diubriacatura generale regna incontrastato, con genteche grida, piange, si dispera, canta sguaiatamente,corre sui letti con le ruote nei corridoi dell’ospedale,incolla i pezzi alla scacchiera affinché lo scoppio dellebombe non li faccia sobbalzare, con asini fermi suibinari, cani e gatti che litigano furiosamente, oche chesi muovono come se fossero aerei in parata… tuttoquesto ed altro ancora non è nuovo in Emir Kusturica:tutto si mescola a creare situazioni in cui la folleturbolenza sembra inarrestabile e, anzi, crescevertiginosamente. Nessuno sa o forse vuole fermarla,anche perché essa viene presentata come la veranatura di quei gruppi etnici, unica causa,sembrerebbe, della disintegrazione della Jugoslavianegli anni ’90 del secolo passato.Questa, almeno, è la visuale che ci offre Kusturica.Secondo il suo modo di sentire, quei fatti luttuosi,quella realtà assurda poco hanno a che vedere con lapolitica, molto col sangue, con i segni di unadissennatezza che appartiene a tutto un popolo, orastralunata, ora ridicola, e che innesca una tensioneche sfocia spesso nel tragico: in questi termini,quanto detto finora potremmo riferirlo anche adUnderground – alla cui potenza visionaria, però, Lavita è un miracolo non riesce ad avvicinarsi – o aGatto nero, gatto bianco. La cifra stilistica di Kusturicanon si smarrisce ed è chiaramente individuabile:anche se questo è il primo lungometraggio del registache tratta espressamente il tema della guerra etnica,lo stesso passa in secondo piano, sembra più unpretesto narrativo, è visto come una conseguenzainevitabile di quella pazzia. In altri termini, potremmodire che in quest’ultima pellicola la ricerca formaleprevale sui contenuti, l’edonismo sull’espressione.Quello che, invece, appare più nuovo, perché menoevidente nei suoi film precedenti, è il datosentimentale, che esplode all’improvviso nellaseconda parte della storia. Una storia d’amore cheodora, come tutto il resto, di polvere da sparo,sussulta e trema come i vetri e i tetti delle case agliscoppi delle bombe. Essa, però, si nutre di unavolontà di vivere che sembra essere l’altra faccia dellastravagante follia che colpisce all’improvviso la genteche si ammazza e infierisce sul senso della vita conodi e rancori sedimentati nei secoli e che riaffioranosenza spiegazioni apparenti. Come tutto il resto,l’amore è una miscela che deflagra, ma gioiosa,tenera, liberatoria, scanzonata, poetica e, talora,drammatica.Siamo nel 1992. Luka (Slavo Stimac) - ingegnereserbo di Belgrado andato a fare il guardiano di uncasello ferroviario in un paese sperduto – una volta

che la moglie Jadranka (Vesna Trivalic), cantanted’opera depressa, se n’è andata con un cembalista,tiene con sé Sabaha (Natasa Solak), giovaneinfermiera musulmana, fatta prigioniera e ostaggio dascambiare con il figlio Milos (Vuk Kostic), caduto nellemani avversarie.Più che una considerazione, fatta col senno di poi, chel’amore può (avrebbe potuto) superare ogni barriera,viene introdotto in questo modo il contrappeso di unsentimento che ha la stessa forza del caosprecedente: non può essere spiegato o frenato e puòesplodere all’improvviso.Kusturica, fortunatamente, non abbocca alla facileretorica del vogliamoci tutti tanto bene: come nonaffonda alcuna disamina politica sulla tragediajugoslava, processo troppo doloroso e inestricabilenella sua assurda complessità, così inseriscequell’amore quasi con distacco, in punta di piedi, mapiù liberamente, senza porre l’accento sulla differenzadi etnia di Luka e Sabaha che, pertanto, non assumeun simbolico nesso salvifico. Questo significato l’ha,invece, l’asinello che, innamorato, non si sposta daibinari: è la metafora che conferma la tenace eredimente assurdità dell’amore e rappresenta anchela composizione del dissidio fra il cane e il gatto.

Enzo Vignoli– Lugo (Ra) -

–UZAK

Questo film del regista turco Nuri Bilge Ceylan –curatore anche della sceneggiatura e della fotografia– ha vinto il Gran Premio della critica a Cannes nel2003 e il Premio Trieste nel 2004.La storia è ambientata in quella che un tempo ful’antica capitale turca, ma chi si aspettasse di vedereIstanbul rimarrebbe molto probabilmente deluso. Leriprese sono state fatte soprattutto in interni. Delresto che ci è dato di guardare non si ha una visionemagica, niente segnala l’eredità di una memoria che èandata ad innestarsi in un immaginario universalefatto di templi di una severa ortodossia, insignimoschee o favolosi sultani, uomini col caffettanobianco e il fez a testimonianza di quella che fu l’anticacapitale dell’Impero Ottomano, o la Costantinopolicapitale dell’Impero Romano d’Oriente, oppure,ancora, il centro di scambi commerciali internazionalisolcato da agenti spionistici; quell’Istanbul, insomma,crocevia delle culture europee ed asiatiche chesembra appartenere solo ad un passato miticotramandatoci dalla storia.La città che si vede in Uzak è del tutto assimilabile aduna delle tante metropoli occidentali odierne,indistinguibili fra loro, più che per l’ambiente in sé,occultato, freddo, grigio, a causa del silenzio, della

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tristezza e del vuoto ossessivo che sono penetrati neisuoi abitanti, resi sempre più spenti e ostili da unacrisi economica evidente. La neve che ricopreall’improvviso la città, la neutralizza, la rendefantasma: forse è l’espressione del pudico desideriodel regista di viverla come in un ricordo, in un sogno.Sotto la coltre non ci sono che le automobili, le traccedella presenza industriale e dell’inurbamento,costruzioni neutre, i prefabbricati del porto; ma ci sipuò forse illudere che, invece, vi sia nascosto ilpassato di cui si diceva poco fa. Il silenzio della neveè, però, lo stesso dei protagonisti: non induce allacontemplazione, al riposo, alla visione onirica,piuttosto alla tristezza, alla fissità ossessiva, come perquella sezione di mare color cobalto che, guardatacon gli occhi del protagonista principale e mostratacon una splendida fotografia, fa pensare ad unaimmagine vista dalla finestra di una prigione. Unapiccola giungla abitata da esseri che hanno bisogno didifendere il loro ancora più piccolo territorio, marcatoda una solitudine fatta di saltuarie visite notturne diprostitute e di videocassette pornografiche.Un’intimità di cui ci si vergogna e di cui si vuol esserepieni ed esclusivi padroni, soprattutto se qualcuno,scoprendola, ne metta in evidenza la miseria.Tale è la vita di un privilegiato, un fotografo che si fascudo della propria professione - vissuta in modovuoto, come tutto il resto - per costruirsi unasicurezza psicologica che viene messa a soqquadrodalla visita di un cugino, giunto a Istanbul a caccia diun lavoro che non troverà mai. Quest’ultimo tenta

d’insidiargli questo suo nulla, giungendo a scontrarsiben presto con l’uggiosa acredine dell’altro.L’ospite – è risaputo - è come il pesce, e dopo tregiorni puzza: il fotografo cosparge di deodorante lescarpe del parente, poi le chiude in uno sgabuzzino;costringe il cugino a fumare in terrazza, al freddo; lotampina controllando che non faccia telefonate troppolunghe, per spegnergli la luce che l’altro hadimenticata accesa, per verificare che si stiaimpegnando seriamente per procurarsi l’occupazionedi cui ha bisogno. Giunge a sospettarlo esplicitamentedel furto di un oggetto che ritrova quasi subito,evitando però di avvisarlo di quest’ultima circostanza.Niente da fare: la puzza invade l’appartamento, anchese il parente ospite sembra non volerlo capire. Finché,all’improvviso, si decide ad andarsene, lasciando ilpadrone di casa di nuovo custode inosservato dellapropria impotente nevrosi.Un’Istanbul, dicevamo, sempre più occidentalizzata edepressa, insomma, dove il nostro Antonioni avrebbetrovato il milieu ideale per girare il suo ciclo di filmdella cosiddetta incomunicabilità.Se il materiale che ci è dato da analizzare potrebbecostituire, per quanto scritto e al di là dellemotivazioni più comunemente addotte, delle ragionisufficienti per coloro che non temono che la Turchiaentri a fare parte dell’Unione Europea, ne offre, nelcontempo, di altrettanto valide a quanti, invece,quell’accesso vorrebbero impedire.

En. Vi.

- Lugo (Ra) -

L'ECO & RIFLESSIONI ossia FORUM AUCTORIS

IN MEMORIAM MARIO LUZI– A cura di Melinda Tamás-Tarr -

I. LA MORTE DELL'ULTIMO GRANDE PROTAGO-NISTA DELL'ERMETISMO

Il 28 febbraio scorso il poeta e senatore a vita MarioLuzi è morto a Firenze. Era stato nominato senatoredal presidente Ciampi nello scorso ottobre, mese incui aveva compiuto 90 anni. «Mario Luzi, grande poeta e senatore a vita, si èspento stamani nella sua casa fiorentina. È unagravissima perdita per la città e per il paese. Siamoprofondamente addolorati»: l'annuncio è arrivato dalsindaco di Firenze Leonardo Domenici, incaricato dallafamiglia di rendere pubblica la notizia. Secondo ilracconto dei familiari, la morte per Luzi èsopraggiunta mentre era ancora nel suo letto, primadi alzarsi come ogni mattina. Un paio di settimane fa,lo scorso 11 febbraio, il poeta aveva partecipato a

una iniziativa a Palazzo Vecchio per ricordare EugenioGarin. Una recente intervista di Luzi, in cui avevaparagonato Berlusconi a Mussolini dopo l'aggressioneal premier in piazza Navona, suscitò aspre polemichetra i diversi partiti. A provocare il tutto è stataun'intervista rilasciata da Luzi al Messaggero. Il quale,commentando l'aggressione subita dal premier adopera di un operaio mantovano, ha definito Berlusconi«un propagandista, proprio come Mussolini. Ma alcontrario del Duce, il Cavaliere non ha subito unattentato vero.», ha detto il poeta fiorentino. Ilriferimento storico è al 4 gennaio del 1925 quandoMussolini restò ferito al naso in un attentatocommesso da una turista irlandese, Violet Gibson. Inserata poi Luzi torna sull'argomento dettando unaprecisazione che suona come una piccolissimaretromarcia: «A proposito dell'aggressione alpresidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconiil mio commento è esattamente questo e non altro:

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l'episodio è deprecabile e va detto fermamente, comeho fatto», dichiara Luzi.

II._______ Profilo d'Autore _______

«Non esiste un poeta di così lungo corso e sempre inascolto come è Mario Luzi, il cui itinerario poetico nonha mai comportato una pigra amministrazione delleproprie ricchezze, ma si è sempre prodigalmentespeso, e tuttora si spende, in diverse avventuredell'immaginazione con un esito di molteplicità chenon ha eguali nel nostro secolo». Queste parole diStefano Verdino ben introducono a questo grandepoeta, il maggiore contemporaneo italiano. Mario Luziè nato a Castello, allora frazione di Sesto Fiorentino,

Foto: Il Correre della Sera

ora inglobato in Firenze, il 20 ottobre 1914 e«diversamente da altri importanti poeti della suagenerazione come Bertolucci, Caproni e Sereni, Luzi èstato pressoché‚ subito riconosciuto: la sua eraun'«immagine esemplare» (secondo una famosadefinizione di Carlo Bo) già nel 1940., quando il poetanon ancora ventiseienne viveva in quella capitale dellaletteratura italiana che era la Firenze degli annitrenta, la città allora di Montale, Gadda, Palazzeschi,Vittorini, Gatto, Pratolini e altri. Il precocericonoscimento comportò anche un'etichetta - Luzipoeta ermetico, anzi il poeta ermetico perantonomasia - che, mai respinta dal poeta fedele allapropria giovinezza, si è sempre più mostrata limitantee inadeguata. La vastità dell'opera luziana fa sì cheegli sia un poeta plurimo come pochi e che siaemblematico di stagioni tra loro diverse: il primo Luzi(fino agli anni cinquanta) è significativorappresentante di una lirica esistenziale (soprattuttocon Sereni, suo prediletto interlocutore in poesia) diderivazione ben più montaliana di quantol'appariscente orfismo di alcune sue punte ermetichefaccia supporre. Però poi si apre la svolta: il punto divista non è più tra l'io e la realtà, non c'è più giudizio(o pregiudizio): l'io come tutti e tutto è nel flusso, èattraversato dalla vita, come è attraversato dalla

parola: il poeta assume per sé‚ il ruolo umile esuperbo di scriba, in un rinnovamento degli istituti deldire poetico e delle prospettive fondamentale per iltardo Novecento, affine, per quanto diversissimo,all'altro prediletto compagno di poesia, GiorgioCaproni. È la stagione poetica che, dopo la svolta diNel magma, fa la grandezza del Luzi di tardoNovecento, poeta della «pienezza» (per usareun’espressione di Giovanni Giudici). E va riconosciutoil coraggio di una poesia che, per quanto allarmatadal nefando della storia, dice un raro (o forse unico)"sì" a una vita naturale (Fonti: Home Page di MarioLuzi: http://www.letteratura.it/index.htm, StefanoVerdino, in “Italica”: http://www.italica.rai.it/).

Mario Luzi, una delle figure chiave della poesiaitaliana del Novecento. L'autore fiorentino eraconsiderato l'ultimo grande protagonista dellastagione dell'Ermetismo. Al 1935 risale la sua primaraccolta, «La barca», cui è seguito «Avventonotturno» (1940), testo esemplare dell'Ermetismofiorentino. Foltissima la produzione successiva, chescandisce le tappe e gli sviluppi di un itinerariopoetico fra i più ricchi e coerenti del Novecentoitaliano: «Un brindisi» (1946), «Quaderno gotico»(1947), «Primizie del deserto» (1952), «Onore delvero» (1957), confluiti con altri versi sparsi in «Ilgiusto della vita» (1960), «Nel magma» (1963), «Dalfondo delle campagne» (1965), «Su fondamentiinvisibili» (1971), «Al fuoco della controversia» (1978,premio Viareggio), «Per il battesimo dei nostriframmenti» (1985), «Frasi e incisi di un cantosalutare» (1990), «Viaggio terrestre e celeste diSimone Martini» (1994), cui vanno aggiunti i poemettidrammatici inclusi in «Teatro» (1993) e i testi teatrali«Pontormo» (1995), «Io, Paola, la commediante»(1992) e «Ceneri e ardori» (1997). Tema dominantedella poesia di Mario Luzi è l'angosciosacontrapposizione tempo-eternità, individuo-cosmo. Ildiscorso che ne nasce (affidato a un pregnantelinguaggio analogico) muove da una sorta di limbolirico verso una realtà carica di presenze, di 'altri':questo colloquio col mondo degli uomini e della storiasi piega a volte a dialogo familiare, altre volte diventapresa di coscienza del lacerarsi di una civiltà. Lasintassi, inizialmente costretta entro moduli chiusi, siaccosta via via al parlato fino a raggiungere, da«Onore del vero» in poi, un singolare equilibrio direcitativo e canto. Mario Luzi ha tradotto daShakespeare, Coleridge, Racine. Della produzionesaggistica vanno ricordati «L'inferno e il limbo»(1949), «Studio su Mallarme» (1952), «Tutto inquestione» (1965), «Vicissitudine e forma» (1974),«Spazio stelle voce» (1992), «Naturalezza del poeta»(1995).

L'ampia produzione poetica di Luzi si puòconsiderare articolata in tre fasi: giovanile, della

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«Barca», ermetica (in particolare con le raccolte«Perizie del deserto», «Onore del vero» e post-ermetica (a partire da «Nel magma»). In realtà Luziconserva da una parte un'estrema fedeltà a certeconvinzioni di fondo e dall'altra tende sempre a unaricerca di novità, talora anticipando in alcuni volumitemi e forme che riprenderà e rielaborerà in seguito,talora presentando innovazioni tali da sconcertare isuoi stessi cultori. Sulla linea della continuità ha unruolo centrale la sua fede cristiana, di uncristianesimo peraltro fortemente problematico, in cuial piano delle certezze metafisiche (cioè delle veritàtrascendenti, che stanno al di là della vita fisica) si ac-compagna la coscienza che la tensione verso il divinoè fatta più di domande senza risposta che di veritàevidenti e indiscutibili. La poesia, proprio in questadimensione, ha una funzione fondamentale, in quantoha la capacità di pervenire a una conoscenza, nonattraverso un procedimento logico, ma per enigmi eallusioni. Si tratta dunque sempre di una poesia criticae riflessiva. Luzi, inoltre, cosciente della dialettica inevitabilenell'esistenza umana fra continuità (stasi) einnovazione (cambiamento), rimane fedele allaconcezione romantica della poesia come tentativo diricreare la vita attraverso la forma (ossia attraverso laparola poetica), in quanto creatrice di immagini evalori che danno ordine e senso al caos dell'esistenza.In realtà, dopo Mallarmé, si è diffusa la concezioneche ormai la forma fugge dalla vita (che la vita, cioè,è priva di senso e ordine e che la poesia non puòrestituire tali qualità alla vita); ma, anche se il bisognoromantico di dar forma alla vita si rivela ormai solo unsogno, per Luzi il compito del poeta deve continuare aessere lo sforzo di ricongiungere l'uomo alla vita e didare a quest'ultima un senso attraverso la parola. Infine, in tutta la produzione di Luzi, il mondo e lavita appaiono carichi di drammaticità, dolore eangoscia. La sua prima e già matura raccolta, «La barca»,celebra il tempo dell'adolescenza e della quiete, informe chiare, talora estetizzanti, che permettono peròdi percepire intime tensioni tra vita e aspirazionemetafisica:

[…] noi siamo in terra ma ci potremo un giomo librare esilmente piegare sul seno divino come rose dai muri nelle strade odorose sul bimbo che le chiede senza voce.

Già tipicamente ermetica é comunque la tendenza asuperare uno stretto autobiografismo lirico pertentare di accedere alla condizione universaledell'uomo nella sua essenza immutabile.

Con «Avvento notturno» si verifica uno di queicambiamenti vistosi che caratterizzano alcunimomenti della produzione di Luzi. La raccolta presenta infatti testi enigmatici, giocatisu analogie, originali metafore, passaggi eaccostamenti ardui, che rinviano chiaramente allatradizione simbolistica, per rappresentare le tensionidell'e-sistenza, l'idea del perenne fluire della realtà,interrogata inquietamente dal poeta in un silenziomisterioso: La nostra vita passa sulle palme solitarie degli esuli, sul vento che le Vergini murarie amano ussiso alfianco.

«Un brindisi» rappresenta l'incontro tragico con laguerra e la rinuncia ai miti letterari per fare emergerela concreta e dolorosa realtà dei fatti, dalla qualesoltanto à lecito ricevere domande e alla quale solo sideve tentare di dare risposte. Il pieno Ermetismo èrappresentato dalle tre raccolte successive, «Primiziedel deserto», «Onore del vero e Dalfondo dellecampagne». Vi dominano quasi ossessivamentel'analogia e la tensione espressiva (ripetizioni diparole, uso frequente di asindeti, termini dissonanti,lunghe serie rnonotone di endecasillabi). Il mondo diqueste liriche è popolato da nuove figure umane,l'atmosfera è inquieta, dominata da domande senzarisposta, spesso sullo sfondo di un paesaggio aspro:

sotto aride pendici inconsolata per vie cupe ove niente vive più e di un tempo privo di mutamento

Tale, credi, non ha sorgente il moto puro che mi trascina via,

manifestaizioni della ciclicitá indifferente della natura

Ed i giorni rinascono dai giorni l'uno dall'altro, perdita ed inizio, cenere e seme, identltá del cielo.II senso di oppressione si riscatta solo nella speranzacristiana. a cui la poesia cerca faticosamente di darevoce:

E qui dove vivendo si produce ombra, mistero per noi, per altri che ha da coglierne e a sua volta ne getta il seme alle sue spalle, é qui non altrove che devefarsi luce.

Una successiva novitá é rappresentata dal volume«Nel magma», che nasce da un più diretto rapportocon le vicende storiche del dopoguerra italiano. I versisi allungano (La nebbia ghiacciata affumica la goradella concia: 16 sillabe metriche), assumendo un

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andamento vicino alla prosa, le poesie si trasformanoquasi in poemetti, il linguaggio si fa saggistico:

Ed è mente la sua da non restringere A un caso senza legge occulta l'aspetto di quella cruda fine d'iniziati né la nostra visita al luogo tra le tomhe a fior di terra

[in quel punto.

La storia contemporanea è più direttamente entratanella poesia di Luzi col suo vuoto morale e insiemecon le sue domande dirette e concrete. L'interrogazione esistenziale delle opere precedentisi trasforma ora in un dialogo immediato con gliuomini: alla voce solitaria del poeta si aggiungonotante altre voci, la vita dell'oggi e la memoria delpassato si presentano con le loro esigenze che nonconsentono fughe:

Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente, mi sifa incontro, mi dice:"Tu? Non sei dei nostri. Non ti sei bruciato come noi al fiioco della lotta quando divampava e ardevano nel mgo bene emale".

Anche in queste poesie il senso della vita èdrammatico, anche qui il poeta si trova impreparato adare risposte e la meditazione si risolve in una forteproblemalicità. Su fondamenti invisibili segna lacoscienza conclusiva della crisi della lirica e la ricercadi una poesia "naturale" che partecipi della realtà,nella consapevolezza comunque che l'essenzadell'uomo non può essere né conosciuta né descrittavita fedele alla vita tutto questo che le è cresriuto in seno dove va, mi chiedo, discende o sale a sbalzi verso il suo principio... II sebbene non importi, sebbene sia la nostra vita ebasta.

Ancora nelle raccolte successive («Per il batlesimo deinostri s frammenti», «Frasi e incisi di un cantosalutare», «Viaggio terrestre e celeste di SimoneMartini») Luzi si propone come poeta della crisi dellasocietà contemporanea, nel rapporto diretto con lastoria (che è violenza) e con la natura (che ha legginon modificabili).A rappresentare l'inquietudine dell'esistere i versi sispezzano:

Lo è il mondo tutto da quando è,

l'espressione si fa frammentaria e aspra (

Montagne?... non sa luce o manno lá in fondo

le ancora non distinte moli... ma io, si sfanno e si riformano crollano l'una sull'altra quelle torri di traspareza.

Luzi è rimasto comunque fedele al suo impegno ditutta la vita nell'affrontare e nel riprendere ledomande esistenziali.

Aprile-amore

Il pensiero della morte m'accompagnatra i due muri di questa via che salee pena lungo i suoi tormenti. Il freddodi primavera irrita i colori,stranisce l'erba, il glicine, fa asprale selce; sotto cappe ed impermeabilipunge le mani secche, mette un brivido.

(Primizie del deserto, vv. 1-7)

C'era, sì, c'era – ma come ritrovarlo

C'era, sì, c'era – ma come ritrovarloQuello spirito nella linguaquel fuoco nella materia.Chi elimina la melma, chi cancella la contumelia?Sepolto nelle rocce,rocce dentro montagnedi buio e grevità –così quasi si estingue,così cova l'incendiol'immemorabile evangelio.

(Per il battesimo dei nostri frammenti)

Fonte: La poesia italiana del Novecento, Avvalardi,Torino, 2000.

PER ALCUNE POESIE IGNOTE DI MIO PADREARDILIO FERRI

Quando muore un genitore la prima sensazione è cheil tuo cuore sembra schiantarsi nel petto, mentre ti faimille domande a cui il dolore non sa dare risposte.Poi, col passare dei giorni – cessate le mestecerimonie e sbiaditi i fiori dell’estremo addio,cominciano ad affacciarsi i ricordi, inarrestabili:dapprima i più recenti, legati ai suoi ultimi anni, alloscavo della malattia, alla tua impotenza dolorosa.Poi la mente torna indietro nel tempo, con luciditàstupefacente finché ritrovi tuo padre giovane uomo,bello, grande, forte e tu bambino seduto sulla cannadella bicicletta andare insieme lungo gli argini del Poo per le lunghe strade bianche tra i campi, ed è unsentimento di malinconica felicità che ti prende,

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l’amore e il ricordo stemperando in un tepore dilontane primavere infantili l’amaro dolore delpresente.

E proprio ad un simile crocevia di sentimenti, l’animaaffranta dalla tristezza e la mente a correre lontanoinseguendo i ricordi dell’infanzia, che tra alcunevecchie carte di mio padre, da poco scomparso, hotrovato questi suoi pochi versi in cui descrive sestesso nel preparare con fatica e sacrificio un nido aipropri figli che però già se ne volano via alla ricercadella propria vita, oppure fantasticare di antichi maripercorsi dalle divinità innanzi allo stupore inertedell’uomo, metafora – penso – di una umanità allaquale invece è richiesto di agire e combattere il malee l’inerzia.Immagini e pensieri dai quali emergono aspetti di miopadre che non conoscevo, ma che - rileggendo questisemplici versi, mi riempiono ogni volta il cuore ditenerezza, d’affetto e d’orgoglio. (R. Ferri)

****Ho costruito un nido!Sicuro!

Morbido! Tiepido!

Vi misi tanto impegnoe tanto amore!Per i miei pulcinilo feci! Ma prima che io lo finissispuntarono loro le piumee volarono via!

***In quella costieraDove dall’OlimpoGli DeiArrivano a frotteNon stareImmoto a gettareA pezzi il tuo cieloNel mare.

( Ardilio Ferri, 1922-2004)

Renzo Ferri– Ferrara -

LA CHIESA ED IL MONDO CONTEMPORANEO- A cura di Melinda Tamás-Tarr -

I.

Negli ultimi decenni i problemi della pace e delriscatto dei popoli sottosviluppati sono stati oggettodelle più attente cure della Chiesa di Roma, che si èimpegnata a fondo per adeguare la propria missionealle esigenze del mondo contemporaneo.

Papa Giovanni XXIII (1958-1963), col suoevangelismo di profonda semplicità, ha potentementecontribuito a restituire alla Chiesa la pienezza dellasua vocazione universale e si é proposto al mondocome pastore di tutte le genti, ravvivando di nuovocalore e di nuovo accento una tradizione millenaria.Vero pontefice di questo nostro tempo, nel quale lastoria ha cessato di concentrarsi in poche nazioni piùevolute per coinvolgere invece, nel timore e nellasperanza, l'intera umanità, egli ha indetto nel 1962quel Concilio Vaticano II che ha posto su nuove basi ildialogo fra la Chiesa e il mondo moderno. Di importanza determinante sono le due enciclichegiovannee Mater et magistra (15 maggio 1961) ePacem in terris (11 aprile 1963), dalle quali citiamoalcuni passi particolarmente significativi.A proposito del colonialismo, comunque praticato odissimulato, la Mater et magistro dice fra l'altro: «Latentazione maggiore da cui possono essere prese leComunità politiche economicamente sviluppate èquella di approfittare della loro cooperazione tecnico-finanziaria per incidere sulla situazione politica delleComunità in fase di sviluppo economico allo scopo diattuare piani di predominio. Qualora ciò si verifichi, sideve dichiarare esplicitamente che in tal caso si trattadi una nuova forma di colonialismo, che per quantoabilmente mascherata non per questo sarebbe menoinvolutiva di quella dalla quale molti popoli sono direcente evasi e che influirebbe negativamente suirapporti internazionali, costituendo una minaccia e unpericolo per la pace mondiale». In termini generali, ma con evidente riferimentoparticolare al movimento comunista mondiale, laPacem in terris condanna ogni fazioso spirito dimalintesa "crociata", richiamandosi a un'antica edeterna verità cristiana: «Non si dovrà però maiconfondere l'errore con l'errante, anche quandotrattisi di errore o di conoscenza inadeguata dellaverità in campo morale-religioso. L'errante é sempreed anzitutto un essere umano e conserva, in ognicaso, la sua dignità di persona; e va sempreconsiderato e trattato come si conviene a tantadignità. [...] Va altresì tenuto presente che non sipossono neppure identificare false dottrine filosofichesulla natura, l'origine e il destino dell'universo edell'uomo, con movimenti storici a finalitàeconomiche, sociali, culturali e politiche, anche sequesti movimenti sono stati originati da quelledottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttoraispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate edefinite, rimangono sempre le stesse, mentre imovimenti suddetti, agendo sulle situazioni storicheincessantemente evolventisi, non possono non subirnegli influssi e quindi non possono non andare soggettia mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negareche in quei movimenti, nella misura in cui sonoconformi ai dettami della retta ragione e si fannointerpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli diapprovazione? [...]»

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L'opera iniziata da Giovanni XXIII fu vigorosamenteportata avanti dal suo successore Paolo VI (1963-1978), che accentuò l'ispirazione ecumenica dellaChiesa, ossia l'impegno per l'unificazione di tutti icristiani, di tutti i credenti e tendenzialmente di tuttal'umanità in una sola famiglia. In questa prospettivanuovi rapporti sono stati stabiliti non solo con laChiesa greco-ortodossa, ormai molto vicina a quellacattolica, ma anche con i protestanti e con glianglicani, e sono stati istituiti speciali Segretariati peril dialogo con i seguaci di religioni non cristiane e coni non credenti.

Ispirandosi ai lavori del Concilio Vaticano II,conclusosi nel dicembre 1965, Paolo VI provvide ariformare la Chiesa attenuando il primato papale infavore degli organi collegiali di governo, semplificandoil cerimoniale, introducendo l'uso delle lingue nazionalinella celebrazione della messa, consentendo ai laiciuna partecipazione più intensa e più attiva alla vitaecclesiale. Con la nomina di numerosi vescovi ecardinali di nazionalità extraeuropee, egli rese inoltremeno esclusiva la prevalenza italiana ed europea nellagerarchia ecclesiastica.

Da un punto di vista più strettamente etico-politico,Paolo VI, con l'enciclica Populorum progressio (marzo1967), approfondì i temi già enunciati nella Mater etmagistra e individuò nel colonialismo uno dei motivifondamentali delle tensioni contemporanee, invitandopopoli e governi a promuovere "trasformazioni audaci,profondamente innovatrici", e dichiarando che"riforme urgenti devono essere intraprese senzaindugio". Dopo la morte di Paolo VI e del suo immediatosuccessore Giovanni Paolo I (che regnò per solitrentatré giorni), il Conclave elesse al pontificato ilcardinale polacco Karol Wojtyła, che assunse il nomedi Giovanni Paolo II. Così, per la prima volta dopoben 455 anni, è asceso al soglio di San Pietro un papanon italiano: e anche questo è un indizio significativodei mutamenti in corso nella vita della Chiesa. Questo papa ha ulteriormente accentuato l'impegnoecumenico del cattolicesimo, ha moltiplicato le visitepastorali in tutti i paesi del mondo, ha cercato dimigliorare i rapporti della Santa Sede con gli staticomunisti e di tutelare la libertà religiosa delle loropopolazioni, ha ribadito che la Chiesa non deveconsiderarsi una cittadella chiusa in se stessa, madeve aprirsi alle esigenze dei nostri tempiaccostandosi «a tutte le culture, a tutte le concezioniideologiche, a tutti gli uomini di buona volontà, constima, rispetto e discernimento». Nel medesimo tempo egli ha rifiutato qualsiasicompromesso circa il divorzio, la limitazione dellenascite e la legalizzazione dell'aborto, e ha vietato aisacerdoti di partecipare direttamente, come militanti,alle lotte politico-sociali dei loro rispettivi paesi. LaChiesa insomma — secondo le direttive del papaWojtyła con le parole di un padre gesuita —dev'essere «a fianco dei poveri e degli oppressi, deiperseguitati, degli emarginati, senza però identificare

la liberazione dall'ingiustizia con la lotta di classe ocon la rivoluzione; essa rispetta l'autorità costituita,ma ne denuncia gli abusi reali; educa il laicato alleresponsabilità politiche e sociali, ma non tollera che ilsacerdote si trasformi in un leader politico, sindacaleo, peggio, in un guerrigliero; predica il Vangelo aricchi e a poveri; istruisce, eleva, inculca lacollaborazione, la solidarietà, la giustizia, l'amorecristiano». La linea — ad un tempo "conservatrice" e"rivoluzionaria" — seguita da Giovanni Paolo IIsuscitava molte discussioni fra i laici e fra gli stessicattolici. Ma, per quanto ci è dato giudicare, a noisembra che le diverse dimensioni del suo pontificatosi compongano in un disegno unitario. La duraesperienza polacca é forse alla base del suo nettorifiuto di ogni apertura modernizzante ecompromissoria nei confronti della cultura laica.D'altra parte, la diffusa miscredenza di molti ambientiintellettuali e dei paesi ad alto sviluppo industriale, ela maggior disponibilità religiosa della gente comune edei popoli sottosviluppati, spingono forse il ponteficead orientare il proprio apostolato verso le grandimasse degli umili e dei diseredati della Terra piuttostoche verso le minoranze dominanti, liberali o socialisteche siano. Giovanni Paolo II è stato, comunque, un papamolto «ingombrante», come dimostra, fra l'altro,l'attentato alla sua vita del 13 maggio 1981,perpetrato bensì da un singolo individuo ma cuiprobabilmente non sono state estranee complicitàinternazionali. È Joseph Ratzinger l'erede di Karol Wojtyła. Per ilsuo pontificato il cardinale tedesco ha scelto il nomedi Benedetto XVI, è il 265° successore di Pietro.Fino alla sua elezione del 19 aprile 2005 era prefettodella Congregazione per la Dottrina della Fede,nonché decano del collegio cardinalizio. «Diventiamo assieme artefici di pace»: è l’invito diBenedetto XVI ai delegati delle Chiese cristiane,comunità ecclesiali e altre tradizioni religiose, ricevutialla mattina del 25 aprile in Sala Clementina. IlPontefice ha ribadito con forza l’impegno della Chiesacattolica a lavorare per l’Unità dei Cristiani. Quindi, haringraziato i rappresentanti delle religioni che hannovoluto essere presenti alla Messa di inizio Pontificato,così come nei momenti di congedo dal compiantopredecessore Giovanni Paolo II. «MI METTERÒ IN ASCOLTO DI DIO» - «Cisiamo sentiti abbandonati dopo la morte diGiovanni Paolo II», ma «chi crede non è maisolo» - con queste parole il nuovo Papa hacominciato l'omelia di inizio pontificato, tra gliapplausi della folla. «Un compito inaudito, cherealmente supera ogni capacità umana», sottolinea,per «un fragile servitore di Dio». Ma «non sono solo -afferma - la vostra preghiera, la vostra indulgenza, ilvostro amore, la vostra fede e la vostra speranza miaccompagnino». Dopo aver chiesto l'appoggio deifedeli, Benedetto XVI ha parlato delle cose da fare.

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«Il mio programma di governo è non fare la miavolontà, non seguire le mie idee - ha detto - ma, contutta la Chiesa, mettermi in ascolto della parola edella volontà del Signore e di lasciarmi guidare da lui,in modo che sia lui stesso a guidare la Chiesa inquesta ora della nostra storia». Poi è venuto ilmomento dell'apertura all'umanità intera. Il Papa hasalutato «i laici impegnati nella costruzione del Regnodi Dio», «tutti i battezzati che non sono ancora inpiena comunione con noi», i «cari fratelli del popoloebraico, ai quali siamo legati da un grande patrimoniospirituale comune», «tutti gli uomini del nostrotempo, credenti e non credenti». «L'umanità è la pecorella smarrita che, neldeserto, non trova più la sua strada» - ha dettoancora Benedetto XVI. E «i deserti esteriori simoltiplicano nel nostro mondo, perché i desertiinteriori sono diventati troppo grandi». Non èmancato un messaggio di amore per ogni uomo:«Non siamo il prodotto casuale e senza sensodell'evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di unpensiero di Dio». In conclusione dell'omelia, il nuovoPapa ha citato le parole del suo predecessore,Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura». «Nonabbiate paura di Cristo - ha ribadito papa Ratzinger -egli niente toglie e tutto dà, e colui che si dà riceve ilcentuplo. Sì, aprite, aprite tutti le porte a Cristo, etroverete la vera vita».Benedetto XVI è poi passato tra la folla di piazza SanPietro. Al termine della solenne Messa di inizioPontificato, il Papa ha voluto muoversi tra le migliaiadi persone raccolte in piazza, raggiungendo a bordodella jeep bianca i diversi settori in cui l'intera piazzaera stata suddivisa per accogliere i fedeli giunti datutto il mondo. Il Papa ha voluto così subito «tuffarsi»tra la folla che da giorni ne invocava un contatto piùravvicinato e solo sfiorato dai più fortunati chemercoledì e giovedì lo avevano visto arrivare asorpresa in piazza della Città Leonina e raggiungere lavecchia abitazione, al quarto piano dello stabile alcivico 1. In otto lingue, in greco, inglese, spagnolo, tedesco,francese, arabo, cinese e portoghese sono risuonatein piazza san Pietro durante la solenne Messa diinaugurazione del Pontificato di Benedetto XVI. Inlatino, in lingua ufficiale della Chiesa sono statiintercalati altri idiomi, come a rappresentare unapresenza globale delle varie culture e dei diversiPaesi. Nella lingua madre di Joseph Ratzinger, iltedesco, è stata letta la prima preghiera dei fedeli,con la quale si invoca l'aiuto di Dio per la Chiesa e isuoi ministri.

II.A PROPOSITO DELLE RADICI DELL'EUROPA…

Dal punto di vista di Giovanni Paolo II:

La nuova Costituzione Europea ha dimenticato glielementi più preziosi e prestigiosi dell'identitàculturale europea, gli elementi che definisconol'Europa come tale: le radici cristiane e l'ereditàgreco-romana. «Non si tagliano le radici dalle quali siè nati» - lo diceva in polacco, alla fine di unapreghiera domenicale, improvvisando dalla finestra dipiazza San Pietro con forza e visibilmente irato ilPapa, criticando la non menzione delle radici cristianenella Costituzione europea. «Ringrazio la Polonia - hadetto il Papa sempre in polacco, salutando un gruppodi suoi connazionali radunati in piazza San Pietro perl'Angelus - che nelle istituzioni europee ha difesofedelmente le radici cristiane del nostro continente,dalle quali è cresciuta la cultura e il progresso civiledei nostri tempi». Giovanni Paolo II sembrava parlarea braccio. Il papa Wojtyła (1920-2005) nel corso del suolungo pontificato ha più volte energicamentesottolineato che l’uomo europeo sia cosciente dellatradizione di valori che forma l’identità culturale delnostro continente e ha richiamato a una fedeltà econtinuità nei confronti di questi valori. Solamente aqueste condizioni è possibile il progetto di una«nazione europea» che non sia fondato su logichepuramente mercantili. Secondo l’insegnamento delPapa, l’apporto fondamentale alla formazionedell’identità culturale europea è stato dato dalCristianesimo (tanto che non sarebbe concepibileun’identità europea che prescindesse dai valori e dallatradizione cristiana), ma viene ampiamente ribadital’importanza della cultura classica. In particolare, igrandi personaggi, come ad esempio San Benedetto,che hanno contribuito in misura determinante allaformazione dell’identità europea hanno ricevuto lagrande eredità culturale del pensiero latino o greco. Alfondo dell’insegnamento di Giovanni Paolo II vi è ilrichiamo a non ritenere che l’inizio dell’identitàculturale europea sia da porre nell’Illuminismo, cheviene visto come un momento di deviazione o dirottura più che di continuità: il vero volto dell’animaeuropea va riscoperto nei secoli che precedonol’Illuminismo, non in quelli che lo seguono. Il 20 aprile 1986 ai partecipanti a un convegnoculturale Giovanni Paolo II disse: «…migliaia dieuropei danno l’impressione di vivere senza memoriaspirituale, come degli eredi che hanno dilapidato illoro patrimonio sacro. […] D’altronde, riconosciamolo,le prove e le divisioni che hanno lacerato questovecchio Continente costituiscono, anch’esse, unpressante invito per gli europei, li impegnano aritornare alle fonti della loro storia, per ritrovare laloro fratellanza comune e la loro cultura indelebile.Rispettando il pluralismo delle società modernesappiamo ridare vita e significato all’eredità cristiana

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dell’Europa. Eredità non vuol dire passato antiquato,come se lo immaginano troppe persone che hanno latendenza a vedere il Cristianesimo attraverso alcuneistituzioni vecchie e sorpassate. Per noi che loviviamo, il patrimonio cristiano è sempre attivo ecreatore di cultura.» Nell'anno successivo, il 18dicembre 1987 si rivolse con queste parole aipartecipanti al Convegno di studio su «Il diritto allavita e l’Europa»: «[…] Ma voi avete voluto riflettere inparticolare sul diritto alla vita del concepito e ildestino dell’Europa. È facile notare la stridentecontraddizione che v’è fra la legalizzazione dell’aborto,ormai in atto, purtroppo, in quasi tutta l’Europa, e ciòche costituisce la grandezza della cultura europea.Questa, che ha le sue fonti maggiori nell’eredità grecae latina, ha trovato nel cristianesimo l’illuminanteapporto che le ha consentito di spingersi versotraguardi di superiore grandezza. Col cristianesimol’Europa ha scoperto la dignità di ogni singola personaumana come tale: una scoperta che ha fatto dellacultura europea una cultura eminentementeumanistica. Radicata nella latinità, essa è stata lascuola del diritto, inteso come razionaleorganizzazione del vivere sociale sul fondamento dellagiustizia. Erede della cultura greca, la cultura europeaha visto nel retto uso della ragione – concepita comefacoltà di cogliere la realtà non lasciandosi dominaredai propri interessi particolari – uno dei segni piùchiari della grandezza dell’uomo.» Il 21 aprile 1990 airappresentanti del mondo della cultura nel Castello diPraga così parlò: «Se la memoria storica dell’Europanon si spingerà oltre gli ideali dell’illuminismo, la suanuova unità avrà fondamenti superficiali e instabili. IICristianesimo, portato in questo Continente dagliApostoli e fatto penetrare nelle varie sue partidall’azione di Benedetto, Cirillo, Metodio, Adalberto edi una innumerevole schiera di santi, è alle radicistesse della cultura europea. Il processo verso unanuova unità dell’Europa non potrà non tenerne conto!Che ne sarebbe, dell’affascinante panorama di questa"Città dalle cento torri", se vi sparisse il profilo dellacattedrale e quello dei molti monumenti checostituiscono altrettanti gioielli della cultura cristiana?Come diventerebbe povera la vita spirituale, morale eculturale di questa nazione, se dovesse esserneescluso tutto ciò che era, è e sarà ispirato dalla fedecristiana.» «... gli uomini e le donne di questo vecchioContinente dalla storia così tormentata devonoriacquistare la coscienza di ciò che fonda la loroidentità comune, di ciò che continua a essere la lorogrande memoria divisa. Certo, l’identità europea nonè una realtà facile da circoscrivere. Le fonti lontane diquesta civiltà sono numerose, provenienti dalla Greciae da Roma, da substrati celtici, germanici e slavi, dalCristianesimo che li ha plasmati profondamente. Esappiamo quanta diversità di lingue, di culture, ditradizioni giuridiche ci sia fra le nazioni, le regioni eanche le istituzioni. Ma, agli occhi degli altricontinenti, l’Europa appare come una sola unità,

anche se questa coesione è meno chiaramentepercepita da quelli che la costituiscono.[…] Sentiamo spesso pronunciare frasi di rammariconel vedere i giovani restare in qualche modo estraneialla memoria dei patrimonio culturale costituito daipopoli europei in più di due millenni. Si prova ancheuna certa inquietudine per la conservazione stessa diquesto patrimonio. Se parlo brevemente di questoproblema, […] è perché sono convinto chel’incomparabile patrimonio culturale di questoContinente non debba essere semplicementepreservato per restare a disposizione degli sguardidistanti o indifferenti che si rivolgono alle vestigia.È importante che, da una generazione all’altra, sipossano trasmettere, affidare le testimonianze di unacultura viva, le opere, le scoperte e le esperienze chehanno progressivamente contribuito a formare l’uomoin Europa. Ecco perché ci tengo a incoraggiare nonsolo gli sforzi notevoli compiuti per salvare dallascomparsa le ricchezze del passato, ma anche glisforzi per farne la ricchezza di oggi.» (Al Consigliod’Europa, 8 ottobre 1988) «Per questo, io, GiovanniPaolo, figlio della nazione polacca, che si è sempreconsiderata europea, per le sue origini, tradizioni,cultura e rapporti vitali, slava tra i latini e latina tra glislavi; io, successore di Pietro nella sede di Roma,sede che Cristo volle collocare in Europa e chel’Europa ama per il suo sforzo nella diffusione delCristianesimo in tutto il mondo; io, vescovo di Roma epastore della Chiesa universale, da Santiago, gridocon amore a te, antica Europa: Ritrova te stessa. Siite stessa. Riscopri le tue origini. Ravviva le tue radici.Torna a vivere dei valori autentici che hanno resogloriosa la tua storia e benefica la tua presenza neglialtri continenti. Ricostruisci la tua unità spirituale, inun clima di pieno rispetto verso le altre religioni e legenuine libertà. Rendi a Cesare ciò che è di Cesare ea Dio ciò che è di Dio. Non inorgoglirti delle tueconquiste fino a dimenticare le loro possibiliconseguenze negative; non deprimerti per la perditaquantitativa della tua grandezza nel mondo o per lecrisi sociali e culturali che ti percorrono. Tu puoiessere ancora faro di civiltà e stimolo di progresso peril mondo. Gli altri continenti guardano a te e da te siattendono la risposta che san Giacomo diede a Cristo:"Lo posso"». (Dal discorso tenuto il 9 novembre 1982a Santiago de Compostela.) «La Chiesa e l’Europasono due realtà intimamente legate nel loro essere enel loro destino. Hanno fatto insieme un percorso disecoli e rimangono marcate dalla stessa storia.L’Europa è stata battezzata dal Cristianesimo; e lenazioni europee, nella loro diversità, hanno datocorpo all’esistenza cristiana. Nel loro incontro si sonomutuamente arricchite di valori che non sono solodivenuti l’anima della civiltà europea, ma anchepatrimonio dell’intera umanità. Se nel corso di crisisuccessive la cultura europea ha cercato di prenderele sue distanze dalla fede e dalla Chiesa, ciò che alloraè stato proclamato come una volontà diemancipazione e di autonomia in realtà era una crisi

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interiore alla stessa coscienza europea, messa allaprova e tentata nella sua identità profonda, nelle suescelte fondamentali e nel suo destino storico.L’Europa non potrebbe abbandonare il Cristianesimocome un compagno di viaggio diventatole estraneo,così come un uomo non può abbandonare le sueragioni di vivere e di sperare senza cadere in una crisidrammatica.» (V Simposio dei vescovi d’Europa, 5 ottobre1982.) Giovanni Paolo II ha sottolineato anche il ruolodell'Università in segno dell'identità cristiana europea(All’Università di Uppsala, 9 giugno 1989): «Ma è tuttaviaessenziale per l’università, come istituzione, farecostantemente riferimento al retaggio intellettuale espirituale che ha plasmato la nostra identità europeanel corso dei secoli.Qual è questo retaggio? Pensiamo per un momento aifondamentali valori della nostra civiltà: la dignità dellapersona, il carattere sacro della vita, il ruolo centraledella famiglia, l’importanza dell’istruzione, la libertà dipensiero, di parola e di professione delle proprieconvinzioni o della propria religione, la tutela legaledegli individui e dei gruppi, la collaborazione di tuttiper il bene comune, il lavoro inteso comepartecipazione all’opera precisa del Creatore,l’autorità dello Stato, a sua volta governato dallalegge e dalla ragione.Questi valori appartengono al tesoro culturaledell’Europa, un tesoro che è il risultato di lungheriflessioni, dibattiti e sofferenze. Essi rappresentanouna conquista spirituale di ragione e giustizia che faonore ai popoli dell’Europa che cercano di mettere inpratica nell’ordine temporale lo spirito cristiano difratellanza insegnato dal Vangelo.Le università dovrebbero essere il luogo speciale perdare luce e calore a queste convinzioni che sonoradicate nel mondo greco-romano e che sono statearricchite ed elevate dalla tradizione giudeo-cristiana.È stata questa tradizione a sviluppare un concetto piùalto della persona umana vista come immagine di Dio,redente da Cristo e chiamata a un destino eterno,dotata di diritti inalienabili e responsabile del benecomune della società. l dibattiti teologici relativi alledue nature di Gesù Cristo hanno consentitol’elaborazione di un concetto di persona, che è lapietra angolare della civiltà occidentale.»

25 APRILE: 60° ANNIVERSARIO DELLA LIBE-RAZIONE DAL NAZIFASCISMO IN ITALIA- A cura di Melinda Tamás-Tarr -

I. Palazzo del Quirinale, 25 aprile 2005: Inter-vento del Presidente della Repubblica CarloAzeglio Ciampi alla cerimonia di consegna delleMedaglie d'Oro al Merito Civile in occasionedella ricorrenza del 60° Anniversario dellaLiberazione

Presidente del Senato, Presidente della Camera dei Deputati,

Presidente del Consiglio dei Ministri, Presidente della Corte Costituzionale, Autorità, Italiani tutti,

sessant'anni fa, oggi, si compì la liberazione e lariunificazione della nostra Patria. Tanti ricordi si affollano alla mente. Il cuore èancora gonfio di pena, ma anche di orgoglio, perquelli che, compagni della nostra giovinezza, diederola vita per la libertà di tutti; anche di chi licombatteva. Presero le armi per far nascere quelleistituzioni democratiche in cui oggi noi Italiani tutti ciriconosciamo. Eredi degli ideali del Risorgimento, restituirono allaPatria l'onore e il rispetto dei popoli liberi. Uomini edonne, militari e civili, laici e religiosi, ci insegnarono aconquistare e a vivere la libertà. Nel loro anelito di democrazia e di giustizia, nell'amordi Patria, che nell'ora della prova più difficile proruppespontaneo nei loro cuori, si riconobbe una nuovaItalia.

***

Un forte, indissolubile legame, unisce l'Italia del 25aprile 1945 all'Italia che il 2 giugno 1946 partecipò,con universale entusiasmo, alle prime elezionipolitiche libere dopo la dittatura. Vi presero parte, perla prima volta, anche le donne, elettrici e candidate.Gli Italiani scelsero la Repubblica. Lo spirito dellaResistenza vive nel testo della Costituzionerepubblicana. La memoria dei sacrifici e delle lottedella Resistenza è fondamento della nostra passioneper la libertà. Di quei sacrifici danno oggi solennetestimonianza le decine e decine di gonfaloni dellecittà e province insignite di medaglia d'oro cheaffollano, per la prima volta, questo cortile delQuirinale, la casa di tutti gli Italiani. Da questistendardi lo sguardo si leva al tricolore che sventola inalto, l'insegna che guidò i nostri padri nelle guerre delRisorgimento, affiancata oggi dalla bandiera azzurro-stellata della nuova Europa, unita da ideali diconcordia e di pace.

***

Noi non dimentichiamo nessuno di coloro chefurono protagonisti della lotta per la libertà di tutti gliItaliani. Non dimentichiamo la Resistenza operaia,esplosa negli scioperi di massa del marzo '43 aTorino, a Milano, a Genova e in altre città, prima dellacaduta della dittatura.

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Non dimentichiamo la Resistenza dei militari che,dopo l'8 settembre del '43, nello smarrimento delleistituzioni, trovarono nel loro cuore le radici di unorgoglioso amor di Patria, che li spinse all'azione.Molte migliaia caddero con le armi in pugno, ovennero trucidati dai nazisti. Non dimentichiamo i civili che, a Roma e altrove, siunirono a loro per la difesa delle loro città, o, come aNapoli, si batterono per cacciare le forze dioccupazione. Non dimentichiamo la Resistenza delle centinaia dimigliaia di militari deportati, che preferirono unadurissima prigionia, che costò la vita a tanti di loro, alritorno in Italia al servizio della dittatura. Non dimentichiamo la Resistenza popolare, che simanifestò spontanea. Migliaia e migliaia di donne euomini di ogni ceto, a rischio e a prezzo della lorovita, salvarono e protessero civili e militari allamacchia, ebrei minacciati dallo sterminio, soldatistranieri fuggiti dai campi di prigionia, che cercavanola salvezza. Li aiutarono a raggiungere l'Italia giàliberata, accompagnandoli lungo quei sentieri dellalibertà che solcarono allora tutta la penisola, da Norda Sud, di casolare in casolare, di paese in paese, dicittà in città. Fu una catena di silenziosa, spontaneasolidarietà. Non dimentichiamo le migliaia e migliaia di vittimedelle innumerevoli, orrende stragi che insanguinaronoil nostro Paese. Donne, vecchi, bambini, civili colpevolisoltanto di sostenere chi si batteva per la libertà. Non dimentichiamo soprattutto i protagonisti dellaResistenza armata, che nacque come scelta di popolo,che si organizzò in unità partigiane combattenti edilagò nelle città, nelle pianure, nelle montagne, finoalla riconquista, nell'aprile del 1945, delle grandi cittàdel Nord d'Italia, prima ancora della resa dell'esercitonazista. Non dimentichiamo le unità del nostro esercitoricostituito, che combatterono con valore per l'onoredella nuova Italia democratica. Non dimentichiamo, non dimenticheremo mai, isoldati alleati, venuti da tutti i continenti per liberare,a costo di perdite immense, tutti i popoli europei dallaferoce tirannide nazi-fascista.

***

La memoria degli eventi di sessant'anni fa è un librofatto di molte pagine, di tante storie personali ecollettive, storie di individui che diedero una rispostaalta e nobile alla sfida dei tempi, che sepperointerpretare i valori profondi della civiltà italiana edeuropea. Essi volevano un'Italia libera per tutti, unita. Il lororicordo non vuole alimentare divisioni, vuoleinsegnarci la concordia, insieme con l'amore per laPatria e l'amore per la Costituzione, fondamento dellenostre libertà. Questo è il significato profondo dellegiornate della memoria che noi celebriamo: occasioniper ricordare ai giovani i valori ispiratori di quella

libertà che essi hanno il privilegio di vivere e il doveredi custodire.

***

Italiani, gli uomini della mia generazione hannoavuto un singolare destino. Abbiamo vissuto, nellagiovinezza, anni tra i più foschi della millenaria storiaeuropea. Ma nelle prove più difficili si tempra l'identitàdi una Nazione. Dalle tragedie di quegli anni abbiamotutti tratto ammaestramento. A noi sopravvissuti ètoccata poi la fortuna di essere partecipi della granderinascita democratica della nostra Patria; partecipialtresì della miracolosa costruzione di una unione diStati e di popoli che assicura a tutta l'Europa, dopomillenni di guerre, una pace irreversibile. Abbiamo avuto la fortuna di garantire ai nostri figli,e ai figli dei nostri figli, quei beni, quei valori, quellesperanze, che noi, da giovani, non avevamoconosciuto. E ne siamo orgogliosi. Ai giovani d'oggi,cresciuti in un'Italia libera, in un'Europa pacifica eunita, dico: non dimenticate mai gli ideali cheispirarono coloro che diedero la vita per voi. Possa lamemoria dei sacrifici dei Padri della Repubblicarimanere viva, tramandata di generazione ingenerazione, guida e monito ad essere sempre vigilinella difesa della libertà riconquistata. Il ricordo diquei giorni ci fa guardare con fiducia al nostro futuro;ci fa sentire il dovere di essere uniti tutti nell'amoreper la Patria italiana ed europea, uniti nell'orgogliodelle nostre grandi tradizioni di civiltà, unitinell'impegno a contribuire al progresso e alla pace ditutti i popoli.

Viva la Resistenza. Viva la Repubblica. Viva l'Italia libera e unita.

Forrás: http://www.quirinale.it/

II. Il discorso del Presidente della Repubblica ele reazioni

Il ricordo dei giorni che portarono alla liberazionedell'Italia dall'occupazione nazi-fascista «ci faguardare con fiducia al nostro futuro. Ci fa sentire ildovere di essere uniti tutti nell'amore per la patriaitaliana ed europea, uniti nell'orgoglio delle nostregrandi tradizioni civiltà, uniti nell'impegno acontribuire al progresso e alla pace di tutti i popoli».Con queste parole il capo dello Stato ha inauguratoquesta mattina, nel cortile del Quirinale a Roma, laparte istituzionale delle celebrazioni per il 25 aprile,aperte ieri sera da un concerto sinfonico nellacappella Paolina della residenza del palazzopresidenziale. Ciampi ha ricordato le «molte pagine» di cui fufatta la Resistenza il cui spirito «vive nel testo della

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costituzione repubblicana». È stato questo ilpassaggio più applaudito del discorso del presidentedella Repubblica, che ha sottolineato come l'Italia del25 aprile 1945 sia legata da «indissolubile legame»all'Italia del 2 giugno 1946, quella che tornata allelibere elezioni dopo il ventennio della dittatura scelsela Repubblica e avviò così il percorso che si sarebbeconcluso il primo gennaio 1948 con l'adozione dellaCostituzione tutt'ora vigente. Una sottolineatura checerto riaccenderà il dibattito politico sulla proposta diriforma costituzionale portata avanti dallamaggioranza di centrodestra e duramente contestatadal centrosinistra.Nel suo discorso Ciampi ha enfatizzato l'invitoalla concordia nazionale citando il sacrificio dei caduti,di quanti «affrontarono il patibolo sorretti dallasperanza di riunificare il Paese nel segno dellalibertà». E che lo fecero affinché grazie alla libertàriconquistata «diventasse normale confrontarsi senzalacerazioni, dividersi senza smarrire il rispettoreciproco, sostenere pacificamente la propria ideasenza rinunciare a comprendere e anche a far proprial'idea altrui».

Le reazioni: si riapre la polemica sulla riformadella Costituzione

Romano Prodi (Unione): «Quello del presidenteCiampi è uno splendido discorso di equilibrio e diunità del paese, incentrato sui valori della Resistenzae della Costituzione. Valori che non sono solo un fattodel passato, ma sono soprattutto un insegnamento eun tesoro per il futuro».Sandro Bondi (Forza Italia): «La sinistra hapiegato il 25 aprile a un obiettivo politico. Dicono chevogliono difendere la Costituzione dalla riforma delgoverno. Ma la nostra riforma corrisponde allo spiritodella Costituzione, e alle speranze di rinnovamentoche la fecero nascere».Piero Fassino (Ds): «È giusto che ci si pongal'obiettivo di aggiornare la Costituzione. Ma questonon significa stravolgerla. E per aggiornarla al nostrotempo non si può che ripartire da quei valori sui quali60 anni fa la carta costituzionale fu scritta e cioèdall'antifascismo».Roberto Calderoli (Lega Nord): «Chi,trasformando la festa della Liberazione in festa dipartito, cerca di bloccare il necessario cambiamentodella nostra Carta costituzionale, cercando così diimpedire al parlamento e al popolo di potersiesprimere, rinnega la democrazia della nostra stessaCostituzione. Contro i rischi per la democrazia, vecchie nuovi, noi diciamo: riformare, riformare,riformare!».Fausto Bertinotti (Prc): «L'appello di personalitàimportanti di fare di questo 25 aprile anche un fortemomento di rilancio dei valori della Costituzionerepubblicana mi pare largamente accolto. C'è unpopolo che sente che questa è la sua Costituzione. Ed

è lo stesso popolo che sente profondamente il lascitodel 25 aprile»Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi): «Il modomigliore per celebrare ed onorare la liberazione dalladittatura nazifascista è rispettare la Costituzionerepubblicana. La Cdl spaccata rinunci a stravolgere laCarta Costituzionale. Gli attacchi indegni allaCostituzione sono uno schiaffo sia al patrimonioculturale e storico italiano sia alla memoria di chi hacombattuto per la libertà contro l'orribile totalitarismonazifascista».Armando Cossutta (Pdci): «Si vuole sovvertirel'ordinamento costituzionale. Bisogna combatterecontro il tentativo di affossare il risultato principaledella lotta per la Liberazione, la Costituzione, che èoggi in pericolo. Il nostro popolo vuole dare, con lamanifestazione di oggi, una risposta precisa a queltentativo».Luciano Violante (Ds): «Ci si può pacificare con gliuomini, ma non ci si può pacificare con le idee. E leidee del fascismo sono fuori dalla Repubblica e dallaCostituzione. Non fu la stessa cosa essere rinchiusi neivagoni piombati e fare la guardia ai vagoni piombati».Antonio Di Pietro (Idv): «Di bandiere ce ne sonotante, non solo rosse, ma anche molte dell'Italia deiValori e possono starci benissimo anche quelle diForza Italia. Se qualcuno non ci si riconosce non ècolpa degli italiani, è colpa sua».Walter Veltroni (Ds): «La Costituzione non è nellemani di nessuna maggioranza, nessuna maggioranzapuò disporre da sola della Carta che è di tutti gliitaliani. Tra le sue regole c'è un valore sublime chenessuno può mettere in discussione: l'unità nazionale,l'orgoglio di essere italiani, dalla Valle d'Aosta allaSicilia. Il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani e chinon partecipa sbaglia». Bobo Craxi (Nuovo Psi): «La liberazione dall'odiosadittatura fascista e la ritrovata libertà e democrazianel 25 aprile di 60 anni or sono, confermano quantosia fondamentale per il nostro popolo l'importanza diquesta celebrazione. Noi restiamo grati agli uomini ealle donne che diedero il proprio contributo allaResistenza, in armi e senza armi, con orientamentipolitici distinti, ma uniti in uno spirito democratico chedobbiamo rinnovare». Antonio Martino (Forza Italia): «L'auspicio delsindaco di Milano Albertini che alla manifestazione dioggi nel capoluogo lombardo ci siano tante bandieretricolore lo considero valido perchè questa dovrebbeessere la festa dell'italianità».Guglielmo Epifani (segretario Cgil): «L'Italia èstata liberata dalle Forze armate alleate ma in buonaparte si è liberata da sè. Nessuna confusione èpossibile. Se si nega questo non si capisce il nessoche lega la nostra Costituzione alla resistenza. LaRepubblica non sarebbe stata la stessa se a liberare l'Italia fossero stati solo gli alleati. Quando si affermache la Resistenza fu solo guerra civile, si nasconde laverità. Le lotte dei lavoratori e la Costituzione sono

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tutt' uno, il filo rosso che lega il 25 aprile, il Primomaggio e il 2 giugno».Gabriele Albertini (Forza Italia, sindaco diMilano): «Qual è il simbolo dell'unità nazionale, senon questa fascia tricolore. Vedete ci sono altri duecolori, non c'è solo il rosso, anzi è proprio questo cheunifica la bandiera italiana».

* Vedasi il capitolo seguente.

III. Prodi: «Difendere i valori della Costituzio-ne»

«È un peccato, e motivo di preoccupazionesincera, che forze rilevanti della maggioranzanon si riconoscano in questa Festa di libertà edemocrazia». Così Romano Prodi, leader dell'U-nione, che lunedì prenderà parte alle celebrazioni aRoma e Milano, blocca il comporta-mento di parte delGoverno in relazione al 25 Aprile, 60° anniversariodella festa di Liberazione. Prodi definisce il 25 aprile1945 come «il nuovo inizio dell'Italia» e per questoconsidera motivo di inquietudine il fatto cheBerlusconi non prenderà parte alle celebrazioniufficiali in programma a Milano. «Il 25 aprile 1945 -afferma Prodi - sfociò nella scelta per la Repubblica enella Costituzione. Una Costituzione che, al di là ditutte le critiche interessate dei giorni nostri, fissò unimpianto di principi democratici e di valori civili esociali che mantengono tuttora pienamente la lorovalidità e importanza». Oggi secondo il leaderdell'Unione «le ragioni dell'unità della Nazione e ilsenso della Patria comune sono messe a rischio daprogetti dissennati di riforma della Costituzione», cheè «un bene troppo grande perché possa essere messosul piatto di scambi di fazione e di interessi di parte».Per Prodi è necessario che «la festa della Liberazioneresti e diventi sempre più una festa di tutti gli italianisulla base della verità storica dell'antifascismo e deivalori fondamentali di democrazie e di libertà che essarappresenta».

Difendere i valori della Resistenza contro «iltentativo, da parte della destra, di riscrivereartificiosamente la storia, di sovvertire leresponsabilità assolvendo i carnefici eumiliando le vittime, di equiparare coloro che perla libertà si battevano con coloro che invece lasoffocavano». È quanto si legge in una lettera che ilsegretario dei Ds, Piero Fassino, ha inviato aipresidenti delle associazioni partigiane Anpi, Anppia,Fiap, Fivl e Aned.

Anche Fausto Bertinotti, leader di RifondazioneComunista, ha sottolienato l'importanza del 25Aprile. «Lunedì saremo a Milano per festeggiarequesta data, che ha segnato un passaggio storicofondamentale nella vita del Paese e per ricordare e

ribadire il valore della Costituzione e dellaRepubblica». Costituzione che oggi, sottolineaBertinotti - «è minacciata da una controriformadettata dal governo Berlusconi. Una controriforma chemortifica il Paese intero, gli ideali democratici, i padricostituenti, il Parlamento, le lotte dei lavoratori, leesperienze dei movimenti».

Diversi esponenti del centrosinistra criticano lamancata presenza di Berlusconi alle celebra-zioni ufficiali a Milano. «È grave che il presidentedel Consiglio non avverta il dovere morale di esserepresente a Milano - ha detto Clemente Mastella,leader dell'Udeur -. È strano che Berlusconi in questiquattro anni di Legislatura sia riuscito sempre adisertare l'appuntamento. Un'assenza che non puòche essere letta in chiave politica». Identica posizioneè stata espressa da Enrico Boselli presidente dello Sdi,e dal presidente dei Verdi, Pecoraro Scanio. «Mi pareche l'inadeguatezza politica di Berlusconi èconfermata anche dall'imbarazzo con cui si misura conil 25 aprile», ha detto il capogruppo della Margheritaalla Camera, Pierluigi Castagnetti.

Non tardano ad arrivare i commenti alledichiarazioni di Prodi da parte del centrodestra.«Prodi vuole rovinare anche quest'anno la festa del 25aprile - fa sapere il coordinatore nazionale di ForzaItalia Sandro Bond -. Solo così si spiega la sua uscitaper cui la Cdl non si riconoscerebbe in questaricorrenza. Anche in questa vicenda si comprende cheProdi sia interessato unicamente a dividere il Paese, afomentare gli odii e le inimicizie, piuttosto cheapprofittare di questa data per unire gli italiani sullabase di alcuni valori comuni».

Il gruppo della Lega al Senato ha diffuso unanota in cui chiede di arrivare a unapacificazione nazionale. «A 60 anni dalla Libera-zione occorre rilanciare l'impegno della Resi-stenzache insieme alle forze Alleate non fu semplicementevolontà di abbattere il Nazismo ma volontà dicostruire una democrazia rappresentativa Parlamen-tare e pluralista rispettosa dei diritti sociali. Maoccorre allo stesso modo rilanciare l'impegno per unapacificazione nazionale che è l'unica strada giusta peruna possibile unificazione contro ogni faziosità esollecitazione all'odio». «I morti vanno rispettati daambo le parti - prosegue la nota - , ai partigiani vadato l'onore e la gloria di aver combattuto contro ilnazi-fascismo, ai giovani che hanno scelto l'altrastrada va dato l'onore di aver creduto in un idealeanche se doloroso». «Questo è un momento di festadi tutti - conclude la Lega - mentre la sinistra ne fa unmomento elettorale per tentare di discriminare lariforma costituzionale».

Il capogruppo di Forza Italia al Comune diRoma, Roberto Lovari, ha invece confermato la suapresenza al corteo romano. «Bisogna onorare i

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partigiani, uomini e donne che patirono il carcere epersero la loro vita per rendere la nostra Patria unpaese libero e democratico - ha detto Lovari -. Il 25aprile non può e non deve essere una festa né disinistra, né di centro, né di destra, ma la festa di tuttoil popolo italiano per la libertà riconquistata».

Fonte: http://www.corriere.it/

IV. Il significato del 25 aprile

Anche quest' anno, nella ricorrenza dellaLiberazione, siamo tutti invitati a riflettere sulsignificato del 25 aprile 1945. E' una data lontana neltempo, ma più che mai vicina alla coscienza deicittadini che non vogliono e non possono rinunciare adifendere i valori che si sono affermati con la vittoriadella Resistenza sugli occupanti nazisti e sui loroalleati fascisti: la libertà, la giustizia, la democrazia, lasperanza e l'impegno per la costruzione dellaconvivenza civile e pacifica tra i cittadini e tra i popoli.

Per l'affermazione di questi principi hanno lottatoduramente antifascisti e partigiani, pagando unprezzo altissimo di sofferenze e di lutti: la nostraCostituzione, nata dalla Resistenza, li ha recepiti eposti a fondamento della Repubblica. La loroapplicazione e le conquiste democratiche del secondodopoguerra sono costate ancora una lunga, spessodolorosa serie di lotte sociali e politiche, la cuimemoria oggi si cerca di mistificare e di sminuire finoalla cancellazione.

Ricordare degnamente la Resistenza comportadunque battersi anche oggi per i diritti dei cittadini,dei lavoratori, degli immigrati che legittimamenteaspirano alla cittadinanza. Libertà di opinione euguaglianza riacquistano il valore di obiettivi dariaffermare, di fronte all'offensiva, insieme arrogantee insidiosa, dei gruppi economici e delleconcentrazioni di potere che intendono emarginare ildissenso, la dialettica delle idee, lo sviluppo dellaeffettiva partecipazione alle scelte che determinano ildestino di tutti noi.

Il ricordo della Resistenza acquista oggi un'ulteriore,drammatica attualità. La guerra in Irak, con il suocarico di orrore e di morte e con le pesanti ipotechesull'equilibrio internazionale, rischia di alimentaretensioni e nuove, terribili risposte terroristiche. Questagrave situazione ci impone di ritrovare nella memoriauno degli esiti più importanti della lotta partigiana edella sua vittoriosa conclusione il 25 aprile del 1945:la fine della guerra scatenata dalla Germania nazista edai suoi alleati, in primo luogo l'Italia fascista, e laconquista della pace, premessa e condizioneindispensabile per la costruzione di una società piùlibera e giusta. L'articolo 11 della nostra Costituzionerecepisce e afferma questo significato, ripudiando laguerra come strumento di risoluzione delle

controversie internazionali. La via della pace è lunga,tortuosa e difficile, ma milioni di cittadini in Italia e nelmondo sono disposti a percorrerla, ritrovando unanuova unità sopra le più diverse opinioni politiche econdizioni sociali, proprio come nella lotta contro ilfascismo persone dei più diversi orientamenti sepperosuperare, in condizioni di eccezionale, drammaticaemergenza, le più profonde lacerazioni e i contrastipiù radicali, per affermare il diritto a sperare in unmondo migliore e seppero battersi, con le armi nellalotta partigiana e senza armi nella Resistenza civile,perché la speranza cominciasse a tradursi nella realtà.Anche oggi siamo chiamati a operare una scelta,questa volta tra il ricorso alla forza e la ricerca dellaconvivenza civile e di una società più giusta, tra laguerra e la pace, e tra la pacificazione imposta dallearmi e quella faticosamente costruita, giorno pergiorno, dalle donne e dagli uomini di buona volontà.

Appello per il 25 Aprile 2004

Alba di libertà e di riscatto nazionale, il 25 aprile1945 vide le formazioni partigiane protagoniste dellaliberazione del territorio italiano ancora occupato dalletruppe nazi-fasciste, a coronamento di venti mesi dilotta segnata da grandi sacrifici, infiniti lutti, massacridi inaudita barbarie di inermi popolazioni civili daparte di un nemico ormai sconfitto dalle forze alleatee dalla partecipazione corale del popolo italiano allaResistenza. Come è ormai consuetudine, anchequest’anno si svolgeranno una manifestazionenazionale a Milano e centinaia di altre manifestazioniin centri grandi e piccoli del nostro Paese. Leorganizzazioni firmatarie invitano alla più ampiapartecipazione le istituzioni nazionali e locali e tutti icittadini.

La giornata del 25 aprile deve essere occasione nonsoltanto per rinnovare il commosso ricordo dei Cadutie la nostra gratitudine ai combattenti della libertà aiquali tutti siamo in larga parte debitori per avercontribuito a darci istituzioni libere e democratiche,ma per difendere e consolidare quelle conquiste. Inparticolare oggi, quando si ripetono e si intensificano,oltre a campagne revisionistiche di delegittimazionedella Resistenza e di rivalutazione del fascismo,attacchi alla Costituzione e all’unità nazionale. Valoriche invece restano – come emerge dal magisterocivile del Presidente della Repubblica, Carlo AzeglioCiampi, al quale va tutta la nostra gratitudine e ilnostro convinto apprezzamento – il punto diriferimento fondamentale per tutti i democratici.

Sullo stesso piano va difeso e salvaguardato, con glistrumenti della libertà e della democrazia, il benesupremo della pace minacciato da un diffusoterrorismo internazionale nei cui confronti lacondanna delle libere coscienze non può che essere

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senza dubbi e riserve. Ma le coscienze libere nonpossono neppure riconoscersi in linee politiche chenon si affidano alla Comunità internazionale escelgono le guerre unilaterali e preventive per lapresunta esportazione della democrazia con le armi. Èindispensabile ed urgente che l’ONU riassumapienamente il suo ruolo di garante della pacemondiale e della ricostruzione e transizione in Iraq. Inquesto processo una funzione fondamentale va svoltadall’Europa unita.

Il 25 aprile è giorno di festa e di mobilitazione,ricordo della conclusione non di una guerra civile trafazioni in lotta per il potere, ma di una guerra diliberazione per la civiltà contro la barbarie, perl’indipendenza nazionale, il progresso nella pace enella libertà, per un avvenire migliore ai giovani...

Fonte: http://www.liblab.it/

RICEVIAMO – PUBBLICHIAMOCONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI

L’umanesimo latino in Ungheria

Budapest, Istituto Italiano di CulturaRICEVIAMO - PUBBLICHIAMO

CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI L’umanesimo latino in Ungheria

Budapest, Istituto Italiano di CulturaL’Ungheria è stata il primo paese europeo ad acco-gliere la cultura umanistica e rinascimentale italiana,che qui raggiunse l ’apice del suo splendore all’epocadell’ultimo grande re nazionale magiaro, MattiaCorvino, e di sua moglie Beatrice d ’Aragona. Tuttavia, l’umanesimo era sbocciato in Ungheria giàai tempi degli Angiò e di Sigismondo di Lussemburgo,anche se i suoi primi germi possono essere addiritturarintracciati nella letteratura ungherese in lingua latinadel XI e XII secolo. Il primo vero e proprio approcciodegli ungheresi con l’umanesimo italiano si ebbeinvece durante il viaggio in Italia di Sigismondo diLussemburgo nel 1413 e il concilio di Costanza che neseguì negli anni 1414-18. Il viaggio di Sigismondo inItalia e il concilio di Costanza furono appunto difondamentale importanza ai fini del consolidamentodei rapporti culturali italomagiari, in quanto che moltiungheresi del seguito regio vennero allora in contattocon insigni rappresentanti dell’umanesimo italiano(Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Antonio Loschi,Pier Paolo Vergerio, ecc.). Anzi alcuni di questiumanisti, come il Vergerio, si trapiantarono inUngheria, dando avvio alla stagione più felicedell’umanesimo magiaro, che, come detto, culminòalla splendida corte di Mattia Corvino. Di umanesimo latino in Ungheria dai primordi alXVIII secolo si è parlato nel corso del convegnointernazionale di studi “L’Umanesimo latino inUngheria”, che l’Istituto Italiano di Cultura diBudapest ha ospitato il 18 aprile 2005. Il Convegno,promosso dalla Fondazione Cassamarca di Treviso, èorganizzato, oltreché dall’Istituto medesimo,dall’Associazione Culturale Italoungherese del FriuliVenezia Giulia “Pier Paolo Vergerio” e dall’EFASCE diPordenone (Ente Friulano Assistenza Sociale CulturaleEmigranti Pordenonesi Nel Mondo), in collaborazionecon l’Istituto di Studi letterari dell’AccademiaUngherese delle Scienze (Sezione di Studirinascimentali) e la Società Neolatina d’Ungheria

“Hungaria Latina”. Sono stati trattati temi molteplici einteressanti come i rapporti personali di Pier PaoloVergerio in Ungheria (Klára Pajorin), quelli tra GianoPannonio e il papa Paolo II (Ágnes Szalay Ritoókné),la metafora “medicus-Medici” nel “De doctrinapromiscua” di Galeotto Marzio (Enikő Békés), l’arrivodella commedia di Plauto in Ungheria (István Puskás),le opere storiografiche di Antonio Veranzio (JózsefBessenyei), la storia di Anna Kendi nella poesia e nelladidassi (Amedeo Di Francesco), il “Florus Hungaricus”e la coscienza nazionale protestante nel Seicento(László Havas). E, sempre con riferimentoall’Ungheria, si è parlato anche di letture e bibliotechenel XV secolo (György Domokos), della storiografiarinascimentale (Sándor Bene), della poesia neolatinanel Settecento (László Szörényi). Questa ampia mapuntuale panoramica sull’umanesimo latino, che èstata introdotta da un profilo storico del periodo degliesordi della cultura umanistica in Ungheria (AdrianoPapo), si è concluso con un contributo dell’acca-demico Béla Köpeczi sulle Confessioni di FerencRákóczi II. Alla fine di questa giornata di studio, che si èpreannunciata molto intensa e proficua, un concertodi musica antica, eseguito dal gruppo “ConcentusConsort ”di Budapest, ci ha riportato virtualmenteindietro nel tempo, allietandoci con la suggestione didelicate melodie rinascimentali.

Adriano Papo- Treviso -

INCONTRO CONSILIO BOZZI e MAURIZIO MATRONE

poliziotti e scrittori

Investigatori, detective, poliziotti, davanti alla scenadel crimine tra finzione e realtà. Silio Bozzi eMaurizio Matrone, due poliziotti ve-ri, racconteranno le improbabili gesta dei loro

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omologhi protagonisti di libri e film con un occhioscientifico, ma indulgente, ricordando che la realtà,spesso, è da non credere... L'Associazioneculturale "Tre civette", in collaborazione col TeatroDiego Fabbri, ha proposto un interessante sabatopomeriggio "a tinte gialle", con la significativapartecipazione di due poliziotti - scrittori. L'incontro,è avvenuto il 23 aprile alle 16.30 scorso a Forlì,nell'Artista Caffè, presso il Bar-Foyer del Teatro DiegoFabbri. Maurizio Matrone (Verona, 1966) è un poliziottodella Questura di Bologna. Dopo il diploma in BelleArti si é laureato in Pedagogia. Ha pubblicato i saggiPoliziotti e minorenni (Clueb, 1995), Bambini,adolescenti e poliziotti (Clueb, 2000), i romanzi Fiatodi sbirro, (Hobby&Work, 1998), Il bolide fantasma(Disney Italia, 2002), Erba alta (Frassinelli 2003) Ilmio nome è Tarzan Soraia (Frassinelli 2004) enumerosi racconti per antologie, riviste specializzate,artisti e bambini. Ha curato alcune edizioni del PoliceFilm Festival (per il sindacato unitario di polizia), e hacollaborato con soggettisti e sceneggiatori di telefilmpolizieschi (La squadra; Distretto di polizia; L’ispettoreColiandro). Aderisce all’Associazione Scrittori Bologna. Silio Bozzi, nato a Palermo il 27 Agosto del 1960,si è laureato in Giurisprudenza presso l’Universitàdegli Studi di Palermo nel 1995. Entrato nella P.A. nel 1992, vincendo il concorso perCommissari. Ha svolto attività di Polizia Giudiziaria, siè Specializzato in Polizia Scientifica nel 1995. Co-Autore e consulente di trasmissioni televisive (Misteroin blu-rai 2; Blu Notte-rai 3-Serial Killer-Italia 1- Sceneal Microscopio-Sky, Studio Universal). Consulente deiprincipali scrittori di gialli e polizieschi italiani(Lucarelli, Camilleri, Vichi, Machiavelli e Guccini etc…).Perito e consulente presso le principali Procure dellaRepubblica. Ideatore e Coautore insieme alla Dott.Cecilia Monti del primo CD-Rom - Simulatore diSopralluogo Tecnico di Polizia Scientifica edito Rizzoli– Newton. È stato per diversi anni DocenteUniversitario presso la Facoltà di Scienze Politiche diBologna, insegnando Criminologia e TecnicheInvestigative Applicate. Attualmente è Vice Dirigentedel Gabinetto Interregionale di Polizia Scientifica perla Marche e L’Abruzzo. [Ufficio stampa della Cooperativa"Tre Civette"]

CHI L'HA SCRITTO?

Indagini Letterarie______I. RISPOSTA

L'autore ed il titolo dell'opera:

Edoardo De Filippo (1900-1984): «Natale incasa Cupiello» ― La commedia dapprima in due atti(1931) venne riscritta in tre atti nel 1943; è

compresa nella raccolta di commedie composte primadella guerra, intitolata Cantata dei giorni pari (Torino,1959).II. DOMANDA

Che titolo ha l'opera e chi è l'autore?

Le vicende esterne ed interiori del lunghissimoromanzo si incentrano sulla figura dello scrittoreGiovanni Borghini che è immerso nella realtà che locirconda, la vede, la giudica, l'interpreta, secondo icasi, osservando gli altri, se stesso e le sue reazioni,in una narrazione dai lunghi periodi a volte senzadialogo, una sorta di flusso di coscienza, sempre peròrazionalmente controllato. Il racconto si articola in tre parti, la secondasuddivisa in tre capitoli. Nella prima parte il Borghini, nell'immediatodopoguerra, accingendosi a salire sul treno per Romanella nuova stazione di Firenze, scorge l'amicoBaldasseroni, l'architetto della stazione, e cerca inogni modo, inutilmente, di evitarlo, perché hapregustato la tranquillità di un viaggio in solitudine, incui potrà leggere e fantasticare. Non essendo riuscitonel suo intento, si rassegna a subire l'architetto comecompagni di viaggio. La situazione è punteggiata daricordi d'infanzia, da immagini erotiche e dai fantasmidella sua letteratura; il Baldasseroni incomincia aparlare di architettura e, mentre questi parla, ilBorghini, fingendo di prestargli attenzione, segue ilfilo dei suoi pensieri…...

NOTIZIE

COMUNICAZIONE — Vi informiamo delle recentiedizioni della nostra redazione (Edizione O.L.F.A.) inlingua ungherese della collana saggistica e narrativa(quaderni letterari) tra il dicembre 2004 e l'aprile2005. SAGGISTICA (studi d'estetica): GyörgySzitányi/Kalandozó értelem, pp. 82; Általánosesztétika I-II. vol., (Dogmák után, Esztétikaimegismerés és fogalmi tisztázás), pp. 64, 72;NARRATIVA (novelle): György Szitányi/Héterdő , pp.120.

PREMI LETTERARI— La nostra validissima amica ecollaboratrice Daniela Rimondi, sermidese da anniresidente a Londra, ha vinto il 1° premio nazionale dipoesia «STAGIONALIA» , IIIa edizione, con la poesia«Ottobre». La premiazione si è svolta a Sermide(MN) nella fastosa Villa Schiavi il 29 maggio 2005,presenti, nella giuria: Matteo Collura presidente,Alberto Cappi, Grazia Giordani e Gianna Vancini. ADaniela i più sinceri complimenti e auguri da parte deilettori dell’Osservatorio e nostri personalissimi. [R.Ferri]

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APPENDICE/FÜGGELÉK______Rubrica delle opere della letteratura ungherese odierna in lingua originale______

Szitányi György (1941) — Gödöllő (H)SZÉP ESTÉNK VOLT, SZÍVEM

Egyenes vesszőket keresett. Lecsupasztotta, hogycsak a kérgük maradt. A parton félárnyékban ült,hegyezte a nyársakat. Nem ahogyan a ceruzát, mintmások, hanem laposra, hogy ne forogjon rajtuk aszalonna. Az asszonyra gondolt: akár egy közömböstárgy, már nem is irtózott tőle, a távolság mindentmegszépít. Harmadik hete, hogy utoljára látta, samikor megkapta a levelét, hogy hétvégénmeglátogatja, nem érzett semmit. Egy asszonynakegyszer csak eszébe jut a férjét nyaralás közbenmeglátogatni. Persze, hogy lehetne, mondta az izéné aszakszervezetben, de maga eddig sohasem… Miértnem? Nem hittem benne. De most gondoltam, hogyideje, nyugdíj előtt legalább egyszer meg kellpróbálnom. Kedvezményesen, biztatta izéné, ésmegadták neki napi kétszázért a bungalóban alehetőséget egy egész hónapra, mivel másnak nemkel-lett. Hatezerért egy hónapig nem látni az asszonyt. És akkor jön ez a levél. Hogy mi a francnak mondtameg, hova megy. Most ide jön utána. Egy horgász ült a fák alatt. Mellette kis kupactűzlobogott, arról jutott eszébe a nyárs. Laposra faragta,ahogyan Jóska bától tanulta. Azért, fiam, mert így anyárssal együtt forog majd a szalonna is, nem forogmajd külön, meglátod. És ezek az ipszilonok? Ezekkeltámasztjuk meg a kenyeret közvetlenül a parázsmellett. Ott pirítós lesz belőle. Nem lett. Soha.Ahányszor csak megpróbálta, a kenyér legfeljebb csakhamus lett. Mindegy, így az igazi. Nyolc kiscsúzliforma, három végén kihegyezve. Mert Jóska báígy tanította, semmi másért. Hátha egyszer sikerül. Elkészült a négy nyárs és a nyolc kenyértartó ágas.Száraz gallyakat keresett, elrejtette az egyik göcsörtöstörzs alá, és visszaballagott az üdülőnek használttelepre, ahol különböző szakmákból való idegenekközött élvezte a magányt. Néhány család zajongott, de a többség magányos,zárkózott ember. Mogorván elnéztek egymás mellett.Csupa menekült. Kis bódészerű házikókban bújtak el. Csak akkorkerültek elő, amikor kénytelenek voltak előjönni.Magánybogaras csendivók. Májkrémet vett elő, reggelizett. Fogta a szatyrát,felkapaszkodott az egyik közbiciklire, elhajtott aközértbe. Sza-lonnát vett. Abból kérek jó harmincdekát, ott, mellette, amelyikben az a vékony hús isvan, meg mit is…, mondjuk, krinolint, igen, két szépszálat. Ez milyen kolbász? Vérszem. Kajaigéző. Hagymát hol találok? Paprikát? Leemelt egy üvegvodkát, elcsábította a kék címke. Sör is kell. Vörösboris az asszony kedvéért. Mit akarhat, hogy utánajön?Évekig egy szót sem szólnak egymáshoz. Együtt semüdültek, nemhogy külön.

Már nem is unják egymást, ahogyan a járdát semunja az ember, akármeddig talpal rajta. A járda van.Járdányi ereje. Valaha szeretett főzni, most már aztsem. Az asszonyt sem szereti. Az asszony csak van. Délután megjött. Szia, papa. Szervusz. Mi van? Itt? Szétnézett, hátha talál valamit, amire rá lehetmondani. Ott csak a semmi van. Arról nem lehetbeszélni, hogy a semmi jó, még hülyének nézné azasszony. Nem válaszolt. Leültek a bódéban, nézték egymást, ha már együttöregedtek. Lejöttél? Le. Otthon? Ami mindig. Otthon is a semmi volt. Abban volt az asszonnyaltöltött negyedszázad. A szemét nézte. Mi a franctólfáradt? A vésődő rovátkák között a lassú mozgásúszem vizeskék volt. Valaha szépen világított. Akkormég barna és sima bőrű volt ez a hallgatásteliábrázat. Most itt van ez a némarc, mert úgy szoktákmeg, hogy egymás közelében legyenek. Fonnyad,fehér, közömbös, leperdül róla a tekintet. Vegyél fel valamit, mondta, a parton hűvös lesz. Aparton? Ott. Oda megyünk? Oda. Ennyit nem beszélgettek tíz éve. Átmentek a töltésen, a betonsávon, leereszkedtek apartra. Szúnyog van? Bőven. Itt van kagylóhéj is, mondta dicsekedve. Kagyló nincs, véleményezte az asszony. De van, mondta erre. Itt annyira tiszta a víz, hogymegél a kagyló meg a csiga. Az asszony megvárta, amíg előhozta a rejtekből agallyakat. Máglyát rakott, és az előkészített nyársakraráhúzgálta a hagymát, a szalonnadarabokat, egy-egykarika krinolint, kolbászt közéjük. Ülj le már, szólt rá.Akkor meggyújtotta a tüzet, és előhúzta a vodkát. Igyál. Vodkát? Miért? Aperitif. Közönyös arccal nézte az asszony, hogy a kiságasokra kenyérszeleteket illeszt, amik a finomsódertől csikorgóvá lettek, de nem pirultak meg.Mélázva bámulta a nyársra tűzött ennivalót. A parázs fölött a hagyma lassan pirulni kezdett, aszalon-na, akár a zsírral bemaszatolt irkalap,megsötétedve üvegesedett. Zsírcseppek sercegtek atűzben. Kár érte, mondta az asszony, miért nem vigyázol? Nézte, hogy a krinolinkarika dereka befűződik,korongja a talpán felpúposodik. A kolbász szalon-nadarabkáinak színe beleolvadt a húséba, keskeny

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füst illant a sercenés nyomán. Az asszony akkurátusana kenyere fölé emelte a nyársat, csöpögtette aszalonnát. Harapott. Akkor az ember előhúzta a vörösbort. Meleg? Behűtöttem. Pincehidegre? Igen, úgy kell. Letette a kenyerét a sóderre, rátámasztotta anyársat, gondosan kihúzta a dugót, poharakat vettelő. Az asszony elégedetten nézett rá. Utálta, ha elégedetten nézik. Dermedő szalonnájárapillantott, felemelte a nyársat, a parázs fölé tartotta.Lassan forgatta, s időnként hozzányomkodta akenyérhez. Eszébe jutott a paprika, nyújtott egyet.Utána magának is vett. A szalonna közben átlátszóvávált, majd a szélein pirulni kezdett. Leemelte a tűzfölül, hozzányomkodta a kenyérhez, és szép lassanelkezdte lefejteni a nyársról. Miért nem csöpögtetted? Én sülve szeretem. Érted? Nyárson sülve, nem pedignyárson csöpögtetve, azért. Az asszony vállatvont. A legjobb úgy, ha igazán megsül a szabad ég alatt,folytatta. Amikor nem lábosban vagy tepsiben sült, eza lényege. Ilyenkor ropog és egybe sül az egész. Mi ez a hús?, kérdezte az asszony. Ez? Krinolin, csak úgy eszembe jutott. Ez meg kolbász? Az. Megcsikordult a kenyér a szájában. Nagyon jó lett, mondta. Aha. Te nem iszol? Bort? De. Töltött. Nem nagyon ízlett. Ne idd meg előlem, szólt az asszony. Az emberelőhúzta a közös hűtőben jól behűtött sört. Kérsz? Naná. Ne idd meg mindet. Magamnak vettem, a bor atied. Mire elfogyott az első nyárs, az asszony már dúdoltis. Amikor a másodikat ették, már dalolt, hogyédesanyám, kössön kendőt, selymet a fejére. Azember bekapcsolódott, és mire az üveges szalonna aférfi nyársán másodjára is barnulni kezdett a szélein,vidáman nótáztak. Rövidesen következett az emberkedvence, a nótás kedvű volt az apám is. És mireelhamvadt a parázs, már a maradékot iseltakarították. A tűz mellett heverve egyszer csak megszólalt azasszony, hogy te, mikor voltunk mi így együtt utoljára,én nem emlékszem. Soha, mondta az ember, mi soha. Még nem értünkrá. Majd, ha nyugdíjban leszünk, biztatta magát azasszony. Aha. Te, mikor voltunk utoljára együtt?

Úgy? Úgy. Én nem is emlékszem. Én igen, mondta az ember, de nem érdekes. Nem kívánod? Elgondolkozott. Nem. Valahogy nem hiányzik már.Hát neked? Én fáradt vagyok. Ha te ennyit dolgoznál, nekedeszedbe sem jutna, hogy ilyeneket kérdezz tőlem. Nem én kérdeztem. Dehogynem. Valamikor belealudtak a vitatkozásba, csakhajnalban ébredtek a hidegre. Bemehetünk az üdülőbe. Te is bejöhetsz,megkérdeztem a gondnokot, menjünk aludni. Á, én már nem. Haza kell mennem. Kikísérhetnél abuszhoz. Az embernek erre elege lett, fellázadt. Hirtelenfelállt, elindult a töltés felé, és amint talpa alólelfogyott a sóder, visszafordult, a csípőre tett kézzelálló asszony felé. Hagyta, hadd lássa szemtől szembeutoljára. Mire elhangzott volna a szemrehányó kérdés, mélygyökereket eresztett, végük egészen az üde talajvízbeért, fejbőrében kitágultak az erek, boldogan rohantszerte a vér, s mikor ágain keresztül lombjait is elérte,kellemes hajnali szél támadt.

Forrás/Fonte: «Héterdő» di Szitányi György,Edizione O.L.F.A., Ferrara, 2005; pp. 120

A szerző Honlapja/Home Page dell'Autore:http://www.szitanyigyorgy-dr.ini.hu/

Dr. Edelényi Adél — Győr-Ménfőcsanak (H)BÖRTÖNTECHNIKUM(Egy forradalmár visszaemlékezései)

Dénes Zoltán

1956 egy bakonyaljai, e-zer lelkes településen: azesemények intenzitásamegközelíti a budapestit,talán csak a személyes

motívumok árnyalják job-ban a képet, mint a főváros-ban. Sajátosan zárt világ ez, ahol mindenki mindenkitismer, népi társadalom, ahol a cselekedetekszükségképpen és törvény-szerűen ellenőrizhetők.Mégis oly keveset tudunk a magyar falvakban zajló56-os eseményekről. Sokorópátka ekkortájt egy olyanfalu a megyehatáron, ahova befele vezet út, de onnantovább nem. Lakói a 18. századi megtelepülés ótasínylik a földéhséget, holott többségük paraszt, iparos

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alig van. Az 1940-es évek végéig elhúzódó földosztásnémileg enyhítette ezt a problémát, nőtt a kisparasztibirtokok száma. Az egyre életképesebbé váló családigazda-ságok fellendülést hoztak a falu népének, decsakha-mar jött a padlássöprögetés, a beszolgáltatásután a gazdáknak megmaradt csekély rész amegélhetést már nem biztosította. Ez az a hangulat,amelyre hő-sünk a továbbiakban, elbeszélésében utal.

Dénes Zoltán (1927. február 1. - 2003. február20.) Sokorópátkán született és élte le életét, kiskitérővel, melyet ő maga nevezett el „börtöntech-nikumnak”. 1992. augusztusában magnószalagrarögzített egyszerű szavaiban megelevenedik azötvenes évek második felének sokorópátkaihangulata:

«1956 előtt elég rossz világ volt, mert újjá kellettépíteni az országot. Voltak kellemetlenségek is, merta Rákosi rezsimben elég sok megtorlás volt. Nem voltszabadság, ami érződött is abban, hogy az emberekelégedetlenek voltak. 1956-ban már lehetett érezniazt, hogy itt valaminek lenni kell, mert az emberekmár végleg ki voltak borulva, a szabadságuktól megvoltak fosztva. Börtönbe kerültek jogtalanul.

Abban az időben maszek hentesüzletünk és kocs-mánk volt, majd 1949-ben bevonták az iparengedé-lyeinket. Akkor a földműves szövetkezethez kerültemkocsmárosnak meg hentesnek. Aztán elkezdték a fú-rásokat, mocskos dolgok voltak a faluban. Mindenkiszeretett volna vezető állásba kerülni, a másik embertmegmarni, hogy őneki jobb legyen. Én is belekerül-tem ebbe a célpontba. 1956. október 18-án önkéntotthagytam az állásom. Itthon voltam, nem volt ál-lásom, csak éltem.

1956. október 23-án már a rádióban nem beszél-tek, csak mindig zene szólt. Egyszer csak megszó-laltak, hogy Budapesten huligán elemek megtámadtáka pártházat és a rádiót. A fegyveres erők harcbanállnak velük, várható, hogy rövidesen leverik a láza-dást. Egyszer csak halljuk azt, hogy még mindig áll-nak a harcok. A rádióban híreket se igen mondtak,közbe-közbe megszólaltak, hogy fölszólítanak minden-kit, hagyják abba a harcot, tegyék le a fegyvert.Követeléssel jöttek elő az egyetemisták. Tizennem-tudomhány pontot fölolvastak, meg hozzá tüntettekPesten, de nem rakták le a fegyvert. Egyszer csakkövetelte a nép Nagy Imrét. Ez körülbelül októberhuszonötödikén-huszonhatodikán volt. Aztán akkorszólt, hogy „Magyarok! A minisztertanács elnöke szólhozzátok. Békés útra lépjetek, ne harcoljatok, netegyétek tönkre az országot!” - egy ilyen megnyug-tató beszédet mondott a Nagy Imre. A nép elfogadtaőt, de ezt nem fogadta el. Azt mondták, hogy addigharcolnak, míg a szovjet csapatok ki nem vonulnak azországból. Erre lett egy olyan egyezség, hogy aszovjet csapatok kivonultak Budapestről, Győrből,mindenhonnét. A városokat, a stratégiai pontokat el-hagyták, de a városon kívül letelepedtek. Írta az új-ság, hogy fáznak az orosz gyerekek és asszonyok.

Győrön kívül árkokban, gödrökben voltak. A magya-rok ekkor még enni is adtak nekik, csak menjenek ki.

De az oroszok elkezdtek utána bejönni Magyaror-szágra, ezrével-tízezrével jöttek a páncélosok.Hallgattuk, mikor október negyedike körül mondták,hogy megtámadta Magyarországot a Szovjetunió. Újhadsereget hozott be, tízezer vagy húszezer páncé-lost. Hallottuk, amint mentek az úton a páncélosok,süvítettek végestelen-végig. A Bakony alatt egészkonvojok mentek. Mi meg azt vártuk, hogy mikorhozzák az amerikaiak a fegyvereket. De Amerika nemadott semmit, csak a magyarokat biztatta. Magárahagyták teljesen Magyarországot. Pesten még egydarabig kitartottak, voltak ilyen elszigetelt gócok.Mondták, hogy a Bakonyban is vannak szabadsághar-cos csapatok, meg erre-arra ténykednek. Voltak is.

Itt volt például Sokorópátkán a Török Pista. Ne-kem igen jó barátom volt, fölakasztották. Idemenekült Pátkára. Katonatiszt volt. Elmondta, mi itt ahelyzet, hogy Magyarországgal nem tudnak semmit secsinálni. Mert ellenünk volt Csehszlovákia, Ro-mánia,Magyarország ellen volt mindenki. A cseheküvöltöztek át a határon, a Dunán, hogy: „Majd mirendet csinálunk, átmegyünk hozzátok!” Ezt beszél-ték az emberek. Oda menekült az összes magyaremigráns, az ávós főparancsnok, mind Csehszlová-kiába menekültek.

Pátkán, október 26-án vagy 27-én elment egycsomó nép a vendéglőhöz. Ott, ahol most az önkor-mányzat van, a tanács volt akkor. A vendéglős Ru-govics János bácsi volt. Én meg itthon voltam, a for-radalom előtt hét nappal mondtam csak föl az álláso-mat. Voltak disznaim, volt mindenem, megvoltam. Afalunak beszolgáltatási kötelezettsége meg adóhátra-léka volt a Rákosi rendszerben. A beszolgáltatásitörvény szerint be kellett adni a kukoricát, búzát,disznót, tojást, tyúkot. Csak az asszonyt nem kellettbeadni egy éjszakára! Mindenkinek fölgyülemlett egycsomó tartozása. Lesöpörték a padlásról a gabonát,megfogták a tyúkot, a disznót, amit tudtak.Transzferálók voltak, a helyi tanács intézte abba azidőbe. Megfogták a baromfiakat, zsákba összeszed-ték, aztán vitték.

A nép föl volt háborodva, meg lett mondva aSümegvárinak, a tanácselnöknek, hogy nyissa ki atanácsházát. Ott volt a Sári Dani, Ress Pista, SzabóLajos, Vajda Rezső, jó egy csomó ember volt ott.Kinyittattuk vele a tanácsháza ajtaját, az összes adóspapírt összeszedtük. Gyújtottunk egy máglyát, aztánráraktuk a máglyára. Az anyakönyveket meg földbir-tokíveket senki nem bántotta. Tudtuk, hogy szükségvan rá. Javasolta a Sári Dani, hogy tartozik XY ennyiforinttal, meg ennyi marhahússal, ennyi búzával, megennyi ezzel-azzal, aszonta, hogy: „Én eltörölöm nekiaz összeset!”

Voltak személyes dolgok is, ezekről nem akarokbeszélni. Ha valaki valakit bántott, meg lett egy kicsitijesztve. A Nágliék is besúgók voltak. Egyesekmondták, hogy meg kell őket ijeszteni, hogy többembert ne vitessenek el a faluból. Itt van például a

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Mihályfi Ferkó bácsi. Levágott egy disznót, kapott értefél évet. Sok volt ilyen a faluban, legalább tíz vagytizenkettő. Csak XY megmondta neki, jelentse föl eztaz ürgét, ment a följelentés, jöttek az ávósok, jött arendőrség, jól agyonverték, aztán elvitték egy vagykét évre. Varga Laci bácsinál is ott jártak a nyomozók,följelentették fegyver-rejtegetésért. Nem találtakfegyvert nála, ezért zsebben odavittek lőszereket.Eldugták házkutatáskor a disznópadlásra. Onnan vetteelő a nyomozó! Elég volt az, hogy két lőszert találtakvalakinek a padlásán, azért kapott tíz vagy öt évet.Ilyen világ volt! A Struczer Nácit is valami be-szolgáltatásért, biztos búzáért, konkolyos volt a búzá-ja, elvitték nem tudom mennyi időre. A Molnár Józsibácsit is. Volt egy nő, ki volt neki tűzve a mellére egypártjelvény. Az öreg azt mondja: „Nem szégyellimagát?” Ezért elvitték, egy vagy másfél évre. Jólagyonverték. A Szabó Zolti bácsit is agyonverték lega-lább harmincháromszor, mert nagy volt neki a szája.Bementünk a tanácsra, rendet csináltunk. El lettengedve mindenkinek a tartozása. Nem volt róladokumentum, hogy valaki tartozik ötven vagy százkiló gabonával, vagy száz kiló marhahússal, vagy százkiló disznóval.

Vártunk, egyszer csak hallottuk ám, hogy kezdődika cirkusz itt a környéken. Jöttek Ravazdra a pufaj-kások. Jó barátaimból összeszedtek egy teherautó lá-zongót, a tanácsházán jól elverték őket. Fölraktákőket az autóra, aztán vitték be Győrbe, hogy majdottan ellátják a bajukat. Mentek, megállt az autó,egyet levettek közülük, jól fenékbe rugdalták, lőttek alevegőbe, aztán mentek tovább. „Na – mondták –,egy csavargóval kevesebb van.” Mentek tovább, osztmegint egyet lehívtak az autóról. A pufajkások karha-talmisták voltak, pártvezetők, funkcionáriusok, demind átvedlődtek, aztán ők csinálták ezt a cirkuszt.Hát aztán mennek tovább. Micsoda kellemetlen dologlehetett, amikor visznek az autón egy bandát, jólelverik az autón is őket, aztán egyet levesznek, lőneka levegőbe egy sorozatot, aztán mennek tovább: „Na,eggyel kevesebben vagytok megint.” Elmennekkétszáz méterre, akkor megint egyet lehívnak azautóról. Nem lőtték agyon, csak ijesztgették a bandát.A legutolsó mit érezhetett, mire elfogyott a banda azautóról! Aztán ment hazafelé, nem bántották. Jólvalagba rúgták háromszor, mikor elengedték.

Pátkán följelentettek bennünket. A Sári Daniékbevonultak Győrbe katonának. A Nágli pont akkorment a buszon. Leszállították a buszról a Daniékat.Aszongyák, jól agyonverték őket, szemükbe oltották elaz égő cigarettát. Ott nem volt kímélet! Akkor ezeketlefogták, aztán két hónapjára volt a tárgyalás. Akkorhívtak bennünket is Győrbe. Ezeket már a buszrólbevitték a rendőrségre. Ott voltak a pincébenelőzetesben, két hónapig. A Nágli jelentett föl ben-nünket. Fegyvert kerestünk nála, aszonták, sok vannála. Azért ment ki a banda hozzá, hogy többet nejelentsen föl senkit se. A Nágliék megmondták, hogyott voltunk. Az öreg Nágli volt itt főnök. Volt egycsomó komonista könyv nála. El akarták égetni.

Mondtam, hogy ezeket ne égessük el, hagyjuk meg,mert erre szükség lesz. Pátkán rengeteg kétszínűember volt, ők álltak be legelőször a komonistapártba, aztán ők akartak másokat itten egrecíroztatni.Az országban, akik le voltak csukva börtönben, annakhetven százaléka régi párttag volt. Én is az voltam.MDP tag voltam. Előtte a Magyar Szabadság Pártnaka tagja voltam, ami ’47-ben alakult. Papírom is vanróla. Ha az akkor előkerül, engem fölakasztottak volnaérte.

Behivattak tárgyalásra Győrbe. Megvannak a papí-rok is róla, minden, az idézés is. Két napos tárgya-lásunk volt. Már a „halálbíró” volt a bíró, meg a Grazaz ügyész. Pátkáról a Sári Dani volt, Nagy Bózsi,Horváth Miklós, Brenner, Szabó Lajos, Pintér Tihamér,én voltam, a Takács Laci, Faragó Sanyi, Kovács Pityu,Büki Lajos, Szabó Gyuri, Ress Pista, Vajda Rezsi,valami tizenhárman voltunk. A bíróságon kihallgattakbennünket. Senkire nem vallott rá senki, hiába akar-ták, nem sikerült nekik. Az ügyész erre bepörgött,aztán a vádbeszédet úgy kezdte, hogy: „Tisztelt Bíró-ság! Itt ül a vádlottak padján tizenhárom gúnyosanmosolygó fasiszta fiatal. – Azért fasiszta, mert rend-szerellenesek voltunk. – Kérem a Tisztelt Bíróságot,statuáljon olyan büntetést, hogy örökre elmenjen méga környékben is a kedve mindenkinek, hogy ilyenbemég egyszer beleavatkozzanak a fiatalok, ilyenpolitikai bűncselekménybe, államrend meg-döntéséreirányuló szervezkedésbe.”

Az első-, másod-, harmad- és negyedfokú vádlot-takra a legsúlyosabb büntetést kérte. Négyünkre ez ahalálbüntetés volt. A Sári Dani kapott öt évet, aHorváth Miklós négyet, én három évet első fokon, aNagy Bózsi alighanem két évet kapott. Aztán kaptakfelfüggesztve egy évet, meg volt akit fölmentettek,például az öreg Szabó Gyurit. Akire a Nágli aztmondta, ezt büntessék meg, azt megbüntették. Akiharagosa volt, azokat megbüntették. Aki elment hoz-zá bocsánatot kérni, azt nem büntették meg. Én nemmentem el. Annál büszkébb ember vagyok, inkábbleülök öt évet, akkor se megyek el bocsánatot kérnisenkihez. A bíróságon akin látták, hogy ez csak azistállóban a tehenek alól el tudja venni a kakát, aztnem büntették meg, de akiről látták, hogy ennek azürgének van egy kis esze, aki talpraesett, aki tudmaga körül gyűjteni csoportot, tud szervezni, azt elkell tenni hűsre. A Szabó Lali bácsit, meg még páratnem büntették meg, mert látták, hogy most meg voltbolondulva, megivott háromszor két deci bort, aztáncsinálta a balhét, de tovább ennél nincs. Azt nembántották. Az összes értelmes embert mind lecsukták.Azok megkapták a magukét!

Én három évet kaptam, de az ügyész fellebbezett.Második nap megkaptam a büntetésem. Jöttek isbefelé a smasszerok, a börtönőrök géppisztollyal,mancsot össze, már kattant is a bilincs. A tárgyalásután közvetlenül levittek a börtönbe, Győrbe. Ottvoltam körülbelül tíz napig, aztán elvittek bennünketPestre, a gyűjtőfogházba. A Dani volt ott meg aHorváth Miklós. Mind a hármunkat elvittek Pestre. A

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Nagy Bózsi kint volt Baracskán, kivitték előrerabgazdaságba, mert kevesebb ideje volt. Egy alka-lommal beszólnak, hogy:

- Dénes Zoltán! - mondom:- Parancs!- Jöjjön ki! - Kimegyek. Akkor még előzetes

voltam. Aszongya, hogy:- Jöjjön le az alagsorba! - Lemegyek. Aszongya:- Válasszon magának egy karperecet! - Azok olyan

karperecek voltak, mint a ’48-as szabadságharcban,vagy a törökök, mikor láncra fűzve vitték az embe-reket, minket pontosan olyan láncra fűztek rá. Voltegy bilincs, széjjel lehetett hajtani. A bilincsnek voltegy teteje, az át volt fúrva. Erre ment egy - kutyánaknevezték - tasakszerűség. A lukon áthúzták a láncot.Jobbról-balról, elöl-hátul rátettek egy lakatot, aztánonnan menekülés nem volt. Összefűztek hetünket-nyolcunkat egy láncra, mint a teheneket, aztán úgyvittek bennünket Pestre autóval, rabogónak mondták.Ablak nincs rajta, vasrácsokkal körbe van véve. Hátulülnek a fegyőrök géppisztollyal. Elöl van a kocsipa-rancsnok meg a sofőr, de végig öt centis vasrácsokvannak. Onnan aztán megszökni nem lehet.

Elvittek bennünket Pestre. A gyűjtőfogház mini-mum egy négyzetkilométernyi helyen fekszik. Hogymerre van, nem tudom, mert engem oda sötét autó-val vittek. Odaértünk, kiszálltunk az autóból, bevitteka körletbe. A befogadóban fogadtak bennünket, azirodán beírták a nevünket, aztán fölvittek. A jobbhármas százas zárkájába kerültem. A második emele-ten volt. Egy öreg volt ott, a Török bácsi, a FranciaKiss Mihálynak volt a bűntársa. Volt akkor már körül-belül hetven éves, már tizennemtudomhány éve bör-tönben volt.

A börtönben volt nyolc-tíz személy, aki kimehetetta folyosóra. A zárkán van három zár, csak egy kisetetőluk van, ahol beadják a kaját. Mondtam egysoproni gyereknek, aki házimunkás volt:

- Nem tudnál valami munkát szerezni, mert énmegbolondulok itten! Aszongya:

- Mi a szakmád? - Mondom neki:- Hentes vagyok meg főzni is tudok. Kocsmánk

volt, mint üzletvezető voltam.- Várjál - aszongya -, megpróbálom. - Hát ott

vagyok fönt, harmadnap, negyednap, kiabálnak,aszongyák, menjek ki. Jött a konyhás főtörzsőr-mester. Hozott egy acélt meg egy kést. Aszongya,húzzam meg ezt a kést az acélon. Ebből meg tudtaállapítani, hogy tényleg értek-e hozzája. Odaadja,meghúzom a kést az acélon, nekiadom:

- Tessék.- Jól van - aszongya -, csomagoljon össze, jöjjön a

bal kettő földszintre! A nyolcas zárkában lesz, szakácslesz a konyhán. Én lettem a konyhamészáros meg afőszakács-helyettes. Hetente tizenkét mázsa lóhústdolgoztam föl. Mindig lóhúst ettünk, mást nemkaptunk, csak lóhúst meg szamárhúst. MegkérdeznémGöncz Árpádot, Darvas Ivánt meg Kupa Miskát, hogymilyen a lópörkölt meg a lóhúsleves, hogy emlékszik-e. Mindenki tudta, hogy azt kaptunk. 350 kilót hoztak

egyszerre. Ezt én dolgoztam föl. Ketten voltunkszakácsok egy haverommal, a Gulyással. Minden kéthétben egyszer volt nokedli, négyszáz kiló lisztbőlcsináltuk.

A bolondok háza ott volt mellettünk. Ott olyan ke-gyetlenségek mentek, hogy azt az ember el se tudjaképzelni. Sokkolták a szerencsétlen rabokat, villannyalcsapatták, meg hozzáhasonlók fordultak elő. Voltakilyen szadista nők, akik abban gyönyörködtek, mikorfetrengett az elítélt, aki megbolondult. A HorváthMiklós ott volt ápoló. Oda olyanokat vittek, aki bele-bolondult, hogy majd fölakasztják. Hallottuk, mikorakasztottak, megindultak a szirénák. A kisfogházbavitték mindig a halálraítéltet. Hetet, nyolcat isakasztottak egy-egy reggel. Hogy ne hallják a kia-bálást, bekapcsolták a szirénát. A konyhán ki volt írva,hogy az élelmet hány személyre kell kiadni. Rá voltírva: kisfogház, például 62 személy tegnap, mára csak54. De nem volt szállítás, mert ha elvittek valakit,akkor hideg élelmet adtunk neki. Mi azt tudtuk,hogyha elvittek négy vagy hat embert, mert akkor jötta fegyőr, hogy hat embernek szalonnát, kenyeret meglekvárt, hideg élelmet adjunk. Annyival csökkent alétszám. De mikor nem adtunk ki hideg élelmet, akkortudtuk, hogy máma volt 62, holnap csak 54, akkorhajnalban nyolcat akasztottak föl. Akkor már rá voltírva nekik a nevük a csomagra, mint a katonának,amikor küldik haza zsákban a ruhát a bevonulónak.Akit fölakasztottak, annak is az összes személyesholmiját küldték a családjának. Láttuk, hogy sorban levoltak rakva a csomagok, ment haza a szülőknek vagya feleségnek a csomag.

Nekem akkor már volt feleségem meg két gyere-kem. Három hónaponként írhattak egy levelet, meghárom hónaponként látogathattak meg. De az olyanlátogatás volt, hogy volt egy nyolc méter hosszúhelyiség, sűrűn rács volt rajta. Az asszonyt 3-4 helyenellenőrizték. Leadta a papírját, akkor jött egy fegyőr,aki engem fölvezetett a beszélőre. Az asszony mellettállt két fegyőr, énmellettem is kettő. Köztünk volt egyrács, sűrű, a hátsón nem lehetett átlátni. Megszólalt acsengő, a rácson keresztül elkezdhettünk beszélni tízpercig. Megmondták, abban az esetben, ha olyantmondunk, ami nem családi dolog, hanem a bűncse-lekménnyel összefüggésben van, rögtön visszavisznekbennünket. Tíz perc volt, megszólalt a csengő, hátra-arc, az asszony arra, én emerre. Már vittek is visszabennünket. Tíz perc alatt jóformán semmit nem lehe-tett megbeszélni.

A külvilágról semmit nem tudtunk. Mondták, hogynyugtalanság van Pesten. A börtönben mindig aszabadság után vágyódik valaki, azt várja mindig,mikor lesz újból forradalom. Mink is azt vártuk. Eltö-kéltük, hogyha az a 2200 csíkos ember kimehetne,kapnánk egy golyószórót vagy egy géppisztolyt, egygéppuskát, mink végiglőttük volna Budapestet. Ottnem maradt volna kő kövön, amerre elvonulunk. Otthalálig. Sajnos nem volt ilyen.

Annyira becsülöm azokat az embereket, akik ottvoltak! Annyira különböztünk egymástól! Ott intel-

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ligens emberek voltak. Egymásért éltek-haltak. A zsi-ványoknál, betörőknél nincs szolidaritás, de nálunkvolt. A hetven éves embert tegeztem, nem magázód-tam. Bajtárs volt mindegyik. A megszólításunk bajtársvolt. Ott, ha a Göncz Árpáddal találkoztam, vagy akár-milyen miniszter volt valamikor, vagy bárki, annak aztmondtam: Szervusz bajtárs.

A konyhán voltunk huszonketten. Hárman szaká-csok, a többi krumplipucoló meg hozzáhasonló. Akazánházban voltak vagy nyolcan, mellettünk közvet-lenül. Az udvaron dolgoztak nem tudom mennyien,akik takarítottak. A körletekben voltak a házimun-kások, azok vitték föl a kaját. Körülbelül 150 embervolt, akik jöhettek-mehettek. Én szoktam a szikéketköszörülni, amivel boncolták az embereket a rabkór-házban. Egyik alkalommal odahoznak hozzám háromvagy négy ilyen szikét. Megköszörültem. Utána állan-dóan hordták oda, hogy milyen jól meg tudom kö-szörülni. A hullákat boncolták vele.

Mi kimehettünk az udvarra. A konyhások, megmellettünk voltak a kazánházasok, meg az udvarosok,akik az udvart takarították. Volt két őrünk, az egyikdélelőtt volt, a másik délután. Azok mindig ott voltaka konyhán egy irodahelyiségben. Kimehettünk a házelé, de csak öt méterre az ajtótól. Mikor vitték afölakasztottakat, azt mindig láttuk. Nem láttuk a ko-porsókat, csak azt, mikor bejött a fekete kocsi, rajtakét ürge, meg két szürke ló, aztán baktattak ki ott akonyha előtt. Akkor tudtuk, hogy viszik, akit fölakasz-tottak.

Kovács István volt a főhóhér, legalább két métermagas volt, nagy lapát tenyerekkel, nagy pofával. Aza hír járta a kórházban, hogy volt neki két vagyhárom igen szép leánya. És nem tudtak férjhez men-ni, mert mikor megtudták, hogy hóhér az apjuk,otthagyták mindig a leányokat. Találkoztam is azzal aKováccsal. Egyik alkalommal mondom, énnekem is jólenne hóhércigaretta. A konyha előtt volt egy gödör,abba ment bele a moslék a konyháról. A hóhérnakvolt száz darab hízója, két lova, egy stráfkocsi, amireföl voltak rakva 200 literes vashordók. Meg köllöttmerni a hordókat a moslékból. Egyszer én is kimen-tem, mondom, én is szerzek ilyen hóhércigarettát.Annak mindig adott egy csomag Munkást, akimegmerte neki a konténert. Nekem is adott. Perszebeszéltem vele, aztán mondom neki:

- Kedves őrnagy úr, hát nem sajnálja maga ezeketa szerencsétlen fiatal gyerekeket, mikor fölakasztjaőket? Ez mind munkásember, egy se arisztokrata! -Megmondtam neki. - Aszonta:

- Proletár ne politizáljon! - Isten bizony! Elment akisfogházba, előre mindig megnézte az áldozatait.

Egy zárkában voltunk hárman. Egy méter ötven,két méter széles zárka volt, három és fél méterhosszú. Abban volt három ágy, mink szakácsok mindkülön voltunk. Este, mikor végeztünk a munkával,akkor fölmentünk. Engem reggel kivittek, volt úgy,hogy négy órakor, reggelit kellett csinálni. Levittek,utána másik alkalommal a másikat vitték. Délutánkiadtuk a vacsorát, öt órakor vagy hatkor, akkor

fölmentünk, aztán jót aludtam. Voltunk huszonketten,aztán 310 évünk volt huszonkettőnknek. Voltakéletfogytiglanosok, azoknak 17 vagy 18 év. Nagy ré-sze életfogytiglanos volt. Kutya világ volt ottan!

Egy tatabányai főmérnök a konyhán karbantartóvolt, mesélte, hogy: „Már nem is merek felvennimagam mellé olyan illetőt, akinek nincsen jogerősítélete!” Engem elítéltek első fokon, akkor még jogomvolt fellebbezni. A Legfelső Népbíróságig fellebbez-hettem. Másodfokon ítélték el az ürgét Pesten. Ha énkaptam mondjuk Győrben életfogytiglant, Pestenkaptam halált, akkor fölakasztottak. Neki voltak olyanhaverjai, akik kaptak Győrben vagy Miskolcon, vagyvalahol mondjuk 15 évet, Pesten meg halált. Aszon-gya, már nem is mer maga mellé odavenni senkit,akinek nem jogerős ítélete van, mert már őmellőlehármat vagy négyet fölakasztottak. Ilyen dolgok vol-tak.

Volt ott egy gyerek, a Hanyec Andris. Soha nemfelejtem el, egy miskolci volt. Tizenkét éve volt. Kiska-tonák voltak, tüzérek, valahol Csepelen. Nem enged-ték haza őket a tisztek, ottmaradtak, jöttek az oro-szok, a vezérlöveg leadta a figyelmeztető lövést,hogy: Állj! Nem álltak meg. Utána közvetlen irányzék-kal kilőttek két vagy három páncélost. Hát ezérthármat vagy négyet akasztottak fel közülük. A Somo-gyi Tibit, a Kőrösi Sanyit, meg nem tudom melyikeketmég. Az András legkedvesebb haverja a Somogyi Tibivolt. Az Andrással egy zárkában voltam. Le szokottjönni a konyhára krumplit pucolni ez a Tibi gyerek, otttalálkozott az Andrással, énnekem bemutatta:

- Zolikám, itt van a Tibi, a bűntársam - aszongya -,együtt voltunk vele Pesten. Olyan éhes szegény gye-rek, etesd meg, mert látod milyen sovány, girhes, ad-jál neki egy kis ennivalót! Mindig adtam neki, még aztis, amit elvitt, hogy vigye föl a zárkájába. Aszongyaegyszer az András:

- Zolikám, megyünk tárgyalásra, mondta a Tibi,hogy benn volt nála az ügyvédje, azt mondta, hogykint már javult a helyzet, csöndesedett, lehet, hogyhaza is engednek benneteket!

Irigykedtem rájuk, mert nekem három év volt hát-ra. Ennek volt tizenkettő, annak meg életfogytiglan.Mondom, hogy marha jól nézek ki, ha azokat hazaen-gedik, engem meg itten esz a rosseb három évigmég. Hát mikor elmentek, mondja az András énne-kem:

- Hát mit jósolsz, mit kapok?- Hát - mondom -, András, én nem tudom. Az ü-

gyész fellebbezett? - Aszongya, hogy:- Nem.- Hát ti fellebbeztetek?- Mink fellebbeztünk.- Hát - mondom -, vagy levesznek, vagy megma-

rad a tizenkét éved.Aztán elment tárgyalásra. Este hallom ám, hogy

zörög a bilincs. Na mondom, itten baj van, mertakkor, mikor valakit halálra ítélnek, akkor már kezét-lábát összeláncolják, a jobb kezét a bal lábához, a balkezét a jobb lábához, oszt ilyen pórázon vezetik az

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ürgét. Aztán hallom, hogy a zárkánk elé bejön azAndrás, csörög a bilincs, elvitték a Tibit a zárkájához.Amikor jöttek vissza, hozza a csomagját, fehér zacskóvolt, egy madzag volt belehúzva, rá volt írva, hogySomogyi Tibor, Budapest, Vitorlás út nem tudommennyi. Nekiadta az Andrásnak: „Énnekem erre márnincsen szükségem, neked adom, legyen a tied.”Aztán mikor elment, odajött hozzám, aszongya:„Szervusz Zolikám, köszönök szépen mindent.”. Aztánvitték el, ment a kisfogházba.

Egy kőkolosszus az a kisfogház, a börtönön belülegy börtön, méteres vastag falakkal, vastag szőnyeg-gel. Ott papucsban járt mindenki. Egy suttyanást sehallottál. Síri csend. Ott voltak a halálraítéltek. Voltegy folyosó, mint mikor a gladiátorokhoz az oroszlá-nokat kieresztik. Háromszögekre elosztott kamrákvoltak, abban sétáltak az elítéltek egyenként. A tete-jén meg volt egy torony, abban állt géppisztollyal azőr. Ott sétáltak tíz-tizenöt percet egy nap a halálra-ítéltek. Láttam az egész kisfogházat, meg ezt a séta-helyet is láttam. Még az akasztófák helyét is láttam.Volt olyan alkalom, hogy szóltak, kevés a koszt. Akkoregy szakácsnak el kellett menni. Egy alkalommal vol-tam benn a kisfogházban. Átmentünk egy ajtón, ottvolt túl a kisfogház. Ott volt az élelmiszerraktár, ittvoltak ezek a sétálóhelyek. Ezt mind láttam. Ahol vol-tak a bitófák sorban, ott a kisfogháznál ilyen flekni-szerűség volt, arra mindre rá volt rakva egy pléhtető,gödörben volt. A bitófa nem ám olyan, mint sokanelképzelik! Egy egyszerű fölállított oszlop, azon csigavan alul meg felül is. Az ürgének ráteszik a nyakára akötelet, meghúzzák úgy, hogy alul-felül kispannoljákaz ürgét. Kihúzzák a nyakcsigolyáját, lefelé húzzák atestét, fölfelé a fejét. Akkor odamegy a hóhér, aztánmegtekeri a fejét, elszakítja a gerincvelőt.

Hoztak oda ingeket. Tudom, hogy azok voltak,amiket ezekről letépnek. Mert mikor fölakasztanakegy ürgét, akkor az inget az orvos széjjeltépi rajta,aztán úgy hallgatja meg, hogy a szíve még dobog-e.Tíz percig van fönn a bitón, amikor megállapítja azorvos, hogy a halál beállt. Hoztak oda ingeket, azzalmosogattunk. Fehér volt, ki lettek mosva, de mindilyen tépett ing volt. Mi fehér-kék csíkos ruhábanvoltunk, de ezek alsóneműk, fehér ingek voltak.Mondták, hogy mit szoktak velük csinálni. Aki dühön-gött, beszóltak neki, hogy jöjjön ki, írja alá a kegyelmikérvényt. Mikor kijött, jobbról-balról már ott álltak,lefogták a kezét, már kattant is a bilincs, aztán vittéka bitófa alá. Akkor felolvasta az ügyész neki újra azítéletét, aztán utána átadta a hóhérnak. Voltakházimunkások is az életfogytiglanra ítélt emberekközött a kisfogházban. Azok vitték ezeknek a kosztot.Meg azok adták a vizet be nekik, azok takarítottak.Nekünk elmondtak mindent.

A zárkánkban voltak vaságyak, a sarokban egyangol vécé, de nem elkülönítve, hanem szabadonbenn volt a zárkában. Aztán meg egy asztal volt. Kilehetett menni mosakodni a folyosóra, kikísérték azembert. Vagy a vécében megmosta a kezét, „higié-nikus volt”, megmondtuk mindenkinek, aztán a fene-

kedre vigyázz, egész nap ne kutykuruttyolj a vécén,ne büdösíts, hanem intézd el a dolgodat reggel, akkorbefogtuk az orrunkat. Akinek nem volt külön dolga,mint nekem, az egész nap ott volt a zárkában, ott ült.Ketten vagy hárman voltak egy zárkában, beszélget-hettek. Lehetett olvasni is, volt könyvtár, meg voltkönyvtáros. Főleg az orosz írók könyvei voltak. Haszótárt kértem, azt hoztak. Mondjuk írni nem írhat-tam.

Volt egy író barátom. Tizenhét éves volt, kapottfüzetet, de este le kellett neki adni a papírt. Vettemegy Rókafit, ez egy regény volt, Goethének a könyve.Ez a gyerek írt bele epigrammát egy pillanat alatt!Beleírta, hogy:

„Szeretni szépet, szeretni jót,Annyit jelent, mint borravalót,Venni a dústól, adni a szegénynek,Kedvét szegni a méla legénynek.”

Ezt írta bele, soha nem felejtem el. De eztpillanatok alatt! Fogta, aztán elkezdett gondolkodni,aztán már írta is. Az a gyerek biztos egy hatalmasköltő lehet itt az országban.

Egyik alkalommal, mikor elcsíptek bennünket akonyhán, akkor játszották a Gül Baba rózsáit.Gyönyörű színmű az. Benn a börtönben játszották, decsak kivételes rabok mehettek el. Ott volt Darvas Ivánis. Aztán jöttek hozzám, hogy nem tudnánk-e vala-milyen süteményt sütni az előadásra. Sütöttemkrumplis kekszet nekik. Lekvárral össze volt ra-gasztva, kávéval meg lett barnítva, úgyhogy a tésztaegyik barna volt, a másik fehér. Hát mikor márvégeztünk vele, a Tihanyi, egy rohadt alezredes volt,a börtönparancsnok, meglátta. Bevágott bennünket, akonyhafőnököt, a gazdasági írnokot, meg engem asötétre. A sötétzárka olyan, ahol fény még véletlenülsincs. Két luk van, ajtó, fönt bejön a levegő rácson, azajtón alul megy ki, így van a cirkuláció megoldva.Dupla ajtó. Ott voltunk benn abban a sötétben. Avvalszórakoztunk, hogy letéptünk egy gombot, eldobtuk,aztán aki megtalálta, az nyert. Kerestük a szuroksötétben. Fapriccs van, de takaró ott óne, semmi.Egyik nap eszel, fél kosztot, másik nap nem eszel,akkor vizet kapsz.

Aszonták, hogy nem lett volna szabad, mert ke-nyér is jó lett volna ott. Tulajdonképpen igaza voltabban, hogy az egész banda kajájából lett elvéve,amiből süteményt sütöttünk a színészeknek, viszontaz olyan csekély volt 2200 embernél, hogy sütöttemegy kiló lisztből valamit. Olyan szerencsénk volt, hogyvolt egy százados nő benn a konyhán, egy irtó helyesasszony, az volt a főnökünk. Az írta ki a kaját mindig,géháfőnök volt. Elintézte azt, hogy kivittek bennünketaz előadásra a sötétről, kicsempésztek, őrökön, min-denen keresztül. Nem tudom elmondani, milyen érzésvolt, mikor az a Gábor diák kilépett a színpadra. Kard-dal, huszárnak felötözve. Aztán elkezdte mondani a

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magáét: „Ebben az országban a magyar nem voltmás, csak gyaur.” Meg aztán mikor a Mulykó bennvolt a siralomházban. Bevitték a gyerekeket hozzá,aztán hagyta rájuk a vagyonát. Aszongya: „Erre afiamra hagyom a Holdat, erre a Napot.” Alegkisebbikre hagyta a hegedűjét, mikor búcsúzott acsaládtól. Ez csodálatos szép volt.

Utána a Darvas Iván filmje volt, a Geosteinikalandok. Igen csinos nője volt, akivel szerelmesked-tek ott, hosszú barna haja volt a leánynak. Irigyeltékis: „Ej, Iván milyen csinos csajod volt teneked!” ATordai Teri, alighanem az volt neki a nője abban afilmben. Kivételesen meg lehetett nézni ezt a filmetkonyhásoknak, könyvtárosoknak. A Darvas Ivánkönyvtáros volt, kultúros volt, mert arra adtak, hogyolyannak is lenni kell, hogyha jönnek valahonnankülföldről vagy bárhonnan, hogy lássák azt, hogyazért a magyar börtönök nem olyanok, hogy szadistamódon bánnak az emberekkel. Együtt ültem benn azIvánnal, egymás mellett ültünk, mikor ezt a filmetjátszották. Az ágyban hömbölögtek a leánnyal. Azember nem látott már nőt a rosseb tudja mióta, úgy-hogy gyönyörködtünk bennük, mert akármilyen csú-nya volt, mind szép volt nekünk. Csak két nőt utál-tunk. A megfigyelőben, a bolondok házában Dohoranővér, szőke, csinos fehérnép volt, de azt úgy utáltuk,mert olyan szadista volt, hogy az gyönyörködtette,mikor az emberek fetrengtek, mikor villannyal üttettemeg, sokkoltatta őket.

Huszonegy nap volt a maximum, amennyire belehetett zárni valakit a sötétre. Mindig szokta mondaniaz őrmester, hogy:

- Nem ám ad nekik kaját! Még negyedrészét seadjon, mint ami ki van nekik írva!

- Nem is adok nekik! - mondom. Aszongya:- Mit ad nekik? - Mondom:- Csak egy kis főzeléket. - Aztán alul megraktam

mindig hússal a tányért. Mikor kijöttek a sötétről,kövérebbek voltak, mint mikor bementek. Mikor grízvolt, lekvár lett ráöntve, mindig úgy csináltam, hogyaz alját megraktam jó sűrű lekvárral, egy kis gríztraktam rá, a tetejére egy csöppöt rácsöppentettem,aztán megkapta benn a gyerek a sötéten.

Az volt a legérdekesebb, mikor kivittek bennünketa gyűjtőből Hangosra. Ez egy rabtábor volt, mert nemvolt már, aki a mezőgazdaságban dolgozzon, ígykevesebb büntetéses politikai rabokat vittek oda ki.No aszongyák, megjöttek a Maléter katonái, mertMaléter Pálnak voltunk a katonái. Vasárnap reggelvolt, soha nem felejtem el. Szalmazsákok voltak,azokról már szabadult harminc-negyven rab. Magasakvoltak, de azokon egy gyűrődés nem lehetett. Olyankemény volt, hogy a kő nincs olyan kemény.Vaságyon volt. Másnap reggel aszongyák, hogy azudvaron lesz szobaszemle. Voltunk valami háromszáz-ötvenen. Valami tíz csurmába voltunk. Drótkerítésselvoltunk körülvéve, két szál drótkerítés, benne anagyfeszültségű áram. Folyosók voltak, farkaskutyákjártak a dróton belül. Azon belül volt a tábor, aholszobák voltak, oda be voltunk zárva. Mondjuk nappal

kimehettünk, nem kellett bemenni a zárkába. Na,aztán aszongyák, hogy az udvaron lesz szobaszemle.Azokat a francos ágyakat kivinni, szalmazsákokat,milliméter pontossággal, zsinórral kellett mindenágynak a helyét megjelölni, sárga földdel fölmosni azudvaron, az utakat megcsinálni egy méter vagy egyméter húsz szélesre. Az ágyak lerakva mindenhová,aztán ott álltunk a nappal szemben vigyázzban. Jött afőtörzsőrmester. A szobaparancsnoknak jelenteni kel-lett, hogy hány fő van a szobában. Akkor leellenőrizteaz egész mindenséget. Egyik alkalommal bennünketszakácsokat megbüntettek. Mindegyikünknek felkellett venni a hátára a szalmazsákot. Volt egy mázsamajdnem. Aztán volt egy ilyen futballpálya-szerűsíg,ott a táboron belül. Ott négy kört le kellett verni azzala szalmazsákkal.

Egyik alkalommal benn vagyok a konyhán, keve-rem a rántást és a tarhonyát. Odajön hozzám Bicó őr-mester, aszongya:

- Úgy vágom magát szájba, beleesik abba akondérba! - Mondom:

- Mér?- Magának a csavargó szűzmáriáját!- Hát - mondom - őrmester úr, mért?- Megtudja mindjárt. - aszongya. Belém akart köt-

ni, hogy megverhessen. Azok azon voltak, hogy azembert megverhessék. Nem volt más probléma, csakhogy megverhessék. Aztán mondom:

- Idenézzen, ezt megcsinálhatja! - Megfogtam azta lapátot, akácfából volt a nyele, amivel kevertem anagy üstben a vacakot. Mondom, ha megüt, én széj-jelvágom neki a fejét. Aztán kiment. Jön vissza ötperc múlva, aszongya:

- Mit csinált volna, ha megütöttem volna? Mondom:

- Széjjelvágtam volna a fejét!- Láttam, hogy nem lehet megütni, mert igen

mérges volt! - aszongya. Ha megütött volna, rögtönszéjjelvágtam volna a fejét. Abban a pillanatban.

Ezek mindenbe belekötöttek. Kint a táborban nemvolt orvos. Vérhas is volt, de eltusolták. Egy gyerek-nek tályog volt a nyakán. Egy negyedéves egyete-mista orvostanhallgató volt a felcser, ő adta ki agyógyszereket. Nem vitték el a gyereket a kórházba,pedig tályogja volt. Ha az a gyerek nem műti meg,másnap reggelre meghalt volna. Éjjel kifőzött egyzsebkést, azzal műtötte meg. Másnap mondta egyiktörzsőrmester, egy buta, mafla ember: „Rohadt,piszkos, mocskos, csavargó! Vért akart látni? Nem voltelég ötvenhatban, amit látott?” De nem vitték el akórházba, hogy megműtsék. Pesten, ahol voltam agyűjtőben, volt egy rabkórház. Oda hoztak műtétreminden rabot. Mikor meghozták a Nagy Imrééket,azok között volt egy beteg, két ávós őrizte, az ajtajá-nál ültek. A Nagy Imréék nem a rabkórházból kaptáka kosztot, azoknak úgy hoztak kívülről valahonnét.

A legnagyobb sztori az volt, hogy olyan buta,mafla emberek voltak ezek. Volt egy konyhaköny-vünk. Higiénikus volt, azt bárki nyugodtan megehette,egy üzemi konyhán nincs olyan higiénia, mint ami ott

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volt. Hát ott minden kosztról - tégelyek voltak -,nekünk abból mindből el kellett tenni a mintát, rákellett írni, hogy mi az, lezárni szalaggal, lepecsételve,aztán 48 óráig ott kellett tartani, hogy haételmérgezés vagy bármi van, meg tudják állapítani.Mindig azt szokta ráírni, hogy „Kott jó, illetes.” Nemízletes, hanem illetes, úgy írta az a törzsőrmester.

Volt egy haverom, a Boros. Lent volt valaholSzeged környékén harci repülő alakulatnál pilóta. Voltegy nagy tanya, rengeteg gőböl volt, öt-hat mázsáshízómarha, lovak voltak, rabgazdaság volt. Volt ötezerhold föld, azt dolgozták meg a rabok. A Boros is ottvolt gőbölös. Szoktak jönni a harci repülőgépek,minden héten kétszer. Kiskunlacházán volt ez. Egyhatalmas víztorony volt a táborban, mellette meg arizstábla. Megjöttek ezek a repülők, mindig megstur-colták a víztornyot. Jöttek le. Aztán mikor hangrobba-nással mentek fölfelé, a gőbölök elszaggatták azistállóban a köteleket. Akkor mindig mondta a pa-rancsnok, Döbröginek hívtuk: „Booroos, már megintitt voltak a huligán haverjai, a rosseb hogy egye megőket! Nem győzök kötelet venni!” – aszongya a fő-törzsőrmester.

Aztán azt se felejtem el sohasem, hogy októberhuszonharmadikán kukoricát szedtek vagy cukorré-pát. Szakács voltam, lovas kocsin vittem ki a kajátazoknak, akik ott dolgoztak. Jött egy őr mindig, mertőr nélkül nem mehettünk. Ez ötvennyolcban volt.Kivittem a kaját, akkorra már össze volt sorakoztatvaa banda. Két golyószóró vagy géppuska, ez akönnyűgéppuska föl volt állítva, körül volt véve a ban-da. Viszem az ebédet. Elkezdi mondani a főtörzsőr-mester: „Piszkok, szemetek! Nem sül ki a szemetek? -aszongya - Enni ezt a jó magyar kenyeret, szívni ezt ajó magyar levegőt, dolgozni meg nem dolgoztok?”

Voltak olyanok is, akik szimpatizáltak velünk.Iváncson görögök vannak, Görögországból áttele-pültek, azok lettek ott a fegyőrök, ott Hangos megPálhalmán. De magyarul nemigen tudtak ám! Amezőgazdaságban dolgoztunk, körülbelül 18 órátnaponta. Mondja nekünk az őr, egy barna, kerek képűgörög volt: „Ülj le magyar, ne dolgozz!” Leült azárokpartra. Egy debreceni újságíró, a Béla volt ahaverom, akivel zabos-bükkönyt kaszáltunk. Körül-belül két kilométer hosszú sor volt, ott kellettkaszálnunk. Meg se volt kalapálva a kasza. Van a zab,aztán rajta olyan, mint a borsó, aztán úgy rá vanfutva, kék virágja van neki. Ez takarmány állatoknak.Ügyész volt a Pista, az is kaszált. Hát egyikünk sekaszált életében sohase, aztán egész nap azt kellettcsinálnunk. Leültetett bennünket, aztán aszongya ez agörög:

- Ne dolgozz! - Leültünk. Aszongya:- Te, politizáljunk!- Hát politizáljunk. - Aszongya:- Kádár nem jó? Börtön jó? - Hát mondjuk neki:- Nekünk a Kádárral semmi problémánk nincs.

Tényleg, abban az időben mink a Kádárt nem isbántottuk, mert más volt, mint a Rákosi, meg a Gerő,meg a többiek. Aztán ötvenhat után mocskos ember

lett belőle, mert amit kijelentett, azt nem tartotta be.Az ügyvédem Győrben fölolvasta, meg Pesten is aKádár-beszédet, hogy akik 1956. november 4. után amegbékélés útjára léptek, vér a kezéhez nem tapad,nem rabolt, nem gyilkolt, annak bántódása ebben azországban nem lesz. A Kádár saját szájából, a brossú-rából olvasta föl az ügyvéd. Aszonta a bíró, hogy „Azakkor volt!” - amit a Kádár mondott. Mondtuk agörögnek:

- Nem bántjuk mink a Kádárt! - Aszongya aztán:- Kellett neked talpadra magyar? - mert ugye a

Talpra magyart szavaltuk mink ötvenhatban. Arossebnek köllött talpadra magyar, mert sokszor úgyelverték, hogy az ember nem tudott menni! Volt egybarátom, mesélte, hogy őket naponta háromszorszokták megverni, de ők nem ott voltak, ahol mink.Hatan voltak egy zárkában. Elvitték őket, jól elverték,visszamentek a zárkába. Aztán úgy vezették le, hogyjógáztak. Leültette a bandát: „Most lazítsatok…”- Ajógát ahogyan csinálják. Ilyen világ volt.

Volt körülbelül olyan húszezer hektár rabgazdaság,az állam tulajdona. Volt Pálhalma, Hangos, Doboka,Mélykút. Hangoson voltunk háromszázötvenen. Voltaknői táborok is, a nőket külön rakták, férfi még a kör-nyékbe se mehetett. Ha odament egy férfi, széjjel-szedték darabokra a nők, mindegyik be akarta húzni abungalójába. Pesten, mikor bent voltunk a gyűjtőben,ott is volt egy csomó egyetemista leány. Ha márrégen láttak férfiakat, telefonáltak, hogy kevés akoszt. Aztán akkor mindig mondták, hogy: „Gulyás,Dénes, új fehér sapkát, köpenyt, kabátot, mentek aleányokhoz!”. Vittek föl bennünket a leányokhoz.Aztán ott elbeszélgettünk velük.

Ez egy érdekes sztori volt: A Király Béla előttemvolt szakács a börtönben. A főszakács, a Bagi Jóskabácsi mesélte, hogy ővele volt a konyhán. Elmesélteaz öreg énnekem, hogy valamikor elvitték a KirályBélát onnan a börtönből, Miskolc környékére valami-lyen présházba. Abban volt a családja, felesége megkét gyereke. Az ávósok aszonták neki, hogy ha aláíregy nyilatkozatot, hogy őnekik dolgozik, akkor rögtönelengedik, és mehet a családjához. Ha nem írja alá,akkor viszik vissza a börtönbe. A Király Béla megta-gadta ezt az aláírást. Kevés ember csinálta volna aztmeg, mikor látta a gyerekeit meg a feleségét. És nemírta alá! A konyhán volt egy üst, abba bele volt vésve,hogy Király Béla. Akkor mesélte a Bagi bácsi, hogyőneki a beosztottja volt.

Miközöttünk az egész börtönben ilyen analfabétaember, mint én, még öt százaléka se volt. A többiekmind műveltebb emberek voltak. Nekem akkor hatáltalános volt, meg két év börtöntechnikum. Voltakhaverjaim, gépészmérnökök meg elektormérnökök.Egy órán belül logarlécen megtanítottak számolni.Tökéletesen számoltam logarlécen mindent, osztot-tam, szoroztam, kivontam. Kiszámítottam, hány órám,hány percem, hány másodpercem van még a börtön-ből. Pillanatok alatt húzkodtam rajta ezeket avackokat. Megtanítottak rajta számolni a mérnökök.

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Nem kaptam semmi kedvezményt, mert elég re-bellis voltam. A nevelőtiszttel összevesztem, mertmondta nekem, hogy ellenforradalom volt, mikor ne-künk az forradalom volt. Mondtam is neki, hogy hanekem ellenforradalom lett volna, akkor nem volnéklecsukva. Aztán mondta, hogy: „Lehet, hogy majdszégyelli az unokája vagy dédunokája, majd vala-mikor, mikor az iskolában ráolvassák a fejére, hogy azapád ötvenhatos ellenforradalmár volt!” - Mondomneki: „Idenézzen uram! Volt ám 1848 is, meg volt

1867, a kiegyezés időszaka. 1848-49-ben hősök voltaka szabadságharcosok, utána a terrorizmus áldozatailettek, a kiegyezés után meg nemzeti hősök. Lehet,hogy az én unokám valamikor büszke lesz rám! Merta politika úgy van: Hol kerék, hol talp, az forog.Egyszer lent, egyszer fönt.” Megmagyaráztam afőhadnagy úrnak, mondtam neki: „Nézze, lehet, hogymost megbélyegeznek, de bízok benne, hogy ezmásképp lesz majd!»

DOKUMENTÁCIÓKBírósági idézés:

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ÚJDONSÁG! / NOVITÀ!

Szitányi György

HÉTERDŐ(Novellák)

Edizione O.L.F.A., Ferrara, 2005, 120 oldalFedélterv/Progetto di Copertina di © Szitányi György

Az író jellegzetes, egyedi, szórakoztatva gondolkodtató -tizenhat novellát tartalmazó - kispróza kötete ez. Válogatása szerző különböző helyeken megjelent szépprózai műveiből.A kötet különös történetei a mai magyar próza nagyszerűmegjelenítő erejű, mesés, enyhén szürrealisztikus kivétele-sen szellemes darabjai, amelyeket kiemelkedően szép éskifejező nyelvhasználat is jellemez. Kritikusai meghökkentőtörténeteinek nagyszerű intellektuális, nem ritkán gonoszhumorára, szellemességére ugyanúgy felhívják a figyelmet,mint magas anyanyelvi kultúrájára.

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