Studi e ricerche
La collettivizzazione delle terre in Unione Sovietica: il punto di vista americano
di Marcello Flores
Nel 1927 l’isolamento politico e diplomatico dell’Unione Sovietica aveva raggiunto un livello che non si ricordava dai tempi della guerra civile. Proprio mentre all’interno del paese l’opposizione di sinistra veniva definitivamente ed ufficialmente sconfitta e il XV Congresso del Pcus sottolineava l’urgenza di varare il piano quinquennale di sviluppo economico, la tragica sorte della rivoluzione cinese ispirata da Mosca e la rottura delle relazioni diplomatiche con l’Inghilterra sembravano aver posto in un vicolo cieco la politica estera del paese dei Soviet. Alla fine dell’anno, però, apparvero i primi sintomi di una inversione di tendenza e una delegazione sovietica partecipò a Ginevra, sede della Società delle Nazioni, a una sessione della Commissione per il disarmo, continuata poi nel marzo dell’anno successivo.
La delegazione era guidata dal vicecommissario agli Affari Esteri, Livtinov, che nel giro di pochi anni, — e dal 1930 al vertice del Commissariato — sarebbe stato l’artefice dell’ingresso dell’Urss nell’arena della diplomazia mondiale. La ratifica del Patto Kel- log-Briand allargato anche all’Urss e la ripre
sa delle relazioni con la Gran Bretagna furono i momenti più salienti di questa nuova fase nell’ultimo scorcio degli anni venti; lo scambio di ambasciatori con gli Stati Uniti e l’ingresso nella Società delle Nazioni ne rappresentarono l’apogeo nel biennio 1933-34*.
Nel 1928, malgrado il governo americano, appoggiato dalla grande stampa, continui a mostrarsi contario a qualsiasi ripensamento in ordine al riconoscimento diplomatico, un nuovo atteggiamento comincia a prendere piede negli Stati Uniti nei confronti dell’Urss, dapprima nel mondo degli intellettuali liberals, poi via via in settori sempre più ampi e diversificati. Tramite principale e privilegiato di questa nuova ‘immagine’ del- l’Urss — che sarà elemento non secondario del positivo esito dei rapporti politico-diplomatici tra i due paesi — sono i sempre più numerosi ‘turisti’ che viaggiano nel paese dei Soviet (tra questi, nel 1927-28, Dewey, Dos Passos, Dreiser, Baldwin), viaggiatori occasionali spesso con scarse conoscenze precedenti ma con profonde motivazioni ideali e politiche. Ma anche, e forse soprattutto, lo sono alcuni giornalisti, corrispondenti nel-
II materiale per questo lavoro è stato raccolto durante un periodo di ricerca nel 1981 presso la Università della California, a Berkeley, grazie anche al contributo del CNR n. 54426.1 Non è possibile dar conto della vastissima letteratura sui rapporti diplomatici di Urss e Stati Uniti negli anni venti e trenta. Basterà ricordare: T.R. Maddux, Years o f Estrangement. American relations with the Soviet Union 1933- 1941, University Press of Florida, 1980; D.G. Bishop, The Roosevelt-Litvinov Agreements. The American View, Syracuse UP, New York, 1965; N. Grant, The Russian Section. A Window on the Soviet Union, in “Diplomatic History” v. 2, Winter 1978; J.L. Gaddis, The Soviet Union and the United States: An Interpretative History, New York, John Wiley & Sons, 1978.
“Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155
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l’Urss per conto di alcune testate, che riusciranno nel giro di pochi anni e a volte di mesi a diventare dei veri opinion-makers, ascoltati consiglieri di politici e finanzieri, conquistandosi un ruolo e una importanza raramente raggiunti dalla categoria in una forma così netta e precisa2.
Dorothy Thompson, giornalista del “New York Evening Post” , sintetizzava in questo modo la nuova ottica, intellettuale e psicologica, condivisa dalla maggior parte di questi più o meno improvvisati ‘amici’ dell’Urss: “Il fatto certamente non meno degno di nota riguardo alla Russia è che, indipendentemente dal punto di vista che ognuno si porta dietro in questo paese, una volta che lo si è visitato e una volta che s’è compreso come quello che vi sta accadendo non sia un arido esperimento politico ma il doloroso processo di una nazione nell’atto di rinascere, si è costretti a pensare e a pensare ancora: a rivivere esperienze e a ravvivare impressioni in un tentativo di rendere più chiaro a se stessi di che cosa si tratti”3.
Le persone che più incarnavano il mutato atteggiamento verso l’Urss appartenevano per la maggior parte al mondo liberal, a quel filone democratico-progressista che aveva in America una lunga tradizione e una varietà di sfumature. La crisi del liberalismo, rappresentava la realtà culturale in cui una nuova valutazione dell’Urss poteva costituire un momento decisivo per ricostruire una più precisa identità politica e sociale. Si trattava di democratici che “erano ancora devoti democratici, e che si rivolsero all’Unione Sovietica per trovare non una nuova fede ma una via d’uscita alla loro vecchia fede. Così essi furono attratti dalla legislazione sociale,
l’educazione progressiva, un’economia quasi capitalistica e, soprattutto, dall’ardente idealismo”4.
I motivi di “attrazione” dell’Urss sarebbero di lì a poco cambiati, e molti degli stessi inauguratori di questo nuovo corso nei confronti dell’Urss — Dewey per primo — avrebbero presto mutato alcune opinioni di fondo. Ma, paradossalmente, proprio l’enfasi ‘ideale’ delle testimonianze della fine degli anni venti sarebbe sopravvissuta: seppure a cornice di un discorso profondamente diverso che avrà invece nella pianificazione e nel gigantesco sforzo di modernizzazione l’asse del suo interessamento.
E.M. Newman, uno dei visitatori più atipici di questo periodo, interessato più che altro alle sorti dell’aristocrazia e al contrasto tra l’architettura millenaria e l’impronta operaia data alle città dal nuovo regime, scriveva nel 1928 che “talvolta è sembrato che i turisti, che negli ultimi anni sono arrivati in questo paese nascosto, abbiano trovato quasi completamente quello che erano venuti a cercare; come se il risultato delle loro osservazioni dipendesse dalle loro personali simpatie ed antipatie, dalle loro opinioni politiche e forse da una loro precedente conoscenza della Russia e da una certa esperienza negli affari internazionali” . Rammentando come un visitatore offrisse l’immagine di una Russia povera e analfabeta mentre un altro rimanesse colpito dal dilagante progresso della cultura, e come l’idea di un’utopia egualitaria si alternasse a quella di una persecuzione imperante, concludeva: “Sono convinto che le più recenti osservazioni debbono finire tra i rifiuti perché non sarebbero di alcun aiuto come guida per i futuri visitatori [...]. La Rus-
2 Cfr. soprattutto P.G. Filene, Americans and the Soviet Experiment 1917-1933, Cambridge, 1967 e R.H. Pells, Radicai Visions and American Dreams. Culture and Social Thought in the Depression Years, New York, 1973.3 D. Thompson, The New Russia, New York, 1928, p. Vili.4 P.G. Filene, Americans and the Soviet Experiment, cit., p. 154. Cfr. anche F.A. Warren, Liberals and Communism. The ‘Red Decade’ Rivisited, Bloomington, 1966 e R. A. Lawson, The Failure o f Indipendent Liberalism 1930- 1941, New York, 1971.
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sia è stata il risultato naturale di condizioni che sono esistite attraverso tutti i secoli del suo sviluppo e della sua espansione. Se un altro regime dovesse mai seguire a quello dei Soviet non potrebbe mai ritrovare quelle stesse condizioni: la nazione non potrà mai più essere come era prima della Rivoluzione”5. Pur rappresentando probabilmente uno degli ultimi esempi dell’atteggiamento prevalente fra i visitatori americani prima del 1927-28, il discorso di Newman condivide in parte quell’atteggiamento pragmatico e deideologizzato che si riscontrava anche nelle posizioni più partecipi ed emotive.
I democratici americani, tra le cui fila si annoverano quasi tutti gli americani recatisi in Urss in questo periodo, “ammiravano la rivoluzione d’Ottobre soprattutto per le sue conquiste culturali, più che per quelle economiche”. E non solo — come suggerisce ancora P. Filene — perché per la maggior parte erano educatori, operatori sociali, studiosi di scienze sociali6. Il minor interesse alla politica e all’economia si accompagnava infatti a una accettazione pressoché totale della immagine che di sé offrivano le autorità sovietiche in questi settori. Pur se il sistema nel suo complesso era sottoposto a giudizio critico e visto come contrapposto o per lo meno improponibile per il mondo occidentale, l’idea che si trattasse realmente di uno stato proletario e in transizione verso il socialismo non era messa in discussione come ‘fatto’; era anzi la base empirica per le argomentazioni e i giudizi successivi.
L’atteggiamento di questi liberals si fondava su un’analisi dell’ultimo periodo della Nep e delle prime avvisaglie della pianificazione, ed era quindi evidentemente influenzato da una situazione contraddittoria e spesso confusa. Eppure i loro giudizi verranno in parte ripresi proprio nel successivo pe
riodo di pieno stalinismo e il loro atteggiamento di pacata discussione, di relativismo, di curiosità per la differenza e il nuovo, costituirà la base di posizioni esplicitamente favorevoli proprio su quel terreno economico e politico su cui essi si erano mostrati più scettici e riservati. È soprattutto in questo senso che i visitatori dell’Urss nel biennio 1927-28 segnano una fase nuova, una transizione a un atteggiamento diverso. Già nei loro scritti si nota a volte un uso della realtà sovietica come contraltare, per lo più polemico, alle condizioni sociali e politiche esistenti negli Stati Uniti: dall’ammirazione per l’efficienza sociale al privilegio del bene pubblico anche a scapito delle forme di libertà, dall’interessamento per una nuova mentalità, che sembra frutto insieme di libera sperimentazione e di indottrinamento pianificato, all’ammirazione per la condizione delle donne, per la protezione del lavoro, per l’umanità del trattamento carcerario. Sarà però solo la crisi del ’29 ad affrettare e a maturare questo atteggiamento, incentrando soprattutto sui temi economici e della sicurezza collettiva un confronto ‘parallelo’ tra le due società in cui i giudizi sull’Urss saranno una preziosa cartina di tornasole anche per comprendere l’atteggiamento di molti americani verso il loro stesso paese.
In molti dei viaggiatori nell’Urss nel biennio 1927-28, a una impostazione fortemente relativistica si accompagnò l’interesse per una comparazione sia pur sbrigativa tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Fu questo anche il caso dello scrittore Theodor Dreiser che dedicò un intero capitolo dei suoi ricordi di Russia alla differenza di “temperamento” degli americani e dei sovietici. “Mai nella mia vita — comincia il quarto capitolo — sono stato più impressionato dalle differenze di atteggiamento e di temperamento
5 E.M. Newman, Seeing Russia, New York, 1928, pp. 31 e 33.6 P.G. Filene, Americans and the Soviet Experiment, cit., p. 140.
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che separano le nazioni di quanto lo fui da quelle che dividono i russi e gli americani”7. Il temperamento semiasiatico dei russi, la loro maggiore socievolezza e propensione alla vita collettiva, così come la loro attrazione per l’astrazione e la filosofia, aveva particolarmente colpito Dreiser, abituato alla concretezza e schiettezza degli americani. Sembrava allo scrittore che solo i leader comunisti coltivassero un impegno per i problemi materiali della vita che era negli Stati Uniti una psicologia individuale corrente. E tuttavia Dreiser intravedeva una novità nel nuovo atteggiamento dei russi verso le macchine e la tecnologia importata dall’occidente, il segno di una parziale discesa dal mondo dei sogni alla realtà; anche se ipotizzava che questo entusiasmo nell’appropriarsi dei più intricati dettagli delle nuove meraviglie meccaniche potesse avere il semplice obiettivo di lavorare meno e meglio per dedicare più tempo al proprio universo di fantasie e sogni.
Nella comparazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, però, più che la sofisticata distinzione di temperamento raccontata da Dreiser è l’interpretazione espressa da Dorothy Thompson a risultare prevalente. Per la giornalista americana, la tendenza dominante sembra essere quella di un percorso per molti aspetti simile, in cui il contrasto da sottolineare dovrebbe essere casomai quello di entrambi — Usa e Urss — nei confronti della vecchia e decadente Europa, legata a una tradizione aristocratica e feudale, nemica dell’industrialismo, timorosa della meccanizzazione e della produzione in serie, ostile a una americanizzazione delle proprie società. In Russia, al contrario, la rottura con il vecchio ordine zarista e la volontà di costruire una società modellata su principi compieta- mente diversi avrebbe fatto sì che “la nuova
civiltà russa ha, come risultato, molti obiettivi in comune con quella americana. Come la nostra, essa è una civiltà basata sull’affermazione che il lavoro non è un male, ma il più grande bene possibile; che un uomo che non ha alcun tipo di lavoro è sgradevole, che lo è il fannullone, nemico della società per quanto bene educato ed attraente sia e per quanto le sue doti possano essere il tramite di una elegante civiltà; e infine che l’aumento della produzione dovrebbe essere l’obiettivo principale di una nazione”8.
È però soprattutto nel campo dello sviluppo industriale, della creazione di un’economia di scala e di una produzione in serie che Pamericanizzazione sembra essere ‘l’ideale socialista’ maggiormente perseguito in Russia. E proprio perché la modernizzazione dell’industria è ai suoi inizi, l’adorazione dei russi per le macchine sembra addirittura superare quella americana, circondata com’è, ancora, da un alone di fascino e di romanticismo. La coscienza che la depressione economica iniziata nel 1929 segnasse una svolta storica nello sviluppo della società americana e che altrettanto fosse vero per l’Urss con Tesperimento di pianificazione, sarà in seguito lo sfondo costante di un confronto insistente suggerito da tutti i personaggi di maggiore o minore spicco che si recheranno nell’Unione Sovietica.
È stato scritto che “per un numero crescente di scrittori all’inizio degli anni trenta, l’esempio sovietico non rappresentò solo un’alternativa al capitalismo democratico, ma rimpiazzò pure, in modo plausibile, il Sogno Americano ormai al tramonto. Il suo fascino risiede infatti tanto nei suggerimenti simbolici di un nuovo modello di vita che nel suo più prosaico programma sociale ed economico”9. E infatti i successi, prevalente-
7 T. Dreiser, Dreiser Looks at Russia, London, 1928, p. 50.8 D. Thompson, The New Russia, cit., p. 161.5 R.H. Pells, Radical vision in American Dreams, cit., pp. 62-63, ma cfr. da p. 43 a p. 149.
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mente quantitativi, ma inseriti in un disegno di mutamento qualitativo di incalcolabile portata, del primo piano quinquennale, indurranno negli americani un atteggiamento in cui convivono una dichiarazione d’umiltà nell’imparare dagli altri e l’orgoglio di poter riuscire a fare di più.
L’ammirazione per i risultati sovietici si alterna alla fiducia di poter creare una nuova società e una nuova umanità assai meglio, in America, se solo si imboccasse la strada dell’innesto dei principi pianificatori nel corpo della più genuina tradizione statunitense. Se l’Urss appare l’unico modello esistente di un massiccio intervento statale nella società, si sostiene anche che essa non incarna tanto gli ideali del comuniSmo quanto quelli del progressivismo americano. Non a caso l’interesse dei visitatori e della stampa statunitense per i diversi e concreti aspetti del primo piano quinquennale e per i progetti più ambi-
I ziosi di industrializzazione e modernizzazione, si appuntò prevalentemente su quelli in cui interessi e uomini americani erano direttamente coinvolti, la costruzione del Dnie- prostroy (una grande diga ed una colossale centrale idroelettrica sul fiume Dniepr) e quella di un complesso industriale a Niznij Novgorod destinata a diventare, nelle idee dei pianificatori sovietici, la città dell’automobile, la Detroit sovietica. Alla curiosità per una simile ‘collaborazione’ con un paese neppure riconosciuto diplomaticamente e per il tipo di vita condotto dalle piccole ‘co-
j Ionie’ di tecnici e specialisti americani, e
all’interesse per i vantaggi economici e commerciali, si aggiungeva, negli osservatori americani, una serie di più ampie considerazioni. Il cardine di questo atteggiamento era il confronto tra due mondi, due culture, due economie, due sistemi considerati fino allora opposti e impermeabili che improvvisamente sembravano aprirsi l’un l’altro sotto la spinta della depressione da un lato e dell’accele- rata modernizzazione dall’altro10.
Il primo consapevole approccio alla tematica della pianificazione era stato opera, negli Stati Uniti, di un gruppo di economisti che aveva accompagnato nell’estate del 1927 la prima delegazione sindacale recatasi in Urss11. In un volume pubblicato l’anno successivo, il curatore dell’opera, Stuart Chase sintetizzava così l’obiettivo del primo piano, ormai quasi ai suoi esordi: “la massima produzione di beni di prima necessità e di generi di conforto ad un minimo di costi umani, salvaguardando scrupolosamente, al tempo stesso, la salute, la sicurezza, l’educazione, il tempo libero e le condizioni di lavoro dei lavoratori”12. Pochi dirigenti sovietici avrebbero potuto delineare con maggiore convinzione e abilità propagandistica una simile ideologia della pianificazione. Chase sembrava condividere la fiducia dei dirigenti del Gosplan di condurre rapidamente l’Urss all’autosufficienza economica. Egli immaginava i manager industriali statali spinti “da nessun altro incentivo che il loro ardente zelo di creare un nuovo paradiso ed una nuova terra, che è ciò che brucia dentro al cuore di
10 Sull’atteggiamento verso l’Urss di alcuni dei pianificatori americani e sui progetti americani in Urss si può vedere M. Flores, The American Attitude towards the First Soviet Five-Year Pian, in “Annali di storia americana” , v. 1, n. 1 (di prossima pubblicazione).
S " S i era trattato del primo gruppo non comunista di sindacalisti americani giunto nell’Urss per una visita non ufficiale, ma che era stata molto pubblicizzata. Il viaggio di due mesi attraverso tutta l’Urss era terminato con un incontro con Stalin.12 S. Chase, R. Dunn, R.G. Tugwell (eds.), Soviet Russia in the Second Decade. A Joint Survey by the Technical S ta ff o f the First American Trade Union Delegation, New York, 1928, p. 29. Il primo piano fu formalmente adotta
li to nell’aprile 1929 quando la XVI conferenza del PCUS adottò la variante cosiddetta ottimale. Il piano prevedeva, adifferenza di quanto detto da Chase, un aumento della produzione industriale complessiva del 180% e dei beni strumentali del 230%, con una precisa priorità attribuita all’industria di base.
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ogni buon comunista” e sorretti da una volontà di sfida senza eguali nel mondo contemporaneo tanto che, per poterla ritrovare “occorreva ritornare ai tempi di Cromwell, o di Maometto, o di San Paolo” .
Gli economisti, che saranno ancor più interessati nei tre o quattro anni successivi, non erano tuttavia i soli a interrogarsi sul nuovo corso che il primo piano quinquennale avrebbe impresso all’Unione Sovietica13. Un articolo apparso nel giugno 1929 su “Nation’s Business” portavoce della Camera di commercio degli Stati Uniti, puntava diritto alla sostanza dell’interesse dei suoi lettori ricordando come fossero finiti ormai i tempi di Trockij e Zinov’ev sulle prime pagine dei giornali e come “adesso le notizie più importanti dalla Russia riguardano piuttosto l’apertura di un cotonificio, l’arrivo di una delegazione per comprare macchinari americani, la firma di un contratto con una compagnia statunitense per farsi assistere nella costruzione di una centrale idroelettrica” . L’articolo sosteneva pure la necessità di smetterla di tirare in ballo questioni morali, essendo “futile” e “senza tatto” parlarne “mentre vi sono negoziati per l’acquisto di trattori americani destinati alle aziende agricole statali sovietiche o quando esperti petroliferi americani sono consultati sulla possibilità di costruire una raffineria a Baku”. Il tempo degli affari, in sostanza, aveva ripreso il sopravvento e “Nation’s Businness” si schierava a favore di un rigido pragmatismo nel trattare con l’Unione Sovietica14.
In uno dei suoi libri di memorie, il giorna
lista Eugene Lyons, uno dei veterani dei corrispondenti occidentali in Urss, ricordava come Stalin avesse descritto il 1929 come l’anno della grande rottura col passato e come “la sua descrizione sembrasse in retrospettiva ancor più vera di quanto apparve a quell’epoca [...]. Quello che accadde negli anni seguenti, infatti, fu tutto tranne che una estensione o intensificazione degli atteggiamenti stabiliti nel 1929”1S. Che si trattasse di una ‘svolta’ di notevole portata erano in molti a riconoscerlo. Non tutti pensavano però che le ‘grandiose’ novità del primo piano avrebbero potuto in seguito essere ancora più approfondite o accentuate. La fecalizzazione dell’interesse per gli aspetti economici del piano sembrano a volte presagire mutamenti di più vasta portata, ma la loro astrazione non interessa più di tanto. Un osservatore attento e informato come William H. Chamberlin, segnalava il significato ‘storico’ del piano nel senso di una futura indipendenza economica, ma individuava poi come effetto immediato il rafforzamento del potere militare sovietico.
In genere l’interesse per il piano fu più appannaggio degli economisti o degli ingegneri che non dei letterati e dei filosofi; e se fu un interessamento spesso accompagnato da giudizi positivi, molto raramente si concluse con un invito a ripetere l’esperienza russa. La simpatia per il piano quinquennale comportò, al contrario, una posizione di accentuato relativismo: esso poteva funzionare nelle j specifiche condizioni economiche e politiche ] dell’Urss, non certo essere innestato su un
I13 Cfr. M. Flores, The american Attitude towards the First Soviet five-year Plan, cit. ;14 Soviet Contradictions, in “Nation’s Business” , giugno 1929, p. 27. (15 Eugene Lyons, Assignment in Utopia, New York, 1937, p. 201. Lyons collaborò negli anni venti a pubblicazioni £comuniste americane, scrisse un libro su Sacco e Vanzetti lottando per la loro liberazione e lavorò all’ufficio ameri- ccano della Tass. Nel 1928 andò in Russia come corrispondente della United Press dove rimase fino al 1934. Egli stes- aso fa datare la sua ‘disillusione’ sul comuniSmo sovietico al 1931-32, di fronte alla brutalità della collettivizzazione | i agricola. Tornato in Usa continuò ad occuparsi di cose sovietiche con un atteggiamento sempre più critico verso fl’Urss e i suoi estimatori americani. t
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terreno così diverso per tradizione e realtà sociale come quello americano16.
A spiegare l’atteggiamento statunitense nei confronti dell’Urss, del resto tutt’altro che univoco, concorrevano diversi fattori; i più rilevanti erano certamente le trasformazioni politico-culturali di una parte consi-
I stente degli intellettuali e il confronto tra
un’economia in ristagno e un’espansione accelerata. Ad essi vanno però aggiunti altri motivi che in modo esplicito o sottaciuto sono più volte apparsi nelle testimonianze dei contemporanei: dalla convinzione che, con la sconfitta il Trockij, il pericolo rivoluzionario si fosse esaurito e che l’Unione Sovietica non rappresentasse più una minaccia diretta o indiretta per gli Stati Uniti, all’orgoglio per il mito americano esistente nell’Urss,
I alla soddisfazione per i vantaggi economici e commerciali, all’identificazione con gli sforzi sovietici assimilati alla tradizione pionieristica americana. Se per gli umanisti erano i
[‘nuovi valori’ e la costruzione dell’‘uomo nuovo’ che rappresentavano l’elemento di attrazione capace di mettere la sordina alle perplessità e alle obiezioni in tema di democrazia e diritti civili, per i tecnici, gli ingegneri e gli economisti era la sfida tecnologico-in- dustriale — che puntava a superare in dieci anni il percorso compiuto da altre nazioni in quasi un secolo — a costituire un fascino iniziale spesso successivamente ridimensionato. Attrazione e fascino che i sovietici cercavano in ogni modo di rafforzare dedicando non pochi sforzi alla costruzione di una propria
immagine adeguata e aderente alle aspettative di chi si recava in visita in Urss17.
È significativo che la conclusione del primo piano quinquennale, anticipata alla fine del 1932 dopo solo quattro anni, non abbia destato nella stampa americana quell’interessamento che aveva invece caratterizzato la fase centrale della sua esistenza. Non mancarono certo le prese di posizione, anzi quasi tutti i giornali diedero il loro contributo a giudicare il successo o il fallimento del piano. Si trattò però di valutazioni affrettate e sintetiche, prive di quell’ampiezza e di quella curiosità che avevano accompagnato le osservazioni precedenti. Vi fu anche, naturalmente, chi tentò di analizzare con equilibrio il significato e il ruolo del primo periodo dell’industrializzazione e della pianificazione. Esemplare fu il caso di Edgar S. Furniss che su “Current History” cercò di allargare una panoramica degli eventi economici anche ai risultati sociali e culturali raggiunti dal piano.
Furono però soprattutto alcuni dei più noti inviati americani — Fischer, Duranty, Chamberlin — a offrire i contributi più interessanti, riuscendo a mantenere un livello di informazione aggiornato e continuo e ponendo l’accento sui problemi congiunturali e sulle emergenze episodiche oltre che sui più stabili e consolidati effetti della pianificazione. Introducendo, per di più, un problema che l’ansia modernizzatrice e la curiosità in- dustrialistica degli americani aveva spesso lasciato nell’ombra e che si rivelava invece co-
j 16 W.H. Chamberlin, The Soviet Planned Economie Order, Boston, 1931, pp. 28-33. Chamberlin si recò in Urss per la prima volta nel 1922, accompagnato dalla moglie di origine russa e divenne presto corrispondente per il “Christian
; Science Monitor” . Da una iniziale ammirazione passò, nel 1924, ad una posizione di “disincantamento e neutralità” (cfr. il suo The Confession o f an Individualist, New York, 1940) pur continuando, fino al 1932, a sottolineare gli aspetti positivi del regime. Scosso dalla carestia del 1932, che vide come una mossa tattica del regime per imporre la collettivizzazione delle campagne, nel 1934 abbandonò l’Urss assumendo un atteggiamento sempre più ostile. Cfr. anche P.G. Filene, American and the Soviet Experiment, cit., 204-206 e 254-255.
| 17 Cfr. S.R. Margulies, The Pilgrimage to Russia. The Soviet Union and the Treatment o f Foreigners 1924-1937, Madison, 1968, soprattutto le pp. 14-33 e 77-78 e L.S. Feuer, American Travellers to the Soviet Union 1917-1932:
■ the Formation o f a Component o f New Deal, in “American Quarterly” , XIV, Summer, 1962, pp. 118-149.
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me centrale e strettamente connesso alle vicende del piano: la questione contadina e la collettivizzazione delle campagne che avrebbe dovuto, secondo le autorità sovietiche, risolverla una volta per tutte18.
Proprio l’atteggiamento di questi giornalisti, e di pochi altri come Eugene Lyons, Anne Louise Strong e Maurice Hindus, testimonia quanto grande fosse l’attrazione che l’esperimento sovietico suscitava in testimoni permanenti, curiosi e professionalmente motivati e quale importanza avesse il peso delle proprie convinzioni politiche e del proprio bagaglio culturale. Ma dimostra anche come vi potesse essere una diversità di reazione e di atteggiamento di fronte ai medesimi eventi e, ancor più, come la dinamica della società russa degli anni trenta interagisse con la ideologia individuale e il mondo di valori personali: portando, di volta in volta, a un rafforzamento, una correzione o anche un ribaltamento dei giudizi precedentemente espressi sull’esperimento sovietico. Per quanto emblematico di atteggiamenti collettivi, il percorso di questi giornalisti e opinion-makers fu quindi anche un tragitto profondamente individuale; segnato, molto più che per gli intellettuali o i turisti occasionali, da una orgogliosa e a volte drammatica consapevolezza delle contraddittorie ma formidabili trasformazioni che l’Urss stava imponendo a se stessa e al mondo intero19.
L’atteggiamento americano nei confronti della collettivizzazione agricola ebbe un andamento dissimile da quello verso il parallelo e quasi contemporaneo primo piano quin
quennale. La possibilità di mantenersi neutrali, di descrivere e analizzare con un’ottica distaccata e curiosa gli sforzi, i successi e i fallimenti di quel gigantesco esperimento sociale ed economico che era la pianificazione, non sembrava un’operazione riproponibile di fronte alla situazione ben più drammatica che si stava sviluppando nelle campagne. La collettivizzazione era vista sì come un aspetto del piano, in un certo senso come la sua base alimentare, come effetto e insieme strumento della scelta di pianificazione e industrializzazione accelerata. Ma proprio per questo se ne evidenziava l’aspetto di volta in volta più macroscopico, non sempre riuscendo a delineare un panorama complessivo dei grandi mutamenti che stavano scuotendo le campagne russe. Ora erano le misure governative per sconfiggere i contadini ricchi, i kulaki, ora la loro resistenza all’essere eliminati o integrati nelle fattorie collettive e statali (i kol- chozy e i sovchozy), ora l’andamento dei raccolti e lo spettro della carestia, a rappresentare i punti focali dell’interessamento americano per l’agricoltura sovietica. L’ingerenza dell’ideologia nel formulare i giudizi era più evidente che nei confronti del piano, specie nell’orientarsi verso una descrizione ‘eroica’ o verso una ‘catastrofica’. Se per alcuni il termine di riferimento delle scelte agrarie rimaneva il loro effetto sugli sviluppi del piano, per altri era determinante il ‘salto’ socialista che la collettivizzazione aveva messo in moto per sconfiggere le ultime ma tenaci isole di individualismo borghese della società sovietica.
18 E.S. Fumiss, Setbacks to the Soviet Pian; Soviet Anxieties over Five-Year Plan; Results o f the Five-Year Plan, Soviet Economic Gains; The Test o f Soviet Economy, in “Current History” febbraio 1932, gennaio 1933, febbraio 1933, agosto 1933, ottobre 1933; L. Fischer, Stalin Faces the Peasant, in “The Nation”, gennaio 1933: W. Duranty, I Write as I Please, New York, 1935, pp. 245 e 275; W.H. Chamberlin, cit. pp. 16-22 e 44-62 e The Balance Sheet o f the Five-Year Plane, in “Foreign Affairs” , aprile 1933.19 Cfr. P.G. Filene, American and the Soviet Experiment, pp. 276 sgg. per i ritratti di Fischer, Lyons, Chamberlin e Strong. Maurice Hindus, originario della Russia da cui era emigrato prima del 1917, tornò nel 1925 in Unione Sovietica, interessato soprattutto all’impatto della rivoluzione nelle campagne. Durante gli anni trenta fu collaboratore della rivista comunista “New Masses” per cui scrisse numerose corrispondenze dall’Urss.
La collettivizzazione delle terre in Unione Sovietica 13
C’era, tra coloro che difendevano più o meno apertamente la scelta di Stalin, un entusiasmo genuino; di tutt’altra natura, però, da quello che si era riversato sui programmi di industrializzazione. Lì erano infatti la modernizzazione, la tecnologia, la meccanizzazione, il superamento in gran parte volontaristico di un’arretratezza secolare, i motivi di simpatia, di elogio, di partecipazione e di sostegno. Nelle campagne questo elemento era sì presente — e il continuo richiamo al trattore e al suo ruolo risolutivo e quasi magico lo testimoniava — ma inserito in un discorso che aveva le sue radici nel progetto di realizzazione del socialismo, di un’organizzazione sociale in cui l’individuo si annullava e si sacrificava per il bene comune. Se l’industrializzazione poteva sembrare a molti un modo di americanizzare la Russia, la collettivizzazione era invece la prova della diversità ed anche della praticabilità di un progetto sociale costruito su presupposti del tutto dissimili.
Per questo, anche, dietro i giudizi dei più entusiasti amici dell’Urss, vi è spesso il riconoscimento di un percorso drammatico, non lineare, difficile e irto di errori e interrogativi. Così come, all’opposto, molti tra i più severi critici della collettivizzazione mantengono spesso un atteggiamento di comprensione, di sospensione del giudizio, di attesa per gli sviluppi futuri. Ciò che avviene nelle campagne sovietiche agli inizi degli anni trenta sembra spingere gli osservatori e i visitatori americani ad accettare e giudicare gli avvenimenti su una base principalmente ideologico- politica. Ma, paradossalmente, non sarà tanto in nome dei principi (socialisti o capitalisti, liberali o comunisti) che si argomenterà pro o contro la collettivizzazione. Bensì sulla base di fattori che, selezionati ed evidenziati in modo spesso contrapposto, porteranno a formulare giudizi che, pur spesso coincidenti con le opzioni politiche e ideali di chi li espri
me, non sembreranno però fondarsi su di esse. E può così capitare, nel leggere le opinioni di uno stesso viaggiatore, di rimanere colpiti dalla sua capacità di descrizione e di analisi e, contemporaneamente, dal grado di prevenzione, pregiudizio, parzialità, autocensura.
Eugene Lyons ricorda come i sessantacin- que giorni che intercorsero tra l’inizio della parola d’ordine “liquidazione dei kulak come classe” il 27 dicembre 1929 e l’articolo di Stalin del 2 marzo 1930, Vertigine del successo, che segnò una pausa e in parte una ritirata momentanea nella politica di collettivizzazione forzata, furono determinanti per la sua identità politica e professionale: “Il concentrato di terrore di quei sessantacinque giorni segnò un confine nel mio modo di pensare e sentire. Per due anni avevo costruito un complesso impianto di giustificazione nei confronti del regime sovietico. Adesso, senza che io lo volessi, quell’impianto cominciava a crollarmi attorno. I simboli della fede avevano perso ai miei occhi vividezza e forza. Gli slogan e le canzoni socialiste, le coraggiose promesse rivoluzionarie, le sfilate e gli appelli per un mondo migliore, mi sembravano adesso segnate dal ridicolo. Fu a questo punto che mi trovai ad affrontare più coscientemente anche il problema con cui mi dovetti confrontare per molti anni: parlare o non parlare. Ricordavo come fosse ieri il mio personale impegno a non attaccare il regime sovietico, ma non ero più sicuro che una esposizione della realtà sovietica costituisse un attacco alla rivoluzione proletaria”20.
Il periodo della collettivizzazione non ebbe però su tutti l’effetto che ne ricevette Lyons. Anzi, proprio i giudizi di alcuni tra i maggiori giornalisti presenti in Urss a quell’epoca sembrano suggerire che il relativismo da essi utilizzato come cornice entro cui comprendere gli avvenimenti sovietici sia divenuto mag-
20 E. Lyons, Assignment in Utopia, cit., p. 291.
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giormente giustificatorio proprio alla prova con le questioni sollevate dalla nuova linea introdotta da Stalin nelle campagne.
Se la necessità storica dello sviluppo economico e il fine comunitario ed egualitario del programma comunista apparivano a Fischer i filtri indispensabili attraverso cui valutare le pur riconosciute brutalità della collettivizzazione, Duranty proiettava in un futuro più immediato i vantaggi ottenuti con mezzi tanto discutibili, cercando di contrapporre alla istintiva solidarietà per i kulaki che traspariva da tanta stampa occidentale una più logica e asettica fiducia nel progresso e nella sua intrinseca razionalità: “Quando il mondo vide la battaglia russa per la collettivizzazione da vicino e mentre si stava svolgendo, ci fu un generale moto di simpatia per i kulaki, questi contadini che lavoravano duramente ed erano strappati dalle loro proprietà per andare a lavorare sotto la direzione di funzionari su una terra non loro; ma questo approccio sentimentale non va al nocciolo della questione, che era il tentativo di regolare con equità la vecchia disputa tra gli interessi della città e della campagna... In altre parole, che i villaggi preferissero o no al progresso la loro sporcizia e la loro ignoranza, il progresso si sarebbe imposto lo stesso. Molti di coloro che denunciano le sofferenze dei contadini russi strappati alle loro case non hanno visto le case in questione, che sono spesso più simili a porcili che ad abitazioni umane”21.
Che la collettivizzazione fosse uno strumento per far uscire l’agricoltura russa dalla sua secolare arretratezza era un giudizio scontato per gli osservatori più favorevoli all’Urss. Sherwood Eddy, prevedendo che i mutamenti degli anni trenta nelle campagne
avrebbero avuto sui contadini effetti più significativi che non i due millenni precedenti, paragonava la rivoluzione agraria in corso alla grande rivoluzione industriale del settecento, e riteneva che “per quanto fosse doloroso il processo di transizione per quelli della vecchia generazione che non possono o non vogliono cambiare le loro abitudini di vita, per la Russia era l’alba di un nuovo giorno”. Maurice Hindus, il più dedito tra tutti i visitatori americani a descrivere i cambiamenti e i problemi che agitavano le campagne, pur senza raggiungere le iperboli di Eddy si spingeva più oltre, collegando insieme, come effetto della collettivizzazione, la modernizzazione dell’agricoltura, il perseguimento anche nelle campagne degli obiettivi della rivoluzione e la capacità di ottenere cibo sufficiente per il sempre maggior numero di operai urbani immessi nel processo di industrializzazione. L’abolizione della piccola proprietà non era solo vista come requisito indispensabile per introdurre nelle campagne una moderna meccanizzazione: ma anche come strumento per eliminare “una molteplicità di sprechi evidenti legati alla proprietà individuale della terra, sprechi in sementi, lavoro, energia umana ed animale”22.
Raramente si attribuiva la spinta alla collettivizzazione, come arrivava a scrivere Ward, alla volontà dei contadini di uscire dalla propria miseria o si giudicava lo sviluppo del movimento kolchoziano come una iniziativa spontanea degli stessi, sorretta solo brevemente da una “campagna a vasto raggio iniziata dal vertice che utilizzava tutti i mezzi della pubblicità e, in qualche caso, della coercizione”. In genere la ricostruzione delle principali fasi della collettivizzazione avveniva seguendo le tappe della politica
21 W. Duranty, I Write as I Please, cit., pp. 286-287; cfr. anche L. Fischer, Soviet Journey, New York, 1934, pp. 93 e 172.22 S. Eddy, The Challenge o f Russia, New York, 1931, p. 60; M. Hindus, The Great Offensive, New York, 1933, Cfr. anche A. Mankhouse, Moscow 1911-1933, Boston, 1934.
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agraria del partito comunista e delle posizioni personali di Stalin. Chamberlin, cui si deve forse il resoconto più distaccato, ne sintetizzava gli obiettivi in tre punti: cooperazione produttiva dei contadini poveri e medi nelle fattorie collettive o kolchozy, sterminio dei contadini ricchi, i kulaki, e sviluppo intensivo delle aziende agricole statali, i sov- chozy■ Di questa politica egli rintracciava i momenti salienti nella sconfitta della ‘destra’ buckhariniana nel 1928, negli obiettivi assegnati all’agricoltura dal piano quinquennale, nell’andamento delle requisizioni e degli ammassi cerealicoli dell’autunno 1929; infine nel discorso di Stalin della fine dicembre 1929 in cui si chiamava alla lotta per l’espropriazione dei kulaki e la loro liquidazione come classe, che approvava e sanzionava una pratica già messa in atto in alcuni distretti23.
Nel 1929 non erano in molti, negli Stati Uniti, a interrogarsi su quello che stava accadendo nelle campagne sovietiche. E del resto
j anche il piano quinquennale verrà recepito solo un anno o due dopo, da una parte più ampia di opinione pubblica, come un evento fondamentale della storia di quel periodo. A quei pochi che cercavano di interpretare gli avvenimenti di Russia in un’ottica rivolta al futuro non sfuggiva però l’importanza di alcuni dati e di alcune tendenze che si sarebbero ben presto rivelate in tutto il loro signifi-
Icato. Nel novembre 1929, Oswald Garrison Villard, editorialista di “The Nation”, dedicava poche ma consistenti righe ai contadini, nel resoconto a più puntate che andava facendo sul suo viaggio in Russia. Ricordando come i dati sulle campagne mostrassero un aumento del 10 per cento nel raccolto di gra-
; no rispetto all’anno precedente e uno sviluppo delle fattorie statali maggiore di quello previsto dal piano e in metà del tempo pre
ventivato, Villard citava numerosi resoconti di Duranty apparsi sul “New York Times” concordando con lui che si trattava di “un vero e proprio terremoto” e “di una battaglia più vitale per l’umanità di quella di Gettysburg o di Verdun” . Con maggiore lungimiranza di Duranty, però, Villard ammoniva a non dimenticare la sofferenza e i patimenti che stavano accompagnando quei risultati e soprattutto il fatto che, dopo solo dodici anni, la rivoluzione toglieva la terra a coloro cui l’aveva data. Egli concludeva, meno propenso di Eddy a valutare positivamente la contropartita che i contadini avrebbero ricevuto in cambio (radio, scuole, ospedali, teatri), osservando che “è impossibile credere che il contadino vorrà cambiare di propria volontà il suo stato di piccolo proprietario in quello di impiegato dello Stato” .
Nemmeno un mese dopo, su “Current History” , Alzada Comstock metteva in rilievo il carattere di vera e propria guerra in corso tra il governo e i contadini, riportando notizie di condanne a morte comminate a kulaki che si erano ribellati, avevano nascosto il grano per venderlo al mercato nero, avevano compiuto assassini ed incendi, partecipando a organizzazioni controrivoluzionarie dirette da preti e proprietari terrieri. La lotta per il grano sintetizzava, per Comstock, tutto il contraddittorio e antagonistico rapporto tra i bolscevichi e i contadini che sembrava adesso, dopo la promessa fatta nel giugno 1928 di abbandonare ogni misura repressiva, riprendere fiato sotto la forma di un conflitto aperto e non più tollerabile da entrambe le parti24.
Il 5 marzo 1930 su “The New Republic” , Vera Micheles Dean tentava di offrire una spiegazione della lotta sociale in corso in Unione Sovietica puntualizzando innanzitut-
23 H.F.Ward, In Places o f Profit. Socia! Incentives in the Soviet Union, New York, 1933, p. 205; W.H. Chamberlin, The Soviet Planned Economie Order, cit., pp. 113-115.24 “The Nation”, 27 novembre 1929; “Current History” dicembre 1929.
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to la natura e il ruolo dei combattimenti in campo. Da una parte vi era il kulak, il cui termine “strettamente parlando è applicabile solo al contadino che sfrutta altri contadini sia prendendoli a salario sia affittando al posto loro materiale agricolo”, la cui essenza era di essere un capitalista in embrione e di averne la psicologia, e che era sospettato “di corrompere le persone più deboli della comunità con lo scopo di ottenerne i favori” e accusato di unirsi agli elementi antisociali della popolazione, preti ed ex nobili, e verso cui adesso si riversava “tutto l’odio, la derisione e il sospetto che un tempo si era rivolto contro la borghesia”. Dall’altra vi erano i kol- chozy, le fattorie collettive che riunivano in forma cooperativa le piccole fattorie individuali, e a cui lo Stato offriva crediti e aiuto tecnico in cambio di una vendita dei prodotti in eccesso a un prezzo prefissato e i sovcho- zy, le fattorie statali, meno sviluppate e “usate principalmente come stazioni agricole sperimentali” . La collettivizzazione, proseguiva la Dean, era il logico sviluppo del piano quinquennale (occorreva più grano per sfamare gli operai) e il suo successo dipendeva dalla cooperazione che avrebbero mostrato i contadini. I kulaki, rappresentando un ostacolo all’unità di operai e contadini, dovevano essere liquidati, vale a dire, “nella terminologia comunista” , esiliati o uccisi. Disciplina di ferro contro i kulaki e stimolo all’entusiamo cooperativistico degli altri contadini avrebbero dovuto essere i due cardini della futura politica agricola sovietica. Ma l’atteggiamento dei contadini rimaneva incerto come quello, altrettanto decisivo, dei fattori climatici: “Poche cose sono impossibili al governo sovietico: può distruggere o trasformare il contadino; può essere fortunato e sfuggire alle intemperie degli elementi. Ciononostante, per parafrasare Lenin, biso
gna dire senza esagerazione che adesso, dentro i confini della Russia, il comuniSmo ha intrapreso una ultima e decisiva battaglia contro il capitalismo”25.
Chi erano dunque questi kulaki, contro cui si stavano giocando le sorti del socialismo, per gli americani? Hindus ne dà una lunga spiegazione che compendia anche quelle, più sintetiche, di altri osservatori: “Letteralmente la parola significa mano e si usa per quelle persone che accaparrano nelle proprie mani dei beni materiali e se li tengono stretti. Legalmente un kulak è un uomo che indulge a qualche forma di sfruttamento... In realtà, comunque, il kulak è un coltivatore che ha successo, per come il successo è misurato in Russia... In America il kulak russo medio sarebbe un pover’uomo, ed anche in Russia non esiste una classe permanente di kulaki. In genere il kulak non è il grasso barbaro fannullone che è tratteggiato nei film sovietici. Uomo energico e parsimonioso, talvolta povero, non ha nulla dell’ozioso proprietario dei tempi passati che faceva fare ad altri tutto il lavoro. In Russia è una delle persone che lavorano più duramente, e lo stesso vale per sua moglie e i suoi figli”26.
Se il kulak veniva definito con buona approssimazione, mancava invece alla gran parte degli osservatori americani la possibilità di quantificarlo, di valutarne il peso relativo nella struttura sociale e produttiva delle campagne, di analizzare gli effetti della sua eliminazione. Questo non vuol dire, tutt’al- tro, che vi fossero nella stampa dell’epoca pochi riferimenti all’andamento della deku- lakizzazione. Anche i fautori della collettivizzazione, infatti, raccontavano senza troppe reticenze le forme della coercizione governativa e della resistenza contadina, pur se evidentemente esisteva tutta una gamma di
25 “The New Republic” , 5 marzo 1930.26 M. Hindus, Red Bread, New York, 1931, pp. 59-60.
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sfumature nel calcare o meno la mano sulla drammaticità della battaglia per lo sterminio dei kulaki. Numerose sono le testimonianze e i racconti su questi contadini ‘ricchi’, caccia-
! ti dalle loro case, spogliati di ogni avere, con-
I dotti a colonizzare nuovi territori incolti, la
sciati senza possibilità di lavoro a vagabondare nelle già affollate città, costretti ad abbandonare famiglie e figli, spesso costretti ai lavori forzati, uccisi dalla carestia, dalla polizia, nel quasi sempre vano tentativo di varcare le frontiere. Da parte di tutti veniva sottolineata la non collaborazione, la protesta passiva, lo sterminio delle greggi e delle mandrie, l’uccisione degli animali posseduti, prima di essere costretti all’esilio interno. C’era invece una divergenza di opinioni tra chi riteneva che parte dei kulaki fossero costretti ad entrare nei kolchozy, e solo per questo cercassero di liberarsi, vendendo e uccidendo, di quello che non potevano portarsi nelle fattorie collettive dove sarebbero stati trattati
' alla stregua dei contadini più poveri; e chi invece raccontava come venisse impedito l’in-
Igresso, anche a chi volesse fame parte, considerando il kulak sempre e comunque un nemico del popolo. La violenza della resistenza aveva raggiunto, secondo alcuni resoconti, la ! forma aperta della ribellione collettiva, dell’incendio doloso, dell’assassinio individuale, con l’Armata rossa che a volte si rifiutava di sparare su quelli che avrebbero potu-
Ìto essere parenti o familiari; per altri vi era solo violenza sulla ricchezza che si possedeva, come un’ultima vendetta contro il governo espropriatore.
Diverso è anche il parere sull'atteggiamento degli altri gruppi di contadini: per alcuni, attorno ai kulaki si raggruppavano i contadi-
I ni medi ed anche una parte di quelli poveri, | specie nelle regioni con sensibili minoranze nazionali, in una difesa omogenea del mondo ‘contadino’ contro l’intrusione dei ‘cittadini’ e degli operai; altri davano invece rilievo alla gioia dei contadini poveri nel poter scacciare i kulaki e appropriarsi così, colletti
vamente, dei loro attrezzi e dei loro animali. Anche le cifre riportate non sono sempre le stesse. In genere si lascia la sintesi quantitativa all’immaginazione del lettore e si parla, con uguale convinzione, di migliaia o di milioni. Harper cercherà di puntualizzare la questione sottolineando come ai cinque milioni di kulaki riconosciuti ufficialmente andassero aggiunti gran parte dei contadini medi che ricevevano un trattamento analogo e come in gran parte dei villaggi, le confische riguardassero il 30 per cento delle famiglie. Ma anche dove non si danno dati statistici l’impressione che si cerca di offrire è quella di un sommovimento a vasto raggio, di un terremoto, di una guerra, di qualcosa che ha insieme le caratteristiche della calamità naturale e del pogrom pianificato. “L’Armata rossa — scriveva Eve Garett Grady — piombava sui distretti di notte, confiscava le case, la terra, il bestiame, il pollame, gli attrezzi, l’arredamento ed anche il vestiario e gli effetti personali dei contadini che si ribellavano. Con la crudeltà dei tempi di guerra, uomini, donne e bambini, con nulla tranne gli abiti che avevano indosso, venivano portati via dalle loro case e trascinati attraverso la steppa. A migliaia furono deportati dal sud fino alle nere foreste del nord per lavorare sotto la sferza del negriero a produrre legname da costruzione per l’estero, migliaia che erano nati e cresciuti sotto cieli più dolci ed estivi e che, anche se fossero stati provvisti di un vestiario appropriato, cosa che non era, sarebbero stati poco adatti ad un lavoro nelle regioni attorno al circolo Artico” . Pur raccontando le stesse cose, ben diversa è l’atmosfera descritta da Hindus: “Oppure, con le loro famiglie, erano stipati dentro vagoni stracolmi, talvolta con scarso cibo, ed esiliati in alcune regioni del nord — a cominciare di nuovo una vita su quelle terre vergini, in una segheria o nella costruzione di qualche nuovo impianto. La Russia tremava per i pianti e le maledizioni di questa gente sorpresa nella notte. Ma non vi era vendetta nella loro pu-
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nizione. Si trovavano sulla strada della rivoluzione e dovevano venir spazzati via a tutti i costi”27.
Scrivendo da Mosca il 2 marzo 1930, Walter Duranty inviava al suo giornale, il “New York Times” , un cablogramma relativo a un articolo di Stalin, apparso lo stesso giorno su tutti i giornali sovietici, in cui giudicava che “la sua arte di governo sembra porre Stalin allo stesso livello di Lenin, e la sua dichiarazione è incontestabilmente il più importante discorso fatto in Russia da parecchi anni” . Se la prima considerazione era frutto dell’attrazione e del fascino che il dittatore sovietico esercitava sul corrispondente americano, la seconda rappresentava un acuto giudizio su una realtà che i giorni a venire avrebbero ampiamente verificato. In effetti l’articolo Vertigine del successo, ancora adesso costituisce un punto fermo nella valutazione storica non solo della collettivizzazione ma di tutta l’opera di Stalin28.
Ricostruendo qualche tempo dopo i convulsi avvenimenti di quei giorni, Hoover individuava nell’articolo di Stalin la risposta a una situazione di rivolta e di boicottaggio che rischiava di far svanire i soddisfacenti risultati economici ottenuti dalla prima fase della collettivizzazione forzata. Si era alla vigilia della semina di primavera e la preoccupazione delle autorità sembrava dirottarsi verso un più tradizionale obiettivo — il raccolto — abbandonando momentaneamente
quello relativo all’eliminazione dell’odiato kulak. Stalin, dopo aver richiamato l’attenzione sull’enorme successo della collettivizzazione che aveva già coinvolto il 50 per cento di tutte le famiglie contadine, metteva in guardia dal farne discendere una affrettata linea di completamento, elencava una serie di ‘errori’ e di ‘eccessi’, e indicava in una pausa, anzi in una parziale ritirata, la giusta linea di edificazione socialista nelle campagne. La collettivizzazione, ricordava Stalin, era stata condotta con metodi amministrativi oltre che coercitivi, abbandonando troppo presto la fase dell’artel (la cooperativa agricola di produzione) e arrivando troppo rapidamente alla formazione della vera e propria comune agricola. Se i kolchozy dovevano essere il fulcro delle zone a larga produzione di grano, non così doveva avvenire nelle regioni dove la lavorazione dei prodotti caseari era predominante. Infine, pur se la battaglia contro i kulaki andava proseguita, bisognava fare attenzione a non coinvolgere contadini di altre categorie e si doveva permettere a chi entrava nell’artel di mantenere la propria casa, i propri attrezzi, i propri orti, galline, maiali, pecore e perfino una mucca per uso personale. Hoover ricorda che i giornali con l’articolo di Stalin andarono a ruba, che molti contadini lo lessero con lo stesso atteggiamento con cui i loro avi avevano accolto l’editto di emancipazione dello zar Alessandro II e lo stesso Lyons, non certo tenero
27 E.G. Grady, Seeing Red. Behind the Scenes in Russia Today, New York, 1931, p. 167. Cfr. anche M. Hindus, The Great Offensive, cit., p. 147; A. Mankhouse, Moscov, 1911-1933, cit., p. 203; W. Durant, The Lesson o f Russia, London, 1933, pp. 41-43; F. Utley, The Dream we Lost, New York, 1940, pp. 50-58; C.B. Hoover, The Economie Life o f Soviet Russia, New York, 1931, pp. 98-106; S. Harper, Making Bolsheviks, Chicago, 1931, pp. 91-93 e il numero speciale di “Fortune” del marzo 1931.28 Sulla collettivizzazione cfr.: M. Lewin, Russian Peasants and Soviet Power, London, 1968; L. Volin, A Century o f Russian Agriculture; Cambridge, 1970; J.R. Millar, The Soviet Rural community, Urbana, 1971; A. Nove, The decision to Collectivize, in W. A. Douglas (ed.) Agrarian Policies and Problems in Communist and non-Communist Countries, Seattle, 1971; H. Hunter, The Over-Ambitious First Soviet Year Plan, in “Slavic Review”, giugno 1973; M.G. Ellman, Did the Agricultural Surplus provide the resources fo r the Increase in Investment in the USSR during the First Five-Year Plan?, in “The Economic Journal” , dicembre 1975, n. 85, pp. 844-864. Un primo approccio più complessivo al primo piano è quello di M. Lewin, Society and Stalinist State in the Period o f the First Five-Year Plan, in “Social History” , 1976, n. 2.
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verso quella “bugia trasparente” che era l’articolo del 2 marzo, doveva riconoscere che Stalin “fu lodato con esultanza per la sua misericordiosa perspicacia” e che “i contadini erano troppo contenti per essere logici” .
L’articolo di Stalin venne seguito in breve tempo da una serie di misure che permettevano ai contadini di ritirarsi dai kolchozy (anche se a chi rimaneva si garantivano una serie di vantaggi), di vendere i loro prodotti sul mercato, di non essere perseguitati per motivi religiosi. “In genere i contadini pensarono — scriverà Hoover — che la paura di un boicottaggio della semina di primavera e di rivolte era ciò che li aveva salvati dalla loro intollerabile posizione” . Il processo di collettivizzazione si interruppe drasticamente, calando dal 55 al 25 per cento secondo Chamberlin, dal 63 al 22 per cento per Lyons e ancor più nelle stime di Hoover29.
Il significato della svolta imposta da Stalin fu in gran parte analizzata dagli osservatori americani alla luce di elementi successivi; a questo forse si deve un sostanziale equilibrio nel valutare cause ed effetti, pur se in genere si mise in evidenza la grande capacità di statista del leader comunista nell’evitare che lo scontento montante nelle campagne coinvolgesse la struttura stessa del potere sovietico. Ma anche tra coloro che scrissero più a ridosso della pausa imposta alla collettivizzazione, non mancò chi seppe trarne indicazioni e previsioni per il futuro. Scrivendo il 27 marzo un articolo per “The Nation” , Louis Fischer sosteneva che “il recente mutamento radicale avvenuto nella politica [...] non significa in alcun modo un mutamento dei principi” e metteva in luce come “l’errore” di spingere per una immediata collettivizzazione invece che “socializzare solamente i
mezzi di produzione — terra, sementi, macchinari e bestie da tiro — creando così un artel” , errore “corretto” dal discorso del 2 marzo, aveva portato ad una notevole distruzione del patrimonio zootecnico sovietico e che solo col ritorno delle capre, oche, mucche, galline ai loro proprietari, erano riapparsi sui mercati urbani latte, burro, formaggio e pollami. Fischer individuava nelle misure intraprese l’ultimo di tanti zig-zag che avevano caratterizzato la politica bolscevica, riconoscendo che “negli ultimi sei mesi i comunisti si sono comportati come se l’obiettivo della loro vita fosse quello di inasprire il maggior numero possibile di contadini contro questa forma collettiva di economia”, attribuiva a Stalin una notevole capacità di azione pur se “un migliore statista avrebbe fatto lo stesso qualche mese prima e si sarebbe preso in parte la responsabilità per gli errori commessi dai suoi seguaci su sua istruzione” ; si proclamava tuttavia ancora convinto che “il futuro del socialismo dipende in Russia dalla collettivizzazione” . Solo la razionalità dei kolchozy avrebbe infatti permesso l’elettrificazione e la meccanizzazione nell’agricoltura e un incremento della produzione agricola capace di svecchiare il villaggio russo “l’unità economica più arretrata d’Europa”30.
Tra le varie forme assunte dall’agricoltura socializzata, il kolchoz era quello che maggiormente attirava l’attenzione dei visitatori americani e in genere quello in cui si identificava l’essenza stessa della collettivizzazione e il perno attorno a cui ruotava l’opera di de- kulakizzazione. Solo gli osservatori più attenti cercheranno di mettere in risalto la combinazione delle diverse forme organizzate dell’agricoltura sovietica e di capirne il
[9 W. Duranty, Duranty Reports Duranty, New York, 1934, p. 385; E. Lyons, Assignment in Utopia, cit., p. 290; C.B. Hoover, The economie Life o f Soviet Russia, cit., pp. 112, W.H. Chamberlin, The Soviet Planned Economie Order, cit., pp. 118-120.10 “The Nation”, 30 aprile 1930.
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ruolo e la tendenza. Louis Fischer raccontava su “The Nation” il suo viaggio lungo la ‘regione del grano’, individuando nel sov- choz, l’azienda agricola statale, la forma destinata ad avere successo, “non solo perché il governo ne vuole creare parecchie, ma perché il vantaggio che danno sull’agricoltura individualizzata ed anche sulle fattorie collettive è così evidente che sicuramente vi sarà una richiesta spontanea di nuovi sovchozy” ■ Fischer si riferiva in particolare ad alcune fattorie a monocoltura di grano: in una di quelle visitate “il direttore usa un aeroplano per andare da un luogo all’altro dell’azienda”, trattandosi di un’area di 220 mila ettari di cui 113 mila coltivati ed in cui si utilizzavano 3.500 operai, 220 trattori, 230 trebbiatrici e 450 seminatrici meccaniche. Fischer sottolineava come questa azienda agricola fosse sette volte più ampia della più grande fattoria americana, quella di John Campbell nel Montana, e ricordava come proprio Campbel avesse svolto mansioni di consulente agricolo presso il governo sovietico31.
In uno studio miscellaneo dal titolo La nuova Russia tra il primo e il secondo Piano quinquennale, apparso nel 1933, il sociologo Newell Sims descriveva le diverse forme di organizzazione agricola attribuendo anch’egli al sovchoz il ruolo principale, soprattutto “in quanto migliori organismi per l’agricoltura su vasta scala e come terreno di prova per nuove tecniche, metodi, esperimenti” . Sviluppate soprattutto sui vasti territori incolti delle regioni periferiche, i sovchozy “sono imprese altamente specializzate. C’è tutta una rete di sovchoz per ogni diverso prodotto, il grano, le barbabietole da zucchero, la frutta, il tè, il tabacco, le pecore, le mucche, la verdura e tutta una serie di raccolti per l’industria tra cui il cotone, il lino,
la seta, la gomma ed altri materiali” . Passando poi ad analizzare il kolchoz, Sims ricordava, in base a statistiche ufficiali, che tre quarti dell’area coltivata dipendeva da questi organismi, preponderanti ovunque tranne che in Siberia e negli Urali. Dopo gli aspri conflitti sociali del 1930 essi avevano ripreso a crescer di importanza, soprattutto grazie alle Stazioni di macchine e trattori che “servono gruppi di kolchoz, affittano i trattori, insegnano ai contadini come usarli e organizzano la loro diffusione nei villaggi”32.
Se dunque nel sovchoz si identificava l’aspetto di meccanizzazione e modernizza- ; zione dell’agricoltura, nel kolchoz si riassumeva il significato della collettivizzazione intesa come fase transitoria di organizzazione comunitaria il cui requisito era principalmente l’eliminazione dei kulaki. È comprensibile quindi che gli osservatori americani, di fronte a un panorama ben più complesso e frastagliato di quello esistente nell’industria, ! e in presenza di precise e drastiche scelte governative che sollevavano parziali consensi, passiva accettazione o attiva resistenza da parte delle forze sociali interessate, scegliessero per lo più un solo aspetto delle campagne da usare come fonte documentaria per i loro lettori. Già nella preferenza a individua- I re il sovchoz o il kolchoz come cardine per il- » lustrare la situazione agraria sovietica, si può cogliere in parte l’atteggiamento e il grado di simpatia o di ripulsa del visitatore americano per l’esperienza collettivizzatrice. Nel giudizio che poi si dava su questi organismi, si ; estrinsecava ancor meglio la critica, la giusti- | ficazione, o l’esaltazione. Un esempio è il j modo con cui si guardò alle Smt (Stazioni di macchine e trattori), gestite dallo Stato e im- I pegnate per servire i kolchozy. Anne Louise Strong descriveva il fenomeno — in una cor
31 “The Nation”, 8 ottobre 1930.32 N. Sims, Socialistic Agriculture, in J. Davis (ed.) The New Russia. Between the First and Second Five-Year Pian, New York, 1933, pp. 55-58-59.
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rispondenza da Odessa — con toni entusiastici, sottolineandone la razionalità, la modernità, l’incremento di produttività, la capacità di collegare in una crescita economica e culturale villaggi sparsi e arretrati inserendoli organicamente in un piano il cui fine era sia il socialismo che il progresso. Lyons evidenziava invece i limiti di una formale auto- gestione — quella kolchoziana — ferreamente sottomessa alle scelte e ai ricatti di un potere centralizzato, mentre Chamberlin si limitava a notare la prevedibile scomparsa delle proprietà private in una situazione in cui credito e macchine venivano concesse solo alle aziende socializzate. Diversa era anche la valutazione di altri aspetti della vita nelle fattorie collettive: chi difendeva il cottimo o il salario misto (in denaro e in natura), chi vedeva nell’obbligo a comprare i prodotti alimentari dal kolchoz medesimo una forma di razionamento e di ulteriore sfruttamento; chi attribuiva all’organizzazione collettiva una maggiore efficienza e chi sottolineava la mancanza di una gestione manageriale e l’adesione solo per paura dei contadini medi e poveri; chi infine delineava una vita sociale e culturale ricca e in espansione di contro ad altri che ritenevano lo standard di vita contadino sostanzialmente simile al passato ma senza più l’illusione e la speranza di possedere il proprio pezzo di terra. Alcuni dei fattori che caratterizzarono la collettivizzazione — la grande mobilità e l’enorme flusso di migrazioni interne — venivano a volte appena citati, e altri — come i nuovi rapporti di mercato soprattutto tra città e campagna — venivano volutamente ignorati per la difficoltà di comprenderne i meccanismi e di offrirne una descrizione attendibile33.
Fred Beai ricorda nelle sue memorie che, parlando nel 1933 con il presidente della Re
pubblica sovietica dell’Ucraina, gli chiedeva spiegazioni su voci sempre più frequenti ascoltate alla fabbrica di trattori di Kharkov dove lavorava: “Compagno Petrovsky — gli dissi — le notizie che ci giungono parlano di milioni di contadini che muoiono dappertutto. Ognuno vede attorno a sé povertà e morte. Dicono che cinque milioni di persone sono già morte quest’anno e ce lo rinfacciano (a noi comunisti) come sfida e insulto. Cosa dobbiamo dirgli?” .
“Non dire loro nulla — rispose il presidente Petrovsky — ciò che dicono è vero. Sappiamo che milioni di persone muoiono. Questa è una sfortuna, ma il glorioso futuro dell’Unione Sovietica lo avrà giustificato. Non dir loro nulla” . Che la disastrosa situazione alimentare del 1932-33 non dovesse essere divulgata e che gli effetti tragici di quella tremenda carestia dovessero essere tenuti nascosti a vantaggio forse degli storici futuri, non erano solo le autorità sovietiche a pensarlo. Eugene Lyons racconterà che tra i giornalisti stranieri era ricordata come “il classico esempio di understatement giornalistico” una notizia del 30 marzo 1933 che la redazione di Mosca aveva fatto pubblicare sul “New York Times” e in cui si affermava candidamente che “in realtà non c’è fame o morte per inedia, ma piuttosto una dilagante mortalità per malattie dovute alla malnutrizione” .
In effetti, pur se “Literary Digest” già dal marzo del 1932 insisteva nel descrivere la situazione alimentare, e cerealicola in particolare, come drammatica, parlando genericamente di quaranta milioni di contadini affamati, i più accreditati corrispondenti americani non sembravano dar segno di accorgersi del destino tragico cui erano abbandonati i sovietici, stretti nella morsa di una serie di
33 Cfr. M. Hindus, Red Bread, cit., pp. 49-51, 174-178, 210-227; M. Hindus, The Great Offensive, cit., pp. 128-131; S. Harper, Making Bolsheviks, pp. 92-105; E. Lyons, Assignment in Utopia, cit., pp. 322-327; C.B. Hoover, The economie Life o f Soviet Russia, cit., pp. 89-92; S. Eddy, cit., pp. 44-45; E.T. Colton, The X Y Z o f Communism, New York, 1935, pp. 190-201.
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raccolti fallimentari e nella ripresa massiccia della collettivizzazione forzata. Walter Du- ranty, ad esempio, dedicava ampio spazio alla crisi dell’agricoltura, alla scarsità e malnutrizione del bestiame, riconosceva che “la maggioranza dei contadini non ha più carne, zucchero, formaggio, burro, latte, uova e tè, salvo a rari intervalli ed in piccole quantità”, ma si domandava poi, con un eufemismo apparentemente sincero, quali fossero “le ragioni per la mancanza di cibo che minaccia il programma sovietico alla fine del primo periodo dell’economia pianificata, che per il resto è apparentemente riuscito” . La mancanza di cibo — perché di carestia il “New York Times” parlerà solo nell’agosto 1933 — era vista da Duranty come l’effetto della resistenza contadina alla collettivizzazione o, come tentò di precisare, “più precisamente come il risultato delle misure prese per vincerne la resistenza”.
Quali che fossero, comunque, le cause della crisi agricola, non occorreva — continuava Duranty — esagerare la situazione, dal momento che i russi avevano ben più a lungo e maggiormente stretto la cinta nel passato. Al giornalista americano appariva “sorprendente” che, di fronte a una realtà di cui le stesse autorità sovietiche non minimizzavano la gravità, i dirigenti comunisti potessero parlare di pieno successo nella conversione “fisica” dell’agricoltura alle sue forme socializzate, mentre la conversione “morale” sarebbe stata inadeguata per lacune e debolezze mostrate dalla direzione del partito in alcuni settori. La sorpresa non gli impediva tuttavia di affermare che “questo, nell’opinione di chi scrive, è fondamentalmente giusto. Per tutto il paese vi è una grande battaglia morale tra gli entusiasti della nuova via, che è dura e difficile perché nuova e non appianata dal tempo e dall’esperienza, e i di
fensori del sistema familiare — una battaglia tra gli innovatori socialisti e i conservatori individualisti, tra il giovane e il vecchio”34.
La coincidenza tra la carestia, le difficoltà dell’agricoltura socializzata e il trapasso tra il primo e il secondo piano quinquennale, non permise che negli Stati Uniti si dedicasse largo spazio a una analisi approfondita delle prime e decisive tappe della collettivizzazione. Non fu però solo la contraddittorietà delle informazioni e il sovrapporsi di differenti problemi a impedire che si riuscisse a darne un consuntivo più completo. Nel 1933 la curiosità del mondo americano per l’Urss era diminuita e, contemporaneamente, l’attenzione si andava appuntando sempre più verso i risvolti politico-diplomatici che alla fine dell’anno avrebbero condotto al riconoscimento formale tra i due paesi. Vi furono, comunque, dei tentativi, immediati o di poco posteriori, di tracciare un bilancio della rivoluzione agraria sovietica che fosse capace di separare il contingente dal duraturo, l’immediatezza della cronaca della riflessione sui mutamenti strutturali avvenuti.
Louis Fischer, di cui già si è ricordata l’esaltazione del sistema sovchoziano, cercava di tracciare, in due articoli apparsi su “The Nation” nel gennaio e febbraio del 1933, una sintesi che non rimanesse confinata ai gravi immediati problemi emersi nell’inverno 1932-33. La base di ogni discorso, per Fischer, doveva essere il riconoscimento che i vantaggi ottenuti dal proletario negli ultimi dieci anni erano avvenuti a spese dei contadini, benché “questo processo di far pagare al contadino le spese è andato così avanti che ha ormai raggiunto il punto da cui inizia la fase inversa” .
Non si poteva però nascondere che il sistema kolchoziano, specialmente nel suo aspetto commerciale più che in quello produttivo,
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34 F. Beal, Proletarian Journey, New York, 1937, p. 310; E. Lyons, The Red Decade, New York, 1941, p. 127; W. Duranty, Duranty Reports Duranty, cit., pp. 277-285.
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non funzionava bene, e che gli stessi sovcho- zy si erano trovati costretti a vendere i loro prodotti al mercato aperto a prezzi inflazionati. Le difficoltà dell’agricoltura erano quindi da imputarsi più alla complessa macchina amministrativa sovietica e ai complessi meccanismi di scambio tra città e campagne e tra i diversi settori economici che non in un fallimento dell’ipotesi di incremento produttivo attraverso la collettivizzazione. Rispetto a quest’ultima, infine, si era verificato un eccesso di autoritarismo e di arbitrarietà a scapito di una autorganizzazione democratica dei lavoratori: “Ciò di cui l’Unione Sovietica ha bisogno per fare delle vere riforme è l’interesse, l’iniziativa e la responsabilità dei singoli e della base piuttosto che la dittatura dall’alto — più democrazia economica” . Nel secondo articolo Fischer elencava le traversie di migliaia di contadini, costretti a lasciare i propri villaggi, l’introduzione dei passaporti per l’interno, la restrizione nei consumi, riaffermando con ancora più nettezza che “la funzione che la storia ha assegnato ai bolsce- vichi è l’industrializzazione della Russia. Più che trovare nuova terra da coltivare per le masse dei contadini, l’Urss punta a creare nuovi posti di lavoro per loro nelle città” . Egli insisteva di nuovo sull’eccesso di misure repressive, pur mostrandosi fiducioso che la “bilancia ineguale” tra contadini e operai avrebbe potuto assumere connotati meno conflittuali, e concludeva affermando che “l’aspetto più importante del passaggio dal primo al secondo piano quinquennale è la relativa facilità con cui è stato accettato. Tutte le carte sono in una sola mano. Quella che può essere descritta in modo abbastanza vero come la presente crisi dell’Urss è molto diversa dalla crisi nei paesi capitalisti, perché i leader bolscevichi ne conoscono le cause, ne hanno pianificato la cura, e la stanno già applicando”35.
Uno dei pochi esempi di complessiva riconsiderazione della collettivizzazione fu quello di un lungo articolo di Chamberlin dall’eloquente titolo La prova del fuoco dei contadini russi. In un libro sulla pianificazione apparso qualche anno prima, Chamberlin aveva considerato la collettivizzazione, già in pieno svolgimento, come “una pietra miliare nella storia dello sviluppo economico sovietico” perché avrebbe raggiunto tre importantissimi risultati: interrotto la stagnazione e la sottoproduzione dell’agricoltura sovietica, specie quella granaria; coinvolto il settore più recalcitrante entro l’orbita della pianificazione; combinato insieme “due importanti mutamenti nel sistema agrario sovietico, la sua meccanizzazione e la sua socializzazione” . Meno affascinato dalle generiche affermazioni di principio e dall’astratta identificazione di obiettivi ‘storici’, Chamberlin individuava più tardi, nei quattro anni trascorsi dalla decisione di porre fine all’agricoltura privata, una “rivoluzione agraria dall’alto” che aveva trasformato lo stesso aspetto esteriore delle campagne russe, riscontrabile, se non altro, nell’enorme aumento dei trattori in circolazione e nell’altrettanto incredibile diminuzione di cavalli, maiali, pecore. Si era trattato, proseguiva Chamberlin, di un periodo caratterizzato da fame, sofferenze, tensioni, meno tragiche solo dei drammatici anni della guerra civile. Ciò che era stato rivoluzionato, ancor più del paesaggio agrario, era la sfera dei rapporti umani; la liquidazione dri kulaki e la massiccia introduzione a livelli direttivi di burocrati e operai provenienti dalle città era stata accompagnata da un capovolgimento della scala sociale: “in un senso molto letterale, i primi sono spesso divenuti gli ultimi e gli ultimi i primi” . Chamberlin ricordava come il livello più basso raggiunto dall’agricoltura collettivizzata nel 1932-33, e non solo per colpa del tempo
35 “The Nation”, gennaio 1933, pp. 39-41 e febbraio 1933, p. 201.
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ma per la resistenza offerta dai contadini, era stata superata dopo il buon raccolto del 1933, e come ormai 230.000 kolchoz e quasi6.000 sovchozy rappresentassero la spina dorsale di un sistema completamente nuovo. Polemizzando contro chi aveva visto nell’avversione dei contadini alla collettivizzazione un legame quasi antropologico alle proprie passate condizioni di lavoro e di vita, Chamberlin così argomentava: “i miei viaggi nelle diverse zone del paese non mi hanno dato l’impressione che una superstiziosa avversione alle nuove idee in generale e alle macchine in particolare sia stato in alcun senso un fattore importante nella resistenza passiva che ha sicuramente caratterizzato l’atteggiamento di molti contadini verso la collettivizzazione [...]. Ciò che non sopportavano del nuovo ordine agrario non era la forza e l’energia delle nuove macchine, ma il fatto che né queste macchine né i raccolti che se ne raccoglievano appartenevano a loro e che lo stato rivendicava ed esercitava il diritto di chiedere delle quantità di produzione arbitrarie e indeterminate” .
Smentendo le proprie osservazioni di qualche anno prima, Chamberlin affermava inoltre che nessuno, con una pur scarsa conoscenza pratica dei problemi agricoli, poteva sostenere che i trattori e le grandi unità agricole avrebbero di per se stessi aumentato la produttività, come la continua scarsità di cibo, il razionamento nelle città e la quasi inesistente esportazione di prodotti alimentari stavano a dimostrare. Questo drastico giudizio tecnico-economico sembrava tuttavia bilanciato da una più equilibrata previsione degli sbocchi futuri: “Durante gli ultimi anni, i contadini hanno preso su di sé una larga parte dell’enorme peso del primo Piano quinquennale. Essi sono stati senza dubbio gli ‘uomini dimenticati’ di un ordine sociale ec
citato da schemi di espansione industriale e di preparazione militare. Il futuro dirà se le nuove generazioni che crescono adesso sotto la collettivizzazione riusciranno ad avere un migliore livello di vita”36.
Nelle corrispondenze e nelle descrizioni americane del primo piano quinquennale, era comune trovare frequenti richiami ad una comparazione tra la situazione sovietica e quella statunitense. Nulla di tutto questo avviene per le campagne. Che fosse la convinzione di una totale incommensurabilità tra la struttura economica e sociale agraria dei due paesi o che pesasse la direzione ferreamente antindividualistica imposta alle campagne dell’Urss, è certo che le rare occasioni di paragone proposte occasionalmente rimanevano ben al di sotto delle possibilità di raffronto offerte dalla realtà. Pur se in genere accennati solo fuggevolmente, anche nelle campagne erano ben vivi i problemi di management, di produttività, di incentivi, di efficienza, di retribuzioni. Anzi si può dire che proprio nell’agricoltura questi temi assumevano maggior rilievo, connotati come erano da una maggiore divaricazione tra la situazione di partenza e quella raggiunta negli anni successivi. Il tentativo di trasformare il contadino in un salariato statale — qual’era il caso dei lavoratori dei sovchozy o di limitarne l’autonomia e l’indipendenza attraverso il controllo e la direzione centrale anche in situazioni formalmente autogestite — come avveniva nei kolchozy — avrebbe potuto stimolare la comparazione con una struttura agraria così diversa come quella americana. Eppure sembra proprio l’eccessiva diversità l’ostacolo maggiore frapposto a ogni ipotesi di paragone. Erano stati proprio gli elementi di ‘americanizzazione’, infatti, quelli che più avevano colpito gli americani intenti a descrivere le fasi e le tappe dell’industrializza
36 W.H. Chamberlin, cit., pp. 142-143. Cfr. anche C.B. Hoover, The Economie Life o f Soviet Russia, cit., pp. 115- 120; E. Friedman, Russia in Transition, New York, 1932, pp. 152-163.
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zione accelerata. Occorre anche sottolineare che i paragoni descritti a proposito del piano quinquennale, quando non vertevano su questioni specialistiche, erano per lo più frutto di osservazioni svolte da occasionali visitatori, in cui le impressioni, le intuizioni, le analogie, le assonanze non sempre erano filtrate da criteri interpretativi logici e razionali. Nel caso dell’agricoltura, invece, i testimoni sono per lo più professionisti dell’informazione e questo comporta, anche quando le loro opinioni divergono profondamente, una attenzione alla logica e alla concatenazione dei fatti oltre che a un giudizio di adesione o di distacco dalle vicende osservate. Tanto il giustificazionismo assoluto di Duranty che quello più ‘storico’ e al contempo più rispettoso della verità degli eventi di Fischer, danno il loro contributo a creare i diversi pezzi di quel puzzle descrittivo del processo di collettivizzazione che per i contemporanei assumeva spesso le fattezze di un rebus. Né le più precise e articolate analisi di Lyons o Chamberlin apparivano allora migliori o più veritiere, viziate com’erano — soprattutto agli occhi dei più tenaci ‘amici’ dell’Urss — da un capovolgimento di giudizio e di fede politica che, in quegli anni, comportava spesso riserve e pregiudizi quando non aperta calunnia. D’altra parte le corrispondenze così pervicacemente staliniste della Strong o quelle, più ingenue e romantiche ma pur sempre filosovietiche, di Hindus, erano spesso quelle che meglio riuscivano ad offrire una sensazione ‘genuina’ dei sentimenti e dei modi di pensare che agitavano le campagne sovietiche, prive di quell’astio anticontadino che traspariva in genere dalla cultura profondamente urbana e industriale di tutti gli altri giornalisti.
Non è un caso comunque, che il più coerente tentativo di istituire un confronto tra America e Urss sia stato compiuto in un sag
gio noiosamente analitico e scientifico da una persona lontana, fisicamente ed emotivamente, dalle drammatiche trasformazioni delle campagne russe. Ciò che offre questo confronto, e tutto il saggio in cui compare, è un freddo elenco di fatti: che non riesce a nascondere, però, un giudizio contraddittorio e irrisolto, perennemente in bilico tra un’immagine di progresso e una di arretratezza, di diversità positiva e di negativa alterità: “Il contrasto tra l’agricoltura in Urss e in America è impressionante. Villaggi collettivi di proprietà statale dominano la prima; isolate fattorie individuali la seconda. La Russia ha un numero tre volte maggiore di aziende collettivizzate di quante noi ne abbiamo individuali. Sotto i sovietici l’agricoltura è pianificata e regolata per i bisogni, ed essi possono così evitare le crisi che colpiscono i nostri contadini. Un terzo delle fattorie collettive usa trattori mentre solo un quinto dei nostri agricoltori li usa. Hanno assicurazioni statali per il raccolto; i nostri agricoltori ogni volta rischiano. I loro villaggi hanno numerose istituzioni moderne come asili nido, scuole materne, ospedali, ecc., che solo raramente sono disponibili agli agricoltori americani. Il contadino socializzato lavora per la comunità e dipende da essa; l’agricoltore americano lavora per se stesso ed è indipendente, eccetto per i sussidi pubblici. Lo standard di vita del più povero agricoltore americano, comunque, è più alto di quello del contadino russo. La sorte di quest’ultimo è legata ad una situazione di rozzezza medievale e ad una orribile povertà, in contrasto con la modernità e la relativa ricchezza di quello americano. Stalin lo ha puntualizzato con precisione quando ha detto che il muzik è circa un centinaio di anni dietro di noi”37.
Marcello Flores
37 N. Sims, Socialistic Agriculture, cit., pp. 65-66.