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Enrico Ferri
La democrazia ateniese e i suoi critici
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Di nessuno [i Greci] si dichiarano
schiavi, di nessun uomo sudditi
Eschilo, I Persiani
La democrazia antica, i suoi critici, la sua attualità
Il nuovo corso di Filosofia del diritto è dedicato alla democrazia antica, in modo
specifico alla democrazia ateniese del V° secolo a. C., considerata tanto una teoria
politica e giuridica che come un sistema operativo che ha regolato la vita della
comunità ateniese per quasi due secoli. La democrazia antica, pertanto, viene
analizzata con un approccio filosofico, ma pure storico, negli anni e nel contesto
geografico in cui si attuò, attraverso le vicende di politica interna ed internazionale
che ne caratterizzarono gli sviluppi e le crisi.
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La prospettiva di riferimento è assai ampia, ma la dimensione storica verrà
considerata in modo marginale, seppure non superficiale, per permettere allo studente
di “inquadrare” i problemi e capirne le premesse e i nessi, in quanto la democrazia
non appartiene solo alla storia delle idee, ma pure e soprattutto alle vicende di uomini
e comunità che ne furono gli artefici e i difensori.
La civiltà greca è stata definita una “civiltà della parola” nella quale l’analisi e il
confronto delle idee hanno avuto un ruolo fondamentale. Non è un caso se la filosofia
è, come la democrazia, un’ “invenzione “ dei Greci. Nella democrazia il confronto e
lo scontro dialettico è fondamentale perché sta alla base dello stesso processo
decisionale. Nell’assemblea, che è il luogo simbolo per eccellenza della democrazia,
si arriva a decidere sulle varie questioni che riguardano la vita della città attraverso
prassi simili a quelle del processo giudiziario: almeno due tesi, due opzioni diverse si
confrontano e attraverso la discussione si definiscono le posizioni; spetterà poi al
“giudice”, i politai, i cittadini presenti rappresentanti di tutta la comunità , decidere,
scegliere.
La democrazia greca, in particolare quella della città leader dei democratici, Atene,
manca di una vera e propria teorizzazione, almeno manca quella che può definirsi una
“teoria democratica della democrazia”, cioè di uno o più testi che ne definiscano le
caratteristiche distintive, i principi di riferimento e le regole del suo funzionamento,
elaborati da un filosofo o da uno storico, da un intellettuale di simpatie democratiche.
Questa tesi ampiamente diffusa e ripresa da più autori come il Musti, in realtà va
almeno parzialmente corretta, nel senso che ci sono due documenti, seppure di taglio
completamente diverso, che possono essere considerati due esempi di un’apologia
della democrazia. Il primo è il celebre encomio proferito da Pericle in occasione della
celebrazione dei caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso. L’encomio è
riportato in Tucidide, che non assistette personalmente alla cerimonia, ma che
secondo molti studiosi ha riportato nella sostanza , se non nella forma, il discorso di
Pericle. Un encomio, non una teoria, che però dà un’immagine a tutto tondo dello
stile di vita dell’uomo democratico, di molti aspetti della sua vita pubblica, come
privata. Un altro documento significativo è il discorso di Protagora che troviamo
nell’omonimo libro di Platone, un discorso che apparentemente verte su una
questione diversa , specifica, come è quella della insegnabilità della tecnica politica.
Rispondere positivamente a questa questione, come fa Protagora, significa ammettere
in modo incontrovertibile che ogni persona può essere educata ad essere un buon
cittadino, ad amministrare la cosa pubblica, a partecipare alla vita della città, a dare
un suo contributo peculiare. Un’uguaglianza tra i cittadini sancita nel segno della
competenza politica e della partecipazione alla vita della città, che sta alla base della
concezione democratica. Uguaglianza che è il principale tratto distintivo della
democrazia , che riconosce a tutti i politai il diritto/dovere di partecipare alla gestione
della città e di determinare l’indirizzo politico della stessa, attraverso la presenza
all’assemblea, dove si definisce la volontà dei cittadini. Esiste un metodo di elezione
dei magistrati, possibile solo in democrazia, quello del sorteggio che presuppone il
riconoscimento che , almeno per certi incarichi, tutti i cittadini hanno la competenza
necessaria per esercitarli. Naturalmente non bisogna enfatizzare questi dati, ad
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esempio quella della competenza riconosciuta a tutti i cittadini. Sia perché le cariche
che richiedevano competenze tecniche specifiche, come quelli militari, non erano
sottoposte a questa prassi, sia perché molte magistrature, come quella di giudice,
venivano esercitate attraverso organi collegiali che ridimensionavano i limiti dei
singoli. Nel testo di Platone, che riporta la teoria di Protagora non si parla di
democrazia, almeno apparentemente. Si discute, però, della possibilità di insegnare, e
quindi di apprendere, la virtù o arte politica. Come dire , giudicare se ogni persona
potrebbe essere un buon cittadino, cioè sotto un’ altra prospettiva valutare se può
esercitare i diritti /doveri del cittadino, che è proprio quanto la democrazia, già nel
nome declina. La principale rappresentazione della democrazia, così come viene
prospettata da spiriti democratici come il siracusano Atenagora, consiste
nell’affermare che solo in democrazia non si ha un governo di una parte, ma è la
comunità politica a governare nel suo insieme1.
L’uguaglianza democratica nella formulazione protagorea , per quanto possa apparire
teorica e generale, di fatto rispecchia l’ordine e le gerarchie della democrazia
ateniese. La democrazia ateniese è egualitaria solo a un livello di base, nel senso che
riconosce tutti i cittadini capaci di esercitare le funzioni essenziali della cittadinanza
che garantiscono la vita della città, ad esempio la funzione di provvedere alla difesa,
quindi alla conservazione della stessa comunità cittadina. Allo stesso tempo riconosce
il merito, le eccellenze e di conseguenza contempla la selezione e l’assegnazione
delle magistrature più importanti ai migliori, come nel caso delle strategie, dei
comandi militari di vertice, nell’esercito e nella flotta. Il sistema militare è un buon
esempio di questo doppio livello , che coniuga l’uguaglianza di base nella falange
oplitica, con la selezione dei migliori e il riconoscimento delle eccellenze individuali
nelle scelta dei comandanti e degli ufficiali.
La democrazia ateniese si afferma in un contesto fortemente conflittuale, minacciata
al suo interno tanto dalla fazione oligarchica che dagli stessi capipopolo, dai
demagoghi visti come aspiranti alla tirannide attraverso il popolo. L’istituto
dell’ostracismo, simbolo della democrazia e ideato da Clistene, appare come una
sorta di censura preventiva che mirava a inibire sul nascere, spesso con una sorta di
processo alle intenzioni, qualsiasi aspirazione ad una posizione egemone.
Allo stesso tempo la democrazia ateniese, poco dopo la sua costituzione, alla sua
nascita “ufficiale” con la riforma di Clistene nel 508 a.C., si trova a dover affrontare
una grave minaccia esterna, quella di un impero continentale, l’impero dei persiani
che dominavano tutta l’Asia e che per ben due volte tentano di invadere la Grecia e di
distruggere Atene, la prima volta nel 590 a.C. e la seconda 10 anni dopo, nel 580 a.C.
E’ la milizia democratica e popolare ateniese, prima degli opliti e poi dei marinai, che
dà un contributo essenziale alla vittoria contro il “barbaro”. E’ un esercito di popolo,
fatto da cittadini, quello che ha la meglio sugli eserciti fatti di sudditi del Gran Re.
Tanto i nemici esterni della democrazia, quanto e soprattutto i nemici interni, la
combatteranno non solo con le armi ma anche con la polemica politica e la critica
filosofica. La democrazia saprà resistere e reagire, tanto sul piano militare che 1 “E io dico che è chiamato “popolo” il complesso dei cittadini, mentre è chiamata oligarchia solo una parte”, Tucidide,
Vi, 39.
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politico, costituendo un modello di riferimento che attraverserà i secoli e
condizionerà tutta la modernità, a partire dalla rivoluzione francese a quella inglese
ed americana, divenendo il regime da tutti riconosciuto come la più alta espressione
della libertà e il meglio in grado di garantire l’uguaglianza tra le persone che
costituiscono una comunità politica. Studiare e comprendere la democrazia significa
non solo capire un lontano regime che si perde nella storia più lontana dell’Europa,
ma pure le categorie, i principi e le modalità operative della democrazia
contemporanea di cui quella antica ha definito e tracciato le coordinate di riferimento.
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Il lupo e il barbaro: antropologie politiche
Ogni teoria politica, ogni filosofia della polis e dello Stato, ha alla base o, in modo
più o meno diretto, sottintende un’antropologia, cioè una certa visione dell’uomo, dei
suoi caratteri, della sua “natura”. Potremmo dire, in altri termini, che ogni teoria
dell’uomo come soggetto pubblico ne implica un’altra che considera lo stesso come
soggetto privato, individuo. Allo stesso modo, quando l’individuo appare con
determinati caratteri (ad esempio l’aggressività o, al contrario, la socievolezza), di
questi caratteri occorrerà tener conto nel momento in cui si tratterà di stabilire le
regole della società e della politica. Nell’ambito dell’antropologia politica esistono
varie teorie, ai due estremi, però, ci sono due concezioni tra loro opposte: la prima è
quella che potremmo definire dell’anarchismo, la seconda dello stato assoluto. La
prima è caratterizzata dalla convinzione che ogni uomo è naturalmente socievole e
portato a convivere senza sforzo alcuno, come fosse una pulsione spontanea, con gli
altri uomini. La costituzione della società politica, appare, secondo questa
prospettiva, altrettanto naturale.
Agli antipodi di questa visione c’è quella propria ai teorici dello stato assoluto, che in
Thomas Hobbes hanno il loro maggior rappresentante. Allo stesso tempo dobbiamo
ricordare che tale concezione è alla base della filosofia giuridica e politica dello Stato
moderno. Per più versi all’origine dello Stato moderno.
Secondo Hobbes l’uomo è naturalmente insocievole, è assimilabile piuttosto ad un
lupo che si relaziona con gli altri uomini allo stesso modo di una belva. E’ notissima
la sintesi che Hobbes fa di questa particolare concezione: “homo, homini lupus”.
Sembra, pertanto, che la condizione naturale dell’uomo non sia la pacifica
convivenza, piuttosto una guerra permanente di tutti contro tutti: bellum omnium
contra omnes. Sembra che l’uomo nel suo stato originario sappia solo aggredire.
Poiché questa tendenza è generalizzata, gli uomini nella condizione originaria
passano il tempo ad aggredire e/o ad essere aggrediti.
Mentre in quella che ho definito la visione anarchica, la società civile e la civiltà,
sono quasi il risultato di una tendenza innata nell’uomo, nella visione autoritaria la
società civile, lo Stato, devono essere costruiti, non assecondando la natura umana,
ma piuttosto contrastandola e creando una condizione alternativa, artificiale, in grado
di contrastare e piegare le naturali ed aggressive “pulsioni” degli individui, quelle che
Hobbes chiama “passioni”. Lo Stato per Hobbes appare una realtà del tutto artificiale,
costruita attraverso il calcolo per fini utilitari, cioè per garantire una convivenza meno
rischiosa ed incerta.
Thomas Hobbes contesta in modo diretto l’antropologia politica di quelli che
considerano l’uomo uno zoon politikon, cioè naturalmente socievole. Nella
prefazione aggiunta alla seconda edizione del De Cive leggiamo: “ (…) stabilisco in
primo luogo, come principio noto a tutti per esperienza, e da tutti ammesso, che
l’indole naturale degli uomini è tale che, se non vengono trattenuti dal timore di una
potenza comune, diffidano l’uno dell’altro, e si temono a vicenda; e che, potendo
legittimamente provvedere a se stessi con la propria forza, ne hanno necessariamente
la volontà. Mi obietterete, forse, che alcuni lo negano: e, in effetti, sono moltissimi a
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negarlo. Forse, allora, mi contraddico affermando che le stesse persone ammettono e
negano la stessa cosa? Non io, certamente; ma quelli che negano a parole quanto
ammettono con le azioni. Vediamo infatti che tutti gli Stati, anche quelli che si
trovano in pace con i vicini, proteggono i propri confini con presidi militari, e le città
con mura, porte e sentinelle. A che scopo, se non temessero i loro vicini? Vediamo,
inoltre, che negli stessi stati, in cui sono istituite leggi e pene contro i malvagi, i
singoli cittadini non si mettono in viaggio senza un’arma per difendersi e non vanno a
dormire senza avere serrato non solo gli usci contro i concittadini ma gli armadi e i
cassetti contro i domestici. Potrebbero gli uomini affermare più apertamente che
diffidano tutti l’uno dell’altro?”.
E’ evidente che Hobbes accusa quanti sostengono la natura socievole dell’uomo di
negare nella pratica ciò che sostengono in teoria, cioè di cadere in una evidente
contraddizione. Alla fine dei conti, i comportamenti smentiscono tutte le
dichiarazioni di principio.
Sempre nel De Cive, nel secondo paragrafo del primo capitolo leggiamo: “La
maggior parte di coloro che hanno trattato delle repubbliche, suppongono, o
pretendono, o postulano, che l’uomo sia un animale atto per nascita alla società. I
greci dicono ζϖον πολιτχόν” e su questo fondamento edificano la dottrina civile,
come se per conservare la pace e governare l’intero genere umano non occorresse
altro che il consenso degli uomini riguardo a certi patti e condizioni, che chiamano
senz’altro leggi. Questo assioma, sebbene accolto da molti, è falso; e l’errore è
derivato da una considerazione troppo superficiale della natura umana”.
Il titolo del primo capitolo del De Cive è Libertas. La libertà di cui parla Hobbes è
sinonimo di “stato di natura”, cioè di guerra. L’uomo assolutamente libero è
l’individuo originario, non soggetto all’autorità dello Stato, svincolato di fatto da ogni
legge, da ogni norma ragionevole che gli garantirebbe una vita meno rischiosa e
precaria. In realtà l’uomo naturale non è un bruto, ma un individuo capace di
ragionare, di valutare ciò che gli converrebbe fare per uscire dalla condizione di
precarietà e di guerra. Nello stato di natura ci sono, infatti, le leggi di natura, che altro
non sono che leggi di ragione. La prima è la legge che dice “la pace è buona e
bisogna cercare la pace”. Ma le leggi naturali non sono sufficienti ad ottenere ad a
conservare la pace. Senza un’autorità che “costringa” gli uomini a vivere in pace,
però, non si può ottenere niente perché “auctoritas non veritas facit legem”; in altre
parole, le leggi sono rispettate non perché sono vere ma perché l’autorità le impone.
Lo Stato di natura è la condizione della libertà e della guerra, si diceva. Libertà,
pertanto, è sinonimo di conflittualità, l’uomo libero è come il lupo che non ha freni e
vincoli ed asseconda i suoi impulsi naturali aggredendo gli altri, per soddisfare i suoi
desideri, per assicurarsi una proprietà, per dominare gli altri. Ma tutte le sue
conquiste sono precarie, costantemente minacciate dalle altrui pretese, dall’altrui
aggressività.
Poiché la pericolosità e la precarietà di una simile situazione col tempo diventa
insostenibili, gli uomini si accordano fra di loro, facendo un patto che allo stesso
tempo è di unione e soggezione.
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Questo patto segna per un verso la fine della libertà dell’individuo, comunque un suo
drastico ridimensionamento, e per un altro verso la nascita dello Stato “per
istituzione”, così descritta nel Leviathan2 “ La sola via per erigere un potere comune
che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e dalle
ingiurie reciproche (…) è quella di conferire tutto il loro potere e le loro forza ad un
uomo o a un’assemblea di uomini”. E più avanti : “ … è un’unità reale di tutti loro in
una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in
maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro,io autorizzo e cedo il mio diritto
di governare me stesso , a quest’uomo o a questa assemblea di uomini a questa
condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera
simile. Fatto ciò , la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno
STATO, in latino CIVITAS”.
La nascita di una realtà artificiale, lo stato, porta con se la nascita di un uomo
artificiale, il cittadino o il suddito, la cui attività non è regolata dai suoi bisogni e
dalle sue passioni, ma dalle leggi. Queste stabiliscono i limiti delle sue azioni e lo
costringono a comportarsi in modo conforme, con le pene che hanno uno scopo
dissuasivo, prima, e punitivo all’occorrenza. O meglio, attraverso la costante
erogazione delle pene si esercita, allo stesso tempo, un’azione dissuasiva.
Questa visione del diritto, ed allo stesso tempo dell’uomo, influenzerà tutta la cultura
moderna, che fino a buona parte del XX secolo considererà il diritto fondato sulla
coazione, secondo il dettato kelseniano che potremmo liberamente tradurre in questi
termini: “Se non rispetterai A (norma) subirai B (pena)”. Il modello di riferimento è il
“bad men” che si comporta “bene”, nel rispetto delle norme, solo se intimorito dalla
minaccia di una punizione, perché sa, si potrebbe aggiunger, parafrasando Hobbes,
che la pena minacciata sarà poi effettivamente applicata.
A quasi tre secoli di distanza, Sigmund Freud ritornerà su una serie di questioni poste
da Hobbes, quando descrive i caratteri dell’uomo come naturalmente aggressivi, al
punto da impedire la piena soddisfazione di impulsi altrettanto innati e presenti, come
quello a vivere in pace e nella sicurezza, fagocitati dai primi. A partire dal 1915, con
lo scritto Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, poi con Il disagio della
Civiltà, nel 1929 ed infine nella corrispondenza con Einstein, nel 1932, Freud ritorna
costantemente sul tema della guerra, di come spiegare, dal punto di vista della
psicoanalisi, le ragioni della guerra, di come rispondere alla domanda “Perché la
guerra?”, la stessa che gli pone Einstein.
Questa domanda, però, viene implicitamente riformulata in una prospettiva
individuale, prima che sociale, come se fosse : “Cosa spinge l’uomo alla violenza ed
alla guerra?” . Viene posta come un problema di antropologia, seppure poi analizzato
con gli strumenti della psicoanalisi.
“La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata e ci ha portato… la delusione”,
scrive Freud nel 19153 e, nello stesso saggio così argomenta questa delusione: “Dalle
grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo , nelle cui mani è affidata la
2 Leviatano, cap XVII
3 FREUD, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Il disagio della civiltà e altri saggi , trad.it. Torino 1982,
p.38,
9
guida del genere umano (…) ed a cui erano dovuti i progressi tecnici per il dominio
della natura, oltre a tanti altri valori culturali, artistici e scientifici, da questi popoli
almeno era legittimo attendersi che giungessero a risolvere per altre vie i loro
malintesi ed i loro contrasti di interessi”4. Lasciando da parte, almeno in questa
occasione, il non secondario afflato razzistico che promana da questa pagina, a partire
dal quale si legittima il colonialismo, sulla base di una presunta superiorità delle
“grandi nazioni di razza bianca”, occorre sottolineare che la questione che Freud pone
riguarda l’incapacità da parte dell’uomo evoluto e civilizzato, l’uomo della
modernità, di rimuovere la guerra dalla sua vita e dalla sua storia. Di dirimere le sue
dispute in via pacifica, senza distruggere altre vite, senza auto-distruggersi.
Le due questioni, della violenza collettiva come dell’aggressività individuale,
vengono poste una accanto all’altra da Einstein, che nel 1932 si rivolge a Freud in
questi termini: “C’è un modo di liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?” ed
allo stesso tempo si domanda se “...l’uomo ha dentro di se il piacere di odiare e
distruggere”. Freud risponde con una spiegazione che discende direttamente dalla
“Teoria delle pulsioni”, presentata in questi termini: “ Noi presumiamo che le
pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare ed
unire-da noi chiamate sia erotiche (…) che sessuali (…) e quelle che tendono a
distruggere ed a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione
di pulsione aggressiva o distruttiva. Lei vede che propriamente si tratta solo della
delucidazione teorica della contrapposizione fra amore ed odio, e che forse include la
polarità di attrazione e repulsione”5.
La pulsione aggressiva, definita anche come “pulsione di morte”, ha una doppia
azione, all’interno e all’esterno dell’individuo: “ essa è all’opera all’interno di ogni
essere vivente e la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo
stato di materia inanimata”6 In tal modo Freud si ricollega al tema centrale di un suo
saggio, elaborato un decennio prima, a poco di due anni dalla fine della prima guerra
mondiale, in Al di là del principio del piacere: il fine ultimo della vita non è la ricerca
del piacere, ma tornare ad uno stato di quiete primordiale, alla pace della materia
senza vita. Per un altro verso la pulsione di morte, con la sua immutata carica
distruttiva, si volge verso l’esterno, verso il mondo umano.
La questione che però Freud non discute in modo esteso in questa breve lettera e che
appare un tutt’uno con quanto appena detto è la seguente: “ Perché l’uomo civilizzato
non è capace di controllare e mettere a tacere questa pulsione aggressiva?”.
Freud risponde a questo quesito tanto nello scritto del 1915 che ne Il disagio della
civiltà , ancora una volta a partire dalla “Teoria delle pulsioni” e della “ambivalenza
emotiva”, cioè della compresenza di pulsioni erotiche e pulsioni di morte, aggressive,
tanto verso se stessi che verso gli altri.
L’analisi è per più versi hobbesiana, seppure svolta attraverso la psicoanalisi. La
condizione originaria dell’uomo, come lo “stato di natura” di Hobbes, per Freud vede
l’affermazione piena della libertà individuale, libertà di esprimer tanto le pulsioni
4 Ivi, p.36
5 Ivi, p.293
6 Ivi, p.295
10
erotiche, “altruistiche”, aggregative, socievoli, che le pulsioni legate a Tanathos, le
pulsioni di morte, egoistiche, disgreganti, generatrici di conflitto.
La condizione originaria è una realtà di piena realizzazione individuale, nessuna
pulsione viene inibita, l’alienazione, cioè la dissociazione non esiste. Piena
realizzazione, assoluta libertà, ma allo stesso tempo condizione insostenibile di
precarietà e di ansia. Allo stesso modo di Hobbes , Freud sostiene che allorquando gli
individui non hanno remore nell’esprimere la loro aggressività si crea una situazione
di conflittualità generalizzata e permanente. Quindi di pericolo, di precarietà e di
ansia. Lo stesso esercizio della libertà è costantemente messo in forse e minacciato
dall’altrui pratica della libertà, che si traduce in aggressione. Quindi l’individuo,
spinto dall’esigenza di autoconservazione, dal “principio di realtà”, preferisce
rinunciare al pieno esercizio della libertà per goderne, però, in modo pieno la parte
che gli resta.
In altri termini, l’individuo accetta di inibire le sue pulsioni aggressive in cambio di
una convivenza pacifica, della possibilità di vivere senza minacce, ecc. Ma per far
questo basta una decisione, un atto di volontà? No di certo. Gli individui creano una
serie di antidoti all’aggressività: lo stato, il diritto, la morale, la religione,
l’educazione: in una parola la Civiltà. Le pulsioni aggressive vengono imbrigliate,
controllate, inibite, sublimate. I comportamenti non conformi vengono puniti con la
censura sociale, con le pene, con l’isolamento.
Come spiegare, allora, il costante riemergere delle pulsioni di morte? La risposta
viene data già nel 1915 e poi riconfermate nel corso delle opere successive. In questi
termini: “quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro”7
In questo modo, a partire da una prospettiva psicoanalitica, è fondata una visione
negativa, un’ “antropologia negativa”: l’uomo non è portato naturalmente alla
convivenza, ci deve essere costretto attraverso un artificio. Nonostante l’uomo abbia
bisogno di tranquillità , di pace, di stabilità, non riesce mai a stabilire una condizione
simile perché la sua aggressività primordiale costantemente riemerge.: non è mai del
tutto eliminabile perché fa parte della natura umana. Paradossalmente la civiltà crea
“disagio” perché inibendo la “pulsione di morte” soffoca la una componente della
psiche che esiste e vuole manifestarsi, secondo un impulso primordiale. Pessimismo
antropologico, appunto. Di un uomo, di uno studioso che usciva da un’esperienza
traumatica, quella della prima Guerra mondiale, che sembrava aver rimesso in
discussione tutte le acquisizioni di una plurimillenaria civiltà. Hobbes, dopo aver
descritto la nascita dello Stato, come artificio per raggiungere una condizione di pace,
più o meno duratura, allo stesso tempo sottolinea come le relazioni che intercorrono
fra gli stati sovrani sono le relazioni tipiche dello “stato di natura”, che , come
sappiamo, è un status in cui vige il “diritto di natura”, cioè la guerra, anche quando
non è dichiarata e combattuta in modo manifesto, è continuamente minacciata. Tant’è
che Hobbes ritiene la guerra come una condizione naturale, mentre la pace è descritta
come un “intervallo” tra le guerre. Ogni Stato, infatti, essendo sovrano, non riconosce
nessun potere a se superiore, così come avviene fra gli individui nello “stato di
7 Ivi, p.46
11
natura”. Quest’ultimo, infatti è definibile come la condizione in cui “manca un potere
sovrano”. Se gli stati fossero governati da un potere sovrano, in grado di dirimere,
anche con la forza, le loro contese non sarebbero più detentori di un potere sovrano,
assoluto. Sarebbero sudditi di questo potere che li ridurrebbe a sue dipendenze. Allo
stesso modo Freud, non solo sostiene che l’aggressività tra gli individui e gli stati è
ineliminabile, ma pure che per rendere accettabile e giustificabile le propria
aggressività, la distruzione dell’altro, in parole povere l’omicidio, occorre dimostrare
che il nemico è un pericolo ed una minaccia, per le nostre vite e la nostra civiltà, che
la sua uccisione è solo un atto di legittima difesa. Scrive Freud: L’antropologo è
indotto a dimostrare che l’avversario è un essere inferiore e degenerato, lo psichiatra
a diagnosticare in lui perturbazioni dello spirito e della mente”. L’aggressività ed il
tentativo di ridurre l’altro a “lupo” e a “barbaro”, per giustificare la stessa
aggressività, sembrano essere tratti della psiche e della condotta umana ricorrenti nel
tempo e nello spazio umano.
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Democrazia e visione scettica del potere
Poiché la democrazia è stata una “invenzione dei Greci” – della città che meglio li
rappresenta, Atene – che furono i primi a costituire governi democratici, ma pure a
fornire una fondamentale analisi e giustificazione teorica della democrazia, dei suoi
principi e dei suoi presupposti “antropologici”, è a questa prassi e teoria politica che
voglio essenzialmente riferirmi.
Una prima descrizione di quelli che sono le regole di sistema, di funzionamento, i
caratteri distintivi della democrazia greca la troviamo in Erodoto8. In pagine celebri
Erodoto riporta il dialogo fra tre nobili persiani sulla forma di governo da adottare
dopo la morte di Cambise e l’uccisione del mago Smerdi, che attraverso una congiura
di palazzo si era proclamato re, spacciandosi per Smerdi/Bardiya figlio di Ciro e
fratello di Cambise, prendendo il posto del vero Smerdi ucciso segretamente da
Cambise9.
Nonostante i forti dubbi sulla veridicità storica dell’episodio10
, il confronto retorico
fra Otane, Megabizo e Dario per stabilire quale sia la migliore forma di governo per
8 ERODOTO, III, 81-83
9 Ivi, II, 61 e ss.; P. BRIANT, Historie de l’Empire perse, Paris, 1996, pp. 109-119 10
Il confronto dialettico sulle forme di governo, riportato da Erodoto e attribuito a tre persiani,
cronologicamente collocato nel 522, dopo la morte di Cambise, sembra per più versi inverosimile.
Ancor meno credibile appare la proposta di uno dei tre dialoganti di adottare la democrazia come
forma di governo dell’impero persiano. Dopo un breve periodo di conflitti interni, terminato il 29
settembre 522 a.C. in una fortezza della Media, dove sette nobili persiani assassinano il re Smerdi,
accusato di essere un usurpatore, ascende al potere uno dei sette congiurati con il nome di Dario.
Quest’ultimo, in conformità con la tradizione dei suoi predecessori Cambise e Ciro il Grande,
ribadirà costantemente nei 36 anni del suo regno l’origine divina ed il carattere universale della sua
regalità. Scrive Emile Benveniste nel secondo volume de Le vocabulaire des insitutions indo –
européennes , a proposito della regalità iranica: “L’Iran è un impero e la nozione di sovrano non ha
niente in comune con quella di rex. Essa si enuncia col titolo […] Re dei re; questo titolo designa il
sovrano come colui che è investito dal potere regale del xšay. Ora, un epiteto del re achemenide,
vazzaka, che può significare anche il dio Ahura Mazdà e la terra, rivela che il potere del re è di
essenza mistica”. Qualche pagina più avanti Benveniste precisa che in questa prospettiva il potere e
il regno si identificano e che la nozione di impero che ne deriva “non è solo politica, ma anche
religiosa”. Nell’iscrizione fatta incidere sulla parete rocciosa di Behistun, vero manifesto della
monarchia achemenide, Dario insiste sul suo rapporto privilegiato con Ahura Mazdà posto
all’origine del suo potere: “Il re Dario dichiara: ‘Grazie a Ahura Mazdà, io sono re; Ahura Mazdà
mi ha accordato la regalità’”. Le due formule “Grazie ad Ahura Mazdà” e “Ahura Mazdà mi dette il
suo aiuto”, da sole o di seguito sono ricorrenti nella descrizione delle gesta di Dario (Les incriptions
de la Perse achéménide, a cura di P. Lecoq, Paris, 1997, p. 187 e ss.).
Quella degli Achemenidi si presenta per più versi come una monarchia di diritto divino dove tanto
la guerra che la pace sono sotto il segno di Ahura Mazdà. A partire da Dario, tutte le campagne
militari hanno una “palese giustificazione religiosa” (P. BRAUT. Darius, la Perse et l’empire, Paris
1992, p. 26 e ss.), ma pure la pax Achaemenidica è presentata dalla propaganda imperiale come
“quella pace universale che era copia dell’ordine cosmico dei Ahura Mazdà”, J. WIESEHÖFER,
Das Frühe Persien. Geschichte eines antiken Weltreichs, München 1999, cap. 1.
La dimensione religiosa dell’impero achemenide e la prospettiva escatologica che investe la terra e
attraverso l’impero si realizza progressivamente, è appena accennata in Erodoto e poi ben descritta
da Plutarco, seppure con categorie greche, in Iside e Osiride, 47 B.
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la Persia, è assai interessante per diversi motivi. Non solo è la prima disputa con
intenti di elaborazione teorica sulle forme di governo che troviamo in un autore
greco, ma pure la sola che ci resta. Il contesto persiano in cui si svolge, fra quelli che
a partire dalle guerre persiane sono considerati i diversi per eccellenza, “i barbari”, e
anche da autori più tardi come Isocrate i nemici naturali (in greco i physei polemioi)
dell’Ellade, può significare che Erodoto consideri monarchia, aristocrazia e
democrazia come forme di governo con caratteri specifici loro propri, di tipo
strutturale, che prescindono dal tempo e dal luogo in cui sono posti in essere. Questo
tipo di ambientazione sembra anche indicare che i Persiani, in quel contesto, erano
chiamati a fare una scelta in base ai risultati, ai valori ed ai diritti che volevano
garantire e non in relazione alla maggiore aderenza della forma di governo con la
tradizione e il “carattere” dei persiani stessi.
La scelta della forma di governo, pertanto, si configura nel testo di Erodoto come una
scelta di valori attraverso un’analisi razionale. In Grecia è diffusa l’idea che i singoli
popoli abbiano caratteri e tradizioni loro proprie che influenzano le scelte di governo,
ma pure che “buone leggi”, formino buoni cittadini e uomini valenti. Questa tesi è
speculare all’altra che considera fondamentale per formazione dell’individuo una
paideia, una educazione del corpo e dello spirito capace di fare del giovane una
persona virtuosa, perché ispirata da valori considerati patrimonio condiviso11
.
11
In un piccolo trattato attribuito ad IPPOCRATE, dove è pure presente il dibattito politico del
tempo e la lezione della sofistica, Arie, acque, luoghi, ad un determinismo ambientale che
condiziona certi caratteri “nazionali” si associa un determinismo istituzionale: le condizioni
ambientali influenzano il carattere degli uomini, ma le istituzioni che gli uomini si danno si
ripercuotono, in senso positivo come deletereo, sulle loro attitudini, i loro comportamenti. L’autore
del trattato sostiene che gli asiatici sono molli, indolenti, privi di “ardimento e coraggio” a causa
dell’uniformità del clima, dalla fertilità del territorio che produce copiosamente frutti e permette un
diffuso allevamento del bestiame: “il valore però e la resistenza alla fatica e l’operosità e l’elemento
irascibile direi che in tale natura non si possono trovare” (ivi, cap. 12). Infatti “sono i mutamenti, in
qualsiasi cosa, che tengono sveglia la mente e non le permettono di restare inattiva (ivi, cap. 16).
Qualche pagina più avanti si riprende e si completa questo tipo di giudizio: “La costante uniformità
implica indolenza, mentre il mutamento implica sforzi, per il corpo e per l’anima; dalla tranquillità
e dalla indolenza riceve impulso la viltà, dalla fatica e dai travagli nascono gli atti di valore”. Ma
subito dopo si aggiunge: “Per questo dunque gli abitanti dell’Europa sono più combattivi, e anche
per le istituzioni politiche, visto che non sono soggetti a re come gli asiatici. Dove si è assoggettati
si è necessariamente assai vili […] Gli animi sono ridotti in schiavitù e rifiutano di correre rischi, di
propria iniziativa e spontaneamente, per la potenza di un altro. Chi invece è indipendente (e perciò
affronta i pericoli a proprio vantaggio e non per altri), coraggiosamente di propria volontà va
incontro al pericolo, è lui stesso che riporta il premio della vittoria. È così che le istituzioni politiche
influiscono sul valore in maniera non trascurabile” (ivi, cap. 23). In chiusura dello scritto l’autore
afferma che le istituzioni politiche possono modificare il carattere “agendo sulla natura”. In questa
ottica il carattere, inteso come capacità di reazione all’ambiente, è determinato dallo stesso
ambiente come pure dalle istituzioni che possono influenzare e modificare il dato naturale.
Si noti che i tratti umani e le attitudini politiche attribuite ai Greci: capacità di reagire ai dati naturali
dell’ambiente, di governare il cambiamento, di darsi da soli le regole che li governano, di essere
liberi ed autonomi, sono alcuni dei segni distintivi dell’uomo democratico, sempre rimarcati dai
fautori della democrazia. La contrapposizione tra il modello culturale, psicologico ed attitudinale
14
Otane, il personaggio persiano fautore della democrazia, alla maniera greca, si
potrebbe dire, argomenta le sue ragioni: la democrazia è da preferire per i valori che
tutela – uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (isonomia) – ma pure perché
appare come il miglior antidoto, il sistema che meglio può prevenire i guasti della
monarchia, la protervia del monarca.
Otane inizia il suo discorso con l’auspicio che i persiani non abbiano più un monarca,
un tiranno che ripeta le gesta di Cambise e del mago usurpatore, il falso Smerdi.
Cambise viene presentato da diverse fonti antiche come un despota che in più
occasioni si era comportato come un folle, crudele verso gli dei e gli uomini. Questo
giudizio è ripreso da Erodoto che lo descrive come uno squilibrato, seguendo una
vulgata diffusa dagli ambienti dell’aristocrazia persiana, che erano stati ostili a
Cambise e dai quali lo stesso Dario, il nuovo re, proviene. L’usurpatore, a sua volta,
il falso fratello di Cambise, è un imbroglione, arrogante e demagogo. La democrazia
si presenta in questo passo di Erodoto, come poi in tutti i teorici e paladini della
stessa, quale forma di governo più capace di altre di opporsi alla principale
caratteristica negativa del potere: la sua concentrazione ed il suo uso indiscriminato
che ne fa uno strumento di oppressione: un’espressione della hybris, della tracotanza
umana.
La concentrazione di tutto il potere nelle mani di uno solo necessariamente lo
corrompe, fosse anche “il migliore degli uomini”, perché gli conferisce un senso di
onnipotenza e di assenza di limiti: al monarca “è lecito far ciò che vuole senza
doverne rendere conto”12
. Concentrazione del potere, uso sfrenato, quindi dispotico
dello stesso, mancata rendicontazione, spiegazione della sua gestione, con
conseguente negazione del valore strumentale del potere, che da un mezzo per
raggiungere obiettivi utili alla comunità politica diventa la proprietà di uno: queste
sono le dinamiche dell’uso autocratico del potere.
In un regime politico dove governa un tiranno i cittadini non possono che essere
schiavi, vittime: “[…] egli sovverte le patrie usanze e violenta le donne e manda a
morte senza giudizio”13
.
Nel governo democratico, invece, il potere è diviso, esercitato a turno; le magistrature
sono affidate per sorteggio; il potere è sottoposto a controllo e l’assemblea dei
cittadini (ekklesia) è l’istanza ultima di decisione. La democrazia “ha il nome più
bello”, “uguaglianza davanti alla legge”, isonomia.
È stato notato che nel logos tripolitikos (sorteggio delle cariche, rendicontazione
dell’esercizio delle stesse, trattazione dei pragmata, gli affari di governo, in ambito
comunitario), “la libertà (eleutheria) non rientra tra gli elementi strutturali della
democrazia a conferma di un dibattito (che Erodoto vuole) ancora acerbo”14
.
Nel breve brano di Erodoto, però, anche se non si parla espressamente di libertà, ad
essa si rimanda in modo inequivocabile, almeno ad una sua fondamentale accezione:
greco ed asiatico è diffusamente visto, sul piano politico, come una contrapposizione fra
democrazia e monarchia autocratica. 12
ERODOTO, III 81-83 13
Ibidem 14
G. CARILLO, Katekein. Uno studio sulla democrazia antica, Napoli 2003, pag. 23, nota 23
15
libertà come liberazione dall’arbitrio del singolo, dalla hybris del potere: un principio
alla base della democrazia antica e moderna15
.
Per bocca di Otane, inoltre, si esprime quella che in un fondamentale studio,
Demokratia. Origini di un’idea, Domenico Musti definisce come “una nozione
tragica del potere”: “La cultura greca avversa il potere, ne ha una nozione tragica o
propriamente demoniaca, e come tale in modi diversi lo esorcizza […] il rapporto
così caratteristicamente negativo, che i Greci hanno con il potere, trova la sua
motivazione nel fatto che la cultura greca è fondamentalmente una cultura della
coscienza. Potere-coscienza è la grande polarità che attraversa la storia delle società
organizzate, una polarità riconducibile in parte alla dicotomia tra ciò che è ufficiale e,
in senso generale, pubblico, e ciò che è sensibilità, reattività, resistenza
individuale”16
.
In un’altra invenzione del genio greco, la tragedia, è pure presente la riflessione sulla
natura del potere, sulle sue insidie17
, sulla dimensione tragica ad esso latente18
, sulla
sua contiguità alla violenza e alla tracotanza (bia e hybris), sulla sua incostanza ed
aleatorietà, sul dissidio tra coscienza personale e pretese egemoniche di un potere che
spesso si presenta senza leggi e senza freni.
Il genere tragico, “per una coincidenza che non può essere attribuita al caso”19
, si
sviluppa nel periodo del massimo fulgore dell’Atene democratica, i circa ottanta anni
compresi fra la vittoria di Salamina su Serse e la fine della guerra del Peloponneso
(480 battaglia di Salamina, 472 rappresentazione dei Persiani di Eschilo, 401 morte
di Euripide, 402 morte di Sofocle, 401 resa di Atene e fine della guerra con Sparta).
Dal brano in cui Erodoto riporta la disputa di Otane, Megabizo e Dario, assieme alla
visione tragica del potere emerge pure una valutazione a dir poco scettica delle
possibilità, anche per “il migliore degli uomini” di essere un buon governante, se il
suo dominio è assoluto, non sottoposto a controlli e verifiche. È questo un altro
giudizio diffuso nella democrazia, non solo antica: un regime che pone nelle mani di
uno solo un potere monopolistico e gestito in maniera autocratica, senza limiti e freni
istituzionali, provoca l’infelicità del maggior numero di cittadini.
Mentre il tipo d’uomo che esercita i suoi diritti politici, in democrazia è ritenuto
determinante per il buon funzionamento del sistema politico20
, la monarchia associata
15
Sulle dimensioni della violenza nel pensiero greca si veda, F. D’AGOSTINO, Bia, violenza e
giustizia nella filosofia e nella letteratura della Grecia antica, Milano, 1983 16
D. MUSTI, Demokratía. Origini di un’idea, Roma, 2006, p. 93 17
Nella tragedia è ricorrente la situazione per cui un uomo pensa di poter trionfare nel momento in
cui sta per cadere in rovina. Sul tema J. DE ROMILLY, La tragédie grecque, Paris, 1970, cap. III 18
Nota sempre la De Romilly, in conclusione del suo studio appena citato: “Due grandi famiglie di
eroi dominano la tragedia quella dei Atridi e quella dei Labdacidi. Ed entrambe generano una serie
di crimini mostruosi”. 19
Così la de Romilly, nell’introduzione a la La tragédie grecque. 20
Si veda, ad esempio, il richiamo di Pericle alla responsabilità ed all’impegno personali degli
Ateniesi nel celebre discorso dopo lo scoppio della pestilenza, riportato in TICIDIDE, II, 60-64.
Protagora, “impegnato a costruire una difesa della democrazia che è l’ultima argomentazione
sistematica a favore di quest’ultima che dall’antichità sia giunta sino a noi” (così E. MEIKSINSI
WOOD, “Schiavitù e lavoro”, p. 623 in I Greci, I, Torino 1996) incentra tutto il suo dialogo con
16
spesso alla tirannide, al suo modello orientale, è considerata, a prescindere dalla
figura del sovrano, un regime istituzionalmente, per sua congenita natura,
prevaricatore21
.
Socrate, riportataci da PLATONE, Protagora, 323 c e ss., sull’insegnabilità della virtù e dell’arte
politica. DIODORO SICULO, Biblioteca storica, XII, 12, riporta la notizia che a Turi, sarebbe stata
istituita da parte dello stato un’ istruzione pubblica a favore dei bambini di famiglie indigenti,
stipendiando dei maestri (didáskaloi) con denaro pubblico. Per un’introduzione al tema
dell’educazione dei giovani negli anni della democrazia periclea, R. FLACELIÈRE, La vie
quotidienne en Grèce au siècle de Périclès, Paris 1994, cap IV; l’autore ricorda come ad Atene lo
stato si occupasse del mantenimento degli orfani dei caduti in guerra, garantendo la loro educazione
retibuendo maestri privati. 21
Sulla genesi etica e psicologica del tiranno, sul lato oscuro del potere, pagine celebri sono state
scritte anche da filosofi; si ricordi la rappresentazione che Platone dà del tiranno, Repubblica, 565d
– 566a; la parte centrale del V libro della politica di Aristotele ed il presunto dialogo tra Simonide e
Ierone, attraverso cui Senofonte descrive la vita e la psicologia del tiranno. Sul tema, D. LANZA, Il
tiranno e il suo pubblico, Torino, 1977
17
Democrazia come affermazione piena della libertà
Erodoto dice, attraverso Otane, che la democrazia ha “il nome più bello”, isonomia,
uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La democrazia ha un altro nome
bellissimo con il quale si identifica, è sinonimo di libertà. Essa è la condizione per
eccellenza dell’uomo libero che a differenza del servo si governa da solo, è capace di
autonomia ed autodeterminazione.
In un passo dove ritornano temi ed espressioni presenti in Tucidide, Aristotele22
,
scrive, riportando un pensiero non suo ma dei difensori della democrazia: “Il
principio basilare della condizione democratica è la libertà, la gente fa continuamente
questa constatazione, osservando che soltanto in questa condizione gli uomini vivono
in libertà; governare ed essere governati a turno è una prova di libertà. Però l’altro
elemento è ‘vivere come uno vuole’, perché questo – essi dicono – è una condizione
della libertà, in quanto è proprio dello schiavo non vivere come vuole. Questa è la
seconda nota distintiva della democrazia, e di qui deriva l’ideale di non essere
governati da nessuno, se possibile, altrimenti di governare ed essere governati almeno
a turno”.
Aristotele riporta la formulazione popolare e corrente della teoria democratica della
democrazia; non il suo modo di classificare la democrazia (“essi dicono”), che viene
esposto nel quarto libro della Politica 23
.
Democrazia e libertà si identificano. La democrazia presuppone uomini che si siano
liberati da ogni potere oppressivo e tirannico, la democrazia si mantiene attraverso
forme di autogoverno, a partecipazione alternata e diffusa, ha per fine la libertà,
“vivere come si vuole”.
Ci sono almeno due piani diversi in cui la questione della libertà si articola: la libertà
come dimensione pubblica e come status privato; la libertà come principio e modalità
della vita democratica, ma pure come valore essenziale, modo di essere e di vivere
dell’uomo greco. Se questi piani si incrociano ne consegue che – almeno per i
sostenitori della democrazia – in quanto regime della libertà la democrazia
quest’ultima appare come espressione privilegiata dell’uomo greco e la forma di
governo a lui più adeguata. Per un altro verso la contrapposizione ideologica tra il
modello di uomo e di vita democratici fondati sulla libertà e quello tirannico –
autocratico, che presuppone sudditi e servi, appare sotto vari aspetti come un
confronto tra i modi di vita dell’uomo greco e quelli dei barbari, seppure di barbari
civilissimi si tratti, a volte addirittura presi a modello o apprezzati come benefattori
presso cui rifugiarsi: i Persiani, ovviamente.24
La contrapposizione che vede da una parte Grecia – democrazia – libertà e dall’altra
Asia – tirannide – servitù25 si accentua e si definisce in modo più articolato a partire
dalle guerre mediche, anche in considerazione del fatto che la “libertà della Grecia”
22
Politica, VI 1317a 40 - 616 23
Ivi, IV 1291 b – 1292 a 30; cfr ivi, IV, 1310 a 28 e sgg. 24
Il caso più eclatante fu quello di Temistocle, il vincitore di Serse a Salamina, che dopo qualche anno trovò rifugio
presso il Gran Re , vivendo gli ultimi anni della sua vita e morendo in esilio. 25
Su questo punto L. CANFORA, La Democrazia, Storia di un’ideologia, Roma – Bari, 2006, p. 16 e sgg.
18
fu salvata a Salamina, nel 480, grazie alla flotta di Atene e dei suoi alleati, dal più
efficace scudo dell’Ellade: le “mura di legno” di cui aveva parlato il Dio a Delfi, le
agili triremi della flotta greca guidata da Temistocle.
Tanto i fautori che i critici della democrazia videro nella flotta il simbolo e il
fondamento della democrazia ateniese, sul quale si reggerà l’imperialismo della città
che per più versi fu una talassocrazia. Il fattore umano che sta alla base tanto della
democrazia che della talassocrazia ateniese è il demos, perché, come è scritto in un
celebre trattatelo (attribuito a Senofonte, il cui autore è noto pure come “Il vecchio
oligarca”): “è il popolo che fa andare le navi e ha reso forte la città”26. Tanto nella
democrazia che nella flotta è fondamentale il fattore numerico: la forza è il risultato
dell’unione di molti. La flotta che a Salamina si oppose ai Persiani era composta di
378 navi di cui 180 triremi ateniesi, ognuna con un equipaggio di circa 200
componenti per un totale di 36.000 uomini, un numero probabilmente vicino agli
stessi ateniesi cittadini.27
Il legame posto nel pensiero greco tra libertà e forma di governo democratica, ma
pure tra libertà e Grecia, ha diverse spiegazioni. Per un verso, lo si è già rimarcato,
l’uomo greco si descrive come insofferente all’autorità, alle sue forme più personali e
dispotiche rappresentate dalla figura del tiranno e del suo dominio autocratico. Essere
liberi significa vivere e morire per il proprio vantaggio, le proprie scelte, i propri
valori, non per quelli di un altro. Il superiore valore militare che il greco rivendica
quando si confronta con i popoli asiatici, sudditi del Gran Re, è spiegato – come
leggiamo in Arie, acque, luoghi, attribuito ad Ippocrate – con il rinvio alla libertà
greca: “Chi invece è indipendente (e perciò affronta i pericoli a proprio vantaggio,
non per altri), coraggiosamente e di propria volontà va incontro al pericolo, è lui
stesso che riporta il premio della vittoria”28
.
26
Così si legge nell’incipit dell’Athenaion Politeia, La Costituzione degli Ateniesi del “Vecchio
oligarca” 27
Sulle connessioni esistenti tra Atene e il mare, la democrazia e la flotta, esiste un’estesa
riflessione, di cui mi limito a dare un orientamento, per così dire, panoramico. A MOMIGLIANO,
“La potenza navale nel pensiero greco”, in Storia e storiografia antica, Bologna 1987, pp. 127-138;
M. CACCIARI, Geo – filosofia dell’Europa, Milano 1994, cap. II, “Guerra e mare”; K-J.
KÖLKESKAMP, “La guerra e la pace”, in I Greci, 2, II, Torino 1997, pp. 481-539; PLUTARCO,
Vita di Temistocle; ESCHILO, Persiani, 353-471; ERODOTO, VIII, 61 e sgg.; qui Temistocle
accusato dai Corinzi di essere un “uomo senza patria”, perché Atene era stata occupata dai Persiani,
replica che le duecento navi della flotta rappresentavano la patria degli Ateniesi. B. STRAUSS, The
Battle of Salamis. The naval Encounter that saved Greece and Western Civilization. Simon and
Shuster, 2004. La tradizione greca e la propaganda siracusana posero la battaglia di Imera tra
Gelone e i Cartaginesi, lo stesso giorno della battaglia di Salamina. “…giorno che avrebbe visto il
mondo greco di Atene e di Siracusa trionfare sui barbari d’Oriente e d’Occidente”, così M.GRAS,
“L’Occidente e i suoi conflitti”, in I Greci, cit., pp. 61-85. Sulle conseguenze della vicinanza della
città al mare, PLATONE, Le leggi, libro IV, ARISTOTELE, Politica, cit., VIII, 4, 1327 a 11. La
critica più aspra alla talassocrazia ateniese la troviamo nello pseudo-senofonteo La costituzione
degli ateniesi, già citato. 28
Nel periodo che va dalle guerre mediche all’impresa di Alessandro, è ricorrente in autori greci
un’immagine che ben riassume l’idea che si erano fatti delle capacità militari dei sudditi del Gran
Re: di soldati che vengono spinti ad avanzare e combattere dalla “minaccia della frusta”, per usare
19
In un celebre dialogo avvenuto tra Pericle ed Alcibiade, almeno secondo Senofonte29
,
il primo concorda nel ritenere che si abbia la “violenza piuttosto che legge” ogni
qualvolta manchi il consenso dei governati, quando chi governa lo fa “non con la
persuasione, ma con la forza”, come avviene con il governo dispotico, a differenza
che in democrazia, dove persuasione e consenso sono fondamentali30
.
le parole di Senofonte, dalle sferzate, di altri militari che dietro di loro sorvegliano e li spronano.
Per un altro verso lo scontro tra l’arciere persiano che utilizza un’arma subdola, la freccia, che
colpisce da lontano, e l’oplita greco che si serve di armi come la picca, lo scudo e la spada corta,
quasi il prolungamento del suo braccio, utilizzate nel corpo a corpo, in scrittori attici come
Tucidide, Senofonte, Eschilo, diventano espressione di opposte di opposte attitudini spirituali e
civili. Sono simboli dell’imbelle servilismo del suddito e della virile determinazione dell’uomo
libero, del modo di agire del Persiano e del Greco. Anche rispetto ad una tipica arma persiana, la
cavalleria, viene rimarcata spesso la superiorità dello schieramento oplitico: “In una cosa sola i
cavalieri hanno la meglio, nel fuggire”. SENOFONTE, Anabasi, III,2 29
SENOFONTE, Memorabili, I, 2, 40 e sgg. 30
Per tale ragione la democrazia periclea, seppure viene descritta da TUCIDIDE (II, 65, 5 – 8),
come una democrazia solo apparente (“di nome era una democrazia, di fatto però il potere era nelle
mani del primo cittadino”), in realtà restò sempre una democrazia di fatto perché fondata su un
consenso liberamente ottenuto attraverso una persuasione risultato del ragionamento e dell’esempio.
Grazie a tali capacità Pericle fu eletto stratega per 15 anni di seguito. Plutarco, anche se traccia un
ritratto di Pericle pieno di chiaroscuri, nelle Vite parallele riconosce, in conclusione, che “il
carattere benigno e la vita pura e immacolata nell’esercizio del potere” gli valsero meritatamente il
soprannome di Olimpio. Lo stesso Plutarco ammette che Pericle, seppure “acquistò una potenza
superiore a quella di molti re e tiranni […] non accrebbe di una sola dracma il patrimonio lasciatogli
dal padre”. Qui Plutarco sembra rinviare a Temistocle, verso il quale usa considerazioni simili (Vita
di Temistocle, 26) seppure di segno opposto: prima di intraprendere la carriera politica, il
patrimonio di Temistocle “non superava i tre talenti” divenuti poi, secondo Teofrasto, ottanta e
cento per Teopompo, come riporta Plutarco. Con una brillante sintesi MUSTI ha descritto
l’originale natura della leadership periclea: “Egli aveva compiuto l’autentico miracolo di affermare
un ruolo personale, senza creare un potere personale extra legem: sfuggendo al fatale processo di
degenerazione verso la tirannide, aveva conseguito storicamente il ruolo di capo del popolo,
riuscendo ad essere un leader senza diventare un tiranno”, Demokratía, cit. p. 181.
Quando Tucidide afferma che Pericle katechei to plethos eleutheros (II, 65, 8), “teneva la
moltitudine frenata liberamente”, allude alla sua capacità di orientamento e di contenimento delle
spinte popolari più impulsive e irrazionali senza ricorrere alla forza, grazie alla sua capacità di
convincere attraverso l’abilità dialettica, fondamentale in quella che C. MOSSÉ ha definito “una
civiltà della parola”, in Périclès. L’inventeur de la démocratie. Su questo tema rimando alle
osservazioni mai banali di CARILLO in Katechein, cit.
20
L’ottimismo antropologico e la fede nel progresso della democrazia
Il primato della libertà tanto nella Weltanschauung della democrazia, come, più in
generale, in quella greca, ha pure un fondamento antropologico. E’ poggiato su una
sorta di ottimismo antropologico senza il quale la libertà non avrebbe alcun senso. In
altri termini si può considerare la libertà come un valore solo se si è convinti che
l’uomo lasciato libero, svincolato da condizionamenti e limiti, sia capace di
svilupparsi autonomamente e relazionarsi in modo quasi spontaneo agli altri,
assecondando una vocazione naturale. In caso contrario finiamo nell’ipotesi
hobbesiana. Non a caso il filosofo di Malmesbury intitolata Libertas il primo capitolo
del De Cive, parte in cui si descrive “la condizione degli uomini fuori dalla società
civile (condizione che si può ben chiamare stato di natura), [e che] non è altro che
una guerra di tutti contro tutti”.31
La libertà permette all’uomo, nella condizione originaria, nello “stato di natura”32
di
manifestare senza alcun freno le sue naturali pulsioni, per buona parte egoistiche ed
aggressive, che trasformano le relazioni tra gli uomini in un bellum omnium contra
omnes. La libertà propria a tutti gli uomini allo stato di natura crea un’uguaglianza di
senso negativo: “Sono uguali coloro che possono fare cose uguali l’uno contro
l’altro”33
.
Nella polemica con coloro che “suppongono, o pretendono, o postulano, che l’uomo
sia un animale atto per nascita alla società”, Hobbes si riferisce esplicitamente ai
Greci e alla teoria aristotelica34
.
Una prospettiva antropologica di segno pessimistico che vede nell’uomo il prevalere
di caratteri egoistici ed aggressivi, postula conseguentemente un’organizzazione
politica con un potere forte ed autoritario, capace di controllare e “frenare” un uomo
siffatto, che se lasciato libero creerebbe conflitto ed instabilità.
Di tutt’altro segno è la visione dell’uomo nella prospettiva della democrazia antica,
come emerge in modo assai netto in quello che è considerato il manifesto della
democrazia greca: l’epitafio funebre tenuto da Pericle, e riportato da Tucidide (II, 36
– 42), al Ceramio, il cimitero pubblico per commemorare i caduti nel primo anno
della guerra del Peloponneso.
31
Così si legge nella “Prefazione ai lettori” aggiunta nella seconda edizione dell’opera. 32
Si veda la prima parte del Leviatan di Hobbes. 33
HOBBES De Cive, I, 3, nel secondo capitolo Auctoritas si analizza il passaggio “per accidente”
allo stato civile, che è condizione di rinuncia ad una considerevole parte di libertà, condizione di
pace e di disuguaglianza, entrambe introdotte dalle leggi civili. 34
Ivi, I, 2. La rinuncia ad una considerevole parte della libertà, di cui l’uomo godeva nella
condizione originaria, in cambio di una sicurezza garantita dal potere dello Stato, frutto di un
pactum tra gli uomini, segna il passaggio dallo stato di natura allo stato civile: dalla guerra alla
pace, dalla libertas all’auctoritas. In modo non dissimile Sigmund Freud ne Il disagio della civiltà
spiega il passaggio da una condizione dove i differenti moti pulsionali sono liberi di esprimersi,
senza restrizione alcuna, allo status civile che comporta, tra l’altro, una “rinuncia pulsionale”,
perché la condizione civile “non è il regno della libertà”.
21
Dopo aver fatto riferimento all’autoctonia degli Ateniesi, presente pure
nell’Archeologia e che troviamo anche in Erodoto35
, Pericle sottolinea il progressivo
sviluppo della città, grazie agli antenati, ai padri ed ai contemporanei, ed afferma di
voler mostrare” con quali principi […] con quale costituzione e con quale modo di
vivere” l’impero si è costituito ed ingrandito.
I principi ispiratori dell’azione (epitedeusis); l’ordinamento politico (politeia); il
sistema di vita (in questo caso si può tradurre tropoi anche con “stile di vita”,
“attitudini”, “atteggiamenti”), sono strettamente correlati ed interdipendenti, stanno
ad indicare non solo forme e modalità di organizzazione ed espressione della vita
cittadina ma pure i “caratteri profondi”36
della Koinonìa tòn politicòn, “la comunità
dei cittadini” secondo la più tarda definizione di Aristotele, perché come fa dire
Tucidide al suo concittadino Nicia, “uomini costituiscono la città, non mura o navi
vuote di uomini”37
. Qui si indica anche un altro motivo fondamentale: in democrazia
non è possibile separare la vita della comunità da quella dei singoli, gli elementi
distintivi dell’ordinamento politico dalle attitudini e dalle aspirazioni dei singoli38
.
Nelle considerazioni finali Pericle ribadisce che la potenza di Atene e anche e
soprattutto il risultato dello stile di vita dei suoi cittadini: “Concludo, che tutta la città
è la scuola della Grecia, e mi sembra che ciascun uomo della nostra gente volga
individualmente la propria indipendente personalità ad ogni genere di occupazioni e
con la più grande versatilità accompagnata dal decoro. E che questo non sia ora un
vanto di parole più che una realtà di fatto lo indica la stessa potenza della città,
potenza che ci siamo procurata grazie a questo modo di vivere”39
.
Che “la forma politica democratica abbia introdotto elementi di valutazione
ottimistica, nozioni di progresso”40
emerge in modo chiaro nell’epitafio pericleo.
Viene subito stabilito un nesso tra autoctonia – libertà – sviluppo: gli Ateniesi vissero
liberamente da tempo immemore nella loro terra; di generazione in generazione
trasmisero la città libera e più potente, fino al presente, “a noi che abbiamo ingrandito
la nostra città, sì da renderla preparata da ogni punto di vista ed autosufficiente per la
pace e la guerra”41
. Un progresso voluto di generazione in generazione e ottenuto
“non senza sforzo”, fino a raggiungere l’autosufficienza, il bastare a se stessi, il non
dipendere da altri.
35
ERODOTO, VIII, 44. Tale elemento fa parte della propaganda ateniese, in particolare di quella
democratica, perché legato al tema dell’autonomia e dell’autosufficienza della città, nonché a quello
della provenienza di tutti gli Ateniesi da uno stesso genos, come ha ben mostrato Nicole Loraux. 36
Così L. CANFORA, La storiografia greca, Milano 1999, p. 4 37
TUCIDIDE, VIII, 77 38
“L’orazione funebre trova la sua forza e il suo senso nell’evocazione di qualcosa di più profondo:
un sistema di valori, una forma di vita, un codice culturale. Il ché, espresso nelle parole chiave della
prothesis, suona: la democrazia è insieme politeia e tropoi, situandosi al centro della loro
intersezione”, G. CARILLO, Katechein, cit, p. 67. 39
TUCIDIDE, II, 41 40
D. MUSTI, Demokratía,cit. p. 7 41
TUCIDIDE, II, 36 - 2
22
Una teoria del progresso umano è rintracciabile in Anassagora che fu il filosofo che
più influenzò Pericle. Per Anassagora “l’uomo è il più sapiente dei viventi”42
che
seppure inferiore agli animali, sotto molteplici aspetti, li avrebbe asserviti grazie alla
capacità di fare esperienze, di capitalizzarle con la memoria, di pervenire al sapere, di
apprendere arti e mestieri43
.
Per Protagora, anch’egli vicino al leader ateniese, il progresso umano è possibile sul
piano collettivo attraverso la tecnica e la politica, su quello individuale grazie
all’educazione.
L’arte politica, dono di Zeus agli uomini, trasmette loro la giustizia ed il rispetto
reciproco, distribuiti a tutti in modo eguale44
. In tal modo diviene possibile la
convivenza ed ha inizio la vita civile. Sul piano individuale grazie all’educazione si
avvia un progresso costante, giorno dopo giorno45
; l’insegnamento richiede
“disposizione naturale ed esercizio”46
: la prima è presente, seppure in modo diverso
in tutti gli uomini, l’esercizio è tanto più utile quanto più precocemente avviato.
Come ha sottolineato Ludwig Edelstein, secondo Anassagora e Protagora, il
progresso degli uomini dipende dalla loro struttura organica e – o da un istinto
tipicamente umano47
.
Tanto che il fattore di progresso sia considerato un dono degli Dei, come nel caso
della techne politiké, a cui fa riferimento Protagora, che sia il risultato di
insegnamenti tratti dall’esperienza sotto lo stimolo della necessità, come crede
Democrito48
, o che si delinei nella prospettiva anassagorea, esso presuppone un uomo
intelligente, dotato di arti che lo differenziano da altre culture, capace di riflettere, di
fare esperienza, cioè di apprendere da quanto, anche in modo accidentale o sotto la
spinta del bisogno, gli accade. Questo progresso è un frutto del libero svolgimento
dell’uomo e, a sua volta, accresce la libertà dal bisogno e dall’ignoranza. La fiducia
di Pericle nella forma di governo di cui, assieme ai caduti, tesse l’elogio, emerge in
modo netto nella parte centrale dell’epitafio, “…dove tutto è improntato ad un’idea
ottimistica di realizzazione di se, in una società libera e democratica”49
.
Una società garante della realizzazione dei singoli, possibile anche grazie alla
fondamentale sviluppo di libere individualità, una società che è insieme il risultato
dei traguardi raggiunti dai suoi cittadini.
42
A 102, DIELS - KRANZ 43
Cfr. framm. 21b, DIELS - KRANZ 44
PLATONE, Protagora, 320 e sgg. 45
Ivi, 318 e 46
Framm. 3, DIELS - KRANZ 47
L. EDELSTEIN, The Idea of Progress in Classical Antiquity, Baltimore, 1967, cap. II. Sulle
teorie del progresso nel V secolo, un’utile sintesi si trova in Sofistica e democrazia antica, a cura di
M. Isnardi Parente, Firenze 1977, p. 4 e sgg., p. 42 e sgg. Un’ottimistica visione dell’esistenza,
un’abbozzata teoria della civiltà è presente anche in EURIPIDE, allievo di Protagora, Supplici, vv.
195 - 218 48
In un riferimento tardo che troviamo in DIODORO SICULO, Biblioteca storica, I, 7 – 8,
Democrito delinea l’idea della progressiva ascesa dell’uomo, poi ripresa da Epicuro e Lucrezio che
riproporrà il fortunato schema in celebri pagine del De rerum natura v. 124 e sgg. 49
D. MUSTI, Demokratía, cit., p. 105
23
Un modello d’uomo con evidenti caratteri aristocratici, attento ad alcuni motivi
polemici antidemocratici, provenienti da ambienti oligarchici, ed insieme depurato da
quelli che sono considerati limiti rintracciabili in certi valori ed in certi stili di alcuni
gruppi oligarchici, come più avanti cercherò di mostrare.
Noi non imitiamo nessuno, dice Pericle, anzi siamo di esempio perché capaci di
creare un modello originale, un modello di città fondato sull’autonomia,
sull’autosufficienza, sulla coscienza che i cittadini hanno di dover “contare solo su se
stessi”. Una città dove il governo è in mano alla maggioranza, dove la decisione
politica non solo tende a coinvolgere l’insieme dei cittadini, perché tutti considerati
capaci di dare un contributo personale alla città, ma pure ad essere presa
all’unanimità, perché deve salvaguardare l’interesse di tutti. Un sistema politico,
quello democratico, che tutela l’isonomia, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla
legge, ed insieme premia il merito, cioè gradua il pubblico riconoscimento delle
capacità individuali in funzione del tipo di contributo che esse danno allo sviluppo
della polis.
Nella vita pubblica, dice Pericle, “… soprattutto la riverenza ci impedisce di violare
le leggi”, in particolare “quelle che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange
una vergogna da tutti riconosciuta”50
.
Non è il carattere autoritativo delle leggi a far si che siano rispettate51
, ma il fatto che
esse sono il libero risultato di un’autonoma deliberazione (sembrerebbe di poter
leggere senza un’eccessiva forzatura), l’espressione dei patrii costumi o, come nel
caso delle “leggi non scritte”, di principî e prassi da tutto il modo greco riconosciuti52
.
Pericle delinea l’immagine di un’Atene ricca e gioiosa, dove la sua floridità richiama
beni da tutte le terre, dove la fatica è alleviata da “giochi e feste tutto l’anno”. E’
l’Atene dei commerci marittimi, delle importanti opere pubbliche, delle Panatenee e
delle Grandi Dionisie, del teatro tragico, che viene evocata.
Pericle continua col dire53
che gli Ateniesi amavano il bello con compostezza, senza
sprechi, si dedicavano al sapere senza che ciò comporti mollezza (malakías), un
carattere poco virile; che usano la ricchezza per le possibilità di agire che essa
garantisce, non come occasione di vanto.
Il godimento del bello attraverso gli splendidi edifici e monumenti di Atene, come
pure nella sfera privata, nelle “belle case”54
, “senza sprechi”, sembra rinviare, per
opposizione, all’ostentazione delle belle forme proprie al lusso ed all’opulenza, come
segni di ricchezza e supremazia ricorrenti nel mondo orientale.
50
TUCIDIDE, II, 37, 3 51
Si ricordi l’Auctoritas non veritas facit legem dell’opposta visione hobbesiana 52
Per una brillante ricognizione della problematica, si veda J. DE ROMILLY, La loi dans la pensée
greque, Paris, 2002. 53
TUCIDIDE, II, 40 54
Un riferimento alle “abitazioni ben ammobiliate” (Kateskeué è la costruzione ma pure il mobilio)
come esempio di uno status raggiunto si trova pure in SENOFONTE, Ciropedia, VII, 72. Ciro,
però, parla ai Pari e all’aristocrazia militare, dopo la conquista di Babilonia, Pericle allude ai
cittadini ateniesi.
24
Il rivendicare la ricerca e la fatica di un sapere non autoreferenziale, rinviava all’idea
diffusa che il sapere deve avere un ruolo formativo e finalizzato a fornire strumenti
atti a ben operare, tanto nella sfera privata che in quella pubblica. Una sapere
meramente speculativo, non finalizzato all’azione può guastare gli individui perché
sfocia nell’irrisolutezza, come spiega Callicle nelle prime battute del confronto
dialettico con Socrate, riportato da Platone55
.
La ricchezza, nell’Atene democratica, dice Pericle, è apprezzata per il suo carattere
strumentale, per la possibilità che offre, non come il simbolo di uno status da
ostentare56
.
La conclusione di Pericle è la nota affermazione che “tutta la città è la scuola della
Grecia” e tale insegnamento ed esempio consiste essenzialmente nel fatto che ad
Atene “ogni singolo cittadino può […] sviluppare autonomamente la sua personalità
nei più diversi campi”57
.
Uno sviluppo libero e versatile della personalità individuale è in ultima istanza il
risultato più importante della democrazia ateniese da cui discende l’insegnamento più
significativo per tutta la Grecia. In conclusione, rivolgendosi ai presenti, davanti ai
resti dei primi caduti della guerra contro Sparta, Pericle così li ammonisce: “E voi,
prendendo come esempio costoro e considerando felicità la libertà e libertà il
coraggio, non temete i pericoli della guerra”58
. Per chi è abituato a vivere da uomo
libero una “nobile fine”, come quella di chi muore per la libertà sua e della città, è
sicuramente da preferirsi ad una vita da schiavo, tanto più insopportabile per chi ha
sempre vissuto identificando libertà e felicità.
Si può convenire con il Musti, pertanto, quando definisce la “teoria democratica della
democrazia”, esposta da Pericle – Tucidide nel celebre epitafio “… una filosofia del
diritto alla felicità nella libertà”59
.
La democrazia è descritta come l’elaborato teorico e la poliedrica prassi di un uomo
con una naturale vocazione alla libertà, che la democrazia rappresenta, valorizza,
conserva e tutela, ponendola come un fine che diventa un tutt’uno con la felicità: e
vivere liberamente significa vivere in sintonia con la propria profonda natura, che
solo in tale condizione può esprimersi e svilupparsi.
55
PLATONE, Gorgia, XL - XLII 56
“Alla concezione attivistica ateniese è qui contrapposta la nozione aristocratica della ricchezza, di
tipo ampiamente – e talora nobilmente – esibizionistico, e che punta sempre sull’idea di
munificenza, non dell’investimento o dell’attivismo economico”, D MUSTI, Demokratía, cit. p.
118. Per l’uso, per così dire, politico della ricchezza si ricordi “il primo atto politico di
Temistocle”che propose ed ottenne dagli Ateniesi la rinuncia alla spartizione dei proventi delle
miniere d’argento del Laurio, che furono destinati alla costruzione di cento trireme, “ed esse
combatteranno anche contro Serse”, conclude Plutarco, Vita di Temistocle, 4. A metà strada tra
un’elargizione con risvolti sociali ed assistenzialistici ed una munificenza auto – promozionale sta
l’uso che Cimone, (l’avversario del partito oligarchico di Pericle) fece delle sue ricchezze.
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XXVII, 3. 57
TUCIDIDE, II, 41 58
Ivi, II, 43, 4 59
D. MUSTI, Demokratía, cit., p. 119
25
L’autogoverno democratico
Nella democrazia ateniese la libertà non ha solo la funzione di un principio ispiratore
fondamentale o di un valore riconosciuto e difeso fino al sacrificio estremo. La libertà
è uno status da confermare e riaffermare giorno per giorno, attraverso un sistema di
governo, una politeìa modellata sui due principi democratici per eccellenza: la libertà
e l’uguaglianza per tutti i cittadini.
Nel ricordato passo della Politica, Aristotele definisce la democrazia sulla base di due
principi: la libertà e il “vivere come uno vuole” che, in realtà, non è un secondo
principio ma la più evidente manifestazione del primo. Essere libero e, di
conseguenza, vivere assecondando vocazioni ed interessi personali, implicherebbe il
“non essere governati da nessuno”; in alternativa “governare ed essere governati a
turno”60
.
Questa seconda condizione appare come quella più prossima alla mancanza di
governo. La formula “governare ed essere governati a turno”, che riassume per
Aristotele la teoria e la prassi della democrazia ateniese, è il risultato di un percorso
storico che ha origine da un mitico padre fondatore, Teseo, il vincitore del Minotauro,
e che si svolge attraverso tappe fondamentali legate ad almeno quattro grandi
riformatori ateniesi: Solone, Clistene, Efialte e Pericle, con una serie di
trasformazioni (metabolai) che creò un sistema di valori e di governo unici ed
originali rispetto alla tradizione politica della Grecia e del mondo antico: la
democrazia, appunto.
Se interpretato alla lettera, il “governare ed essere governati a turno” implicherebbe il
venir meno della distinzione tra governanti e governati, tra elettorato attivo e passivo,
introducendo un ulteriore elemento di crisi del potere, una forma di instabilità
conseguenza di una amministrazione alternata dei pragmata, gli affari di stato gestiti
“a turno” ed insieme “pro tempore”.
Viene meno anche la distinzione, evocata da Pisistrato tra governante che si occupa
degli affari di stato e governati interessati solo alla sfera privata. Con una prima
sintesi potremmo dire che il potere viene ridistribuito tra tutta la comunità cittadina,
con regole che ne impediscono la concentrazione e l’esproprio da parte di un singolo
o di un gruppo.
Scrive bene Jean-Pierre Vernant, in riferimento alla riforma di Clistene: “La polis si
presenta come un universo omogeneo, senza gerarchia, senza stratificazioni, senza
differenziazione. L’archè non è più concentrata su un unico personaggio al vertice
dell’organizzazione sociale. Essa è uniformemente ripartita attraverso tutto il campo
della vita pubblica, in questo spazio comune in cui la città trova il suo centro, il suo
meson. Secondo un ciclo regolato, la sovranità passa da un gruppo ad un altro, da un
individuo ad un altro in modo che il comandare e l’obbedire, invece che opporsi
come due assoluti, diventano i due termini inseparabili di uno stesso rapporto
reversibile. Sotto la legge dell’isonomia, il mondo sociale prende la forma di un
kosmos circolare e centrato, in cui ogni cittadino, essendo simile a tutti gli altri, dovrà
60
ARISTOTELE, Politica VI, 1317, 15 - 18
26
percorrere l’intero circuito, occupando e cedendo successivamente, secondo l’ordine
del tempo, tutte le posizioni simmetriche che compongono lo spazio civico”61
.
A partire da Erodoto (VI, 131) la tradizione storiografica definisce come demokratía
la riforma politica di Clistene; quest’ultima, però, è piuttosto il risultato di un
processo che inizia nel mito, con Teseo, il “re democratico”, e prosegue in modo
discontinuo (si pensi alla tirannide di Pisistrato o all’oligarchia dei Trenta tiranni) per
più di tre secoli, tant’è che Aristotele, il maestro di Alessandro, nella Costituzione
degli Ateniesi scrive: “[…] e da essa [l’undicesima riforma costituzionale] si è giunti
all’attuale che concede sempre maggior potere al popolo. Esso infatti si è reso arbitro
di tutto, e tutto si decide mediante decreti e tribunali in cui il popolo predomina”62
Il processo che vede il graduale instaurarsi e consolidarsi di principi e prassi
democratiche può essere colto attraverso l’osservazione della nascita e dello sviluppo
di alcune tipiche istituzioni democratiche, come l’assemblea generale dei cittadini
(ekklesia) ed il consiglio dei cinquecento (bulè); delle trasformazioni di alcuni organi
come il tribunale dell’Areopago, che da istituto tipicamente aristocratico vede
progressivamente ridursi le sue competenze ed accrescersi la presenza dell’elemento
popolare. Il progressivo aumentare del potere del démos si coglie pure dal fatto che
col tempo prevale la scelta dei magistrati attraverso il sorteggio e non più per
elezione e cresce la presenza del popolo minuto, i teti della quarta classe di reddito,
cresce non solo nell’assemblea, nelle magistrature e nei tribunali, ma pure negli
spettacoli pubblici grazie ai sussidi statali. Assistiamo pure al diffondersi di tecniche
militari fondate sulla falange oplitica, dove è fondamentale la presenza dell’elemento
popolare, l’intercambiabilità dei ruoli e la subordinazione del singolo alla disciplina
del gruppo, che ne garantisce la forza d’urto.
Sul piano sociale lo sviluppo della democrazia è parallelo a due importanti fenomeni:
la crescita della popolazione cittadina, attraverso l’urbanizzazione di parte della
popolazione rurale e l’allargamento della cittadinanza, seppure usato con parsimonia
ed in modo selettivo. In seconda istanza la promozione di una politica commerciale e
militare che privilegia il controllo del mare, favorisce lo sviluppo della flotta e, di
converso, dell’elemento marinaio – popolare.
Le riforme (metabolai) democratiche
Solone, che nel IV secolo era considerato il padre della democrazia, si vanta nelle sue
poesie di aver stabilito leggi uguali, cioè una prima forma di isonomia, “per il buono
e per il cattivo”, aggettivi che hanno, ovviamente, una valenza sociale e non morale.
61
J.P. VERNANT, Les origines de la pensée grecque, Paris 1962, p. 95 62
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XLI, 2; questo passo conclude la rassegna storica
delle dodici riforme costituzionali: da Ione fino alla restaurazione della democrazia dopo il governo
dei Trenta tiranni.
27
Secondo quanto ci tramanda Plutarco63
, il primo provvedimento preso da Solone
consistette “nell’abolizione dei debiti esistenti e nella proibizione di prestar denaro in
avvenire assumendo a garanzia la persona dei debitori”, poi riportò ad Atene i
cittadini ridotti in schiavitù per debiti, senza però arrivare ad una redistribuzione delle
terre come richiesto dai più poveri. Solone, inoltre, divide i cittadini in quattro classi
in base al censo, distribuendo le magistrature tra le prime tre classi e dando ai
cittadini della quarta classe solo la possibilità di partecipare all’assemblea, cioè
l’elettorato attivo e il diritto di far parte dei tribunali. Due prerogative di non poco
conto se si considera che i teti erano la componente sociale più numerosa (anche se
non la più attiva politicamente, almeno al tempo di Solone) ed il ruolo che avrebbe
assunto con gli anni l’assemblea quale principale organo deliberante le cui decisioni,
in quanto diretta espressione della città, sarebbero state considerate inappellabili.
Inoltre, la partecipazione del popolo ai tribunali fece si che, grazie al diritto di
appello, il popolo avesse la “massima forza”, fino a diventare “arbitro dello stato”64
.
Plutarco ribadisce questo aspetto ricordando che il popolo, con la riforma di Solone,
assunse un ruolo di “grandissima importanza perché la maggior parte dei contrasti
finiva per cadere nelle mani dei giudici” come pure il giudizio d’appello sulle
decisioni dei magistrati65
. Affermazioni esagerate se riferite all’epoca di Solone, ma
assai meno negli anni della democrazia del V e IV secolo.
Gli autori di Clistene l’Ateniese notano che con la sua riforma costituzionale
l’Alcmeonide fa si “[…] che il principio territoriale e l’ordine civico hanno la meglio
in modo decisivo sul principio gentilizio”66
. Aristotele così riassume la metabolé
clistenica: “Divise il territorio in trenta demi, dieci della città, dieci della costa e dieci
dell’interno. Anche questi chiamò trittie e ne attribuì per sorteggio tre ad ogni tribù,
affinché ognuno comprendesse abitanti di tutte le zone dell’Attica”67
. Ciò porta ad un
rimescolamento dei cittadini, ad una loro “fusione”, ad una nuova unità cementata
dall’appartenenza ad Atene68
che diventa uno “spazio civico” il cui ritmo è regolato
da un “tempo civico”69
, da un calendario segnato da ricorrenze più propriamente 63
PLUTARCO, Vita di Solone, 15 64
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, IX, 1 65
PLUTARCO, Vita di Solone, 18 66
P. LÉVÊQUE e P. VIDAL – NAQUET, Clisthene l’Athenien, Besançon, 1964, p.12 67
ARISTOTELE, Costituzione degli Ateniesi, XXI, 4 68
Nella Costituzione degli Ateniesi (XXI, 2) Aristotele sostiene che Clistene “Dapprima divise tutti
i cittadini in dieci tribù anziché in quattro, volendo fonderli affinché partecipassero più numerosi al
governo; ecco perché si diceva di non fare distinzioni fra le tribù a quelli che volevano indagare
sulle famiglie”, poiché i membri di uno stesso génos potevano essere suddivisi tra varie tribù poste
alla base di una solidarietà civica non più legata al clan familiare. “La parola d’ordine della riforma
di Clistene è ‘mescolare’, rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare
ciascuno secondo il demo, che è la cellula vivente dello ‘Stato’ che, attraverso lo strumento
intermedio della tribù (costituita col massimo di astrazione possibile da vincoli familiari e rapporti
di interesse) costituisce il quadro organizzativo fondamentale della nuova pólis”, D. MUSTI, Storia
Greca, Roma – Bari 2002, p. 270. 69
Il primo capitolo del citato Clisthene l’Athenien ha per titolo “lo spazio e il tempo civico di
Clistene”. Su questi aspetti e, più in generale, sulle novità introdotte dalla riforma di Clistene, N.
LORAUX, “Clistene e i nuovi caratteri della lotta politica”, in I Greci, 2, I, cit., pp. 1083 – 1110.
28
politiche connesse all’attività dell’ekklesia e del consiglio dei cinquecento (Boulé)70
come pure da eventi quali le Panatenee e le Dionisie, i giochi, le tragedie e le
commedie vere espressioni di una civica autocoscienza collettiva71
.
La riorganizzazione del corpo dei cittadini, creò con una riforma amministrativa
anche una nuova struttura politica che avrebbe modificato le precedenti istituzioni. Le
tribù furono portate a dieci, per favorire la partecipazione dei cittadini alla vita della
città e venne creato il Consiglio dei cinquecento, dove ogni tribù era rappresentata da
cinquanta cittadini, sorteggiati tra quanti possedevano le caratteristiche richieste e
avevano dato la loro disponibilità, con un mandato di un anno.
La bulè rappresentativa di tutto il popolo, fa da raccordo tra città e campagna ed ha
una serie di funzioni che ne fanno il vero organo esecutivo dell’assemblea, il governo
permanente della città, gestito a turno dai rappresentanti delle varie tribù. E’ stato
osservato che “[…] la bulè dei Cinquecento diverrà il governo della polis solamente
mezzo secolo dopo, quando Efialte le attribuirà le funzioni che erano state del
consiglio dell’Areopago. Ma possiamo già supporre che essa avesse potere di
controllo sui magistrati e che, d’altra parte, potesse convocare l’assemblea dei
cittadini, l’ekklesia di cui Clistene aveva esteso i ranghi e forse la periodicità delle
riunioni72
.
Efialte per più versi completò la riforma di Clistene perché attribuì al Consiglio dei
cinquecento ed ai tribunali popolari molte delle competenze di quella che all’origine
era un’istituzione diretta emanazione delle famiglie aristocratiche, l’Areopago.
Alcuni hanno definito Pericle come il vero “inventore della democrazia”, ciò si
spiega non tanto per le innovazioni di tipo istituzionale che introdusse, ma per una
riforma che rese nei fatti possibile un’estesa partecipazione del popolo ad alcune
importanti istituzioni ateniesi quali la bulè e i tribunali, facendo della democrazia
ateniese un reale governo del popolo, della maggioranza dei cittadini. Mi riferisco,
ovviamente, all’istituzione del misthòs, un’indennità per i giudici che fu poi estesa ad
70
All’inizio del V secolo, durante una pritania (un decimo dell’anno in cui una delle dieci tribù
esercitava a turno la presidenza del Consiglio dei cinquecento) c’era di regola un’assemblea. Dopo
la metà del secolo ad un’assemblea principale potevano aggiungersene altre e nel IV secolo si arrivò
fino a quattro assemblee per pritania. Sul calendario politico di Atene e sulle competenze dei vari
organi della democrazia, per un efficace sintesi: D. LOTZE, “Il cittadino e la partecipazione al
governo della ‘polis’, in I Greci, II, 1, cit. pp. 369 – 401; ARISTOTELE La Costituzione degli
Ateniesi, in particolare cap. XX e ss,; D. MUSTI, Demokratía, cit., cap. IV; C. MOSSÉ, Périclès,
cit. capp. IV e V; V. EHRENBERG, Der Staat der Griechen, cap. II; ARISTOTELE, Politica, libro
IV; M. H. HANSEN, Die athenischen Volksversammlung im Zeitalter des Demosthenes, Kostanz
1984; P. J. RHODES , The Athenian Boule, Oxford 1972. 71
E’ stato argutamente sottolineato il carattere di “comunità rituale” che, grazie a questi aspetti,
assume la polis: “La città è quindi anche una comunità rituale: santuari, culti, riti e feste non solo
hanno rapporto con la formazione della polis, ma sono elementi che spesso sottolineano
l’appartenenza ad essa e l’identità collettiva”, C. AMPOLO, “Il sistema della ‘polis’. Elementi
costitutivi e origini della città greca”, in I Greci, II, 1, cit., pp. 297 – 342. Il passo citato è a p. 319. 72
C. MOSSÉ – A. SCHNAPP – GOURBEILLON, Précis d’histoire grecque. Du début du
deuxième millénaire à la bataille d’Actium , cit. p. 209
29
altre funzioni pubbliche, in particolare a quella di buleta e nel quarto secolo ai
partecipanti all’assemblea73
.
La concessione dell’indennità, che equivaleva sommariamente al salario di un giorno,
permise a coloro che vivevano solo di redditi da lavoro di compensarne la perdita che
la partecipazioni a funzioni politiche, soprattutto ai tribunali e al consiglio, avrebbe
comportato. Accrebbe in questi organismi la presenza popolare e fu oggetto delle più
aspre critiche da parte oligarchica, che videro in questa misura, resa possibile anche
grazie ai copiosi tributi degli alleati che finanziarono anche opere pubbliche, giochi e
feste, iniziative che abituarono il popolo alla “vita comoda”, all’assistenzialismo
sociale (almeno secondo i detrattori della democrazia), accrescendo la presenza e il
peso del popolo minuto nelle istituzioni e nell’indirizzo della politica cittadina.74
La libertà alla base della democrazia , riassunta nella formula aristotelica del
“governare ed essere governati a turno”, ha molteplici implicazioni, alcune
sommariamente già ricordate, altre che rinviano e si legano al secondo principio
democratico, l’uguaglianza. Il criterio maggioritario e quello dell’alternanza del
potere presuppongono entrambi – a certe condizioni – l’equivalenza dei cittadini. Il
fatto che l’alternanza nel governo della città sia assicurata dal sistema aleatorio del
sorteggio75
, che Aristotele nella Retorica (1365 b 30) definisce l’elemento distintivo
della democrazia, è un ulteriore conferma dei prosupposti egualitari del sistema che
ritiene, almeno in potenza, tutti i cittadini capaci di ricoprire gran parte delle
magistrature.
Alla sostanziale uguaglianza dei diritti corrisponde una pari uguaglianza dei doveri: a
partire da quello di partecipare attivamente al governo della città, alla politeia. Essere
cittadino implica a tal punto l’esercizio attivo della cittadinanza, che quanti per
ragioni diversi ne erano impediti non venivano considerati cittadini in senso pieno.
Aristotele, ad esempio, quando all’inizio del terzo libro della Politica discute della
natura del cittadino, sostiene che solo la “partecipazione alle funzioni di giudice ed
alle cariche” definisce il cittadino “in senso assoluto” e che, pertanto, i ragazzi, i
73
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XXVII; ARISTOFANE, Vespe, 14 (69) 74
IL VECCHIO OLIGARCA, La costituzione degli Ateniesi, XXIV; H. C. BALDRY, The Greek
tragic theatre, London, 1971, cap. 4.; PLUTARCO, Vita di Aristide, 24 e ss.; Vita di Pericle, 9 e
ss.; nella Vita di Cimone si dice che quest’ultimo rese gli Ateniesi “signori di chi li pagava”. 75
“La democrazia ateniese preferiva la procedura del sorteggio a quella dell’elezione. Eletti erano
solamente i comandanti militari […] e inoltre una serie di ufficiali civili con incarichi speciali, come
gli ambasciatori e, nella seconda metà del IV secolo, i più importanti ufficiali finanziari. Fino al 487
anche gli arconti venivano eletti […] Per la maggior parte delle cariche civili valeva la procedura
del sorteggio. Questo riguardava i cinquecento membri del consiglio e circa i seicento magistrati.
Ancor più alto era il numero dei giudici, anch’essi estratti a sorte. Per il V secolo è attestato il
numero di seimila”, D. LOTZE, “Il cittadino e la partecipazione al governo della ‘polis’ ”, in I
Greci, 2, II, cit., p. 392 e ss. Aristotele, nel cap. 44 de La costituzione degli Ateniesi, scrive che
“L’epistate dei pritani è tratto a sorte”, riferendosi al “sovrintendente” dell’organo esecutivo del
Consiglio dei cinquecento, equiparabile ad un moderno capo di stato, seppure resta in carica un
giorno ed una notte. E’ stato notato che nel caso dell’epistate dei pritani “C’è un sorteggio ‘al
quadrato’ : sorteggiati i buleuti e i pritani, secondo la distinzione per tribù, sorteggiato il capo dei
pritani”, D. MUSTI, Demokratía, cit. p. 139.
30
vecchi, e gli “uomini privati dei diritti politici ed esiliati” hanno solo una forma
incompleta di cittadinanza.
Per le stesse ragioni è stato giustamente osservato che le donne, prive pure di
un’autonoma capacità processuale, avevano solo lo status ma non la funzione di
cittadini76
.
Secondo Aristotele, Clistene accrebbe il numero delle tribù per fondere i cittadini
“affinché partecipassero più numerosi al governo”, alla politeia77
: crescita del numero
dei cittadini, loro integrazione, estensione della loro partecipazione al governo ed alle
magistrature, anche per i meno abbienti, sono costanti del processo dello sviluppo
democratico, a partire dalle sue mitiche origini.78
Pericle elogia gli ateniesi perché capaci di gestire allo stesso tempo gli affari privati e
quelli comunitari, a differenza dei regimi oligarchici e tirannici, potremmo
aggiungere, dove il potere era nella mani di pochi o di uno solo ed al popolo era
richiesto solo di occuparsi dei suoi affari privati.79
Crescita della partecipazione dei cittadini al governo e loro integrazione sono favoriti
anche da quello che può definirsi come il principio giuridico – politico della
democrazia, l’isonomia, l’eguaglianza davanti alla legge, termine che in alcuni
contesti, ad esempio in Erodoto (III, 80 – 83.), viene usato come sinonimo di
democrazia. Da Solone a Pericle si ha l’evolversi di quelle che Vernant ha definito
come l’”eguaglianza gerarchica”, uguaglianza “geometrica e non aritmetica”, fondata
sulla nozione di “proporzione”, ad un’uguaglianza non verticale ma orizzontale, ad
una situazione in cui seppure permangono differenze anche sostanziali sul piano
sociale, lo stato sociale non è di impedimento all’esercizio di funzioni pubbliche,
anche delle più importanti.80
76
CANTARELLA, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e
romana, Milano 1995 77
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XXI, 2 78
Teseo è descritto da PLUTARCO (Vita di Teseo, 24 – 25) come colui che radunò tutte le genti
dell’Attica e “di un popolo fino ad allora disunito […] fece una sola città” e “Nell’intento di
ingrandire ulteriormente la città, invitò tutti a trasferirvisi alle medesime condizioni dei nativi.”
Solone, sempre secondo Plutarco, riporta ad Atene i cittadini ridotti in schiavitù per i loro debiti,
concedendo la cittadinanza anche a coloro che erano stati esiliati a vita da altre città (Vita di Solone,
24 e ss.). Aristotele, dopo aver ricordato che Aristide stabilì il tributo per le città alleate, “due anni
dopo la battaglia di Salamina”, aggiunge che consigliò agli abitanti dell’Attica di “lasciare la
campagna per scendere in città”. Prosegue col dire che, grazie soprattutto ai tributi pagati dagli
alleati, la città poteva “mantenere più di ventimila uomini, fra giudici, magistrati e militari (La
costituzione degli Ateniesi, XXIII – XXIV). Riferendosi a Clistene, Aristotele usa una frase che i
due autori di Clisthene l’Ahtenien definiscono “assai enigmatica”: Clistene “iscrisse nelle tribù
molti stranieri e meteci in condizione di schiavitù” (Politica, III, 1275 b 37). 79
Il tiranno Pisistrato, dopo aver disarmato il popolo lo invitò a “dedicarsi ai loro propri affari,
mentre egli si sarebbe occupato di tutti quelli pubblici”; inoltre favoriva l’agricoltura purché il
popolo rimanesse nelle campagne, “godendo di una modesta agiatezza” in modo che non avesse
tempo né voglia di occuparsi degli affari pubblici, ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi,
XV – XVI. 80
“Nessuno è impedito dalla oscurità del suo ruolo sociale [axíoma] nell’esercizio di funzioni
pubbliche, ma liberamente amministriamo il politico” (TUCIDIDE, II, 37, 2). Come ha osservato il
31
In altri termini Pericle ridisegna la democrazia “come una politeia in cui l’axiosis (la
concreta dimostrazione della capacità, del valore) non l’axioma (il “rango sociale”, lo
“stato”), diviene il fattore principale81
.
Conseguentemente nella democrazia periclea, come per ogni democrazia avanzata, il
criterio selettivo per l’assegnazione delle cariche che richiedono particolari
competenze “è la coppia axiosis – arete (reputazione - merito) non l’axioma (che
equivale a una “rendita di posizione”), cui si ricorre nelle comunità incentrate su
gerarchie prestabilite (antimodello implicito è Sparta).
Musti, “liberamente” indica la mancanza di impedimenti di ordine sociale che pone i cittadini su un
piano di parità per ciò che concerne l’esercizio dei diritti e delle cariche politiche, Demokratía , p.
14 81
G. CARILLO, Katechein, cit. p. 91.
32
Uguaglianza d’origine ed equidistanza dal potere
L’evolversi della “uguaglianza gerarchica”, verticale e geometrica, in eguaglianza
non gerarchica, orizzontale e aritmetica, significa, fra l’altro, riconoscere a tutti i
cittadini la capacità – possibilità di esercitare gran parte delle funzioni politiche della
città, limitando le cariche elettive, fondate su competenze ed abilità specifiche e
riconoscibili (come ad esempio la strategia e tutti gli incarichi militari) ad eccezioni.
Questo comporta che in democrazia, come è espresso mirabilmente da Protagora, si
abbiano almeno due tipi di uguaglianza: la prima che parifica nel senso della
fungibilità nell’esercizio dei diritti / doveri politici, tutti i cittadini, la seconda che
seleziona rispetto al merito ed alle competenze, nel riconoscimento di una differenza
di grado e non di genere, come vedremo meglio più avanti.
Tra i vari significati che può assumere la uguaglianza in democrazia uno dei più
pregnanti è quello che potremmo definire meglio come risultato del’essere posti ad
una uguale distanza dal potere, che simbolicamente è collocato es meson al centro
della comunità dei cittadini: “Dal momento che è messo al centro, il potere non
appartiene più a nessuno; è depersonalizzato, socializzato, laicizzato. L’origine di
questa formula […] deve essere cercata nelle pratiche che la poesia arcaica […] ci
rivela. In particolare il fatto che, in Omero, l’assemblea dei guerrieri, il bottino, i
prezzi dei concorsi, i beni, la devoluzione della proprietà obbediscono ad un certo
numero di regole che traducono la stessa concezione, lo stesso valore pubblico e
comune di centro. Quando un bottino è stato riunito è messo al centro, in mezzo.
L’armata si mette in cerchio attorno al bottino […] Quando le persone non sono più
sotto le armi, quelli che hanno lo statuto di guerrieri fanno il cerchio allo stesso modo
di quelli che avranno più tardi lo statuto di cittadino”82
. Yvon Garlan ha ricordato che
se in origine “l’essere soldato era relativo all’essere cittadino e non viceversa”83
,
esiste pure, accanto ad una “vocazione militare del cittadino”, una “vocazione politica
del soldato”: se “Un cittadino è, per definizione, un soldato”, è pure vero il contrario,
“Per definizione, un soldato tende a comportarsi da cittadino” 84
.
Con la politica marittima di Atene, tanto commerciale che militare al tempo della
guerra contro i Persiani, l’esigenza di un’ingente mano d’opera di nuovo tipo, alla
quale non si richiede un reddito per provvedere al proprio armamento, ma solo
disciplina, addestramento e forza delle braccia, fa si che una nuova classe sociale ed
insieme militare, la quarta classe di censo, i Teti, i popolani più indigenti, assurga a
pieno titolo alla dignità di cittadini / combattenti, cioè di cittadini in senso completo,
a conferma che nella città / stato greca “il corpo decisionale è il corpo combattente”85
.
82
VERNANT, L’orient ancient et nous, cit., p. 218 – 19. 83
Y. GARLAN, L’uomo e la guerra, in L’uomo greco, a cura di J-P. VERNANT, Bari, 1991, p. 65.
“Poiché per lungo tempo essere guerriero implicava la disponibilità dei mezzi per provvedere
all’armatura, la nozione di cittadino / guerriero si identificò con quella di possidente”. L.
CANFORA, La democrazia. Storia di un’ideologia., cit., p. 34; cfr. K.J. HÖLKESKAMP, “La
guerra e la pace” in I Greci, II, cit. pp. 481 – 539, p. 512 e ss. 84
Y. GARLAN, “Guerra e società”, cit., p. 90 e ss. 85
L. CANFORA, La Democrazia…, cit., p.35 e ss.
33
Alla base dell’identificazione del guerriero e del cittadino e della sostanziale
uguaglianza che intercorre tra i cittadini, come tra i soldati, sta la diffusa convinzione
che quanti hanno la capacità e il dovere di salvaguardare la città, di combattere per
essa, fino al sacrificio estremo della vita, hanno pari dignità e pari diritti.
L’innovativa tattica di combattimento costituita dalla falange oplitica costituisce uno
degli elementi di crisi della società aristocratica in Grecia. Aristotele ritorna più volte
sul nesso oligarchia – cavalleria e sull’altro democrazia – falange oplitica che, per un
verso discendono e per un altro si oppongono al primo: “Il primo governo succeduto
in Grecia a quello monarchico era composto di guerrieri, e agli inizi, di cavalieri
perché questi costituivano il nerbo dell’esercito e assicuravano il successo. Infatti, la
fanteria senza ordine chiuso è inefficace; e, poiché negli antichi tempi l’esperienza
tattica faceva difetto alle fanterie, tutta la forza dell’esercito stava nella cavalleria.
L’allevamento dei cavalli non può essere fatto che da ricchi”. Da qui il legame tra
cavalleria e oligarchia86
.
L’adozione di quello che Aristotele definisce “l’ordine chiuso”, cioè di una tattica
militare che fa degli opliti una falange compatta, capace di resistere come in un unico
blocco e con una forza d’urto che è il risultato della coesione del gruppo, sono alla
base di quella che è stata descritta come la “rivoluzione oplitica” e del conseguente
primato della fanteria pesante - dove è presente e predominante l’elemento popolare -
sulla cavalleria, corpo che, per ovvi motivi, è prerogativa dei più ricchi. La
formazione oplitica è fondata su due principi che sono pure fondamentali per
l’esercizio delle funzioni politiche e di gran parte delle cariche in democrazia:
l’uguaglianza e l’intercambiabilità dei suoi membri87
86
Su “La crisi della società aristocratica in Grecia”, si veda il paragrafo, che porta questo titolo, del
capitolo V del libro di C. MOSSÉ e A. SCHNAPP – GOURBEILLON, Précis d’histoire
grecque…, cit.; un commento al citato passo di Aristotele si trova in G. GLOTZ, La cité greque,
Paris, 1948, al cap. 2, “Origine e forme dell’oligarchia”. Sul ruolo della cavalleria ci sono rimaste
due note opere di SENOFONTE, Perì Hippikès, L’arte della cavalleria, dove in dodici capitoli si
parla dell’acquisto, della cura e dell’addestramento del cavallo, ma pure, nel capitolo finale,
dell’armamento del cavaliere per la guerra. Nell’Hipparkikós, Il manuale del comandante della
cavalleria, si danno una serie di istruzioni e di consigli all’ipparco sulla condotta da tenere in tempo
di pace, come pure sui possibili scenari con relative strategie in caso di conflitto. 87
Sull’organizzazione, l’armamento e la tattica oplitica, M. DEBIDOUR, Les Grecs et la guerre, Ve
e IV e
siècle, Monaco 2002, p.23 – 53. Un esempio a cui è d’obbligo riferirsi quando si vuole
evidenziare la prorità che assume, per l’efficacia offensiva e difensiva della falange oplitica,
mantenere la propia posizione sullo stesso valore personale, è la vicenda di “Aristodemo il
fuggiasco”, riferitaci da Erodoto in due diversi passi ( VII, 229-231 e IX, 71). Aristodemo colpito
dalla disistima dei suoi concittadini, perché era stato l’unico dei Lacedemoni a salvarsi dalla morte a
Termopili, nella battaglia di Platea, “volendo ad ogni costo morire (…) come un forsennato uscendo
dallo schieramento aveva dato prova di grande valore”. Per tali ragioni Aristodemo, a differenza di
altri che avevano combattuto valorosamente, non ricevette pubblici onori. Commentando la legge
del gruppo a cui è soggetto l’oplita, scrive Vernant: “E’ l’uomo della battaglia a contatto di gomito,
della lotta spalla a spalla. E’ stato addestrato a tenersi in fila , a marciare in ordine,a lanciarsi contro
il nemico tenendo il passo, a badare, nel pieno della battaglia, di non lasciare il suo posto.[…] La
falange fa dell’oplita, come la città fa del cittadino, un’unità intercambiabile, un elemento simile a
tutti gli altri, la cui aristeia, il valore individuale, non deve mai manifestarsi più se non nel quadro
34
Che sia esistita una stretta correlazione, un rapporto di interdipendenza fra
l’organizzazione sociale dell’Atene democratica ed il suo apparato militare di terra e
di mare mi sembra indubitabile, come pure la loro reciproca influenza.
Pierre Vidal-Naquet ha sostenuto, ricordando alcuni studi di Claude Mossé, che “per
l’esercito e la flotta delle città greche è la polis a fare da modello”. A Salamina, per
esempio, continua l’autore, “non è la flotta che salva la città, ma la città che si installa
sulle navi, al riparo del famoso ‘muro di legno’ di cui parla l’oracolo” 88
.
Se fu la città a salvare se stessa a Salamina, ciò avvenne solo perché la città
combattente, fatta non solo di cittadini di tutte le classi, ma pure di meteci e persino
di uomini in condizione servile, abbandonò la città di pietra che, dopo la distruzione,
sarebbe stata ricostruita. A conferma del fatto che, già nel V secolo, cittadinanza ed
iscrizione nei ranghi dell’esercito finiscono per coincidere e significare un identico
dovere-diritto dei cittadini di difendere la città e partecipare alle scelte che ne
garantiscono la vita e lo sviluppo89
.
Nella cultura dell’Atene democratica il nesso tra uguaglianza e cittadinanza viene
riproposto da prospettive diverse: sul piano del mito e dei simboli, come della teoria
del cosmo e della filosofia politica. Il mito dell’autoctonia degli Ateniesi, che
continuamente ritorna nel corso della storia greca90
, sembra rispondere a due esigenze
principali, come ha ben mostrato Nicole Loraux, che ha richiamato l’attenzione sul
fatto che una “buona” e “comune” nascita fondano un’uguaglianza politica di tipo
aristocratico: un’origine illustre condivisa.
L’uguaglianza di origine (isogonia), in quanto comunanza non vile (eugenia), a
maggior ragione fonda un’uguaglianza politica (isonomia), su presupposti per più
versi naturali: “il richiamo a una buona natura nella Grecia antica è una pratica
aristocratica: dotati di una buona natura che coincide con una buona nascita
(eugénia), gli Ateniesi possono dimenticare (e al tempo stesso tentano di far
dimenticare) che il loro regime democratico è una conquista datata storicamente. La
democrazia? Una questione di famiglia…” 91
.
imposto dalla manovra d’insieme, dalla coesione del gruppo, dall’effetto di massa, nuovi strumenti
della vittoria”; nella seconda parte del cap. IV, “L’universo spirituale della ‘polis’”, del citato Les
origines de la pensée grecque. Il giuramento che gli efebi pronunciavano nel momento in cui
ricevevano le armi , alla presenza dei Cinquecento, cominciava con queste parole: “Non porterò
vergogna alle sacre armi, né abbandonerò il compagno che ho accanto nella mia schiera” Lachete,
nell’omonimo dialogo platonico (190 e ), per dare una prima ed immediata definizione del coraggio,
così si esprime: “quando un soldato resta al suo posto, combatte contro i nemici e non fugge, ecco,
quest’uomo è coraggioso” 88
P. VIDAL-NAQUET, “La tradition de l’hoplite athénien”, in J.-P. VERNANT e P. VIDAL-
NAQUET, La Grèce ancienne 3, pp.64/5 89
Trasibulo concesse con un decreto, poi annullato, la cittadinanza a quanti avevano combattuto
con i democratici del Pireo, “alcuni dei quali erano manifestamente schiavi”, sottolinea
ARISTOTELE, La costituzione degli Ateniesi, XL,2; cfr. ESCHINE, Contro Ctesifonte, III, 195, a
partire dal principio che chi a messo in gioco la sua vita per la democrazia, deve essere riconosciuto
a pieno titolo membro della città democratica. 90
Da ERODOTO a TUCIDIDE, da PLATONE, seppure con risvolti ironici nel Menesseno, a
ISOCRATE, da IPERIDE, Epitafio,7 a EURIPIDE, Ione, 589-592 91
N. LORAUX, Né de la terre, Paris 1996, in particolare cap. II, “I benefici dell’autoctonia”
35
Un luogo simbolico, il focolare domestico, tratto dal mondo privato della casa e posto
al centro della città come rappresentazione dell’unità dei cittadini in quanto legati,
come una famiglia allargata, da vincoli di sangue, è l’Hestia koinè, il focolare
pubblico:” il focolare esprime ormai il centro in quanto denominatore comune di tutte
le case che costituiscono la polis”. Un centro e un legame: “Il centro traduce nello
spazio gli aspetti di omogeneità e di uguaglianza, non più quelli di differenziazione e
di gerarchia”92
.
Anche sul piano cosmologico, a partire da Anassimandro, si afferma una “nuova
immagine del mondo”, dove “Nessun elemento o porzione del mondo si trova più
privilegiato a spese di altri, nessuna potenza fisica è più posta nella posizione
dominante di un basileus esercitante la sua dynasteia su tutto93
.Si afferma l’idea di
un ordine egualitario dove “La supremazia appartiene esclusivamente ad una legge di
equilibrio o di costante reciprocità”94
.
92
J-P. VERNANT, “Espace et organisation politique en Grèce ancienne”, in J.-P. VERNANT, P.
VIDAL-NAQUET, La Grèce ancienne, 2, pp. 206-7 93
J.-P. VERNANT, Les origines de la pensée grecque, cit., cap. VIII, “La nuova immagine del
mondo” 94
Ibidem
36
Protagora e la giustificazione teorica dell’uguaglianza democratica
I due principi che caratterizzano, più di altri, la teoria politica democratica sono la
libertà e l’uguaglianza. La libertà per più versi sembra essere il principio fondante:
«base della costituzione democratica è la libertà»95
, sostiene Aristotele, e
l’uguaglianza sembra essere la più o meno estesa generalizzazione di tale libertà.
Tutti i liberi sono uguali. Questo è il senso della libertà aristocratica, a partire
dall’idea che sono veramente liberi i ben-nati, i liberi dai condizionamenti e i liberi di
affermare pienamente se stessi.
Nonostante questo primato della libertà non troviamo nella filosofia greca e
nell’ideologia democratica una vera e propria teoria della libertà, che giustifichi il suo
primato.
È universalmente riconosciuto fra i Greci che la libertà sia un valore. Semmai si tratta
di stabilire una scala, una gradazione della libertà. Ci è rimasta un’affermazione,
attribuita a Socrate, che cito a memoria: «Ringrazio gli dei di avermi creato greco e
non barbaro, uomo e non donna, libero e non schiavo».
La condizione di greco, maschio e libero, sono necessarie per essere cittadino, per
avere un’identità civica in senso pieno. E solo il cittadino è l’uomo compiutamente
libero, libero dai dominatori personali, capace di autodeterminarsi.
Se non esiste una teoria della libertà è costante la rivendicazione della libertà come
carattere distintivo di un individuo degno di rappresentare la più alta forma di
umanità, con una serie di conseguenze, di caratteristiche che ne derivano. L’uomo
libero è più valoroso rispetto a chi combatte per un padrone, vive secondo le sue
aspirazioni, “a suo modo”, può esprimere pienamente la sua personalità con la parola,
le azioni, le scelte di vita.
Ogni greco rivendica la libertà come costitutiva della sua identità, dell’identità della
Grecia. Ogni greco assume la libertà come un principio, un valore costitutivo della
propria identità, da affermare e da difendere, al di là di quella che è la sua ideologia
di riferimento.
Tucidide ricorda che gli Spartani iniziarono la guerra del Peloponneso in nome della
libertà della Grecia e Senofonte96
ricorda che quando Atene, alla fine, si arrese e «si
iniziò a demolire le mura con grande entusiasmo al suono dei flauti, si pensò che quel
giorno segnasse l’inizio della libertà greca».
Diversamente che per la libertà, esiste una costante attenzione/discussione sulla
questione dell’uguaglianza. Appare, infatti importante, fondamentale, che
l’uguaglianza per essere apprezzabile debba consistere nella condivisione di un
carattere positivo. Abbiamo visto nelle pagine precedenti che la principale critica
portata dai nemici della democrazia all’uguaglianza è che quest’ultima nel regime
democratico diventa la condivisione di un disvalore: povertà / debolezza / volgarità /
venalità. 95
Aristotele, Politica, 1317, a40. 96
Senofonte, Elleniche, II, 2, 23.
37
Al di là di quella che potremmo definire come la teoria democratica dell’uguaglianza
democratica, che a mio avviso è presente in Protagora, si può derivare, per così dire,
in modo deduttivo dall’analisi del sistema democratico ateniese, una prima teoria
egualitaria. Del resto, occorre ricordare che il dibattito sull’uguaglianza prende quasi
sempre spunto dalla realtà, cioè dal sistema di gestione e amministrazione del potere
nell’Atene democratica.
Ad esempio, il fatto che pressoché tutte le magistrature siano assegnabili a tutti per
sorteggio (fatta eccezione delle cariche militari e di poche altre), sta a significare che
tutti sono ritenuti capaci di svolgere certi incarichi, come quello di giurato nei
tribunali, ad esempio.
Condizione necessaria e sufficiente per il riconoscimento di tale capacità è avere la
cittadinanza.
La teoria di Protagora, che troviamo nell’omonimo libro di Platone97
, verte
essenzialmente su due questioni: l’insegnabilità della virtù politica e l’uguaglianza in
quanto condivisione della virtù politica, che è ciò che contraddistingue il cittadino.
Ogni cittadino è tale perché dotato di virtù politica, cioè di capacità politica, di dare
un contributo alla vita politica della città, e in questa comune capacità riconosciuta
per tale si fonda l’uguaglianza democratica.
Andiamo subito al cuore della teoria politica di Protagora e della sua apologia
dell’uguaglianza politica, dell’uguaglianza democratica.
La vita politica, la vita associata, non è resa possibile solo a partire dal bisogno di
aiuto reciproco. Non basta la necessità, l’esigenza di cooperare per difendersi, in una
condizione originaria, dalle bestie e dalle avversità naturali, non basta da sola a
garantire la convivenza, una cooperazione armonica.
La polis, cioè la comunità organizzata ed autonoma, autarchica, si costituisce solo a
partire dalla presenza di due attitudini propriamente politiche: il pudore, inteso come
rispetto reciproco, ed il senso di giustizia, che Aristotele definisce come una virtù
sociale.
Sono due doni di Zeus, per la salvezza, per lo sviluppo civile del genere umano; in tal
modo Protagora fa intervenire la divinità nella vicenda umana che colma una carenza
originaria.
Questo quadro può anche leggersi, per così dire, a ritroso. Se negli uomini viene a
mancare il rispetto reciproco e il senso della giustizia, si ritorna al punto di partenza,
alla crisi della convivenza.
Senza l’intervento degli dei, senza il rispetto del dono di Zeus, l’uomo sembrerebbe
mostrare un carattere originario, una natura sostanzialmente asociale.
Se a questi doni di Zeus si accompagna l’educazione, l’insegnamento, si forma il
cittadino, colui che a partire da una disposizione naturale la sviluppa attraverso
l’esercizio disciplinato, attraverso l’apprendimento. Protagora si ritaglia uno spazio
anche per il suo mestiere di sofista.
97
Platone, Protagora, 217a e ss.
38
La teoria protagorea si definisce meglio proprio in risposta alle critiche degli
avversari: tanto della tesi che vuole la virtù politica insegnabile, come
dell’uguaglianza politica.
Protagora spiega, attraverso un esempio, come l’uguaglianza politica non significhi
identità dei cittadini, ma capacità da parte di ognuno di dare un proprio contributo
alla vita, all’amministrazione, alla difesa della città.
L’esempio a cui si riferisce è quello dei flautisti, di un gruppo di musicisti. Affinché
si possa dire di qualcuno che è un flautista occorre che conosca la musica e sappia
suonare lo strumento musicale. Ci sono differenze di abilità fra vari flautisti, di
padronanza dello strumento, ma il fatto che conoscano le note, l’armonia, che si
sappia utilizzare il flauto permette di definire una persona musicista.
Lo stesso può dirsi per l’uguaglianza nella società democratica: il fatto che ogni
cittadino possa svolgere funzioni utili alla città (ad esempio, potremmo aggiungere
noi, combattere in difesa della città, diritto–dovere di ogni cittadino) sta a significare
che è simile, non identico, agli altri cittadini.
Questa teoria politica è capace di salvaguardare uguaglianza e differenza, cioè tutela
del merito, come specifica capacità riconosciuta ai singoli. In altri termini, il sistema
dell’attribuzione degli incarichi in democrazia, tanto per sorteggio che per elezione.
39
TESTI
L’isonomia democratica
Erodoto, per bocca di un fittizio personaggio persiano di nome Otane, ci offre una delle prime
definizioni conosciute dell’isonomia (uguaglianza di fronte alla legge) tipica della visione
democratica.
“Come dunque potrebbe essere una cosa perfetta la monarchia, cui è lecito far ciò che
vuole senza doverne render conto? Perché anche il migliore degli uomini, una volta
salito a tale autorità, il potere monarchico lo allontanerebbe dal suo solito modo di
pensare. Dai beni presenti gli viene infatti l’arroganza, mentre sin dalle origini è
innata in lui l’invidia. E quando ha questi due vizi ha ogni malvagità, perché molte
scelleratezze le compie perché pieno di arroganza, altre per invidia. Eppure un
sovrano dovrebbe essere privo di invidia, dal momento che possiede tutti i beni.
Invece egli si comporta verso i cittadini in modo ben differente, è invidioso che i
migliori siano in vita, e si compiace dei cittadini peggiori ed è prontissimo ad
accogliere le calunnie. Ma la cosa più sconveniente di tutte è questa: se qualcuno lo
onora moderatamente, si sdegna di non esser onorato abbastanza; se invece uno lo
onora molto si sdegna ritenendolo un adulatore. E la cosa più grave vengo ora a dirla:
egli sovverte le patrie usanze e violenta donne e manda a morte senza giudizio. Il
governo popolare invece anzi tutto ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi
alla legge, in secondo luogo niente fa di quanto fa il monarca, perché a sorte esercita
le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo e presenta tutti i decreti
dell’assemblea generale. Io dunque propongo di abbandonare la monarchia e di
elevare il popolo al potere, perché nella massa sta ogni potenza”.
Erodoto, Storie
40
La scuola della Grecia
In alcuni celebri capitoli de La guerra del Peloponneso, Tucidide riporta il discorso in cui Pericle,
nell’encomio ai caduti nel primo anno della guerra, definisce un vero manifesto della democrazia
ateniese e dello stile di vita dell’uomo democratico. Un testo che ancora oggi appare come un
documento in cui si fissano, al di là del contesto storico, alcuni aspetti fondamentali della teoria e
della prassi democratiche
“Ma per prima cosa comincerò dagli antenati; è giusto, infatti, e conveniente insieme
che in simile occasione sia dato loro questo onore della prima menzione. Restando
sempre i medesimi abitatori di questa terra, in un seguito ininterrotto di generazioni,
grazie al loro valore, la tramandarono libera fino ai nostri giorni. E se i nostri antenati
sono degni di lode, ancor di più lo sono i nostri padri: non senza fatica aggiunsero
quell’impero che ora è nostro a quello che era stato lasciato loro, e così grande lo
lasciarono a noi ma l’ampliamento dell’impero stesso è opera nostra, di tutti quanti
noi che ci troviamo nell’età matura e che abbiamo ingrandito la nostra città, si da
renderla preparata da ogni punto di vista e autosufficiente per la pace e per la guerra
[…] Ma in virtù di quali principi siamo giunti a questo impero, e con quale
costituzione e con quale modo di vivere tale impero si è ingrandito, questo mi
accingo a mostrare per primo, e quindi a lodare costoro, poiché penso che in questa
situazione non è sconveniente che se ne parli, ed è utile che tutta la folla dei cittadini
e degli stranieri lo ascolti.
Abbiamo una costituzioni che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più
d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili
spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di
fronte alle leggi per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di
parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione
dello Stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo,
non per la provenienza da una classe sociale più che per quello che vale. E per quanto
riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito
dall’oscurità del suo rango sociale. Liberamente noi viviamo nei rapporti con la
comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle
abitudini giornaliere, senza adirarci col vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e
senza infliggerci a vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono
piacevoli ai nostri occhi. Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti
privati e nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in
obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle istituzioni poste a tutela di
chi subisce ingiustizia, e in particolare a quelle che, pur essendo non scritte, portano a
chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta.
E abbiamo dato al nostro spirito moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo
abitualmente giochi e feste per tutto l’anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre
case private, dalle quali giornalmente deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E
per la sua grandezza, alla città giunge ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene
che noi godiamo dei beni degli altri uomini con non minor piacere che dei beni di qui.
41
Ma anche nelle esercitazioni della guerra noi differiamo dai nemici per i seguenti
motivi. Offriamo la nostra città in comune a tutti, né avviene che qualche volta con la
cacciata degli stranieri noi impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa
(mentre un nemico che potesse vedere una certa cosa, quando non fosse nascosta, ne
trarrebbe un vantaggio). Ché la nostra fiducia è posta più nell’audacia che mostriamo
verso l’azione (audacia che deriva da noi stessi), che nei preparativi di difesa e negli
inganni. E nell’educazione, gli altri subito fin da fanciulli cercano con fatiche ed
esercizi di raggiungere un carattere virile, mentre noi, pur vivendo con larghezza, non
per questo ci rifiutiamo di affrontare quei pericoli in cui i nostri nemici sono alla
nostra altezza. Eccone una prova: neppure i Lacedemoni invadono la nostra terra da
soli, ma insieme a tutti gli alleati, e quando noi assaliamo da soli i nostri vicini, di
solito non duriamo fatica a vincere in una terra straniera, combattendo con delle gente
che difende i propri beni. Le nostre forze unite per ora nessun nemico le ha
incontrate, perché noi siamo occupati con la flotta, e contemporaneamente per terra
facciamo numerosi invii di truppe nostre, in molte imprese. Se si incontrano con una
piccola parte di noi e la vincono, si gloriano di averci respinti tutti, mentre se sono
vinti si vantano di esserlo stati da tutti noi. Eppure, se siamo disposti ad affrontare
pericoli più col prendere le cose facilmente che con esercizio fondato sulla fatica, e
con un coraggio generato in noi non più dalle leggi che dal nostro modo di agire, da
questo fatto ci deriva il vantaggio di non affaticarci anticipando i dolori che ci
attendono, e di non apparire, quando li affrontiamo, più simili di coloro che sempre si
mettono a dura prova, e per la nostra città il vantaggio di essere degna di
ammirazione per questa e per altre cose.
Amiamo il bello, ma con compostezza, e ci dedichiamo al sapere ma senza
debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire, che essa offre, che
per sciocco vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per
nessuno, mentre lo è assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la
cura degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci
dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi
pubblici. Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile chi non se ne
interessa, e noi Ateniesi o giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le
varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia
piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione. E di
certo noi possediamo anche questa qualità in modo differente dagli altri, cioè noi
siamo i medesimi e nell’osare e nel ponderare al massimo grado quello che ci
accingiamo a fare, mentre negli altri l’ignoranza produce audacia e il calcolo
incertezza.
[…] Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che
ciascuno uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente
personalità a ogni genere di occupazioni, e con la più grande versatilità accompagnata
al decoro. E che questo non sia ora un vanto di parole più che una realtà di fatto lo
indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a questo
modo di vivere.”
Tucidide, La Guerra del Peloponneso.
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Il disordine nella città democratica
In un noto passo de La Repubblica, Platone descrive, con tratti ironici, fino ad essere caustici, il
capovolgimento di tutti i “normali” parametri di vita, con interessanti risvolti psicologici, che
avvengono nell’Atene democratica, tracciando un quadro divertente e paradossale dell’Atene del
suo tempo.
“Ora, non nascono in maniera pressappoco identica la democrazia dall’oligarchia e la
tirannide dalla democrazia? – Come? – Quel bene, dissi, che i cittadini si erano
proposti come obiettivo e che comportava l’instaurazione dell’oligarchia, era la
ricchezza eccessiva, non è vero? – Sì. – A rovinare l’oligarchia furono dunque
l’insaziabilità di ricchezza e la noncuranza del resto, provocata dall’avarizia. – È
vero, disse. – Ora, a distruggere anche la democrazia non è pure l’insaziabilità di ciò
che essa definisce un bene? – Secondo te, che cosa definisce così? – La libertà,
risposi. In uno stato democratico sentirai dire che la libertà è il bene migliore e che
soltanto colà dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente libero. – Sì, ammise, è
una frase molto comune. – Ebbene, feci, come or ora stavo per dire, l’insaziabilità di
libertà e la noncuranza del resto non mutano anche questa costituzione e non la
preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide? – Come?, chiese. – Quando, credo,
uno stato democratico, assetato di libertà, è alla mercé di cattivi coppieri e troppo
s’inebria di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non siano assai miti e
non concedano grande libertà, li pone in stato d’accusa e li castiga come scellerati e
oligarchici. – Sì, si comporta così, disse. – E coloro, continuai, che obbediscono ai
governanti, li copre d’improperi trattandoli da gente contenta di essere schiava e
buona a nulla, mentre loda e onora privatamente e pubblicamente i governanti che
sono simili ai governati e i governati che sono simili ai governanti. Non è inevitabile
che in uno stato siffatto il principio di libertà si allarghi a tutto? – Come no? – E così,
mio caro, dissi, vi nasce l’anarchia e si insinua nelle dimore private e si estende fino
alle bestie. – Come possiamo dire una cosa simile?, chiese. – Per esempio, risposi, nel
senso che il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figlioli, e il figlio
simile al padre e a non sentire né rispetto né timore dei genitori, per poter essere
libero; e che il meteco si parifica al cittadino e il cittadino al meteco, e così dicasi per
lo straniero. – Sì, avviene così, rispose. – A questo si aggiungono, ripresi, altre
bagattelle, come queste: in un simile ambiente il maestro teme e adula gli scolari, e
gli scolari s’infischiano dei maestri e così pure dei pedagoghi. In genere i giovani si
pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle opere, mentre i
vecchi accondiscendono ai giovani e si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non
passare da spiacevoli e dispotici. – Senza dubbio, disse. – Però, mio caro, feci io,
l’estremo della libertà cui la massa può giungere in un simile stato si ha quando
uomini e donne comperati sono liberi tanto quanto gli acquirenti. E quasi ci siamo
scordati di dire quanto grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti
reciproci tra uomini e donne. – Ebbene, fece, con Eschilo non “diremo quel che ora è
venuto alle labbra”? – Senza dubbio, risposi, così dico anch’io. Consideriamo le
bestie soggette agli uomini: nessuno potrà persuadersi, senza farne esperienza, di
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quanto siano più libere qui che in un altro stato. Le cagne, per stare al proverbio, sono
esattamente come le loro padrone; e ci sono cavalli e asini che, abituati a camminare
in piena libertà e solennità, cozzano per le strade contro i passanti, se non si scansano.
E dappertutto c’è questa libertà”.
Platone, La Repubblica
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I deboli e la forza del numero
In un’opera di Platone, che ha per titolo il nome di uno dei maggiori sofisti del suo tempo, Gorgia,
troviamo, per bocca di un personaggio di nome Callicle (di cui è difficile dire se sia veramente
esistito o serva solo ad indicare un certo tipo di sofista antidemocratico), la critica all’uguaglianza
democratica, intesa come l’unico modo possibile ai più deboli di imporsi, appunto attraverso
l’unione su basi egualitarie. In tal modo, moltiplicando le loro forze, creano un nuovo soggetto
politico capace di imporsi anche ai migliori cittadini.
“Per natura è più vergognoso ciò ch’è anche peggiore, il subire torto: per legge invece
il fare torto. Non e degno di un uomo il subire torto, ma di uno schiavo, cui sarebbe
preferibile morire piuttosto che vivere; in questa condizione si trova chi, offeso e
oltraggiato, non è capace di venire in aiuto a se stesso, né ad altri che gli premano.
Ma, io credo, quelli che hanno stabilito le leggi sono gli uomini deboli, i più. Essi
stabiliscono le leggi a loro vantaggio e per il proprio utile, e di conseguenza foggiano
la lode e il biasimo: temendo quelli fra gli uomini che sono i più forti, e capaci di
acquistarsi superiorità, perché non riescano ad acquistarsela, essi sanciscono che
l’aspirare alla superiorità è cosa turpe, e ingiusta, e che in questo consiste ingiustizia,
nel cercare di essere da più degli altri; essi, credo, si contentano dell’uguaglianza,
proprio perché sono da poco. Per questa ragione, secondo la legge, si definisce turpe
e ingiusto l’aspirare alla superiorità sugli altri e si ritiene che questo sia il commettere
ingiustizia.
Ma, credo, se sopravvenga un uomo di natura idonea, che sia capace di scuotere via
da sé tutto questo e di prorompere liberandosi dai lacci, calpestate tutte le nostre leggi
scritte e tutti i nostri sortilegi e incanti, e tutte le leggi contro natura, apparirà,
ergendosi, da servo che era, come nostro padrone, e allora risplenderà il giusto
secondo natura.”
Platone, Gorgia