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Erodoto108 n°7

Date post: 31-Mar-2016
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Brasile un gol a porta vuota Pedro Paramo è morto Bolivia taccuino delle contraddizioni La donna della coca Argentina “innumerevole“ BuenosAires Le Ande sono un‘illusione I Selfies di Frida Gente di Palermo Il miraggio di fata Morgana e tanto altro...
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7 • ESTATE 2014 ERODOTO108
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ERODOTO108 SOMMARIO4

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EDITORIALE Andrea Semplici

L A T I N O A M E R I C A

BRASILE UN GOL A PORTA VUOTATesto di Francesca Zanutto, foto di Aldo Pavan

storie di ciboLA STRAORDINARIA CUCINA DELLE API INDIGENE Testo di Roberto Smeraldi

IL MITO DELL’AMAZZONIA LA PAZIENZA DEL GRANDE FIUMETesto e foto di Andrea Semplici

storie di libri PEDRO PARAMO È MORTOTesto di Valentina Cabiale

gli occhi di erodoto“NON SIAMO QUI PER PRENDERE IL POTERE” CONVERSAZIONE CON PINO CACUCCIIntervista di Francesco Ditaranto

cartolina dal Messico NE SE PUEDE VENDER EL VIENTO Laura Montesi

BOLIVIA TACCUINO DELLE CONTRADDIZIONITesto e foto di Anna Maspero

una foto una storiaLA DONNA DELLA COCA Pietro Paolini

ARGENTINA ‘INNUMEREVOLE’ BUENOSAIRESTesto di Lucio Yudicello, foto di Maria Di Pietro

LE ANDE SONO UN’ILLUSIONE Testo e foto di Andrea Semplici

RAPA NUITesto di Valentina Cabiale, foto di Claudio Galletto

storie di mostre I SELFIES DI FRIDATesto di Marco Turini

IL MITO DI ERNESTO GUEVARA A CUBA FURENTE Y TRISTETesto di Andrea Semplici e Andrea RauchFoto di Giovanni Mereghetti

In copertinaL’ultimo gaucho? No, l’epopea deigauchos della Pampa argentina, del loro mondo arcaico e selvatico(‘di selvaggia nobiltà’), era già finitaquando Ricarco Güiraldes nescrisse, nel 1926, l’epopeasilenziosa fino all’omertà e oramaiperduta. Questa foto ècontemporanea e contradditoria:quel gaucho lavorava per i Benetton…ma lui stavaandandosene nel ‘nulla’, nellapolvere, con il suo cane, guidando i greggi…vi era tutta la mitologia e la nostalgia irrimediabile. Foto facile e ingannatrice. Foto A. S.

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GENTE DI PALERMO Testo e foto di Francesco Faraci

storie di fotografia IL MIRAGGIO DI FATA MORGANATesto di Francesca Cappelli

storie di cimiteri SPOON RIVER A VILNIUSTesto e foto di Fabio Belafatti

O R I E N T E E S T R E M O

Yangon IL TRENO CHE NON PORTA DA NESSUNA PARTEFoto di Vittore Buzzi Testo di Osvaldo Spadaro

quaderni a quadretti

LA VITA A COLORI DI ANDREA RAUCH La storia di SiddhartaDisegni di Andrea Rauch

CARNET DE VOYAGEACQUERELLI DAL VIÊT NAM

Disegni di Gabriele GeniniTesto di Gaia Del Francia

LAOS I LAOTIANI ASCOLTANO IL RISO CRESCERETesto di Maurizio Silvestri

Foto di Aldo Pavan

ZODIACO LATINO AMERICANOLetizia Sgalambro

PER SAPERNE DI PIÙ a cura di Sara Lozzi

Fondatore: Marco Turini • Direttore responsabile: Andrea Semplici • Redazione: Giovanni Breschi, Valentina Cabiale, Massimo D’Amato, Francesca Cappelli, Alessandro Lanzetta, Sergio Leone, Sara Lozzi, Isabella Mancini, Yuri Materassi, Andrea Semplici, Letizia Sgalambro, Marco Turini • Web designer: Allegra Adani • Progetto grafico:Giovanni Breschi /CasaltaERODOTO108 registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.5738 il 28/09/2009

www.erodoto108.com

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Elogio del litigio Questa piccola non-rivista ha un’unica regola. Non è vero: è che non ha regole néscritte, né chiare. Le vorremmo avere; no, non le vorremmo avere, ma in qualcosa siamo ostinati: vorremmocercare di essere trasparenti. Almeno con voi che ci leggete. Vorremmo raccontare, senza nasconderci, cosa accadeal suo interno. Non lo fa quasi nessuno, i giornali quasi sempre non lavano i loro panni in pubblico. Noi ciproviamo. Quindi, il numero che state sfogliando in questo mondo virtuale è una sconfitta e un miracolo.Volevamo uscire prima dei campionati del Mondo di calcio. Prima del 12 di giugno. Non ci siamo riusciti.Abbiamo (non è vero nemmeno questo, ne stiamo soffrendo ancora) già elaborato la malinconia per la disfattaitaliana (ve bene così, viva Pepe Mujica, presidente dell’Uruguay). Ci chiediamo: le battaglie sociali per le stradedi Recife e San Paolo non avrebbero meritato qualche titolo di prima pagina?Noi avremmo voluto che i nostri collaboratori scrivessero solo di Latinoamerica. Non è andata così. Questonumero sette non è monografico, come speravamo. Forse è meglio. In più: abbiamo litigato fra di noi. Questioni di‘pubblicità’, di impossibilità, di incomprensioni. E non è che abbiamo risolto i nostri problemi anche se ci siamoriappacificati. Difficoltà di crescita: non stiamo più facendo una non-rivista sulle onde di una passione per lestorie. Stiamo lavorando e farlo senza denaro non è facile. Lo abbiamo sempre detto. E forte rimane l’imbarazzonel chiedere ad amici e colleghi dei doni preziosi. Alcuni ci hanno risposto che non potevano farlo. E hannoragione: gli articoli dovrebbero essere pagati. Ma, non appena si parla di soldi, siamo noi stessi a dividerci.Insomma, tre mesi complessi per la nostra giovane vita.Eppure….

Eppure Francesca Zanutto ha scritto, per noi, delle contraddizioni del Brasile. E Anna Maspero hafatto lo stesso per la Bolivia di Evo Morales. Francesca e Anna hanno scritto o stanno scrivendo le guide a questidue paesi. Roberto Smeraldi, fondatore degli Amici della Terra brasiliani e bravissimo gastronomo, ci haraccontato delle api dell’Amazzonia, mentre la nostra Valentina Cabiale ha riletto per noi (e per la sua gioia)‘Pedro Paramo’, uno dei capolavori della letteratura latinoamericana. Sono le pagini-radici che hanno contagiatoGabriel Garcia Márquez.Uno dei nostri orgogliosi miracoli è lo scrittore Pino Cacucci: ha narrato, in una intervista a Francesco Ditaranto(grazie, Francesco), del suo Messico. Nelle sue parole appaiono il subcomandante Marcos (appena scomparsodalle scene) e il presidente no-global dell’Uruguay, Pepe Mujica. Il fotografo fiorentino Pietro Paolini del gruppoTerraproject che ci ha donato la sua foto di una donna sommersa dalle foglie di coca. E un altro scrittore,l’argentino Lucio Yudicello, ci ha portato a camminare a Buenos Aires assieme a Borges, Cortazar ed ErnestoSàbato. Grazie di cuore a tutti questi compagni di viaggio.

Scorro questo numero. E alla fine ne rimango sorpreso. Ecco, le foto di Giovanni Mereghetti sull’icona Che Guevara a Cuba e le poche parole dell’antropologa Laura Montesi su quanto sta accadendo nell’istmomessicano. Sono grimaldelli che ci aiutano ad afferrare frammenti di un continente.

Poi, all’improvviso, cambiamo terre, andiamo nell’Oriente estremo: Vittore Buzzi, un ‘world press photo’, ciporta in viaggio, assieme al giornalista Osvaldo Spadaro, sulla ferrovia suburbana di Yangoon. Uno dei migliorigrafici del mondo, Andrea Rauch, ci ha regalato le sue tavole su Buddha. Il nostro Gabriele Genini ci porta, coni suoi acquerelli, in Viet-nam, mentre Maurizio Silvestri, esperto di cibo e scrittore, ha seguito le tracce di TizianoTerzani in Laos e ‘ascoltato’ il riso crescere. Un altro fotografo e documentarista, il veneto Aldo Pavan, ci hadonato le foto attorno al Brasile e al Laos.

E Francesco Faraci? Giovane fotografo siciliano, ci ha svelato per noi e per voi, il volto di una Palermo che maiavremmo conosciuto senza il suo lavoro. Ci siamo ripromessi che ogni numero della rivista, d’ora in poi, avràstorie italiane. Siamo felici di cominciare con Palermo e con Francesco. Francesca Cappelli, invece, è rimasta aFirenze per farci scoprire chi ancora, nei tempi del digitale, ritocca a mano le foto.

Fra i nostri litigi, i nostri insuccessi e incertezze, siamo riusciti a fare un buon numero della non-rivista. Non so cosa voglia dire. Non so cosa vogliamo dimostrare. Abbiamo addosso una stanchezza eccessiva.Ma anche una fiammella di orgoglio in fondo alla pancia. Proveremo a scrollarci di dosso la fatica e la malinconia.Ma ancora non credo che questo numero esista per davvero. Anzi, ne sono certo: il numero sette non esiste.Quindi, leggetelo.

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UNO STRANO NON-ED ITOR IALE .

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Lo zapatista distratto Nel mondo latinoamericano, in questi ultimi mesi, sono scomparse duepersone: ad aprile se ne è andato Gabo, Gabriel Garcia Màrquez. Poco più di un mese dopo, è svanito Marcos. Ma fraqueste due ‘uscite di scena’, c’è Galeano, un contadino che nessuno conosceva (o che tutti, in Chiapas, conoscevano).Un ‘compa’ zapatista. E’ stato ucciso da banditi paramilitari perché si batteva per una nuova società nelle montagne delSud-est messicano. Questo numero di Erodoto108 è dedicato a lui.

Dopo la morte di Galeano, il subcomandante Marcos, Durito e il vecchio Antonio hanno ‘smesso di esistere’. Alle 2.08del 25 maggio del 2014. L’ologramma Marcos è vissuto più di venti anni. Il suo ‘trucco di magia terribile emeravigliosa’ si è così dissolto. E’ stato svelato. Noi, in Occidente, per anni, abbiamo avuto bisogno di una caricaturaper poter appena intravedere gli uomini e le donne del Chiapas che stavano camminando su sentieri che nemmenopotevamo immaginare. L’Occidente (ma anche l’Oriente, il Sud, il Nord: qui non é questione di punti cardinali) vive di leader e di capi. Nellemontagne del sud-est messicano stanno provando a spiegarci che per una ribellione è necessario solo ‘un po’ divergogna, tanta dignità e molta organizzazione’. E senso dell’umorismo. Riusciremo ad apprenderlo?

Non so se Erodoto108 appartenga ai ‘media liberi’ ai quali l’ologramma Marcos si è riferito nelle sue ultime parole allaRealidad. Non credo nemmeno che siamo un media, ma avremmo voluto dedicare questo numero al Latinoamerica. Anostro modo, in parte, ci siamo riusciti. Avremmo voluto fare di più. Avremmo voluto essere più attenti. Ci siamo un po’smarriti. Una volta, in un centro sociale del Nord-Est italiano, mi dissero: ‘Si può quel che si fa’. La maschera-passamontagna Marcos accende la pipa (portategli del buon tabacco, se andate da quelle parti, il ribelle non èscomparso, sta ancora là) e tentenna la testa: ‘Sappiamo che manca sempre qualcosa’. Questa è una eccellente ragioneper continuare. In ogni geografia. Noi non siamo una ribellione, appena facciamo una non-rivista molto ingenua e spessosuperficiale. Cerchiamo di farla al meglio che possiamo. In fondo, vogliamo solo raccontare storie. E, in questi tempi,quella degli zapatisti ci sembra la più bella. Ci sembra che sia vita. Che rinasce di continuo, proprio quando, lacrime agliocchi, ricorda le persone che l’hanno persa perché credevano in un’idea di libertà. Noi vorremmo essere solo dei cronisti capaci di guardare, di raccontare, di alzare il volume di un megafono, difotografare quello che accade nel mondo.

Qualcuno ha notato che fra i dolori e le morti ricordate da Marcos nel suo ultimo discorso c’è Carlo Giuliani, ucciso aGenova, in un’estate di tredici anni fa?

Oggi le notizie non attendono le mattine. Lo schermo del mio computer lampeggiò: ‘E’ morto Gabo’. Niente altro. Treparole di un amico. Per un uomo, uno scrittore che ha segnato i nostri anni e ci ha condotto in un altro pianeta. Per poifarci scoprire che era il nostro. Qualche decennio fa, la nostra America Latina ha camminato, di pari passo, sull’iconanon-leggendaria di Ernesto Guevara e venne avvolta dal mistero tropicale di quella mattina in cui il colonnello AurelianoBuendia venne portato, da suo padre, a conoscere il ghiaccio. Macondo è stato il nostro sogno. La Poderosa, la splendidaNorton a quattro cilindri con cui due ragazzi attraversarono il continente nei primi anni ‘50, era la motocicletta sullaquale avremmo voluto viaggiare. Non hanno lasciato il nostro cuore e nemmeno il vostro, immagino.

Il Latinoamerica è la nostra vita, lo sappiamo fin da quando ‘il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi bagliori di una brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, il suo dominio invincibile, il suo amore impavido, e lo spaventò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.“E fin quando crede che possiamo proseguire questo andirivieni del cazzo?” gli domandò.Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatrè anni, sette mesi e undici giorni con le loro notti.“Tutta la vita” disse’.

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da: L’autunno del patriarca di Gabriel Garcia Márquez

“…delle moltitudini freneticheche scendevano nelle strade can-tando gli inni di gaudio della no-tizia gaudiosa della sua morte edestraneo per sempre alle musi-che di liberazione e ai razzi digioia e alle campane di gloria cheannunciarono al mondo la buonanovella che il tempo incomputa-bile dell'eternità era finalmenteterminato.”

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ORTA

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testo di Francesca Zanutto foto di Aldo Pavan

‘O LIXO E O LUXO’,

IMMONDIZIA E LUSSO, QUESTO È IL BRASILE

FRA MONDIALI DI CALCIO E OLIMPIADI.

TRENTAMILA PERSONE SARANNO SFRATTATE

DALLE FAVELAS DI RIO DE JANEIRO.

MENTRE SAN PAOLO È LA CITTÀ CON PIÙ

ELICOTTERI AL MONDO.

E PELÈ VENDERÀ DIAMANTI FABBRICATI

CON IL CARBONIO

ESTRATTO DAI SUOI CAPELLI.

BRASILE MENTRE STIAMO GUARDANDO LE PARTITEQUALCUNO STA SEGNANDO…

AMERICA LATINABRASILE

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UN GOL A PORTA VUOTA

Foto Matteo Merletto

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“Per noi brasiliani il calcio è importante. Ma vorrei la stessa cura per scuole edospedali” Così afferma Caetano Veloso, grande cantautorebrasiliano, in una recente intervista per lastampa italiana. E continua: “Scuole e ospedalidovrebbero essere all’altezza dello standardFIFA: si dovrebbero calcolare meglio i costi e ivantaggi di eventi come la Coppa del Mondo ele Olimpiadi”. Il Brasile é sotto i riflettori perquesti due importanti appuntamenti che fannodiscutere, sognare e polemizzare fuori e dentrogli stadi. Il Brasile non lascia indifferenti. E’ un paese checoinvolge con la sua musica, la danza e i suoicarnevali, ma che lascia anche sbigottiti di frontealle ingiustizie, alle distanze geografiche e so-ciali. “O lixo e o luxo” immondizia e lusso. As-sieme, come nella vita. Luci e ombre di una“miscegenação” culturale che, molto prima dialtre parti del mondo, ha mescolato quattro con-tinenti: America, Europa, Africa e Asia. Oggi questo Brasile multiculturale si sta affac-ciando velocemente alla modernità, ma a qualeprezzo? E con quali rischi? Fin dall’epoca dellacolonizzazione, la gente qui ha sofferto moltoprima con vecchie e, poi, con nuove schiavitù:dalle fughe dalle piantagioni alle lotte per l’in-dipendenza fino alle nuove forme di delinquenzaurbana, al traffico di droga, armi e organi.

Sono 30mila, secondo le previsioni, le persone che saranno sfrattate dalle favelas di Rio de Janeiro per i Mondiali e le Olimpiadi del 2016. Da Pace, Pavao, Pavaozinho, Cantagalo e Babi-lonia sono stati espulsi i trafficanti mentre Ro-cinha, la favela più grande e famosa del SudAmerica, è da tempo sotto il controllo della po-lizia. Non ci sono più i delinquenti forse, macos’è cambiato? E’ una forma diversa di con-trollo che coincide con una strana forma di pa-cificazione. Come disse Fernando HenriqueCardoso, il primo presidente a cominciare unaserie di riforme sociali ed economiche, il Bra-sile non è un paese povero, è un paese ingiusto. Ma nel Brasile degli ultimi anni è accaduto, aleggere le statistiche, che il grado di disegua-

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glianza, la distanza fra ricchi e poveri, sia dimi-nuita. Ma rimane elevatissima e la gente ha co-minciato a mobilitarsi, a farsi sentire: sono scesiin piazza gli indignati di fronte alla corruzionepolitica e al potere delle grandi lobbies private.“Se Deus quiser”, il motto di rassegnazione aldestino, tanto famoso e quotidiano tra i brasi-

Pernambuco, Olinda, il gioco del calcio

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liani è, oggi, un po’ meno pervasivo. La genteha un po’ più coscienza dei propri diritti. Nonvuole più aspettare e stare a guardare. A diffe-renza del passato, come durante il periodo d’orodella Bossa Nova e del tropicalismo, non è piùsolo l’élite educata nelle migliori università a es-sere coinvolta in questo cambiamento. E’ unanuova classe media a chiedere diritti sociali eculturali. E’ la stessa gente che alimenta un im-menso esercito di consumatori. Decenni di sta-bilità politica e di crescita economica hanno

permesso al mercato brasiliano di espandersi abeneficio di tanti che, pur con livelli di istru-zione ancora medio-bassi, stanno diventando amano a mano più consapevoli e, speriamo,anche più responsabili nei confronti dell’am-biente e di una società più giusta. Una nazione ingrande fermento, che porta con sé il segno dienormi contrasti.

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A São Paulo per evitare il traffico infernalechi se lo può permettere si sposta senza maiappoggiare piede al suolo: è la città con piùelicotteri al mondo.Al contrario c’è ancora chi passa intere giornatein autobus per attraversare la città in cerca di la-voro e di speranza.

La televisione brasiliana, con le sue famose te-lenovelas e la pubblicità, veicola canoni di bel-lezza che continuano a inseguire l’Europaalimentando un velato razzismo, più pericolosoproprio perché meno evidente. Poi, c’è l’osten-tazione. Pelé venderà 1.283 diamanti, tantiquanti sono i gol da lui segnati durante la suacarriera. Non è stato scoperto un nuovo giaci-mento nel Minas Gerais, ma i gioielli sarannoprodotti dal carbonio dei suoi capelli andandosul mercato a 7.500 dollari l’uno per la felicitàdei suoi fans, dei suoi tantissimi “torcedores”. Ibrasiliani assomigliano in questo un po’ ai russi,nella necessità di esibire e di farsi guardare,nella loro rincorsa al riconoscimento sociale.

Jorge Amado diceva che il Brasile è uno “stranopaese, dove gli scrittori sono tantofamosi quantoi calciatori”. Sarebbe bello che educazione e cal-cio avessero oggi lo stesso peso e la stessa mi-sura, ma i dubbi sono tanti. Entrando un sabatopomeriggio in una delle catene di librerie affol-late di gente, si capisce che il Brasile è affamatodi storia, di arte e di istruzione. Terribilmente af-famato. Contemporaneamente però è anche as-setato di birre gelate, ricoperte a turno dacontenitori di polistirolo per non farle riscaldare,che si moltiplicano sotto tavoli e sedie di pla-stica davanti a maxischermo e altoparlanti adalto volume.

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Bahia, Chapada Diamantina, Lencois, il suono della chitarra

Pernambuco, Olinda, domenica di musicalungo le strade

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Il Brasile è uno strano paese dove il calcio è stato per molto tempo vietato alle persone di colore. Era espressione di una élite, con circoli ristrettia cui si accedeva inizialmente solo dopo un’ac-curata selezione. Oggi invece sono proprio i mu-latti i calciatori più ambiti, i volti più pagati edesportati nel mondo che alimentano l’immaginee l’identità brasiliana. Nel calcio, ma anche nellacapoeira e nel samba, i mulatti e le mulatte sonomaestri di meravigliose piroette e frenetici passidi danza durante le sfilate di carnevale. E pen-sare che tutto questo, solo qualche secolo fa, eravietato e perseguitato duramente. Persino la fei-joada, piatto tipico brasiliano per eccellenza, cheimbandisce le tavole la domenica e il mercoledì,era, in origine, il cibo degli schiavi delle pianta-gioni lungo il litorale brasiliano. Preparato a par-tire dalle parti meno nobili del maiale, mescolatea fagioli con riso di contorno e una grande nevi-cata di farofa, l’onnipresente farina di manioca,fanno oggi la felicità dello stare insieme brasi-liano.

Nel 1971, su Il Giorno, Pasolini scrisse chein Europa il calcio è prosa mentre in SudAmerica e, specialmente in Brasile, è poesia. Aveva ragione. Il calcio è un elemento intrinsecodell’anima brasiliana, un potente strumento diunificazione e di identità, una passione sfrenataal limite del delirio collettivo, che avvicina per-sone, culture e comportamenti. E’ un’ideologiapotente che unisce e intrattiene, che diventa fol-lia e liberazione, un po’ come il carnevale. Si dice che il calcio sia arrivato in Brasile dal-l’Inghilterra, dove molti brasiliani studiarono elavorarono nell’800 per poi rientrare in SudAmerica importandone le regole del gioco. Ilprimo di tutti, considerato il padre del futebol, èCharles William Miller nato a São Paulo ed emi-grato in Inghilterra alla sola età di nove anni.Rientrò in Brasile nel 1894 con due palloni invaligia e, in una fredda serata d’autunno, riunìalcuni amici per la prima partita di calcio. Secondo altre fonti non ufficiali già nel 1882 unuomo chiamato Mr. Hugh aveva introdotto il

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calcio a Jundiaí e pare si giocasse nelle spiaggecarioca fin dal 1874. L’equipaggio della naveCriméia giocò in onore alla Principessa Isabelnel 1878 e i padri gesuiti del Colégio Anchietaorganizzarono una partita a Nova Friburgo nel1886. In Brasile il calcio ha saputo raggiungere livellidi perfezione quasi assoluta, alimentando miticome Pelé e figure come Garrincha, Domingosda Guia, Romário e più recentemente calciatoricome Adriano, Ronaldo, Ronaldinho, Kaká,Thiago Silva, Pato e Robinho, spesso immorta-lati non solo nella cronaca sportiva ma anche nelgossip. Come scrive José Miguel Wisnik, il calcioè veleno e rimedio, malattia e cura. E’ un antidotodemocratico contro la miseria. Bastano pochistracci per ottenere un pallone e combattere tri-stezza e monotonia anche nei luoghi più sperdutidelle periferie. Il calcio è allo stesso tempo unamalattia che alimenta illusioni e celebrità, soldi epotere. Genera dipendenza, richiede semprenuove dosi, nuove vittorie, successo e fama. Bi-

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sogna fare gol, a tutti i costi. Anche a porta vuota.Non si può perdere, non è concesso. Un mondialeè importante, specialmente ora in Brasile, ma lavera vittoria, quella più importante, andrebbevinta anche su altri fronti. Ci sarà il bisogno di sventolare bandiere e di oc-cupare le strade per affrontare questa partita? E’possibile. Ciò che sicuramente servirebbe nellasanità, nell’educazione e nella politica è lucidità,fantasia, impegno, forza e passione. Come nelcalcio. Forza Brasile!

La favela ‘Morro da Provi-dencia’ a Rio de Janeiro.

Le gigantografie postesulle case della comunità rappresentano donne chehanno avuto vittime in fa-miglia, sono del fotografo

francese JR.Foto di Giuseppe Bizzarri.

Rio de Janeiro, Niteroi

Manaus, lungo il Rio Negro

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ALDO PAVAN, 60 anni, trevigiano. Giornali-sta, fotografo, documentarista. Da trent’anniviaggia per il mondo: i suoi reportage sonoapparsi sulle principali riviste italiane. Hascritto, per Calderini, ‘Danubio’ e per Feltri-nelli, ‘Birmania, su sentieri dell’oppio’. Ha ri-salito il Nilo, il Gange e il Fiume Giallo perricavare tre splendidi libri per l’editore Ma-gnus. Per la Rai ha appena ultimato unaserie di reportages sul rapporto fra uomini eanimali.

FRANCESCA ZANUTTO, 30 anni, vene-ziana, geografa, esperta di turismo, viaggia-trice instancabile. Ha lavorato a Madrid perl’'Organizzazione Mondiale del Turismo.Consulente in campo culturale e turistico.Ha collaborato con la Società GeograficaItaliana nell’organizzazione del Festival dellaLetteratura di Viaggio. Sta scrivendo, per lacasa editrice Polaris, la guida al [email protected]

pagina 140PER SAPERNEDI PIÙ VAI A

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Venticinque anni fa, in unvillaggio di indigeni nel-l'Amazzonia occidentale,

un giovane indio mi vide alleprese con un modesto osso daspolpare. Non ero molto soddi-sfatto: una carne di uccello nonidentificato, lungamente arrostita afuoco (e fumo) lento nel falò co-munitario. O almeno questa era lamia impressione. Mi passò, allora,una cuia – una scodella tradizio-nale ottenuta dalla parte esternaessiccata di una specie di zucca -contenente una specie di brodo.Rimasi subito colpito dall'inten-sità e dai contrasti di quel fluido:un'esplosione di acido, dolce, pic-cante... Non sospettai che potesseessere miele. Domandai chi avessepreparato quella strana zuppa. Ilgiovane indio sorrise: "Le api.Nella foresta".Il miele delle api indigene mi hacostretto, fra le molte esperienzadell’Amazzonia, a ripensare moltedelle mie idee in cucina. E nonsolo. Attesi molti anni e solo allafine del secolo scorso, mi avvici-nai al miele per fini gastronomici.O meglio, ai ‘mieli’, giacchè laprima lezione fu proprio quella diimparare a riconoscere la diver-sità come opportunità, invece checome ostacolo: perlomeno nellacucina, se non più in generalenella vita. Assaggiavo il miele diape jataí e lo volevo di nuovo. Emi venivano offerti mieli manda-

buiva fragranze delicate, l'altro unvigore pre-alcoolico.Mi ci volle tempo per capire checosa univa queste diversità. Ave-vano, sì, caratteristiche organoe-lettriche comuni ed erano prodottida api che, a differenza di quelleeuropee o africane, sono prive di

STORIE DI CIBO

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AMAZZONIALA STRAORDINARIA

TESTO DI ROBERTO SMERALDI çaia, manduri, guaraipo, uruçu, tu-

juba... Un miele cominciava conuna nota floreale e finiva con unasensazione fruttata, assaggiandoun altro accadeva il contrario. Untipo di miele spariva dopo averloinghiottito, l'altro si distinguevaper la persistenza. L'uno distri-

pungiglione. Scoprii che nonerano prodotti stabili. Si evolve-vano, maturavano. Come un vino.Anzi, anzi più rapidamente. L'apismellifera, la specie più diffusa almondo (introdotta in America me-ridionale solo nel secolo scorso),produce il miele dal fiore di cui si

Le api indegene sono prive dipungoglione. L’apicultore siavvicina senza difese.Foto di Pedro Josè Martinelli

AMERICA LATINABRASILE

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nutre. E’ la sola variabile consen-tita. Non è così per le api indigenedell’Amazzonia: 240 specie cata-logate e i fiori e l'eta del mielecome diversità. L’età del miele,poi, è importantissima: dipendedall'azione di lieviti specifici diogni ambiente, capaci di far ma-

rocrati. Da almeno dodici anni mibatto perchè i regolamenti del Mi-nistero dell'Agricoltura brasilianoriconoscano il miele delle api in-digene per garantirne una distri-buzione commerciale.In cucina, ho cominciato ad asso-ciare questi mieli al cibo per con-

manduri) per salse e insalata. Uti-lizzo quelli più dolci, come il jataí,in infusioni con distillati come unacachaça. Avvicino i più fruttati eintensi come quelli di tubuna allecarni di cacciaBisogna aver coraggio e capacità diinnovare: marino pesci e frutti dimare crudi con i mieli più acidi,maturati e fermentati. Fra le con-serve aromatiche, la mia preferita èquella con peperoncino, senza di-menticare quelle con cumaru (favatonka) e vaniglia.Il miele delle api indigene - as-sieme alla manioca – è il pro-dotto-simbolo che meglio carat-terizza il Brasile. E’ un caposaldodi una preziosa Costituzione Ga-stronomica.

STORIE DI CIBO

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ROBERTO SMERALDI, 54 anni,fiorentino di nascita, brasiliano diadozione. Vive a San Paolo. Nel2009 ha pubblicato Novo Manualde Negòcios Sustentáveis(Publifolha). E’ fondatore epresidente dell'organizzazioneambientalista Amigos da Terra -Amazônia Brasileira e vice-presidente dell'istitutoAtáwww.institutoata.org.br. E’ esperto di ‘arte culinaria’.

PEDRO JOSÈ MARTINELLI èuno dei più importanti fotografibrasiliani. Editor della rivista Vejaper sei anni. Ama l’Amazzonia. E fotografò i primi contatti con gliindios Paranà. Ha pubblicato, fral’altro, Mulheres da Amazônia(2004) e Gente X Mato (2008).

CUCINA DELLE API INDIGENE

turare ogni miele in maniera di-versa. Questi elementi formanocosì una tela di combinazioni. Maquesta straordinaria anarchia delgusto e la resistenza ostinata aogni omologazione, ha impeditoche il miele di queste api ottenesseuna identità legale. Miopia di bu-

trasto. Poi ho imparato a farlo persomiglianza. Ho provato con i for-maggi: oggi non conosco manieramigliore per valorizzare umgrande Castelmagno, Reblochono Stilton, se non con il miele aro-matico di tiúba del Maranhão. Usoi mieli più floreali (come alcuni di

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LA PAZIENZA DEL GRANDE FIUMEtesto e foto Andrea Semplici

AMERICA LATINAAMAZZONIA BRASILIANA

VIAGGIO A MAMIRAUÀ, LA PIÙ GRANDERISERVA UMIDA DEL BRASILE. L’INCONTRO CON UN BIOLOGO, CONUNA SCIMMIA, UN BRADIPO E UN DELFINO ROSA. ACCADE ANCHE QUESTO LUNGO IL RIODELLE AMAZZONI, IL FIUME PIÙ LUNGODEL MONDO. DA SOLO RACCOGLIE UNSESTO DI TUTTE LE ACQUE DOLCI DELLA TERRA.

IL MITO DELL’AMAZZONIA

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Morais pagaia nella foresta sommersa.

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Raccontano che siano oltre mille gliaffluenti (altri, più sbruffoni, parlano didiecimila) che si trasformano nel Riodelle Amazzoni, il corso d’acqua piùlungo del mondo, settemila e quarantachilometri, capace di trascinare versol’oceano Atlantico un sesto di tutte leacque dolci della Terra. Qui si trova unterzo di tutte le foreste tropicali delmondo.

Questo è stato un viaggio lungo. Doveteavere pazienza in queste acque. La pazienzaè stato il dono, fragile e prezioso, che mi hafatto l’Amazzonia. La gente del fiume, i ca-boclos, i ribeirinhos, hanno una pazienzatenace e coraggiosa. A Manaus, capitale dello stato di Amazo-nas, si incrociano le acque ‘chiare’ del So-limoes (arrivano dalle Ande peruviane) equelle scure del Rio Negro (scendono versoSud dalle foreste del Venezuela). Il Riodelle Amazzoni, qui, diventa un mare flu-viale. Da sponda a sponda sono quattordicichilometri: il fiume diventa un oceano diacque dolci e quasi sfida le leggi della fi-sica. Si apre un cammino lentissimo versol’Atlantico: fra Iquitos, città della forestaperuviana, e Belém, porto oceanico alla suafoce, ci sono appena poco più di centometri di dislivello. Mettete un dito su Manaus e poi risalite ilSolimoes. Seicento e passa chilometri versoOccidente. Perù e Colombia sembrano aportata di mano. Navigare controcorrente èuna bella fatica: occorre almeno una setti-mana con le barche a più piani e dai colorivivaci per raggiungere Tefé (poco più diun’ora con gli aerei della selva), avampo-sto nel cuore della foresta, la città più vi-cina ai laghi di Mamirauà. Qui si arriva solodal cielo o dall’acqua. Tefè è bella, corrosadalla umidità, ma voi dovete avanzare an-cora. Come esploratori. Due ore di barcaveloce, una lancia lunga e verde che zig-zaga fra canali e torrenti invasi da vegeta-

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Il Rio delle Amazzoni è il fiume più lungo delmondo. Oltre settemila chilometri. E’ un az-zardo geografico: il suo cammino versol’oceano Atlantico è lentissimo e imponente,fra Iquitos, città della foresta peruviana eBelèm, porto oceanico alla sua foce, ci sonomeno di centro metri di dislivello.

Raimundo di fronte a una delle capanne dellariserva di Mamirauà.

Sotto: i ragazzi di Cupirina vanno a scuola in canoa.

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zione galleggiante, per arrivare ad un altroincrocio di acque. Ancora il color caffellattedel Solimoes e, questa volta, le piccoleonde nere del Japurà. Racchiusa fra il corsodi questi due fiumi amazzonici, c’è unaterra che si fa beffe dei geografi: è un labi-rinto capriccioso e magnifico, qui la fore-sta si richiude su sé stessa, nascondepianure che vanno sott’acqua per sei mesiall’anno e quando riemergono non sonomai uguali a quanto è disegnato sulle carte.Le colossali radici degli alberi (hanno nomida favola brasiliana: si chiamano acapa-runa, mungaba, maracaùba, barriguda, ja-careùba, piranheira, paricarana) hannoimparato a vivere sott’acqua come statuesottomarine. Voi credete di camminare suterra firme e invece i vostri piedi poggianosu una solida e precaria zattera di vegeta-zione. L’intrico dei fiumi, delle paludi, deilaghi interni è inestricabile: questa è la vàr-zea, la foresta sommersa, una piana chegioca a nascondino con l’acqua. Qui, adogni stagione delle piogge, il fiume crescedi almeno dodici metri, sommerge alberi eisole, sfiora i piani alti delle case nei vil-laggi di palafitte, costringe gli animali acontinue migrazioni. Qui si vive su caseflottanti, sostenute da giganteschi tronchigalleggianti: la pousada dove siamo direttiè ancorata, come una nave solitaria, al fon-dale in un gomito di un grande canale. Cor-dami e legni, sotto la spinta di una correntepotente, cigolano come la chiglia di un an-

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tico veliero. Ecco, siete arrivati: questa èMamirauà, la più grande ‘riserva sosteni-bile’ di tutta l’Amazzonia, la prima ad es-sere stata creata (nel 1999) in tutto ilBrasile (oggi sono dodici), la più vasta areaumida protetta al mondo.

La pagaia ha un rumoreimpercettibile. Scivola nell’acquacon un fruscio. Morais, 52 anni,ha un volto indigeno. I caboclos, lagente del fiume, sono figli di unantico meticciato fra popolazioniamerindie e i primi coloni europei.Morais rema con lentezza. Duecolpi di pagaia a destra e due asinistra: la canoa scompare nellanotte, entra in una navata buiadella foresta.

Nei mesi della terra sommersa non ci sonosentieri, i piedi diventano inutili a Mami-rauà: si costeggia il fiume a forza di remi, siseguono le correnti e poi, con un colpo de-ciso, Morais ruota la prua verso il confinedella foresta. La barriera verde degli alberie della vegetazione appare invalicabile. E’come una muraglia verticale di foglie, ar-busti, rami contorti e rampicanti avvinghiatiuno sull’altro. Mille liane sospese sono le-gate fra loro come reti messe lì per tratte-nere un mondo a parte. Ma Morais fa ungesto leggero, come se scostasse, con dol-cezza, un sipario e la canoa irrompe, conlentezza, nel palcoscenico segreto del-l’Amazzonia. La foresta, vista da una fra-gile barchetta, è un universo monumentale.Il sole è un lontano riflettore soffuso, il fo-gliame lascia filtrare solo una penombraverde. I tronchi, umidi e scuri, dalle radicigigantesche, emergono come colonne diuna immensa cattedrale gotica. Il gioco deiriflessi è una geometria perfetta: gli alberiraddoppiano specchiandosi sulla superficiedell’acqua immobile. La potente torcia di

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Morais illumina, all’improvviso, il lucci-chio vibrante dell’occhio di un caimano:con una disinvolta torsione della corda,l’animale si immerge senza un solo rumore.Il volo delle scimmie è un lampo, sonoombre volanti e beffarde.

E Mamirauà è figlia di una scimmia. La fi-glia più amata della scimmia Uakarì. Ametà ‘800, un naturalista inglese, HenryWalter Bates, descrisse nei suoi diaril’aspetto stravagante di una piccola scim-mia: pelo bianco e scintillante, carattere ti-mido e testa calva. Il suo volto si arrossavaall’improvviso. Solo trenta anni fa, un gio-vane biologo brasiliano, José Màrcio Ayres,si spinse fino a Mamirauà per studiare que-sta scimmia ancora sconosciuta. Le Uakarìvivono solo qui, anche se forse hanno lon-tani parenti nel Borneo. Màrcio aveva occhiattenti, un cuore appassionato e un’intelli-genza aperta. I suoi libri scientifici sullascimmia inglese sono diventati capisaldidegli studi naturalistici. Non solo: Màrcio

Marito e moglie di fronte alla loro casa di Vila Alencar

Nella pagina accanto:Morais, una delle guide della riserva di Mamirauà

Ragazzi giocano a biliardo a Tefè

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L’Amazzonia è Brasile, terra del calcio.

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non poteva più lasciare Mamirauà, questaterra imprigiona nella sua perfezione. Ma ilbiologo vedeva anche i pescherecci di Ma-naus (alcuni arrivavano perfino dal Giap-pone) violare i laghi più nascosti dellaforesta; osservava i taglialegna clandestiniabbattere alberi che non sarebbero mai piùricresciuti. Conosceva le condizioni di vitadelle comunità dei caboclos che vivevanolungo le rive dei fiumi. Ne era indignato.Ma questa è una storia a lieto fine: per annie anni, Màrcio e i suoi amici-colleghi stu-diarono il meraviglioso ecosistema di Ma-mirauà, elaborarono piani di tutela, diconservazione, di sfruttamento sostenibile.Parlarono, in giorni e notti pazienti, con lecomunità del fiume. Intuirono che la forestapoteva essere salvata solo grazie ad un pattocon la gente che qui viveva. Màrcio, sedicianni dopo il suo primo viaggio a Mamirauà,forte di un fragile consenso fra il popolo deiribeirinhos, convinse il governatore dellostato di Amazonas a trasformare questo an-golo di Amazzonia, oltre un milione di et-tari, nella prima riserva sostenibile delBrasile.

‘L’acqua dà il ritmo della nostravita e del nostro lavoro. Seminiamo quando lei si ritira, raccogliamo in fretta prima delsuo arrivo, peschiamo quando i pesci si ritrovano in un lago ridotto dai mesi della stagionesecca’, racconta Afonso da Silva Carvalho, 57anni, tredici figli e settantadue nipoti, uncappellaccio nero calcato in testa, capodella comunità di Vila Alencar, villaggio di180 persone sorto su una striscia di terraracchiusa fra una laguna immobile e un pic-colo canale sommerso di vegetazione gal-leggiante. Nell’area di Mamirauà vi sonosessantatre villaggi. Poco più di seimilapersone. Più una popolazione di migrantistagionali. Questo è uno dei cuori autentici

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e solitari dell’Amazzonia. Gli insediamentihanno nomi da frontiera, da memoria an-tica, sanno di nostalgia e preghiera: si chia-mano Bom Jesus, Bom Sucesso, NovaMacedonia, Nova Jerusalem, Boa Espe-rança, Nova Estrela, Pentecostal, Paradiso.Sono comunità piccole e solitarie: hannomezzo secolo di vita, i primi coloni furonoi migranti disperati che, negli anni ’40 delsecolo scorso, fuggivano dal sertào, dalla lasavana arida e affamata del Nord-est brasi-

liano per raggiungere, come unparadosso impietoso, questaterra di piogge e fiumi. La vitadei caboclos è acquatica e dura:a Caburini de Cima vivono cen-tosei persone. I ragazzini esconoda scuola, scendono una scalettadi legno umido e salgono sullapiroga con i loro zaini colorati:la scuola è appena a cento metridi distanza, ma vi si può arrivaresolo in barca. In canoa si va allachiesa o alla casa comunitaria.A Boca do Mamiruà, anticoavamposto commerciale, le case

sono ventotto, centodue gli abitanti. Tuttiparenti di Joaquim Martins, 63 anni, occhida miope, capo del villaggio. Lui indica conun gesto della mano le mogli dei figli, i ni-poti, i nipoti dei nipoti. Racconta storie dafrontiera amazzonica, Joaquim: ‘Una voltacatturammo un colossale pacamun, unpesce immenso. Nella sua pancia tro-vammo un uomo intero’. Roberto ha 37anni, è un capo indigeno. Sono indios Kam-beba. Solo nove famiglie nella comunità diJaquiri, quarantasette persone. I censimenticalcolano che, nell’intera Amazzonia, sianopoco più di centocinquanta i Kambeba su-perstiti. Tre famiglie sono riapparse, pochianni fa, lungo il corso del lontano RioNegro. ‘Io non parlo più la lingua dei mieinonni, non abitiamo più nella casa comuni-

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NON DIMENTICARE CHICO

Questa è una storia ostinata. Testardacome lo sono gli alberi. Quegli alberi che

Chico Mendes ha difeso per tutta la sua vita.Ventisei anni fa, alla vigilia di Natale del 1988,questo piccolo uomo, 44 anni, dagli occhi sor-ridenti e i baffi da boscaiolo, venne ucciso,sulla porta della sua casa di Xapurì, da duesicari dei grandi proprietari terrieri dell’Amaz-zonia profonda. Guardate su una carta geo-grafica dov’è Xapurì, dov’è l’Acre, regioneamazzonica del Brasile: triangolo di terra aiconfini fra Brasile e Perù, una terra troppolontana. Ma così vicina...

Questa storia poteva essere dimenticata.Chico era solo un seringueiro,un bracciante della foresta, rac-coglieva il lattice degli alberidella gomma. Aveva imparato aleggere da adulto. Aveva ca-pito, per intuito, che la sua fo-resta era minacciata. Eradiventato sindacalista della suagente. Chico era il miglioredegli ambientalisti: sapeva chel’Amazzonia non doveva es-sere un santuario, credeva cheuomini e alberi potessero con-vivere a aiutarsi l’un con l’altro.La sua battaglia fu solitaria,cocciuta, instancabile. E dispe-rata. I suoi avversari erano i pa-droni della soia e dei grandiallevatori di vacche. Una lottaimpari. Ma il piccolo uomo eraindomabile. La sua voce fu udita a New Yorke nelle città europee. Per questo venne uc-ciso. L’Acre è una terra lontana dai centri delmondo contemporaneo, ma Chico è soprav-vissuto alla sua morte. La sua leggenda fra-gile (come l’Amazzonia) è ancora viva. Certo,la distruzione della foresta non si è fermata(397mila ettari bruciati i Brasile fra il 1988 e il2012, nemmeno i governi di sinistra sono staticapaci di arrestarla), ma Chico, ogni giorno, simette nel mezzo e ci invita a continuare lasua lotta.

Miriam Giovanzana, giornalista milanese, fra lefondatrici di riviste preziose come Terre di Mezzo eAltreconomia, molti anni fa, mi raccontò della suaAmazzonia. La storia di Chico non lascia in pace.Lei l’ha scritta. Un piccolo libro ‘Fermo con un al-bero, libero come un uomo’ (ed. Terre di Mezzo, pp.140, 8 euro) da tenere a portata di mano fino algiorno in cui andrete in Acre a trovare Chico.

Lungo le sponde del Grande Fiume

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taria – dice ancora Roberto – Ma i bambini,da cinque anni, stanno studiandola dinuovo’. Silenzio. Guardo la corrente chesembra accelerare sotto i tronchi galleg-gianti della pousada.

Storie di Amazzonia. Raimundo è gio-vane. Un caboclo dagli occhi vivacie dal sorriso luminoso. Una guidaesperta della foresta. A Mamirauà iricercatori, da anni, studiano la vitadel boto vermelho, il gentile delfinorosa di fiume.I suoi guizzi sono a rischio: erano un ottan-tina gli esemplari nei canali attorno allapousada. Oggi non sono che una ventina.Ma oltre quattrocento botos, in tutta la ri-serva, sono stati marcati: vengono seguitipasso passo nei loro viaggi quotidiani. I pe-scatori di frodo cacciano i delfini per farneesche. Ma è Raimundo, uomo moderno, araccontarci un’altra storia: nelle notti difesta, quando balli e falò illuminano i vil-laggi del rio Solimoes, compare sempre unuomo elegante, alto, bello, dagli abiti bian-chi. Corteggerà con successo la donna piùbella della comunità. La condurrà su unaspiaggia. Da quella notte, nascerà un bam-bino. Il figlio del delfino. Le donne più an-ziane lo temono. Gli uomini lo invidiano. A notte fonda, Raimundo cammina sullasponda del fiume. L’uomo bianco appareall’improvviso. Come un’ombra riflessadalla luna. Raimundo si ferma di colpo.L’uomo fa il gesto di un saluto e si gettanell’acqua, scompare. Raimundo giura e ri-giura: ‘Pochi metri dopo, l’acqua gorgogliòe la schiena lucida di un delfino si inarcò inuna salto’. Uno scintillio nella notte del-l’Amazzonia accese di una bellezza miste-riosa i fiumi pazienti di Mamirauà.

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Due ricercatori liberano un boto vermelho, un delfinorosa, dalle reti dove era imprigionato. Quattrocento

delfini nuotano nelle acque di Mamirauà.

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ANDREA SEMPLICI, 61 anni, giornalista fiorentino.Cerca di vivere più a Sud. Coordina la non-redazione diErodoto108. E continua a chiedersi le ragioni di questafatica. Non ha risposte, continua a farlo. L’Amazzonia èstata parte della sua vita. Nel 1992 era al grande incontrodi indios e ambientalisti ad Altamira sul rio Xingù. Vi ètornato altre volte. E il Grande Fiume non lascia in pace.Bisogna tornare in quelle acque, starne al centro, là dovenon si vedono le sue sponde. pagina 140PER SAPERNE

DI PIÙ VAI A

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Juan Rulfo, scrittore e foto-grafo messicano (Jalisco1917 - Città del Messico

1986) pubblicò questa sua se-conda e ultima opera nel 1955(la prima, del 1953, è una rac-colta di racconti, El Llano enllamas – ‘La pianura infiamme’, Einaudi). Non sonostata in Messico; conosco po-chissimo della storia del paesenegli anni ‘50 e di quello con-temporaneo. Non so contestua-lizzare Pedro Paramo né seabbia senso farlo. Quello che mistupisce è che mi succede dipensare a Pedro Paramo mentrecammino per le strade dellagrande città del nord Italia dovevivo, fitte di persone e cose inmovimento, carne e lamiere,odori risate piedi che calpe-stano, sciarpe e capelli risiste-mati al loro posto contro ilvento. Cammino e mi capita di

vedere tutti morti. Ma ancoraritti in piedi e fastidiosi e dispe-ratamente bisognosi di raccon-tare le proprie storie, digiustificarsi, di rimpiangere, didesiderare, di risolvere, di ri-spondere a domande di anniprima.

Dopo aver letto Pedro Paramo sicammina diversamente, ti vieneil dubbio. Non importa se Co-mala non esiste e non assomi-glia a nulla di esistente o diinventato. Nemmeno alla Ma-condo di Garcia Marquez, chepure l’aveva certo in mente,quanto scrisse Cent’anni di so-litudine (1967). Ricorda un po’l’Argia di Calvino, città invisi-bile dove al posto dell’aria, c’è

STORIE DI LIBRI

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Pedro Paramo è morto.Non si tarda a sco-prirlo. Juan Preciado,uno dei suoi tanti figlifrettolosamente avuti epoi dimenticati, pro-mette alla madre mo-rente di andare acercarlo, a Comala. Il viaggio a piedi versoComala, paese fanta-sma, non avrà ritorno.Pedro Paramo, gli di-cono subito, è morto.Ma anche tutti gli altriabitanti lo sono; ancheJuan Preciado, almenodalla metà del libro inavanti. In Pedro Pa-ramo nessuno è vivonel senso biologico deltermine.

PEDRO PARAMO È MORTO

VALENTINA CABIALE

AMERICA LATINAMESSICO

Gli occhi di Zapata.

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terra. Ma a Comala i morti nonsi limitano a bussare o a farsbattere le porte; sembrano vivi,con un corpo che pulsa e re-spira, e raccontano insistente-mente la propria morte o quelladi qualcun altro. Il paesaggio incui si muovono è ambiguo, in-consistente. Il romanzo, a diffe-renza di altri cataloghi di morticome la Divina Commedia ol’antologia di Spoon River, èprivo di una cornice strutturalenella quale ogni personaggio haun suo posto e rimane lì. Mancaun diaframma, una barriera trail regno dei morti e quello deivivi. I morti non sono distingui-bili dai viventi e non solo sonoperseguitati dai ricordi, dai ri-morsi, dai dolori, ma sonoanche ancora toccati dagliaspetti materici della vita, dalcaldo e dal freddo. Si lamentanoperché è entrata dell’umiditànelle bare o perché la terra hasfondato il coperchio e le tavoledi legno scricchiolano. Parlano,ma con parole prive di volume eJuan Preciado, e con lui il let-tore, comincia a dubitare. ‘…leparole che avevo sentite fino aquel momento, solo allora locapii, non avevano suono, nonrisuonavano; si sentivano, masenza suono, come quelle che siodono in sogno’. E poi a perdereil senno, e la vita, soffocato, tor-mentato e reso folle dalla pauradei mormorii che sente. ‘Nonc’era aria. Non mi rimase cheaspirare il filo d’aria che uscivadalla mia bocca, fermandolo conle mani per non farlo fuggire. Losentivo andare e venire, semprein minore quantità; finché di-ventò così sottile che sfumò dallamie dita per sempre’.

Il romanzo continua anche dopola morte della voce narrante araccontare la vita di Pedro Pa-ramo. Raccontare come se sitentasse di descrivere un sogno,una collazione di episodi, di im-magini, di sceneggiature inter-rotte nel mezzo di una frase.Paramo è un piccolo signorottolocale, padrone di Comala,senza scrupoli, corrotto e vio-lento, ma posseduto da un unicogrande amore per una donnapazza, Susanna San Juan. Rie-sce a sposarla, ma la vita con leiè un tormento, una serie di“notti sconsolate, piene di infi-nita inquietudine”, lei semprechiusa nella sua stanza a dor-mire o come se dormisse, ilcorpo che si agita tra le len-zuola, assente, non di questomondo (‘Ma qual era il mondodi Susanna San Juan? Questa fuuna di quelle cose che Pedro Pa-ramo non riuscì mai a sapere’).

Fu seppellita mentre giù inpaese si faceva una grande festa.Lui rimase da solo, ‘un durotronco che comincia a schian-tarsi da dentro’ e si vendicòdella morte di Susanna portandoalla rovina e all’estinzione ilpaese, le terre. C’è qualcosa inlui - la cattiveria senza fessuregenerata dal dolore - che fapensare a Heathcliff di CimeTempestose; e qualcosa – la mo-glie pazza segregata in casa,come una lama tra le costole -che ricorda Rochester di JaneEyre. Per Pedro Paramo perònon c’è possibilità di una vec-chiaia che si spegne lacerata elenta, né di una riabilitazione.Muore assassinato, pugnalatoda vecchio da uno dei suoi figli

illegittimi. Si schianta a terrasenza dignità, senza capirenulla, il corpo freddo da anni. ‘…tentò di camminare. Dopopochi passi cadde, gemendo incuor suo; ma senza pronunciareuna sola parola. Dette un colposecco per terra e rovinò a pocoa poco come un ammasso dipietre.’

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LE CITAZIONI DA “PEDRO PARAMO” (IN CORSIVO) SONO TRATTE DALLA PRIMAEDIZIONE ITALIANA (FELTRINELLI, MILANO1960), TRAD. DI E. MANCUSO

MESSICO. JUAN RULFO FOTOGRAFO, JACA BOOK, 2002

JUAN RULFO, PEDRO PÁRAMO, EINAUDI, 2004

JUAN RULFO, LA PIANURA IN FIAMME, EINAUDI, 2012

Juan Rulfo

VALENTINA CABIALE, archeologa,32 anni. Laureata in Lettere a Torino,specializzata in archeologia medievalea Firenze. Ama viaggiare masoprattutto leggere, non le biografie (proprie e altrui).

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Pino Cacucci è un uomo di racconti, didiari, di leggende. E del Messico. Ha rac-contato il tempo perduto di questo paese.

Ne ha narrato l’irrepetibile stagione degli anni’20 e ’30 del secolo scorso. Cacucci ha raccon-tato il Messico attraverso donne straordinarie:Frida Khalo, Tina Modotti e Nahui Olin, ladonna più bella della Ciudad. Ora, in Mahahual,il suo ultimo libro, Cacucci ci fa conoscere El-via Carrillo Puerto. Mahahual è un villaggio all'estremo sud del Mes-sico da dove arrivano racconti di corsari, pirati e pi-ratesse, sempre a metà tra storia e leggenda. Qui,lontano dalla capitale, vive Elvia, una donna dallaforza dirompente e rivoluzionaria.

La rivoluzione zapatista degli anni ’20e l’insurrezione zapatista contemporanea: cosa è il Messico per Pino Cacucci?

‘Il Messico è metà di tutta la mia vita. Ci tornoogni anno. Non solo ho tantissimi amici, ma hoanche tanti pretesti per andarci. Sono in una co-stante schizofrenia: quando sono in Italia pensoal Messico, ma quando sono là non penso gran-ché all’Italia’.

Alcuni giorni fa il subcomandanteMarcos, il leader...

‘Portavoce, più che leader’.

Lo scrittore di ‘Tina’ e ‘Demasiado corazòn’ ci racconta il suo Messico e la storia straordinaria degli zapatisti. Il subcomandante Marcos esce di scena, appare Galeano. Una nuova generazione nelle montagne del Chiapas. E dal lontano Uruguay, attenzione al presidente Pepe Mujica. Mentre l’Europa è distratta e disattenta.

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GLI OCCHI DI ERODOTO “NON SIAMOQUI PER PRENDERE IL POTERE”

CONVERSAZIONE CON PINO CACUCCIIntervista di Francesco Ditaranto

Ma da noi è stato sempre percepitocome leader, forse a causa delle nostredistorsioni culturali...

‘Da noi sì, ma a lui stava stretta questa defini-zione’.

Marcos ha deciso di sparire e, con molta ironia, ha affermato che se si poteva definirlo un personaggio, allora è stato senz'altro un travestimento pubblicitario. Ci ha preso in giro?

‘Non tutti. Marcos ha preso in giro tutti quelliche quando si indica la luna, guardano il dito. Hasempre chiarito che non voleva essere un leader.Sin dal primo giorno ha detto che era soltanto ilportavoce. Ha avuto capacità carismatiche:grande comunicatore e, non dimentichiamolo,

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grande scrittore. Basti ricordare che, nei giornidell’insurrezione zapatista, nel 1994, lo scrit-tore Octavio Paz criticò aspramente lo zapati-smo: stava oscurando il suo passato di uomo ca-pace di opporsi al potere governativo. Ma, allostesso tempo, riconobbe che Marcos era ungrande scrittore e un poeta. Marco è stato tutto questo. Ora ci prende un po’in giro e dice: “Io sono morto, ho indossato que-sto simulacro, questo passamontagna, per farminotare, altrimenti voi non ci avreste guardati.Ora lo abbandono”. Non è facile interpretare ilsignificato di questo gesto: era dal 2009 cheMarcos non compariva in pubblico e in tutti que-sti anni si sono alternate voci di ogni sorta: eragravemente malato, vi era chi si diceva certodella sua morte. E’ ricomparso per dire: “Sì,sono morto, ma lo decido io”. Questo gesto ha un

valore simbolico molto forte. Nel momento incui dice che Marcos è morto, ci dice anche che,da ora, ci sarà il subcomandante Galeano. JosèLuis Solis Lopez, conosciuto come Galeano, èstato ucciso il 2 maggio da una banda paramili-tare, provocatori che cercano di costringere glizapatisti a riprendere le armi. Finora non sonomai caduti in questa trappola. L’uccisione di Ga-leano è stata una provocazione gravissima: luiera una delle anime delle escuelitas zapatiste. Eraun maestro di scuola, zapatista fin dal primogiorno, compagno di Marcos da sempre. Eraprotagonista e partecipe di quello che non è piùun esperimento, ma una realtà: l'alfabetizzazionedei bambini indigeni. Oggi, a venti anni dall'in-surrezione, possiamo dire che c'è già una gene-razione di giovani cresciuti nell'educazione enell'istruzione autonoma zapatista. Dimostrano

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come in una scuola libera si possa apprendere unmodo diverso di concepire il mondo. Tutto questo è stato e continua a essere molto piùimportante di qualsiasi guerriglia, di qualsiasitentativo di combattere il potere. Loro hannoformato persone coscienti. Uccidendo Galeano,i paramilitari volevano dare un duro colpo al-l'istruzione nelle comunità autonome, ma Mar-cos ci ha detto che Galeano non è morto ed è lì.Da oggi ci sarà un subcomandante Galeano aparlare al posto di Marcos. Lui si è ritirato. Ma-gari lo rivedremo come Galeano. O, forse, vuolesparire davvero dalla scena perché si smetta diguardare solo la superficie’.

C’è una lezione, quasi una beffa, in questo annuncio del subcomandante. In Europa assistiamo al trionfo del leaderismo, mentre c’è chi, come Marcos, decide di morire, di sparire...

‘Lo zapatismo è stato diverso fin dai tempi diEmiliano Zapata. La Rivoluzione messicana, co-minciata nel 1910, fu realizzata da persone che

dichiararono di non combattere per prendere ilpotere. Non gli interessava il potere. Stavanolottando contro condizioni di vita disumane,contro lo sfruttamento degli esseri umani. Ma-gari, come Pancho Villa, si battevano anche pervendetta, ma è stata l’unica grande rivoluzionenella storia dell’umanità fatta da persone chenon erano politicanti: non volevano il potere,ma vigilare sul potere. Non glielo permisero:uno dopo l’altro quei primi zapatisti sono statiuccisi, ma i loro semi hanno germogliato.Quando, nel 1994, lo zapatismo si rivelò almondo, affermò: “Non siamo qui né per rove-sciare, né per prendere alcun potere. Noi siamogli ultimi degli ultimi, ma anche voi –ed era ilgennaio del ’94- andando avanti così farete la no-

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PINO CACUCCI,59 anni, è nato ad Alessandria. A vent’anniarriva a Bologna, annidella ribellione giovanileitaliana. Il capoluogoemiliano è il suo porto dipartenza: verso Parigi,

verso Barcellona. Soprattutto verso il Messico, la suanuova terra. Cacucci scrittore, sceneggiatore,traduttore ci ha regalato libri sulle grandi donne delMessico rivoluzionario. ‘Viva la vida’ ha narrato di FridaKhalo. ‘Tina’ ci ha fatto conoscere Tina Modotti. Nahui èil ritratto commovente di Nahui Olim. Adesso è la voltadi Elvia Carrillo Puerto in Mahahual.Libri pubblicati:San Isidro Futbol, Feltrinelli, 2002La polvere del Messico, Feltrinelli, 2004Tina, Feltrinelli, 2005Sotto il cielo del Messico, Photology, 2009Viva la vida!, Feltrinelli, 2010

Una vecchia junta a Oventic

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stra fine”. Hanno avuto ragione. Loro prevede-vano la crisi del nostro sistema, una crisi che hafatto terra bruciata attorno alle classi più po-vere, ha aumentato lo sfruttamento, ha precariz-zato la vita, non solo il lavoro. Adesso è troppotardi. Ormai tutto questo sta accadendo. Nono-stante le aggressioni e le provocazioni, gli zapa-tisti hanno rafforzato la loro autonomia. In qual-che modo continuano a essere un esempio pertutti noi. Peccato che in Europa non ci si accorgadi tutto questo. Ma, allo stesso tempo, ci sonomolte persone che continuano a interessarsi allozapatismo, viaggiano fino in Chiapas, danno ilproprio contributo, ma, il più della volte, vannoa imparare più che a insegnare. Noi, in questaEuropa decadente e senza valori, non siamo an-cora riusciti a capire il messaggio degli zapatisti.Non abbiamo fatto nulla per ascoltarlo, non cisiamo fermati finché eravamo in tempo, abbiamo

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proseguito verso il baratro. Eppure loro ci av-vertirono fin dal primo gennaio del 1994’.

In America Latina sono al potere presidenti con storie di sinistra e di guerriglia alle spalle…

‘Ci sono barlumi molto interessanti. Primo fratutti Pepe Mujica in Uruguay. Non sta facendomiracoli, ma sta dimostrando che si può farepolitica senza riempirsi le tasche di soldi, e so-prattutto sta testimoniando che è possibile vivereserenamente rinunciando a qualsiasi privilegiodel potere. Pepe Mujica ha ridato speranza al-l’Uruguay. E’ vero: è un paese piccolo, tre mi-lioni di abitanti, forse là tutto è più facile. Gli al-tri paesi sono più complessi, basti pensare alBrasile, all’Argentina e, soprattutto, al Messico.Questo paese è una eccezione, non sono emersipersonaggi nuovi, capaci di governarlo. In paesipiù piccoli, come El Salvador, sono andati alpotere ex-guerriglieri. Non che chi è stato guer-rigliero sia migliore degli altri, anzi abbiamoavuto pessimi esempi, ma sono persone chehanno subito torture e lunghi anni di carceremolto duro. Conoscono la sofferenza e hanno vi-sto il vero volto del capitalismo selvaggio. Lastoria degli ultimi venti anni, ci dimostra che,dove le elezioni sono libere, è possibile sconfig-gere le oligarchie di sempre. Non dobbiamo dimenticare che quando parliamodi America Latina abbiamo di fronte un conti-nente immenso con grandi differenze, ma, senzadubbio, c’è una ventata di rinnovamento. E, seè vero che il potere è ancora in mano a chi de-vasta la natura, dall’America Latina arriva qual-che speranza e dei buoni esempi. Noi li igno-riamo’.

FRANCESCO DITARANTO, 30 anni,giornalista free-lance e caporedattore di RadioCittà Fujiko di Bologna. Da sempre è interessato alcommercio equo e solidale e alla coooperazioneinternazionale. Ha lavorato per due anni a Rennes,in Francia, collaborando con un collettivo difotografi.

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Questa è la piccola storia di unacomunità di tremila abitanti.

Pescatori e contadini. E un megaprogettodi energia rinnovabile, un parco eolico.Álvaro Obregón è un villaggio zapoteco,un pueblo dell’istmo di Tehuantepec: isuoi abitanti cercano di difendere la loroterra, amano il mare e il vento. Di frontehanno il capitale transnazionale checambia forma di continuo e si travestedietro il linguaggio della sostenibilità edella green economy. Ancora una volta èuna lotta locale contro l'accaparramentodelle risorse naturali, in un gioco dipotere asimmetrico. I contadini e ipescatori di Àlvaro Obregón, attraverso lalotta, hanno preso coscienza della loroidentità: ‘Siamo un pueblo indigeno’. Cosìil territorio si re-etnicizza, la propriastoria contemporanea diventa esperimentopolitico che vuole parlare al mondo. La democrazia rappresentativa dei partitinon funziona, è complice, i contadini e ipescatori di Àlvaro Obregón hanno re-imparato a essere e a fare "indigeno",hanno scoperto che le proprie pratiche -negate da secoli di (neo)colonialismo -possono essere l'alternativa al sistemacapitalistico. Come gli zapatisti inChiapas, la gente di questo pueblo fa lastoria: non solamente la propria, anche lanostra.

CARTOLINA DAL MESSICO

DI LAURA MONTESI

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LAURA MONTESI, 27 anni, antropologa fiorentina. Dottoranda inantropologia medica all'Università di Kent. Ha identità multiple: natalifiorentini, ascendenza italo-tamaulipeca, oaxaqueña d'adozione. Lavora da cinque anni come ricercatrice e facilitatrice di progetti inrivitalizzazione linguistico-culturale in una comunità indigena Ikojtsdell'Istmo oaxaqueño.

No se puede vender el viento

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REPORTA

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Otto anni di governo di Evo Morales, il primo presidente indigeno del paese andino

Raccolta del sale nei dintorni di Colchani

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• 7Il ‘vivir bien’ è legge dello stato, ma troppo alto è lo scartofra le buone intenzioni e la realtà. Tensioni e delusioni nellaterra degli altopiani. Il Salar è a rischio per l’estrazionedel litio e il passaggio della Parigi-Dakar, mentre nel Bassopiano gli incendi degli allevatori inceneriscono la foresta amazzonica. Autostrade, soia transgenica, narcotraffico, nucleare: cosa sta accadendo nel paese delle ‘terre alte’?

BOLIVIA, TACCUINODELLE CONTRADDIZIONI

Testo e foto di Anna Maspero

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‘Vivir bien’, a occhi occidentali, po-trebbe apparire uno slogan insolitoper la Bolivia, paese con un alto

tasso di povertà e che, in Europa, fa notizia quasisolo in occasione dei sequestri di partite di co-caina. Eppure, con altri paesi dell’America La-tina, sta scalando la classifica nella lista deipaesi più felici del mondo stilata dalle NazioniUnite e ora, secondo il rapporto del 2013, sitrova al 50esimo posto e tallona l’Italia scesa al45esimo.

Per capire il senso del ‘vivir bien’ boliviano dob-biamo riavvolgere il nastro al 2005 quando fueletto Evo Morales, primo presidente indigenoe primo indigeno al potere in cinque secoli. Il 21gennaio 2006, prima di assumere la carica uffi-ciale, Morales volle essere investito del co-mando con i riti tradizionali della culturaoriginaria a Tiwanaku, culla della civiltà andina:si presentò di fronte a quindicimila persone chelo attendevano da ore sotto la pioggia, vestitocon l’unku, il mantello dei sacerdoti e con in

testa un cappello a quattro punte simboleggiantii punti cardinali. In mano impugnava il bastonedel comando. Per molti indigeni Evo rappresentava l’arrivo delTerzo Pachacuti, cioè l’inizio di un'era di equi-librio sociale e di armonia con la Madre Terra;era l’avverarsi della profezia del capo ribelleTupac Katari che, prima di morire squartatodagli spagnoli, gridò: ‘Oggi mi uccidete, ma ungiorno tornerò e sarò milioni’. L'ex-sindacalistacocalero è stato poi riconfermato alla presidenzanel 2009 con il 64% dei voti, dopo aver pro-mosso una riforma della Costituzione in sensoindigenista, socialista ed ecologista. Un testodove si riconosce la sacralità della foglia di cocae si dà pari dignità al Dio cristiano come alla Pa-chamama degli Inca. Gli analisti prevedono unasua terza riconferma, anche se non così plebi-scitaria, alle elezioni presidenziali del prossimoottobre.

Nel 2012 il governo boliviano promulgò la‘Legge della Madre Terra e dello sviluppo inte-

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grale per il vivir bien’: una sorta di dichiarazioneuniversale dei diritti della natura, non più risorsada sfruttare, ma un essere vivente, equiparato auna persona fisica. Questa legge consacrò Mo-rales come paladino della difesa della Terra. Lafilosofia del ‘vivere bene’ boliviano è, almeno inteoria, diversa dal concetto occidentale di ‘vi-

Motocislisti nel Salar

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vere meglio’ che di fatto si traduce nell’indivi-dualismo e privilegia il dio denaro. Significa in-vece vivere in armonia con la natura ispirandosiai principi ancestrali delle culture tradizionaliandine. Una bella storia. Ancora più bella se si pensa chein questi stessi anni la Bolivia ha compiuto moltiprogressi: una forte crescita economica, bilan-cio in pareggio, redistribuzione delle risorse, di-minuzione della povertà e il livello dialfabetizzazione salito al 91,2%.

Ma se si viaggia in Bolivia con gli occhi aperti,si scopre un paese scosso da forti tensioni etni-che anche all’interno delle stesse componenti in-digene e si percepisce la profonda divisione fraun Altopiano povero e un Oriente in pieno svi-luppo. Si vive una sensazione di insicurezza do-vuta al traffico di cocaina con il conseguenteaumento di criminalità.

TACCUINO DI VIAGGIO 1. IL SALARA Colchani cammino fra i piccoli mucchi di salesul bordo dell’abbagliante e sterminata distesalunare del Salar de Uyuni, il più vasto desertosalato del mondo. Siamo all’estremo sud del-l’altopiano boliviano. Stranamente non c’è nes-sun lavoratore a raschiarne la superficie perraccogliere la flor de sal. La gente del villaggiomi spiega che, dopo il passaggio lo scorso gen-naio della carovana della Dakar (dal 2009, perproblemi di sicurezza, questa corsa non si correpiù in Africa), il sale è troppo sporco e così bi-sogna spingersi più lontano per estrarlo. Mi rac-contano che per l’occasione a Uyuni c’eranooltre trecentomila persone accampate. La Dakarè fortemente voluta dal governo boliviano perpromuovere il turismo senza tener conto di unecosistema fragilissimo. E il prossimo anno,oltre alle moto e ai quad, vi saranno anche leauto. Quante cose sono cambiate dal mio primo viag-gio in questo remoto angolo di Bolivia, esatta-

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Raccolta del sale nei dintorni di Colchani

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mente venti anni fa. Allora c’era una sola agen-zia mentre ora se ne contano più di cento. AlSalar arrivano, ogni anno, centomila turistil’anno. Non c’erano ancora gli hotel costruiti inblocchi di sale, oggi ne sono sorti a decine lungole rive del grande lago-deserto salato. Alcunidavvero lussuosi. Nei villaggi di povere case inadobe s’incontrano ancora campesinos che, no-nostante il freddo e il vento gelido, indossanosemplici sandali di cuoio, ma altri oggi guidanopotenti fuoristrada: sono questi gli effetti dei ra-pidi arricchimenti resi possibili dal commerciodi cocaina attraverso la vicina frontiera cilena.

E poi c’è il litio, l’energia del futuro, il compo-nente principale delle batterie di nuova genera-zione per i dispositivi hi-tech e per le automobilielettriche. Nell’acqua salmastra sotto la crostadel Salar ne è stato scoperto un enorme depo-sito, pari alla metà delle riserve mondiali. A suddel deserto è stato costruito un primo impiantopilota per la produzione di carbonato di litio ge-stito direttamente dallo stato, con l’intenzione direalizzare in territorio boliviano anche le com-ponenti finali con l’aiuto di tecnologia fornita dapartner stranieri. Il governo boliviano pretendeuna più equa distribuzione di rischi e di utili,sfida l’avidità delle imprese straniere, ma l’eco-sistema del Salar è fragile: serve acqua sul-l’arido altopiano e inevitabilmente, come giàavviene per le miniere, i componenti chimiciusati per l’estrazione e la lavorazione del litioavveleneranno la terra.

TACCUINO DI VIAGGIO2. LA PAMPA E LA SELVA DEL BASSOPIANO Il río Yacuma attraversa la pampa popolata dauna ricchissima fauna selvatica. La nostra canoascivola nelle sue acque. Un gruppo di delfinirosa ci saluta con spruzzi e starnuti; famiglie dibuffi capibara ci guardano immobili; qualchecaimano al nostro passaggio scivola silenziosoin acqua; decine di tartarughe si tuffano dai tron-chi galleggianti su cui si erano arrampicate, cop-pie di pappagalli verdazzurri saettano veloci congrida stridule. Un vero paradiso tropicale.

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Ma poi, all’improvviso, si apre uno squarcionella foresta a galleria che ricopre il fiume, ri-velando la desolazione del terreno ancora fu-mante annerito da un incendio, senza più tracciadi vita né animale né vegetale. È la pratica delchaqueo, diffusissima e di fatto tollerata dal go-verno: durante la stagione secca proprietari, con-tadini e allevatori appiccano il fuoco perpreparare il terreno all’agricoltura, al pascolo oper entrare in possesso di nuove aree coltivabili.Bruciano la vegetazione più bassa insieme a al-

beri e animali. Talvolta il fumo è così denso daoffuscare completamente il cielo per settimane,facendo calare su tutto una lunga notte grigia eartificiale.

Il chaqueo non è il solo pericolo che minaccia iltropico boliviano. Nel 2011, mentre ero in viag-gio sull’altopiano, migliaia di indigeni del-l’Amazzonia boliviana marciavano per 600chilometri, fra Trinidad e La Paz, in difesa deiloro diritti sui territori ancestrali minacciati dallacostruzione di un’autostrada voluta dal governo.Il tratto boliviano dovrebbe collegare il confinebrasiliano al Chapare, una delle maggiori areedi produzione di coca illegale, e taglierà in dueil Territorio Indígena y Parque Nacional Isiboro-Secure, conosciuto come Tipnis, una delle zone

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Lavorazione del sale nella cooperativa di Colchani

A destra: in bicicletta ai piedi del vulcano Llcancabur

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Un uomo aymara che si spsta in bicicletta sull’altipiano

Vendita di coca al mercato

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Manifestazione contro l’espropiazione del gas

A destra: Chaqueo, boschi bruciatinelle Yungas per far posto alle coltivazioni di coca.

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più incontaminate dell’Amazzonia boliviana. Lacostruzione della strada, dopo una contromarciae un consenso raccolto grazie a una discussaconsultazione, è ora bloccata in attesa di nuovi,prevedibili sviluppi che certo non avverrannoprima delle prossime elezioni presidenziali. Gliscontri fra popolazioni originarie e coloni indi-geni e la pesante repressione della marcia daparte della polizia hanno però suscitato fortidubbi sulla vocazione ecologista del governoMorales. Nel Tipnis in realtà si sono fronteg-giate due concezioni di vita diverse, anche se en-trambe sventolano il vessillo indigeno con icolori dell’arcobaleno: quella comunitaria-indi-genista delle popolazioni originarie fautrici diun equilibrio con la natura contro quella rurale-

campesina dei coloni legata ai titoli di proprietàindividuale, alla produzione e al commercio. Il ‘vivir bien’ stride con le altre scelte del go-verno Morales: si sono autorizzate coltivazionidi soia transgenica e aperto il mercato agli Ogm.Si punta sull’energia nucleare, mentre sta cre-scendo il narcotraffico e l’edilizia divora interiterritori. La Paz progetta anche un colossale pe-trolchimico da cinque miliardi di dollari. Forsela Bolivia di Evo Morales ha dimenticato la dif-ferenza fra il ‘vivere bene’ e il ‘vivere meglio’.

pagina 140PER SAPERNEDI PIÙ VAI A

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ANNA MASPERO, 57 anni, da buona nata sotto ilsegno dei Gemelli non riesce né a fare né a identifi-carsi in una sola cosa. Ha insegnato inglese, hapiantato alberi, ha molto letto e ha molto viaggiato,da sola o accompagnando gruppi lungo i sentierimeno battuti di tutti i cinque continenti. Ha anchescritto: una guida sulla Bolivia per la Casa EditricePolaris e due libri di saggi e racconti: “A come Av-ventura, Saggi sull’arte del viaggiare” e l’ultimo, “IlMondo nelle Mani, Divagazioni sul viaggiare”, dapoco pubblicato sempre da Polaris, con cui collaboracome consulente. Soprattutto non ha mai smesso dicercare e di porsi domande e come strumento dellapropria ricerca ha scelto il viaggio fra città e deserticome fra le pagine dei libri e nella rete. Quando nonè in giro per il mondo, la trovate in Brianza o sul suoblog: www.annamaspero.com.

IL MONDO NELLE MANI DI ANNA MASPERO

Prima e più che unascrittrice, sono un'ap-passionata lettrice eviaggiatrice....

Così dice di sè AnnaMaspero, quasi a met-tere le mani avantiprima di entrare nelvivo del suo Il mondonelle mani. Divaga-zioni sul viaggiare(Polaris edizioni). Eche sia viaggiatrice -grande viaggiatrice,appassionata viaggia-trice - nessun dubbio.Così come sul fattoche sia una donna di ottime letture e di altrettantoottimi consigli di lettura. Però aggiungo io, a scio-gliere ogni incertezza: anche scrittrice, buonascrittrice, come dimostra in questo suo libro, checredo non debba mancare nella libreria di chiun-que ami i viaggi e sia consapevole che in effettinon esiste viaggio senza la parola - soprattuttoscritta - che al viaggio dia senso.

Quante cose che ci sono dentro questo libro: lemotivazioni che accompagnano la partenza -oggi forse diverse rispetto al passato; i modi delviaggio inevitabilmente cambiati al tempo dellaRete e della connessione permanente; la fasci-nazione di certe destinazioni e il bisogno di sor-presa e di autenticità; i viaggi dei migranti e idanni del turismo; i sorrisi come doni nei paesipiù difficili del mondo; le nostalgie e i ritorni....

Un libro da tenersi vicino, da aprire a caso, anchesolo per cercare uno spunto o una possibilità dilettura e così cominciare ad andare lontano. Di-vagazioni, riflessioni, idee per rimettersi in cam-mino: il mondo nelle mani, appunto.

PAOLO CIAMPI

Edizioni Polaris, 2014, euro 16

PAOLO CIAMPI, 50 anni, giornalista e scrittore, si divide tra la passione per la letteratura di viaggio e la curiosità per i personaggi dimenticatinelle pieghe della storia. Ha all'attivo una ventina di libri, con diversi riconoscimenti nazionali. Nel suo blog Ilibrisonoviaggi racconta ogni giornoletture e viaggi.

Grandi mandrie di bovini nell’oriente boliviano

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UNA FOTO UNA STORIA

Mi spiega che questastanza è un magazzino di transito delle foglie raccolte dai contadini. Qui si dividono le foglie di miglior qualità, quelledestinate a essere masticate, da quelle di seconda scelta con le quali si farà mate o sapone. Mentre parla,raccoglie, con noncu-ranza, piccole foglie. Se le mette in bocca. E’ il suo momento dipausa, sta aspettando il ritorno delle sue compagne per riprendereil lavoro.

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LA DONNA DELLA COCADI PIETRO PAOLINI

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Bolivia, gennaio 2010. Sono quida due mesi, sono soddi-

sfatto del mio lavoro. Sono certodi aver buoni materiali nelle miepellicole. Decido di regalarmiqualche giorno di riposo. Viaggioverso la regione dello Yungas. Treore da La Paz. Duemila metri diquota. Un clima perfetto. Vallimozzafiato e belle posadas.Niente di meglio per una brevevacanza.

Sono già stato qui. Fra le comu-nità contadine. Nello Yungas siproducono le migliori foglie dicoca del paese. Mi fermo a Chulu-mani, un piccolo paese del Suddella regione. Passo la mattina aleggere, poi decido di fare unapasseggiata, voglio andare ap-pena fuori del paese, a regalarmiun pranzo in uno dei tanti barac-chini gestiti da meravigliose cho-litas, le donne meticce dellaBolivia. Esco dalla mia stanza e,senza ragione, mi porto dietro lamia Mamiya 6x7, nonostante nonavessi nessuna intenzione di farenuovi scatti.

Dopo aver mangiato un’ottimazuppa di gallina, sto tornando acasa. Getto uno sguardo attra-verso una porta che dà sullastrada e vengo folgorato. C’è unagrande stanza, piena di sacchi difoglie di coca, in fondo c’è unadonna immersa completamente inuna montagna di foglie. Mi fermo,ancora incredulo di quello che stovedendo. Non posso farmi scap-pare quella foto: per fortuna, oper destino, ho la mia macchinacarica nello zaino. La prendo,torno indietro, entro nello stan-zone. Saluto la donna e, ancorprima di cominciare a parlarci, lescatto una foto. Mi avvicino, mipresento e le chiedo che cosa stafacendo. Mi spiega che questastanza è un magazzino di transitodelle foglie raccolte dai contadini.Qui si dividono le foglie di migliorqualità, quelle destinate a esseremasticate, da quelle di secondascelta con le quali si farà mate osapone. Mentre parla, raccoglie,con noncuranza, piccole foglie.

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L A D O N N A D E L L A C O C A

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Se le mette in bocca. E’ il suo mo-mento di pausa, sta aspettando ilritorno delle sue compagne per ri-prendere il lavoro. Io continuo ascattare. Senza sapere che la fotomigliore è la prima che ho fattoappena entrato.

Questa foto è una delle mie prefe-rite fra quelle realizzate in Bolivia.La foglia di coca è il simbolo dellacultura boliviana e della rivolu-zione culturale nata sotto il presi-dente Evo Morales. La coca non ha niente a che ve-dere con la cocaina, un suo deri-vato sintetico il cui utilizzo èdiffuso soprattutto in Europa enegli Stati Uniti. La foglia di cocaè uno stimolante naturale. Dasempre, ogni giorno, gli indigeniboliviani la usano. Viene masti-cata. O utilizzata per rituali reli-giosi e ancestrali. Nei miei viaggiin Bolivia ho visto usare le foglienei modi più curiosi. Ho vistodonne tenere sotto gli occhi

mezza foglia di coca per cercaredi ridurre le rughe delle occhiaie.

Evo Morales, primo presidente in-digeno della storia della Bolivia,era un cocalero e la sua ascesapolitica nasce proprio dal suopassato da leader del movimentocontadino che lottava contro le in-gerenze statunitensi e della Dea,l’agenzia antidroga americana,sulla produzione delle foglie. Morales ha favorito lo sviluppodelle piantagioni di coca. Durantegli anni del suo governo le colti-vazioni di questa pianta sacrasono aumentate e la Dea è stataespulsa dal paese. Nella nuovacostituzione boliviana, la cocaviene definita: “patrimonio cultu-rale, risorsa naturale rinnovabiledella biodiversità di Bolivia, e,come fattore di coesione sociale,nel suo stato naturale, non è unostupefacente”.

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UNA FOTOUNA STORIA

PIETRO PAOLINI, 33 anni, fotografo fiorentino. Ha studiato fotografia alloStudio Marangoni a Firenze. Dal 2004 ha cominciato a viaggiare per ipaesi latinoamericani (Venezuela, Bolivia, Ecuador). Nel 2009 ha vinto ilpremio Canon per i giovani fotografi. Nel 2012 il suo lavoro ‘Boliviani’ havinto il secondo premio della sezione ‘Vita quotidiana’ del World PressPhoto. Collabora con le principali riviste italiane e internazionali.

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Buenos Aires è una città sorpren-dente, multiforme e ‘innumerevole’(così la definì Jorge Luis Borges in

un suo poema). Dentro di sé sembra conte-nerne altre, città inconciliabili fra di loro,ma, nonostante, o proprio per questo mo-tivo, Buenos Aires conserva una sua stranaidentità.

Questa sensazione di varie città racchiusein una sola diventa ancora più evidente seconfrontiamo le pagine di Borges, Cortázared Ernesto Sàbato, gli scrittori argentini piùconosciuti al mondo. Che cosa hanno in co-mune i quartieri di periferia con loro cortilitranquilli dalle pergole d’uva e le case dagliintonaci rosati con la città violenta, tor-tuosa, piena d’agguati e misteri di cui ci

parla Sábato, o la Buenos Aires inafferra-bile di Cortázar?

Diego Tomasi, autore del libro Cortázarpor Buenos Aires. Buenos Aires por Cortá-zar, ci mette sull’avviso: ‘Non c’è modo dipensare a Cortázar senza pensare a BuenosAires ed è impossibile pensare a BuenosAires senza pensare, fra i suoi altri perso-naggi, a Cortázar”. E fra questi altri perso-naggi ci sono sicuramente Borges e Sábato,I loro libri non possono essere separati daquesta città.

Dopo una lunga assenza, il giovane Borgesritorna a Buenos Aires e ritrova una città ca-pace di risvegliare un sereno fervore. Loscrive nel suo poema Arrabal (così Borges

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‘INNUMEREVOLE’BUENOSAIRES

Viaggio letterario nella città che ne racchiude mille altre

Borges, Sàbato e Cortázar accompagnanouno scrittore argentino per le strade

della capitale del suo paese. Le passeggiate al tramonto del vecchio Jorge

Luis. La nostalgia irremediabile di Julio. E la malinconia irrisolvibile di Ernesto.

Testo di Lucio YudicelloFoto di Maria Di Pietro

Quartiere la Boca camminito

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definisce i quartieri periferici di BuenosAires): “Questa città che io credevo il miopassato, è il mio avvenire, il mio presente,gli anni che ho vissuto in Europa sono statiillusori, io ero sempre (e sarò) in BuenosAires”. Non è la Buenos Aires europeiz-zata, ma l’umile borgo, la periferia, là dovela città si perde nella immensità della pia-nura.

Come ha fatto notare Carlos Alberto Zito inEl Buenos Aires de Borges, lo scrittore sicommuove per le periferie della città, rac-conta di una città suburbana, quasi deserta,una Buenos Aires di confine, i suoi sobbor-ghi hanno ancora l’odore della campagna.Sono i quartieri di Palermo, Villa Ortúzar,Almagro o Saavedra, dove, allora, il gio-vane Borges, camminatore infaticabile,passeggiava senza sosta. Per lo scrittoreLuis Martínez Cuitiño, la città di Borges è‘anacronistica, una Buenos Aires di rioni,disabitata, percorsa da un uomo’ che mettein mostra ego ben distinti: Borges è ‘flaneurche preferisce, per camminare, le ore deltramonto’, è un filosofo ‘che riflette su pro-blemi metafisici’. Ha un ‘io storico che creadei miti e risale al passato per popolare ilvuoto con eroi e tiranni’. Infine, è il ‘poetache medita sui suoi compiti”.

Più tardi, nelle sue Finzioni, ci sarà unadoppia Buenos Aires: quasi non si incrociala Pueyrredón, uno dei più grandi viali dellacittà, ma soltanto la città antica, della Co-stituzione, del Bajo, del Sud, del Centro. E’una Buenos Aires appena suggerita, ma sto-rica, misteriosa, densa, diversa dalla città li-rica dei suoi primi poemi, anche seugualmente anacronistica.

Nei libri di Borges non vi è traccia del-l’esplosione demografica di Buenos Aires.Non vi sono i grattacieli, i viali intermina-

Gli italiani, al loro arrivo a Buenos Aires, dipinsero le baracchedi legno dove abitavano con i colori delle barche. Vivevano alla Boca, il porto della città. Allora accoglieva i migranti. Qui il tango ha mosso i suoi primi passi. Borges, Cortàzar ed Ernesto Sábato erano intellet-tuali. Non passeggiavano per laBoca. Borges amava il quartiere di Palermo. Sàbato girovagava per altre periferie. Cortàzar non siallontanava dal centro della città. E noi abbiamo guardato a loro dalle vecchie case degli italiani. Le fotografie di Maria Di Pietro ci raccontano della Boca. Già, ‘innumerevole’ Buenos Aires.

”A destra: Trattoria turismo sostenibile quartiere la Boca.Quartiere la Boca

Bambini giocano a dama nell'ex fabbrica Empa

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bili, il transito caotico e, a volte, feroce, lemanifestazioni popolari, l’inquinamento.Come se Borges congelasse nel tempo lacittà. Spiega Juan Insúa, organizzatore dellamostra Cosmópolis, Borges y Buenos Aires:‘Nella città dove si costruisce la memoriaoperano paesaggi frammentati che la verti-gine o l’emozione spandono fino trasfor-mare un istante in una forma ultima”.

L’INQUIETUDINE DI JULIOLe parole di Insúa possono valere anche perla Buenos Aires di Julio Cortázar. Nei suoiracconti brevi, i suoi ‘paesaggi’ sono di unaambiguità sorprendente. Il legame di Cor-tázar con Buenos Aires non è mai stato maipacifico. La sua relazione con la città è statacomplessa: Cortázar amava Buenos Aires,ma aveva bisogno d’allontanarsene. La la-sciò nel 1951 dopo avervi vissuto fino atrentasette anni. Se ne andò a vivere a Pa-rigi e, da allora, e fino al momento della sua

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morte, vi ritornò solo poche volte e sempreper pochi giorni. Quando scrive i raccontidi Bestiario si avverte che Buenos Aires losoffoca, ma non appena arriva a Parigi co-mincia a sentirne la mancanza.

Il racconto Cartas de mamá è paradigma-tico: ‘… le lettere della mamma erano sem-pre un’alterazione del tempo, un piccolo einoffensivo scandalo dentro l’ordine cheLuis aveva voluto, tracciato e conquistato,calzandolo nella sua vita alla stessa manieradi come aveva calzato Laura e Parigi’, in-tuisce il protagonista. ‘Ogni nuova letterainsinuava … che la sua libertà duramenteconquistata, questa nuova vita strappata acolpi feroci di forbici… cessava di giustifi-carsi, perdeva terreno…Non rimaneva altroche una esigua libertà condizionata…’.Queste lettere non sono altro che le notizieprovenienti da una Buenos Aires rimpianta,ma di cui, allo stesso tempo, si ha paura e si

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A sinistra: Cartoneros quartiere Palermo Caffè Dorrego piazza Sant'Elmo

Radiografica emittente indipendente di Buenos Aires

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avverte come un pericolo imminente. Unpericolo che nel racconto Omnibus è rap-presentato dal silenzioso e ingannevole at-teggiamento dei passeggeri di un autobusche sta dirigendosi verso il cimitero di Cha-carita, quando Clara si rende conto che è lasola a non avere un mazzo di fiori in manoe che tutti gli sguardi, pieni di diffidenza,sospetto, rimprovero e quasi odio, cadonosu di lei. La descrizione minuziosa del per-corso e l’apparente familiarità della com-pagnia del breve viaggio contrasta, inmaniera stridente, con l’atmosfera di ter-rore crescente. A Buenos Aires non si devemai abbassare la guardia, sembra dire Cor-tázar, perchè un universo ostile può affer-rarti.

In Las puertas del cielo appare l’aspetto piùlatinoamericano di Buenos Aires. Il narra-tore è Hardoy, ‘un avvocato che non si ac-contenta della Buenos Aires dei tribunali o

della musica o dei cavalli all’ippodromo, ecerca sotto in altre direzioni, sotto altri por-ticati’. Questa ricerca lo spinge a frequen-tare le milongas, le sale dei balli popolari,come il Santa Fe Palace: ‘Mi sembra unabuona cosa buona dire qui che io andavo inquella milonga per i mostri… Appaionoalle undici di notte, scendono da regionisconosciute della città,… le donne quasinane e i meticci dai lineamenti asiatici, al-cuni giavanesi o le moscovite…i cappelliduri pettinati con fatica,… le donne congrandi pettinature che le fanno sembrarepiù nane… a loro piacciono i cappellisciolti e alti nel mezzo,… enormi e effemi-nati niente a che vedere con le facce bru-tali, il gesto d’aggressione disponibile easpettando…’. Aggiunge Cortázar: ‘In piùc’è l’odore, non si concepiscono i mostrisenza quel’odore di borotalco bagnato sullapelle, odore di frutta marcia…’.

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Questi mostri non sono altro che gli emar-ginati, los cabecitas negras del peronismo,uomini e donne che provengono dai bassi-fondi di Buenos Aires e dall’interno delpaese, dalle regioni vicine. E’ il lato oscurodel meticciato americano. L’avvocato li os-serva con lo sguardo d’entomologo: è natoa Buenos Airese, è un porteño, ma giudicacome se fosse un europeo.Ci sono occasioni in cui il contrasto è piùbenevolo. Come nel caso di El otro cielo,che indica il soffitto delle gallerie co-perte,‘quel falso cielo di stucchi e lucernarisporchi, quella notte artificiale che ignoravala stupidità del giorno e del sole là fuori’: lagalleria Güemes, a Buenos Aires; la galle-

ria Vivienne, a Parigi, per esempio. Gallerieche sono, in realtà, segreti passaggi checonducono da Buenos Aires a Parigi e vi-ceversa; misteriosi anditi che permettono alprotagonista una doppia vita intensa, pienae colorita in tutte e due le città.

LE COSTELLAZIONI DI SÁBATOLa Buenos Aires di Ernesto Sábato, invece,è lo scenario dove è disegnata una delle co-stellazioni mitiche più potenti del secoloscorso: Informe sobre ciegos è un’inchiestafolle condotta da Fernando Vidal Olmos, unparanoico geniale, che pretende svelare learmi segrete della setta dei ciechi e denu-dare il vero potere occulto che comanda incittà. Sábato racconta una Buenos Airescomplessa, ingarbugliata, tumultuosa, ac-cecante. Narra dei bar italiani della Boca,della frenesia febbrile del porto, dal chiac-chiericcio nei piccoli negozi, dalla viru-lenza delle passioni politiche, dalle scintille

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Murales quartiere la Boca

A sinistra: Operai all'università delle Madres de plaza de Mayo

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impressioniste del Riachuelo (il ‘piccolofiume’ di Buenos Aires), dalla decadenzairreversibile di una classe sociale. E’ un uni-verso in cui sfila una interminabile galleriadi personaggi: commercianti, operai, rivo-luzionari e borghesi, emarginati, intellet-tuali, prostitute.

Ma quello che segna, in maniera indelebile,la Buenos Aires di Sábato è l’anima deisuoi personaggi: Castel, il pittore torturatode El túnel; la violenta e seduttrice Alejandrae lo sciagurato Martín, adolescenti di Sobrehéroes y tumbas; il malinconico Bruno; lospietato ed esuberante Fernando. Ognuno diloro si muove in una città riconoscibile at-traverso le sue piazze e le sue strade, che sitrasformano, allo stesso tempo, in luoghidensi di mistero e di pericoli. E’ impossibile passeggiare per il parco Le-zama e non ricordarsi di Alejandra e Martín

e del loro sfortunato, indimenticabileamore. Ci sono luoghi oscuri e tenebrosicome le gallerie della Manzana de las luceso i corridoi della Sagrada Concepión diBelgrano, dove si immagina vedere appa-rire Fernando Vidal Olmos. Ci sono palazziantichi, in rovina, che ci ricordano la casadi Barracas dove si svolge la storia centraledell’Informe (anche se sappiamo che lacasa che ispirò lo scrittore era ad Almagro). Le chiese ci fanno ricordare i saccheggidegli anni cinquanta e Plaza de Mayo che,in quegli stessi anni, venne vigliaccamentebombardata. La presenza narrativa di Sá-bato sorvola l’intera Buenos Aires. Nel2012 venne perfino organizzato un tour tu-

A destra: casa d'artista quartiere la Boca

Sotto: antica metropolitana di Buenos Aires

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LUCIO YUDICELLO, 62 anni, cordobese. Scrittoreargentino. Ha pubblicato i racconti El derrumbe,1985, Las voces, 1992, El sangrador, 2006, y Judas nosiempre se ahorca, 2011. E i libri: La guerra invisible,1994; Los nombres de la furia, 1994; Un camino sinrumbo y con destino, 1997; Las partidas del juezBelisario Guzmán, 2002; y Barrio Plateado, 2009. Suoisono i saggi su: Ernesto Sábato, el revés de lautopía,1999, e su Brochero, el hombre,2012. Ha ricevutonumerosi premi letterari. Ha cinque figli e vive nellecolline chicas di Cordoba.

MARIA DI PIETRO, 35 anni, fotografa napoletana, lau-rea all'Accademia di Belle Arti. Nel 2009 vince, nella ca-tegoria Eyes wide shut, il Festival del Cinema dei DirittiUmani di Napoli/Buenos Aires con il suo racconto ‘Na-poli Nomade’. E’fotografa ufficiale di questo Festival. In-segna fotografia nelle scuole. Ha progetti sulle periferieNord di Napoli, territorio da anni martoriato da sversa-menti di rifiuti illeciti. La sua attenzione è per le personediscriminate e abbandonate.

ristico letterario per la sua città letteraria:fu un itinerario vasto che dimostrò la gran-dezza avvolgente dello scrittore. La BuenosAires di Sábato è la somma di assenze doveconvivono, continuamente, la memoria del-l’indio sterminato, del gaucho perseguitato,della furia dei guerriglieri montoneras. Eancora: la rovina fisica e morale delle vec-chie classi agiate, la desolata realtà del mi-grante che ha lasciato la sua terra, laviolenza delle lotte sociali e quella speciedi culto del fallimento come conseguenzadi tante perdite.

Le Buenos Aires di Borges, di Sábato e diCortázar sono il riflesso fedele delle lorovite, le testimonianze dell’amore e del do-lore provato per la città che ha segnato trescrittori per tutto il cammino della loro esi-stenza.

Traduzione dallo spagnolo di Adriana Altamiranopagina 140PER SAPERNE

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LE ANDE SONO UN’ILLUSIONETESTO E FOTO DI ANDREA SEMPLICI

“Ogni tanto il Sud America offre delle istantanee che fotografano esattamente lo spirito di questa terra. Una montagna brulla, grosse pietre, una tortuosa mulattiera dove passa a stento una sola auto…picchi di seimila metri intorno... motori vecchi che possono saltare da un momento all’altro…ragazzi in giubbotto di jeans imbottito che saltellano su un parafango, il cielo blu che non finisce mai…”

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Il libro ha un formato imprevisto. Assomiglia aun album. E posso sfogliarlo solo per una

notte. Ha poche pagine, non più di ottanta.Leggo le ultime righe di un capitolo brevissimo:‘Ogni tanto il Sud America offre delle istanta-nee che fotografano esattamente lo spirito diquesta terra. Una montagna brulla, grosse pie-tre, una tortuosa mulattiera dove passa a stentouna sola auto…picchi di seimila metri in-torno..motori vecchi che possono saltare da unmomento all’altro…ragazzi in giubbotto dijeans imbottito che saltellano su un parafango,il cielo blu che non finisce mai…’. Pablo ha ascoltato cercando di non perdere nem-meno una parola e ora mi passa il mate. Ha vo-glia di filosofia, questa sera, mi dice: ‘La vidaes una oportunidad que uno tiene para haceralgo bueno’. Ho addosso la stanchezza del viag-gio. Sto bene

Dal suo terrazzo guardo i pochi passanti: uo-mini soli con il cappello nero, donne dai

maglioni rossi con i bambini imbatuffolati sullaschiena. Hanno la pelle grattugiata dal sole. Lemontagne davanti a noi sembrano sgretolarsi.Pablo sa come accogliere i suoi ospiti, con il vio-lino suona Vivaldi strappa-emozioni comeomaggio alle Ande. Iruya è lontana. Cinquantaquattro chilometri distrada di terra, priva di parapetti, che vortica susé stessa. Vorrei fermarmi ogni secondo perchéogni secondo cambia la luce. Saliamo a quattro-mila metri, passo del Condor, c’è un altare divino e sigarette, doni per la Pachamama, laMadre Terra. Poi precipitiamo di mille metri.Letto di un fiume. Madonne disseminate lungola strada. Le ruote affondano nei guadi. Poi, inalto, una luce color dell’ambra illumina unachiesa. Arriviamo a Iruya che i lampioni dellestrade sono stati appena accesi. Il prete chiamaalla messa, i pentecostali cantano in una piccolasala dalla porta aperta, alcune donne sembranoriunite in un’assemblea. Hanno volti di perga-mena antica. I ciottoli dei vicoli sono sconnessi.

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Hanno finalmente costruito un ponte per per-mettere agli abitanti di passare da un quartiereall’altro del villaggio. Mille e cinquecento abi-tanti. Tanti, moltissimi, per queste solitudini. Ilturismo è arrivato fino a qui. Noi ne siamo laprova. Le donne hanno trasformato le cucinein comedor, preparano zuppe di patate e mila-nesa. Il menù è un foglio di quaderno, alla pareteun certificato di ‘protagonista di turismo re-sponsabile’. Sì, credo che dona Tina sia davvero‘responsabile’. Il marito è timidissimo nel ser-vire a tavola.

Le montagne sono ovunque. Il villaggio è cre-sciuto in questi anni. Sono i villaggi più lon-

tani a spopolarsi. Non ci va più nemmeno ilprete. Eppure vedo donne e ragazzi prendere isentieri delle montagne. La loro casa è nel nulla.Nel paesaggio più bello e più impietoso che sipossa immaginare. Più del Sahara. Un poliziottomi spiega che qui il crimine più frequente è laviolenza familiare. Guardare sempre da un altropunto di vista, guardare oltre la bellezza, cercareil quotidiano. Fa freddo a sera a Iruya. Le ra-gazzine camminano a braccetto zoppicando suiciottoli delle strade, i ragazzi si rincattuciano alriparo di un portone. Nei comedor si bevonograndi bottiglie di birra Norte. Tutto qui.

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Iruya è lontana. Cinquantaquattro chilometri di strada di terra, priva di parapetti, che vortica su séstessa. Vorrei fermarmi ogni secondoperché ogni secondo cambia la luce.

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ALa Poma, oltre tremila metri, seguo duevecchi (avranno la mia età) fino al cimitero.

Lei ha in mano una corona di fiori di carta.L’uomo tiene stretta al petto una Bibbia. E’ lavigilia del giorno dei Morti. Si va al cimitero peradornare le tombe con nuovi fiori dai colori vi-vaci. A casa è già pronta la tavola con las ofren-das, le offerte al parente che se ne è andato e che,per una notte, tornerà per la cena di una notteandina.

APurmamarca, all’alba, il sole si disincagliadalle montagne. I colori si accendono, ma,

allo stesso tempo, appaiono incerti e indecisi.Vogliono ingannare. All’inizio sono fieramentepallidi. Un viola tenue, il rosso sfuma nell’aran-cione, un colore albicocca ben disegnato, unlampo di senape pieno di sabbia. Un rosa sbia-dito e bellissimo si trasforma, in un attimo, inun rosso vermiglio esplosivo. Il grigio vorrebbeessere verde. Il giallo sa essere lucente come unfaro nella notte. Il sole ha fretta, cancella i coloridopo averli distesi sulle montagne.

Le Ande sono un’illusione.

Quel libro a forma di album avuto solo per unanotte andina è uno dei migliori (e sconosciuti)libri di viaggio scritti sul Latinoamerica. Sichiama ‘Socompa’ (edito, nel 2004, da Arpanet)ed è stato scritto da Fabrizio Ghilardi. Dovreteandare a Salta, capoluogo del Nord dell’Argen-tina per incontrarlo. Avrebbe dovuto scrivere luiquesto non-racconto. Un giorno dovremo andare a Socompa, passoandino che sfiora davvero il cielo.

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A La Poma, oltre tremilametri, seguo due vecchi(avranno la mia età) fino al cimitero.

A Purmamarca, all’alba, il sole si disincaglia dallemontagne. I colori si accendono

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Chissà se gli abitanti di Rapa Nui hanno mai provato a mettersi lì dritti sull’attenti, in batteria, a guardare l’oceano. Sul crinale della montagna. Privi di espressione, uno accanto all’altro ma a una certa distanza, non sia mai che i corpi si sfiorino e qualcosa si muova.I moai sono rigidi come i calciatori del calcio balilla. Con un unico movimento possibile – il crollo.

TESTO DI VALENTINA CABIALEFOTO DI CLAUDIO GALLETTO

Foto: Pierre Lesage, (da Flickr)

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Dove sono i rapanui? Qualcuno per fortunac’è, e non è rigido, non è serio. I rapanui(poco meno di 6000) hanno nomi come

Pakarati, Tuki, Hito, vagheggiano l’indipendenzadal Cile (a cui l’isola è annessa dal 1888) masenza lotta armata, e sono per lo più agricoltori,allevatori e tassisti. I moai non sono trasportabili e verrebbe da chia-marli con un nome da critico letterario o scrit-tore spiantato di Roberto Bolaño. RogelioEstrada, Sebastián Urrutia Lacroix, Hilario Halu-bras. A questo punto verrebbe anche da metterloro un cappello di paglia.

Dicono che appena atterrati sull’isola si senta unprofumo intensissimo di terra, di humus.Non lo sentì Ernesto Guevara. Nel 1951 lui e Al-berto Granado persero la nave per l’isola, quellasuccessiva partiva sei mesi dopo. Troppo. An-darono a nord, verso Cuba, incontro a un altrodestino.

'L'isola di Pasqua! L'immaginazione ferma il suovolo in verticale e prende a girarci intorno. 'Lag-giù per le donne avere un fidanzato di pellebianca è un onore'. Laggiù lavorare, neanche persogno, le donne pensano a tutto, uno mangia,dorme e le fa contente'. Quel luogo meravi-glioso, dove il clima è ideale, le donne ideali, ilcibo ideale, il lavoro ideale (nella sua beata ine-sistenza). Perché non fermarsi un anno lì, cheimportano gli studi, lo stipendio, la famiglia,tutto il resto….' (Ernesto Guevara, Diario, 1951)

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Bolano, ecco, cileno vissuto a lungo in Messicoe in Spagna, sarebbe stato capace di parlare diun suo incontro con Ernesto a Rapa Nui. Ha rac-contato di uno scrittore inesistente che sapevaparlare “dei grandi spazi geografici (…) che al-l’improvviso rimpiccioliscono fino alle dimen-sioni di una bara”. Magari Rapa Nui è uncontinente rimpicciolito dove i moai hanno rifiu-tato di farsi piccoli. Rimangono pateticamentesproporzionati e non entrano in nessuna bara.

Possibile che i moai abbiano tutti il naso apunta? E sembrino ammanettati, con le manidietro la schiena? Tutti maschi; ma privi di attri-buti, sia chiaro. Chi può aver sentito il bisogno di comporre vo-lumi verticali e orizzontali e lasciarli lì. Per ado-rarli, un tempo, condurvi cerimonie. Perché livedesse da lontano, chi arrivava dal mare per li-

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berare l’isola. Per farne meta, oggi, di turismoesotico inconsueto, verso un’isola che non sisa bene dove sia.

Vorrei vedere l’isola senza moai. Vorrei che iltempo li mordesse tutti, come ha scritto Ne-ruda, ma per intero, che non ne rimanga ungranello. Vorrei sostituirli con delle sfere, chedopo qualche anno rotolino nel mare, nonfacciano in tempo a diventare portachiavi,sfondo di un set cinematografico o ad esserereplicate in plastica, in ogni dimensione. Vor-rei che i rapanui non ne sentissero la man-canza, provassero anche loro a perdere unanave, gli capitasse un altro destino.Non lo vorranno, probabilmente. Saranno uo-mini pratici. Abituati a guardare l’oceano cheli condusse a costruire e ad amare.

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CLAUDIO GALLETTO,32 anni gior-nalista e comunicatore. Lo affascinail viaggio, il contatto con persone,culture e realtà diverse. Fotografa ilmondo con occhi curiosi, indagatorie spensierati. Scrive romanzi neiquali la trama, condita da un pro-fondo senso di mistero, punta aprendere il sopravvento sul lettore. [email protected]

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E se la più celebrefra le artiste messicane avessepreceduto l’ossessione contemporanea di fotografarsi?Sguardi diversisulla grande mostra romana di una pittrice diventata icona del ‘900.

Frida Kahlo è una icona del‘900. La sua arte è statauna rivoluzione. La sua

pittura ha inciso profondamentesui movimenti artistici del se-colo scorso. Dal Modernismomessicano al Surrealismo inter-nazionale.Frida attira un pubblico vastis-simo. In coda alla sua grandemostra romana sono molti i gio-vani, e molti sono coloro chenon si non interessano diretta-mente all’arte, ma non possonoperdere questo appuntamento. L’arte di Frida è stata lo spec-chio della rivoluzione messi-cana. Entra di diritto fra leavanguardie artistiche. Fa riferi-mento alle filosofie orientali eoccidentali. E, allo stessotempo, è arte ‘comprensibile’. Èintuitiva, immediata, non crip-tica. Mi sbilancio: è ‘popolare’.

Sono stato a Roma. La suagrande mostra alle scuderie delQuirinale è affollatissino. Io misono limitato a osservare il dia-logo silenzioso che avviene frale sue opere esposte e il pub-blico. Alla fine ho intervistatoalcuni dei visitatori. Ecco cosane è uscito.

La maggior parte dei quadri del-l’artista messicana è compostada autoritratti. E alcuni fra i vi-sitatori che ho incontratohanno provocatoriamente asso-ciato i suoi ritratti alla modatutta contemporanea dei selfies.

Che cos’è un selfie? E’ un auto-

ritratto fotografico, general-mente eseguito con uno smar-thphone (utilizzato come unospecchio) e poi diffuso sui so-cial networks. E che cosa facevaFrida quando dipingeva? Rea-lizzava infiniti autoritratti pitto-rici eseguiti anche grazieall’utilizzo di specchi.

E’ un’associazione così inap-propriata? Cosa c’è dietro al-l’esigenza di auoritrarsi? Nellamoda contemporanea (banale?Vuota?) come nell’arte dell’au-toritratto ‘d’autore’ esiste unaspinta motivazionale che pro-viene dall’inconscio. Per la mo-derna psicologia, il selfie è ungesto dettato principalmentedalla solitudine, dall’insicurezzae dal conseguente desiderio diaffermazione, quasi sempre daun disagio dissimulato dalleespressioni plastiche dei novellinarcisi.

Frida non si ritrae solo per soli-tudine. Una profonda sofferenzala spinge a dipingersi in poseimmobili, ieratiche comeun’icona religiosa. Il suosguardo impassibile racconta ilsuo stato animo. E’ lei stessa aspiegarci: ‘Dipingo me stessaperché trascorro molto tempo dasola e perché sono il soggettoche conosco meglio’. Intorno siaccavallano, senza fronzoli pro-spettici, gli attori della sua vitaprivata così come quelli del-l’epoca e della società in cui vi-veva. Dietro un atto di apparente

STORIE DI ARTE I SELFIES DI FRIDA

MARCO TURINI

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narcisismo, Frida costruisce unmessaggio politico e sociale.

Ho provato a chiedere agli spet-tatori di definire Frida Kahlocon un aggettivo. Solo un ag-gettivo. Un pensiero immediato,istintivo. Ecco le risposte:Sensuale, coraggiosa, intrapren-dente, fantastica, surreale, ge-niale, ‘messicana’, triste,sofferente, rivoluzionaria, vera. Forse Frida ha abbracciato la

zione. Un dolore che poteva es-sere raffigurato su tela, ma nonlenito dalla sua arte. Perfino ilsuo ultimo autoritratto, espostoalla fine della mostra, lascia tra-pelare, nel suo sguardo, una di-sillusa consapevolezza di averperso la battaglia con la vita.Anche se Frida non ha maismesso di lottare. Rimane inde-lebile lo sguardo di Frida con lesue sopracciglia a forma di alispiegate cosi come rimangonoindimenticabili le ultime parole

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• 7politica solo di riflesso alla pas-sione di Diego Rivera (l’uomoche amerà per tutta la vita), mail suo coinvolgimento sociale ri-mane altissimo. Sentimento, po-litica e religiosità si confondonoassieme pur trovando sempre unloro spazio preciso e distinto.Solo la sofferenza di Frida sem-bra incontenibile. Una soffe-renza straripante, dipinta a metàtra rabbia e rassegnata accetta-

scritte nel suo diario: ‘Attendocon gioia la mia dipartita. Espero di non tornare mai più’.

La mostra ‘Frida Khalo’ è allaScuderie del Quirinale aRoma fino al 31 agostoCatalogo Mondadori/Electa

MARCO TURINI, 34 anni. Archeologo,è uno dei fondatori di Erodoto108.Dopo una breve fuga all’estero è ritor-nato per inseguire (invano) la sua car-riera nell’ambito museale. E’ interessato al rapporto che intercorretra la Società contemporanea ed il suopatrimonio storico e culturale, in tutte lesue forme.

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FURENTEY TRISTE

Fotografie di Giovanni Mereghetti

Testi di Andrea SempliciAndrea Rauch

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Giovanni Mereghetti è andato a Cuba e ha costruito una storia semplice. Ha cercato,nella terra dove è nata lasua leggenda, l’icona piùcelebre del ‘900. Forse destinata a esserloanche nel 2000.Ernesto Guevara apparedovunque: diventa tatuaggio, monumento,santino di famiglia, poster, libro, etichetta….

Giovane con tatuaggio delChe sul Malecon a L’Avana

Plaza de la Rivolucion(L’Avana)

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La nave mercantile francese Le Coubre era esplosa il giorno prima nel porto dell’Avana.Non era una nave pacifista: a bordo vi erano armi, provenienti dal Belgio, per la Rivolu-zione appena nata nel Latinoamerica. Morirono ottantuno persone in quell’esplosione.Fidel Castro accusò la Cia di aver compiuto un attentato. Alberto Dìaz Gutièrrez era conosciuto come Alberto Korda, fotografo ufficiale della Cubarivoluzionaria. Per questo era ai funerali delle vittime dell’esplosione. Aveva un Leica M2,con un obiettivo 90 millimetri. Dentro la macchina la splendida pellicola Plus-X della Ko-dak. Fotografò Fidel. C’erano anche Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoire. I loro voltisul rullino di Korda. E fece due scatti di Ernesto Guevara, ministro del governo cubano. Ora-mai el Che era già nella leggenda: il medico argentino, vagabondo per l’America Latina,diventato un comandante della Sierra. Alberto vede la severità del Che. Il suo piglio, gli occhi furenti. Scatta in orizzontale e inverticale. Nel fotogramma intero c’è una sorta di palma a fare da cornice. Scelgono l’im-magine verticale. Al giornale, Revolución, decidono di tagliare la foto. E cambiano idea:non la pubblicano. La dimenticano. Solo un anno più tardi, fu deciso di utilizzare quella fototempestosa nel manifesto di una conferenza alla quale avrebbe dovuto partecipare, come mi-nistro dell’industria, Che Guevara.

Sei anni più tardi, nel 1967, approda a Cuba (non era la prima volta) l’editore italiano GianGiacomo Feltrinelli. Quello che accade, con qualche ambiguità, è storia celebre. AlbertoKorda dona due stampe di quella foto a Feltrinelli. Lui capisce subito che quell’immagine

ALBERTO DÌAZ GUTIÉRREZ RICORDÒ SEMPRE CHE QUEL GIORNO, 5 MARZO DEL 1961, EL CHE ERA ‘ARRABBIATO E TRISTE’.

‘ENCABRONADO Y DOLENTE‘.

Facciata di una casa a Camaguey

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Un bar di Santiago de Cuba

Cartoline con la fotografia del Che inun negozio di souvenir di Trinidad

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Un locale venditore di sigari nella sua

abitazione di Trinidad

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è un simbolo. Ne fa un essenziale capolavoro grafico: elimina tutti i grigi, accentua i neri,trasforma una foto in uragano. Guevara viene ucciso in Bolivia a ottobre del 1967. Feltrinelli fa tappezzare Milano con lasua foto. E poi la vuole in copertina sul libro che ha deciso di pubblicare: Diaro del Che inBolivia’. Ernesto diventa l’icona della libertà, della lotta, del coraggio. Della Rivoluzione.Della ribellione giovanile. Non c’è scampo: le icone sfuggono al controllo di chi le ha create.Ernesto Guevara è il gadget più venduto del ‘900. E’ la leggenda più conosciuta del secolobreve. Fidel Castro, invecchiato e malato, non riuscirà mai a essere un eroe universale. Ilguerrilero heroico è el Che. ‘Gli eroi son tutti giovani e belli’.

Ma io preferisco un’altra foto di Ernesto Guevara. Un’immagine che avrebbe meritato didiventare più famosa di quella di Alberto Korda (che mai ha incassato un centesimo da quelloscatto). E’ la foto che, sempre la Feltrinelli, mise su un’altra copertina famosa. Quella di La-tinoamericana, i ‘Diari della motocicletta’. Un giovane Ernesto ha i capelli corti, è perfet-tamente sbarbato, sdraiato sul pavimento di un balcone di una casa di Buenos Aires. Vi èappena lo spazio per lui. Ha le braccia incrociate dietro alla testa, indossa una camicia biancae guarda il cielo. Chissà chi scattò questa foto a un ragazzo perso in un pensiero che non

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riesce ad afferrare. E, devo confessare, come avrei voluto vedere Ernesto Guevara invecchiareassieme ad Alberto Granado, il suo compagno del più celebre dei viaggi attraverso l’Ame-rica Latina. Avrei voluto vederli passeggiare sulla spiaggia della Boca, o del Venezuela, odi Cuba. Avrei voluto ascoltare i racconti delle loro storie. Alberto Granado è morto a Cuba.A 88 anni. Il 5 marzo del 2011. Cinquanta e uno anni prima, in quello stesso giorno, Al-berto Korda alzava la sua Leica e inquadrava il volto di Ernesto Guevara.

Ps: le ceneri di Alberto sono state disperse nei mari di Cuba, del Venezuela, dell’Argentina.Le ossa di Ernesto sono state imprigionate nel marmo di un mausoleo.

A. S.

Banconota da 3 pesos con l’effige del Che

Magliette raffiguranti

l’effige del Che in un negozio

di L’Avana

GIOVANNI MEREGHETTI 52 anni, fotogiornalista milanese. Free-lance dal 1980.Ama i reportage geografici e sociali. Ha viaggiato dalla Cambogia al Sahara. Hadocumentato l’immigrazione a Milano negli anni ’80 e il lavoro minorile in Malawi.Autore di numerosi libri. Fra gli altri: ‘Nuba’ per Bertelli; ‘Da Capo Nord aTombuctou…passando per il modo’ sempre per Bertelli e ‘Veli’ per Les Cultures.

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ICONA DEL ‘900 (E DEL 2000…) Umberto Eco, quaranta anni fa, cercòdi definire, l’Altra grafica. Parlò, allora, di due grandi categorie: “Da un lato i contenutirivoluzionari si presentano nella forma di un neoclassicismo teso alla ricerca di una Bellezzacomprensibile a tutti. Di converso c’è la contestazione all’interno dell’universo borghese. Qui la Bellezza è riconosciuta come lo strumento persuasivo del sistema: all’apollinizzazionesi sostituisce la satirizzazione, nel senso etimologico del termine”.

Non c’è dubbio, l’immagine ‘classica’ del Che Guevara rientra nella prima delle due categorie.Una bellezza ‘comprensibile per tutti’, esemplare, didattica, una meta cui tendere, un ‘santino’laico e rivoluzionario con tutta la carica ‘eversiva’ che un modello tanto ‘diverso’ poteva, epuò ancora, veicolare. Icona quindi anche ‘scandalosa’, per il ribaltamento dei significati chepoteva assumere a seconda dei contesti in cui si era trovata ad adoperare e a produrre‘memoria’. Dunque immagine che, proprio per la sua evidente estraneità da ogni contenutocommerciale, poteva ‘vendersi’, ancora Umberto Eco, “indipendentemente dalla sua strutturaformale”.

Manifesto, cuscino, t-shirt, murale,bandiera, cartolina, quindi, e chi piùne ha più ne metta. Icona che resiste,a Cuba ma anche nel resto delmondo, all’usura che il passar deltempo provoca anche ai miti e alleidealità più forti dell’immaginario.Dal giorno che comparve per la primavolta sulla copertina Feltrinelli delDiario del Che in Bolivia (1968) ilvolto di Ernesto 'Che’ Guevara con ilbasco e i capelli al vento, lo sguardofiero verso l'Avvenire, èinesorabilmente sfuggito dalle manidell'autore, il fotografo cubanoAlberto Diaz Gutierrez “Korda”, e si èguadagnato un posto di primissimopiano tra le immagini più pervasive einvadenti del ventesimo secolo.

La foto fu scattata nel 1960 durante una breve apparizione del Che al funerale dei 136 cubanirimasti uccisi in un attacco terrorista controrivoluzionario e Korda non volle mai, per tutta lavita (è morto nel 2001 a Parigi), incassare un centesimo per i diritti su quella foto: “Comesostenitore degli ideali per i quali Che Guevara è morto - ebbe sempre a dichiarare - nonsono contrario che l'immagine venga riprodotta da chi vuole ricordare la sua lotta per lagiustizia sociale, ma sono categoricamente contrario che si usi per la pubblicità di qualsiasicosa possa denigrare la sua reputazione.”

Così nel 2000 Korda promosse causa contro i produttori della vodka Smirnoff che avevanousato la sua foto a scopi pubblicitari. I 50.000 dollari ricavati furono devoluti al CubanMedical System. “Se il Che fosse stato vivo avrebbe fatto lo stesso!”

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‘Ma poi, sporgenti da una fessura, vidi alcuni ciuffi degliispidi peli rossicci che conoscevo così bene. Sfilai concautela il brandello di pelle, lo chiusi in una busta e mi misia sedere, immensamente soddisfatto. Avevo raggiunto loscopo di questo assurdo viaggio’. Bruce Chatwin “In Patagonia”

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Nella grotta del Milodonte, all’Ultima Speranza, pensai cheavrei potuto cambiare punto di vista. Ribaltare la cartageografica che mi aveva condotto fino a lì. Era ilchilometro zero della Ruta 40. Non era la Fine del Mondo,ma il suo inizio. Poggiai il libro, sconosciuto proprio inqueste terre, il vento lo aprì sul frontespizio: ‘Il n’y a quela Patagonie, la Patagonie qui convienne à mon immensetristesse’. Ma io, sotto una pioggia gelida, ero felice.

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GENTE DI PALERMO

A volte accade. Un fotografo abbandona le sue fotonel vuoto/pieno del web. Qualchemiracolo tecnologico le conduce finoalle nostre scrivanie inesistenti.L’attenzione è una sorpresa negli annidella disattenzione. Gli occhi siimpigliano in quelle foto, in quellepoche parole. Non c’è un clicksuccessivo che cambia schermata.Adesso anche la nostra testa e ilnostro cuore rallentano lascianocrescere un’emozione.

Questo chiediamo alla fotografia: ci emoziona? Ci racconta una storia e del fotografo che ha scattato e poiscelto quella foto? Ci fermiamo suquelle immagini in bianco e nero. E ci appare Palermo. L’anima dellacittà. Quella che noi non riusciremo a vedere se non con la guida diFrancesco Faraci. Già perché poiguardi il nome di chi ci ha mandato lefoto, ti viene la curiosità di sentirne lavoce e il racconto continua.

Francesco Faraci, 30 anni,scrittore e fotografo siciliano, vive e lavora a Palermo, realtà che quotidianamente ritrae fuoridagli itinerari turistici per evi-denziarne contrasti e contrad-dizioni. Studioso di etnografiae antropologia documenta riti etradizioni della sua terra e del Mediterraneo con un occhio particolare alle minoranze.

ITALIAPALERMO

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FRANCESCO FARACI

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‘Palermo è una città difficile da raccontare se nonattraverso un percorso interiore fatto di slanci eresistenze, ricerca e passione. Una realtà che non si lascia spiegare con semplici parolee raccontarla diviene quindi un mezzo per interrogarsi,per riflettere.Si vive per lo più sottoterra, l’anima, quella vera sirintraccia nel labirinto di strade strette che s’intersecanofra loro mettendo a dura prova l’orientamento ed è li, inquei momenti che l’occhio, vorace, si sveglia.

Vicoli sporchi, fogne a cielo aperto, il sole che trapelaappena lottando col buio e ogni umanità possibile. Con la quale dover per forza fare i conti.

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L’uomo appunto, colpevole, e spessovittima della storia, costretto a viverequotidianità amorfe, in perenne lotta frafuggire e restare, fra lasciarsi andare ocontinuare a lottare.Occhi, sono quelli che più colpisconoperché capaci di esprimere ciò che isuoni non possono, per forza di cose,dire.Siamo nudi davanti alla vita, lasciamoche ci attraversi.

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In questa nudità del quotidiano siconcentra il mio lavoro, fotografare è ilpretesto per denunciare la mancanza diun gesto civile, di una coscienza criticain grado di riprendere in mano lasituazione e superare quelle curve chepaiono così tortuose da non scorgeremai l’altro lato della strada.Poi il fascino innegabile delladecadenza, sontuosa e maledetta, crocee delizia di questa città, cui sono legatonel profondo. E’ per questo forse, che ilsentimento più ricorrente è la rabbia,positiva, non certo distruttiva, fautricedi sempre nuovi percorsi di vita.

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Io non sono un’artista, sono unfotografo. E a mio modo di vedere c’èuna gran bella differenza.Qui i trucchi sono inutili, è la verità cheuna volta tanto deve essere sputatafuori senza secondi fini.Perché qui, è impossibile barare’.

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Per gli amanti della fotografia,il laboratorio Fotomorgana,nascosto in un chiostro del-

l’elegante Via dei Serragli, quar-tiere di San Frediano a Firenze, nonha bisogno di essere presentato.Nato nel 1983, è un baluardo di re-sistenza della stampa fotografica inbianco e nero. Dalla storia origina-ria, un laboratorio di sviluppo estampa, è nato un progetto ben più

ambizioso. Antico e modernissimoallo stesso tempo: Fotomorgana èritocco, coloritura, finitura e mon-taggio delle foto. Sono attitudini ecompetenze diverse in attenta econtinua ricerca. Rino De Donatisvive in camera oscura da sempre;nel 1987, invece, Marilena DelCoco comincia a collaborare dedi-candosi al ritocco. Poi, da autodi-datta, si dedica alla coloritura a

pennello delle stampe e alla lororifinitura.Marilena, come una vera Fata Mor-gana, che materializza un mirag-gio e inganna la realtà, con il suotratto lieve, modifica l’irrealtà dellafotografia. Quando le sue mani mi-nute, con i pennelli a prolungarne ledita, si mettono a lavoro, l’imma-gine latente si è già liberata sullacarta e i chiaroscuri si abbraccianofra loro per poi separarsi in lineed’ombra. Voglio capire, voglio vedere. Mari-lena è gentile, prende una stampa ela guarda. In silenzio. Sembra in-soddisfatta: un granello di polvere,sul negativo, si è ingrandito fino adiventare un chicco di riso sullafoto. Il rimedio è semplice e ve-loce. Sceglie uno dei pennelli dallapunta particolarmente sottile e ac-carezza il colore. Fermezza dimano, precisione, leggerezza, deli-catezza. La lucentezza della pelledella persona ritratta riacquistasplendore. Marilena guarda dinuovo. Persa nella delicatezza delsuo strumento di piuma, veloce,scattoso, quasi automatico. Immo-bile, invece, è la figura, una donna,ritoccata nei suoi invisibili detta-gli. Ma, all’improvviso, il suosguardo sfonda il quadro. Schiaritele ombre, trova ancora più profon-

STORIE DI FOTOGRAFIA

Un ostinato laboratorio di fotografia nel centro di Firenze. Qui le foto prendono colore con il ritocco a mano. Lo splendoredella im-perfezione. La piccola storia di due grandi stampatori e dei loro miracoli in camera oscura

Testo di Francesca Cappelli

IL MIRAGGIO DI FATA MORGANA

ITALIAFIRENZE

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dità, dimensione ed espressione. Lamano di Marilena trema, con con-sapevolezza, per restituire il coloredelle labbra. Più labbra. Il nero deicapelli. Più nero. Marilena si di-verte, in realtà cerca la verità. Rino ha cominciato a fotografarenegli anni ’70 del secolo scorso.Laurea in architettura, impressio-nato dal grande fotografo AnselAdams, Rino decise che la sua vitaprofessionale sarebbe stata la ri-cerca di quella bellezza, di quellaim-perfezione delle immagini, diquel bianco e nero che racchiudeancora più colori. ‘Im-perfezione’,la fotografia analogica è imperfettaper definizione, ben distante dal-l’asettica perfezione del digitale. In

via dei Serragli non si è in un uni-verso virtuale, costruito da pixel edal nulla apparente dei computer.Qui la foto ha un peso: la guardi, latocchi, la conservi.Entriamo in quell’harem di Foto-morgana. Camera oscura, la lucerossa, una soffusa penombra: Rinosi muove con sicurezza, gatto albuio forgiato da quarant’annid’esperienza. Il mondo fuori è lon-tanissimo. Le voci diventano echi.Chimico d’immagini, un acre odoreche sa quasi di vino è la garanziadel fissaggio. Rino misura le solu-zioni, le prepara con formule sco-nosciute all’odierno mercato foto-grafico. Culla la carta e appaionostanze d’appartamento, sorrisi inposa, capelli in controluce, unosguardo accigliato senza rabbia.Rino entra ogni giorno in altre vitee da chimico ne osserva la qualità e

il contrasto. Nel buio, è un’ideastampata che emerge. Rino e Mari-lena, come ogni artigiano, lascianouna traccia di loro stessi quandoconsegnano le immagini al loro au-tore.

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FOTOMORGANAvia dei Serragli 10450124 Firenzetel. 055 229159cell.3281056457

[email protected]

Rino nel laboratorio di stampa.A sinistra: Marilena colora una foto.Foto di Rino De Donatis

FRANCESCA CAPPELLI 22 annistudentessa in Lettere Moderne,crede che un giorno farà la giornali-sta, che sarà una viaggiatrice e crede nelle coincidenze.

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STORIE DI CIMITERI

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SPOON RIVERA VILNIUSLe tombe di Antakalnis raccontano duecento anni di storia lituana.

Vi sono stato spesso e vi ho sem-pre scoperto qualcosa di ina-spettato. I primi ad accogliervi

sono gli abitanti della Vilnius del primoottocento. Croci cattoliche, croci orto-dosse, una di fianco all’altra. Una scac-chiera di religioni. Cippi e lapidi sem-brano usciti da un romanzo gotico:blocchi di pietra grigia ormai spezzati,coperti di muschio, foglie e aghi di pino,a volte avviluppati tra le radici di alberimoribondi. Nomi e cognomi polacchi,russi, bielorussi, qualche cognomeucraino. Il latino per i polacchi e per unamanciata di mercanti tedeschi, il ciril-lico sotto alle croci ortodosse ma anchesotto a quelle cattoliche dei piccoli ritiorientali. E’ una Vilnius che non esistepiù. I suoi fantasmi si mescolano aquelli della città contemporanea. Tra ilsepolcro di un prete ortodosso e quellodi una nobildonna russa, ecco la tombadi Justinas Marcinkevičius, uno dei can-tori della Lituania moderna. Il fregiodella tomba del poeta, morto tre anni fa,è una dichiarazione di intenti: simbolietnici tradizionali, emblemi folklori-stici, e, al centro alla splendida croce diferro battuto, lo stemma tradizionaledella Lituania, il cavaliere che scaccial’invasore. Un grido silenzioso di orgo-glio nazionale.

Poco oltre, il cimitero si irreggimentaper un lungo tratto in rigide geometriemilitari. E l’aquila della Polonia orna letombe dei soldati polacchi morti com-battendo i bolscevichi nella guerra del1919-1920. Risalite poi la china lungola quale riposano i Tomasz, i Łukasz egli Stanisław morti a centinaia per laPolonia, e vi troverete nel mezzo di unmonumento con su scolpiti nomi deltutto diversi: Algymantas, Vytautas,Apolinaras, Ignas, e tutti gli altri chediedero la vita per l’indipendenza li-tuana. Ancora una volta, ad Antakalnis,due passi significano un cambio diepoca. Nel 1991, la Lituania lottò per li-berarsi dal giogo sovietico.

Erano rimasti dimenticati per secoli. Se-polti nelle trincee che loro stessi ave-vano scavato. I soldati della Grande Ar-mata di Napoleone entrarono

Testo e foto di Fabio Belafatti

Antakalnis è uno dei quartieristorici di Vilnius, capitale dellaLituania. È anche il cimitero piùcelebre di questa città. Ed è come un’antologia sparpagliata della storia di questo paese. In questo brandello di terra incastrato tra il fiume Neris e i palazzoni sovietici della periferia, Vilnius ha narrato se stessa per secoli.

trionfalmente in Vilnius il 28 giugno1812, cinquecentomila uomini di ventinazioni diverse lanciati verso Mosca;sei mesi dopo ne tornarono un decimo,stremati, feriti, in fuga. Migliaia di lororiposano ad Antakalnis, sepolti in unafossa comune con una lapide in francesee in lituano.

In una sorta di anfiteatro naturale, sitrova la sezione sovietica del cimitero.Migliaia di nomi di giovani da tuttal’Unione Sovietica, azeri, georgiani, ar-meni, turkmeni, kazaki, russi, ucraini:sono caduti attorno a Vilnius con la di-visa dell’Armata Rossa durante la Se-conda Guerra Mondiale. Le date del-l’eroico sforzo sono scolpite a carattericubitali all’ingresso del memoriale:1941-1945. E il ’39? E il ’40? Già allora

FABIO BELAFATTI, 27 anni, espertoin geopolitica dell’Asia Centrale, inse-gna all'Università di Vilnius in Lituania.E’ uno scrittore diarista. Appassionatodella storia dei paesi baltici.

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sergente austriaco Anton Schmid, Giu-sto tra le Nazioni, che salvò decine diebrei nella Seconda Guerra Mondiale efu per questo fucilato dai suoi commi-litoni: riposa vicino al generale Noreika,patriota lituano che molti accusano diaver partecipato all’Olocausto.

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• 7si combatteva, ma non qui: i sovietici sispartivano l’Europa Orientale con i na-zisti, e i lituani perdevano la loro indi-pendenza. In pace riposano anche i no-tabili del Partito Comunista Lituano,sepolti, a poca distanza, in tombe tutteuguali e spoglie di riferimenti religiosi.

La collina che s’innalza nel cuore del ci-mitero, invece, è il luogo dei poeti e de-gli scrittori, degli scienziati e degli at-tori, dei politici. Le loro tombe sono uncaleidoscopio di marmo, legno e granitoche raffigura pentagrammi, maschereteatrali, bacchette da direttore d’orche-stra, libri, violini e alberi.

Ora scendete dalla collina lungo unviottolo seminascosto. Qui vengono po-chi visitatori. Qui sono sepolti “gli eroitedeschi”, i soldati che, nel 1915, com-batterono per l’Impero Tedesco inquella che doveva essere “la guerra perporre fine a tutte le guerre”. Vite spre-cate. Sull’altro lato del viottolo, una se-rie di lapidi ornate dalla mezzaluna isla-mica: sono i soldati musulmani mortinello stesso anno, molti di loro com-battendo per l’Impero Russo controquegli stessi tedeschi sepolti sull’altrolato del sentiero. Altro sangue inutile.Ad Antakalnis i nemici di un tempo ri-posano a fianco uno dell’altro. Come il STORIE DI CIMITERI

“Il cimitero si irreggimenta in rigide geometrie militari.” Le tombe dei soldati polacchi caduti nella guerra del 1919-1920.

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estremoTiziano Terzani arrivò in Laosnella primavera del 1972 e sui terrazzini dell’Hotel Constellationa Vientiane…‘c’era una ragazzahippie, bionda, che fumava unasigaretta di marijuana così forteche se ne sentiva l’odore per tuttele scale. Vedendomi arrivare,come volesse confidarmi una formula segreta per capire tutto,sussurrò: ‘Ricordati, il Laos non è un posto; è uno stato d’animo’.

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Un tranquillo viaggio nelventre di Yangon

Foto di Vittore BuzziTesto di Osvaldo Spadaro

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IL TRENO CHE NON PORTA

DA NESSUNA PARTE

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Dal finestrino sempre aperto mentreil treno avanza lento vedi distin-tamente l'interno delle case. Quasi

puoi toccare i mobili, dare la mano a chista seduto per terra a friggere nel wok, sa-lutare con un sorriso subito ricambiatochi ti guarda violare senza offesa l'intimitàdi una stanza. Normalmente quandoviaggi in treno, in Italia o in Europa, vedisempre il lato B delle abitazioni: le cucinesul retro, i cortili spogli, i garage trascu-rati. In Birmania, sulla Circular Line, laferrovia suburbana che fa un giro com-pleto lungo quarantasei chilometri intornoalla capitale Yangon, invece entri diretta-

mente in casa. Certo, più che abitazioni inmattoni spesso sono capanne di rattan, le-gno e foglie di palma, o bugigattoli contetti in lamiera e pavimento in terra battuta,ma che siano case vive e vissute è fuor didubbio. Come è fuor di dubbio che siaviva e vissuta tutta questa linea ferroviariasuburbana costruita nel 1959. I treni, unoogni venti minuti, partono e arrivano dalbinario sei della Central Station e si insi-nuano nella periferia della città, arrivandoa lambire zone industriali e campi alla-gati, inoltrandosi fino in aperta campagnaprima di avvitarsi su se stessi e tornaredove sono partiti, quasi tre ore prima.

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Il CircularTrain ruota, a dieci chilometri all’ora, attraverso la capitale birmana e si trasforma inuna platea da dove ammirare lospettacolo quotidiano di una città. Un treno senza porte, si sale incorsa e si comprano verdure e zuppe in sacchi di plastica.

Le donna si proteggono la pelle conpolvere di sandalo e gli uomini

sputano saliva al betel per terra…

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Un viaggio che non porta da nessuna parte, se non attraverso il ventre di unacittà bella da osservare come Yangon. Dal finestrino così capita di vedere mo-naci buddisti che oziano su una panca, oforse sono intenti a meditare; monachevestite di grigio chiaro che camminanocon la ciotola in mano, e poi musulmaniche si lavano i piedi prima di entrare inmoschea e una miriade di donne e uominiche camminano, fanno acquisti, man-giano, contrattano, cucinano, discutono,dormono, insomma: vivono. Tutto questoin un paesaggio dominato da banani conbanane annerite, manghi senza frutto chenon è stagione, alberi rigogliosi, bambùaltrettanto rigogliosi e bambù tagliati difresco pronti a diventare impalcature pernuovi palazzi in costruzione. E poi qual-che immenso, quieto, bayan – l'albero sottocui Buddha ricevette l'illuminazione - allacui ombra qualcuno cerca qualche forma diilluminazione terrena, o forse solo un po' ditregua dalla calura che cresce.Sul treno, nel vagone che altrove si di-rebbe di prima classe ma qui è “soft”, ov-vero con il sedile non in legno, oggi cisono sei turisti, di cui una coppia di ra-gazze tedesche e due anziani americaniche ogni trenta secondi esplodono in un“Amazing”. E poi due poliziotti senza al-tre armi che non siano l'autorità impressa

dalla loro divisa grigia e blu, un control-lore vestito con una camicia bianca e unlongy verde, che controlla i biglietti(grandi e scritti a mano) ai sei stranieri,che a loro volta sono controllati dai poli-ziotti che vigilano perché non gli succedanulla. Oltre a loro, nello stesso vagoneuna signora ben vestita che si sventolacon un ventaglio, una famiglia che sorrideper le fotografie, un uomo che dorme na-scosto sotto il giornale e un anziano si-gnore con la camicia bianca che si spul-cia un orecchio e sbadiglia. Questo trenosenza nome e senza numero, partito inperfetto orario alle 11.30 dalla CentralStation di Yangon, una costruzione colo-niale rosa dall'umidità dei tropici cometutte le case e tutti i palazzi di questa cittàd'altri tempi, non ha porte: nè nel vagone“soft” né negli altri, quelli normali, con lepanche in legno. Per cui la gente sale escende quasi in corsa, anzi sarebbe megliodire al passo, tanto la velocità è talmenteirrisoria che non si rischia certo di farsimale. E così lentamente questo treno su-burbano che altrove in Asia sarebbe pienodi persone silenziose con la testa immersadentro uno smartphone, intenti a giocarea BubbleBubble, o a guardare una serie tvcon le cuffie alle orecchie, è popolato digente che ancora legge avidamente i quo-tidiani, guarda dal finestrino, chiacchieracon il vicino. Fuori sfilano in processionecampi allagati eppur coltivati a verdureche come il radicchio sembrano cresceresull'acqua, baracche di legno, qualchefabbrica arrugginita, passaggi a livellomanuali, stazioncine scolorite rosso ocra. Tutto a una velocità

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costante che sarà si e no di dieci all'ora. E le poche volte che accelera il treno a ga-solio comincia a rullare, quasi fosse unanave in mezzo alle onde in un giorno dimare quasi in tempesta. Ma l'ebrezzadella velocità dura poco, pochissimo. Lestazioni in questo percorso circolare sonotante e ogni poco ci si ferma. E allorasale qualcuno con il suo carico di fiori,frutta, verdure, carne rossa e carne bianca.Tutto spesso comprato qualche istanteprima al mercato che si trova esattamentesui binari, come alla stazione di Insein.Qui per terra è uno stuolo di bancarelleche vendono di tutto e di più, ma soprat-tutto cibo fresco. Ceste di meloni, ba-nane, cocchi verdi, e poi tagli carne,mazzi fiori, un numero incredibile di ver-dure di ogni forma e colore. E poi spa-ghetti in ciotole di plastica, zuppe in sac-chetti di plastica e bevande varie incontenitori che poi finiranno a lato dellamassicciata, dove immondizia si sommaa immondizia. Tutto questo è animato dasignore con i capelli neri e le gote impia-stricciate di polvere di un giallo pallido,quasi beige: polvere di sandalo usata perproteggersi dal sole, ma anche per bel-lezza. Una cipria ecologica e tradizio-nale, che non manca quasi mai sul voltodelle donne birmane. Come non mancanoi sorrisi, dispensati in abbondanza e concostanza e non mancano bracciali, collanee orecchini d'oro, che sono l'unica formadi risparmio concepita, considerato an-che la frequenza con cui negli ultimi de-cenni le banche sono state chiuse e na-zionalizzate. E come non mancano perterra, i segni rossi del betel, la noce leg-germente allucinogena che in Birmaniaquasi tutti masticano continuamente,

come il qat nel Corno d'Africa, sputandoquanto ruminato dove capita, lasciandoovunque queste macchie rosse che sem-brano sangue rinsecchito. Macchie cheadornano quegli stessi marciapiedi su cuivedi in attesa ci sono donne con l'om-brello avvolte in grosse giacche di lana econ il cappello in testa. A dicembre è in-verno anche qui a Yangon, lo dice il ca-lendario. Certo, ci sono ventiquattrogradi, ma per queste terre fa quasi freddo.E poi se appesa al muro l'autorità dice cheè inverno e bisognerà pur crederci.

Ora tutto questo forse finirà.Da qualche mese in città parlano di sosti-tuire alcuni dei treni in servizio, chehanno l'età della ferrovia, quasi sessantaanni, con delle nuove carrozze dotate diaria condizionata e porte automatiche.Sono importate, di seconda mano, dalGiappone. Ma con questi nuovi treniquasi moderni il biglietto aumenterà: perora costa cento kyat (meno di dieci cen-tesimi) per chi usa i vagoni con le panchein legno e duecento kyats per chi sale suquelli soft (gli stranieri pagano quattrodollari). Un problema per la maggiorparte dei 90mila utenti quotidiani deltreno, che appartengono alle classi piùpovere di una città di per sé povera. Per-sone per cui il Circular Train con suo rol-lare e stridere di metalli rappresenta digran lunga il mezzo di trasporto menocaro per arrivare in centro. Persone chedalla finestra di casa, ogni giorno, tutto ilgiorno, vedono passare il treno che col-lega le viscere di Yangon.

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OSVALDO SPADARO, 37 anni, quando può viaggia,quando riesce scrive, se poi qualcuno lo pubblica o menopoco importa. Vorrebbe vivere in Polonia solo perché lì ilreportage è un genere letto e rispettato, ma invece vive aMilano. Preferisce l'Asia al resto del mondo semplicementeperché il resto non l'ha ancora visto. Ma di quel che ha vistogiudica la Birmania il Paese più ricco di storie da scoprire.

VITTORE BUZZI, 46 anni, milanese, preferisce questamicrobiografia: ‘Comincia a fotografare nel 1992. Non haancora smesso’. Possiamo aggiungere? ‘Ha studiatofotografia con Roberta Valtorta, ha vinto prestigiosi premiinternazionali di fotografia di ricerca e di reportage. Fra cui,nel 2013, un World Press Photo’. Se volete conoscere i suoilavori: www.facebook.com/pages/Vittore-Buzzi-Fotografo/146792108433" Organizza workshop ( www.corsifotografia.it) ed èconsiderato fra i migliori fotografi di matrimonio al mondowww.fotografomatrimoni.biz

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LA VITA A COLORI DI ANDREA RAUCHTopolino, Pinocchio, il gatto Felix e Buddha

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‘Non sono buddista. Probabilmente non lo sarò mai’. Ma il suo Buddha, un dono per la nostrarivista, ha una dolcezza leggera. Fu un amico a chiedere ad Andrea Rauch, uno fra i migliori

grafici al mondo, di pensare a una ‘storia a quadretti’ sull’essere illuminato della spiritualitàorientale. E Andrea usò carta riciclata e cercò colori soffusi per restituire l’immaginario dell’Asialontana. Nelle prossime pagine ci sono quelle tavole disegnate oltre venti anni fa.

Strano pensare che negli stessi anni, il grafico senese (poi ha vissuto a Firenze per trasferirsi da un quarto di secolo in Valdarno) amasse Topolino. Artista pop, Andrea, a leggere i critici chehanno raccontato il suo lavoro. Topolino appare dovunque nei suoi manifesti e nei suoi disegni. Come Pinocchio. ‘Una vera mania’, confessa. Lettura prediletta da piccolo. Andrea ha cominciatoa disegnare il burattino di Collodi nel 1980. E non ha mai smesso. ‘Mi è rimasto attaccato nellapelle’. Nel 2006, come un nuovo Geppetto, ne costruì uno tutto suo.

Lavora su commissione, un grafico. È sempre vero? Lui sostiene di sì e noi non gli crediamo. Difetto (pregio) di Andrea: il suo lavoro deve piacergli. Se qualcosa non lo attira, il committentepuò offrire la luna, ma non riuscirà a convincerlo a lavorare per lui. Scrivo questo e già lo sentobofonchiare: ‘Magari fosse vero’. Cerca di correggermi: ‘È più semplice: se un lavoro non mipiace o non mi interessa, è quasi certo che verrà fuori qualcosa di brutto’

Devo cercare altri difetti (che per me è altro pregio): è pigro. ‘Sì, ma, allo stesso tempo sonoveloce’. Non ha cellulare (ce l’ha la moglie, non preoccupatevi). ‘Ma ho un buon rapporto con letecnologie anche se hanno azzerato il nostro lavoro’. Nel 1969, Andrea disegnò il suo primomanifesto: per un cineclub senese, una rassegna in bianco e nero. ‘Era un’impresasemplicemente allineare i caratteri. Adesso il Mac non sbaglia mai. Tutti possono inventarsigrafici. Avevamo a disposizione tre soli caratteri, oggi io, che non ho attenzioni particolari, possosceglierne fra 250 famiglie’. Ho provato a dire: sei un disegnatore, e lui mi ha replicato: ‘No, sonoun grafico. E non ho un mio stile’. Mi agito sulla sedia: riconoscerei subito un lavoro di Andrea,anche se mi fa Buddha e non Topolino.

Andrea è stato inserito, da una celebre rivista giapponese, fra i cento migliori grafici. Si è dilettato di botanica disegnando i simboli della Margherita e dell’Ulivo. Ma ho la sensazioneche il suo cuore battesse più forte quando ha creato il drappellone per il Palio di Siena. Era il 2003 e fu un omaggio bellissimo a Duccio da Boninsegna.

Mi sono perso nella storia grafica di Andrea, sono felice e stupefatto di vederlo sulle nostre non-pagine e allora tiro fuori una storia dal nostro passato: 1982, i Rolling Stones, mentre l’Italiavinceva i mondiali di Spagna, avrebbero dovuto suonare a Firenze. Niente da fare. Ma Andreaaveva già disegnato il manifesto per un concerto che non ci fu.

ANDREA RAUCH, 66 anni, nato a Siena, da venticinque anni vive in Valdarno. Ha collaborato con la Biennale di Venezia e il Centre Georges Pompidou. I suoi manifesti (ne ha disegnati oltre 500) sono al Museum of Modern Art di New York. Nel 1993 è stato considerato, dalla rivista giapponese Idea, fra i migliori cento grafici al mondo. Noi lo amiamo per i suoi Pinocchio, per Topolino, per il Gatto Felix e per il suo giornalino di Gian Burrasca.

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La storia di Siddharta

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Nella città di Kapilavastu, alle pendici dell’Himalaya, la moglie del re, Maya, attendeva un figlio, gloria della stirpe degli Shakya.

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Il bimbo nacque, nel parco di Lumbini, e grandi prodigi accompagnarono la nascita regale. Il bimbo fu chiamato Siddharta. Il veggente Asita predisse che il figlio del re si sarebbe incamminato per la strada dell’illuminazione e avrebbe salvato le genti dall’aceano del dolore.

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Siddharta crebbe circondato dal lusso e da bellissime donne, maestre nell’arte dell’amore.

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Un giorno, uscendo dal palazzo, il principe incontrò la vecchiata, la malattia e la morte eprese coscienza delle sofferenze del mondo.Ma vedendo un monaco capì qual era la suavia e decise di abbandonare la reggia.

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Il re non volevaperò concedereal principe il permesso di andare a rag-giungere la veraconoscenza euna notte le divinità feceroaddormentaretutta la città. Il principe Siddharta potéuscire a cavallodalle mura di Kapilavastu.

Siddharta meditò per ottoanni e fu tentatodai terribili demoni guidatida Mara; demonicon il grugno dimaiale e i becchi d’uccello.

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Alla fine, vinte le tentazioni e le debolezzeumane, Siddharta raggiunse la saggezzacompleta. Era diventato il Buddha, l’Illuminato.

Per cinquant’anni andòdi villaggio in villaggio,utizzando parole di saggezza ed’amore. I suoi discepoli crescevano di giornoin giorno.

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Siddharta, quando sentì avvicinarsi la morte, si fece preparare un giaciglio di alberi Shala e, al termine della notte, spirò serenamente.Gli alberi piegarono i rami verso il corpo del Buddha e lo ricoprironodi fiori. Tutto questo avveniva duemilacinquecento anni fa.

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Tratto da:Alessandro Gigli La favola del Sole e del LotoPrefazione di Giuliano Scabia Disegni di Andrea Rauch Jaca Book 1995

Ananda K. Coomaraswamy, Vita di Buddha, SE, 2007Richard Gombrich, Il pensiero del Buddha, Adelphi, 2012Jack Kerouac, Il libro del risveglio. Vita del Buddha, Mondadori, 2009Padmasambhava, Il libro tibetano dei morti, Mondadori, 2011La rivelazione del Buddha. I testi antichi - Il grande veicolo,

Mondadori, 2004

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GABRIELE GENINI 33 anni artista viaggiatore, nato in Svizzera, vive e lavora tra ilsuo piccolo atelier nel centro storico di Firenze e la sua casa a Pracchia, immersanei boschi dell’Appennino pistoiese. Diplomatosi alla Scuola del Fumetto di Milanonel 2000 e laureatosi all'Accademia di Belle Arti di Firenze nel 2006, cerca di soprav-vivere con ciò che ama fare. www.geninni.ch www.quarantasetterosso.blogspot.it

‘Partenza improvvisa. Senza un itinerario. Senzaun vero sapere. L’Oriente è sempre stata unafascinazione. Siamo partiti così. Confidandonella buona sorte dei viandanti.

E il Viêt Nam sé disegnato da solo. Assieme aglischizzi di viaggio che Gabriele andavatracciando nei suoi carnets. Siamo entrati nelpaese via fiume, varcando la frontiera con laCambogia a Vĩnh Xương, poi siamo risaliti anord fino ad arrivare a Hà Nội. Il viaggio haavuto il ritmo dei disegni di Gabriele. Lo stuporee la meraviglia hanno rallentato il nostro andare:ci hanno trattenuto invitandoci a raccontare illuogo e le emozioni con la penna o la matita.

‘Viaggiare disegnando’ è, a ben vedere, assaidiverso dal ‘disegnare viaggiando’. Il taccuino,in quest’ultimo caso, è un semplice accessorio,lo strumento per registrare e immortalareistantanee di un paese, esotico o familiare chesia. Chi, invece, viaggia disegnando, cambia ilproprio modo di andare, di vedere, di sapere: è ildisegno che detta il ritmo, che impone i suoitempi, che offre l’opportunità di fare incontribizzarri e conoscere persone inattese, cheindirizza i passi, che porta a privilegiare la sostain alcuni luoghi a discapito di altri altrettanto oforse più ‘belli’ e conosciuti.

Ecco, qui vedrete una parte del nostro carnet devoyage. Un ‘diario illustrato’. Il racconto intimodel Việt Nam che abbiamo vissuto nelle quattrosettimane in cui vi abbiamo trascorso. E’ unanarrazione visiva, eseguita sul posto, in cuisegni, disegni e pensieri hanno costretto ilvissuto a raccontarsi fino a tingersi con queicolori propri di ciò già che sta diventandoricordo.

CARNET DE VOYAGEDisegni di Gabriele GeniniTesto di Gaia Del Francia

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ACQUERELLI DAL VIÊT NAM

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GAIA DEL FRANCIA 40 anni, fiorentina, “sognatrice pragmatica”, antispecista, viag-giatrice in paesi esotici e nel quotidiano vivere, non ha ancora deciso cosa farà dagrande.Nella sua vita maneggia (o ha maneggiato) pentole e padelle, libri e mac-chine del caffè, ago e filo, pensieri filosofici e apparecchi fotografici, con ugual inte-resse e curiosità. www.quarantasetterosso.blogspot.it

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REPORTA

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ATTRAVERSARE IL MEKONG, RITROVARSI A LUANG PRABANG DOVE NESSUNA CASA È ALTA PIÙ DI DUE PIANI. UNA FALCE E MARTELLO CUCITA A MANOSULLA BANDIERA. GIOCARE A BOCCE E SEGUIRE IL CAMMINO DEI MONACI BUDDISTI, E NEL TRIANGOLO D’ORO SI COLTIVA L’OPPIO

I LAOTIANI ASCOLTANO IL RISO CRESCERE

Chamapasak, sito archeologico di Wat Phou, tempio Khmer Hindu

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LAOSVENTI ANNI DOPO TIZIANO TERZANI

testo di Maurizio Silvestrifoto di Aldo Pavan

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Se sono arrivato fino agli altopiani del Laos buona partedel merito è di Tiziano Terzani. Per tutti coloro che,come me, si sono appassionati all'Asia leggendo i suoi

libri, il Laos, dopo l'India, era una tappa obbligata. Loscrittore fiorentino visitò il Laos per l'ultima volta nel di-cembre del 1992 lasciandolo con un velo di tristezza nelcuore, con il fondato timore che l’incanto di quel mondofosse destinato a scomparire.

Laos del nord, Muang Khua, ponte sul Mekong

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avere affatto l'aspirazione tailandese di correreverso la modernità dell'occidente, né la rapace in-dole commerciale dei cinesi. Gli racconterei che il Laos, benché sia diventatouna meta turistica privilegiata, frequentata ognianno da migliaia di viaggiatori, di cui moltissimigiovani, non si è piegata alle logiche e alle pretesedel turismo. La capitale Ventiane è ancora unasonnacchiosa e tranquilla cittadina con il traffico diuna nostra cittadina di provincia e alle undici di

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sera si respira il silenzio e l’aria umida del Me-kong. Persino Luang Prabang, la capitale storica espirituale del paese, dal 1995 dichiarata dall'Une-sco patrimonio dell'umanità per i suoi meravigliositempli buddhisti, ha mantenuto la sua dignità e ilsuo fascino coloniale. Certo, la città si è ingrandita,è aumentata la ricettività e i prezzi sono i più altidel resto del paese; la via centrale Sisavangvong,

un tempo acciottolata, è stata asfaltata e ora citransitano anche automobili, ma non è stata co-struita una sola casa più alta di due piani, la città èpulita e ordinata e dall'alto del tempio di Phousi ilpanorama è ancora quello di una paciosa cittadinaadagiata sul Mekong punteggiata di palme, bananie alberi di papaya. Il Laos non sarà più uno stato d'animo, come unavolta disse a Terzani una ragazza hippy, ma ancoranon è nemmeno semplicemente un posto cometutti gli altri. Forse perché in Laos il tempo ha an-cora un valore e un sapore speciale, la gente non va

Il grande Ponte dell'Amicizia sul Mekong tra lasponda laotiana e quella tailandese era stato appenacostruito, violando di fatto la storica verginità geo-grafica del Laos. Terzani temeva che questo paesenon ce l'avrebbe fatta a resistere al turismo dimassa e alla spinta modernista di due vicini in-gombranti e voraci come Thailandia e Cina. A distanza di vent'anni, vorrei poter telefonare aTerzani, alla sua reincarnazione, per rincuorarlo edirgli che il Laos ancora resiste, che non sembra

Laos, Pakse, ristorante sulla riva del Mekong

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mido e i doganieri addirittura si concedono diver-titi per una foto. Per diversi giorni non avrei rivi-sto un solo uomo in uniforme, invece avrei ritro-vato dappertutto quel fare le cose con calma, quelbel sorriso spontaneo, più esplicito di mille parole,che ti fa sentire a casa in un paese culturalmentelontano anni luce dal tuo. Ne ho avuto la con-ferma in un anonimo e sperduto villaggio del norddove, sorpreso da un improvviso diluvio tropicalefuori stagione, mi ero riparato sotto la tettoia di unadelle piccole case di legno. Mentre guardavo lapioggia, dietro di me si è aperta la porta e una

comunisti sono laotiani, con tutta la complessitàdel mosaico etnico culturale del paese. Secondo isacri indicatori occidentali è un paese povero, i trequarti della popolazione vive nelle campagne. Tut-tavia per le strade non si vede un solo mendicante,sono invece piene di bambini che giocano a biglie,con fionde di legno o scorrazzano in bici, nono-stante tutti abbiano la tv in casa. Ci sono tantiscooter, ma anche tantissime biciclette e il princi-pale mezzo di spostamento dei laotiani è il servi-zio pubblico delle corriere, un affare molto serioche viene svolto con puntualità e incredibile zeloda parte degli autisti. I vecchi autobus sono ben te-nuti e soprattutto efficienti, messi alla prova dicontinuo su strade impossibili. Sugli autobus lao-tiani si respira un buon odore di balsamo di tigre,si viaggia con i finestrini aperti, i capelli al vento

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mai di fretta e affronta la vita con un atteggia-mento rilassato e sempre sorridente. Qui il terribiledetto "il tempo è denaro" è del tutto fuori luogo. Illaotiano ha una dolcezza innata e uno spontaneosenso dell'ospitalità. Credo che i francesi non sifossero sbagliati quando nelle loro colonie avevanoconiato il detto "i vietnamiti coltivano il riso, icambogiani li stanno a guardare, i laotiani ascol-tano il riso crescere”. Me ne sono accorto già allastazione di frontiera dove il funzionario di poliziaha rilasciato il visto d'ingresso con un sorriso ti-

mano furtiva ha lasciato una sedia. Mi sono sedutoper ammirare lo spettacolo della pioggia, furiosa ebellissima, e, quando ha smesso, ho bussato per re-stituire la sedia. In quella piccola casa viveva unafamiglia di sei persone. Quegli sguardi e quei sor-risi puri non saranno facili da dimenticare. Il Laos è ancora un posto speciale forse perché, afianco della bandiera nazionale si può permettereil lusso di sventolare la bandiera rossa con il sim-bolo (cucito, mica stampato) della falce e mar-tello senza apparire ridicolo. Perché prima di essere

Laos del nord, Lunag Prabang, i monaci raccolgono le offerte di cibo dalla popolazione

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e la musica a tutto volume. Mentre la vera passionenazionale è il gioco delle bocce. Petang lo chia-mano, alla francese, e lo praticano tutti, uomini edonne, giovani e anziani. Ho visto i laotiani agitarsio alzare la voce sono all'interno di un campo dibocce!

E poi c’è il fascino misterioso del Mekong, pos-sente e impassibile, dalla superficie compatta gri-gio verde e dal grado di trasparenza pari a zero. Na-sce in Tibet per sfociare vicino Saigon e lungo ilsuo corso abbraccia, protegge e disegna la rete ditrasporti del Laos. Quanti altri paesi possono van-tare un servizio pubblico di trasporto fluviale? Perdi più su meravigliose imbarcazioni di legno, dallaforma allungata e strette come la fusoliera di un ae-reo, gli interni in mogano, la balaustra coloniale ele tendine lise color senape per ripararsi dal sole.Equipaggi giovanissimi le guidano tra le rapide, lestrettoie e gli ostacoli del fiume con un andatura

lenta e sicura, in un viaggio in mezzo a uno sce-nario naturale prorompente. Ai lati del fiume soloforesta vergine, verde verde e poi ancora verde, os-sessivo e vivo, cosi fitto da non poter essere tra-passato dal minimo raggio di luce. Ogni tanto suuna riva appare qualche piccolo orto, è il segno chenelle vicinanze, in mezzo alla foresta, c'è un vil-laggio. La barca accosta per far scendere un pas-seggero laotiano con i suoi fagotti colorati mentredal bosco sbuca, improvvisa come una banda di pi-rati, una schiera di bambini che corre a perdifiato.Passano due barche al giorno, una verso valle e unaverso monte. Tutti coloro che non hanno maitempo dovrebbero concedersi ogni tanto un giornodi navigazione fluviale per provare il senso di be-nessere di sentirsi padrone del proprio tempo li-berato. Il Laos ha una saggezza magica che gli permette diconservare ciò che merita di essere conservato.Forse perché è un paese in cui il buddismo è unareale filosofia di vita e si acquisisce merito socialefacendo un periodo di monachesimo in monastero.La presenza discreta ma costante, per le strade diquesti sari arancione e giallo ocra sono una gioia

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Laos del nord, Mauang Khua, riva del Mekong

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per gli occhi e lo spirito. A Luang Prabang, all'albatutti i giorni i monaci escono ancora in processioneper raccogliere le offerte di cibo della popola-zione, una cerimonia di cui che nemmeno i tanti tu-risti che scattano foto sono riusciti a scalfire la sa-cralità.

In questo quadro cosi confortante ci sono dellecrepe. La provincia di Luang Nam Tah, una nicchiadalla natura incantata all'estremo nord ovest delpaese, è dimenticata dal mondo, ma non dai cinesi.La ragione è che la cittadina di Muang Sing, la piùvicina alla frontiera, è il vertice laotiano del fa-migerato triangolo d'oro e da queste parti l'oppio ècoltivato come la vite nelle Langhe. La regola èsemplice, i laotiani lo coltivano e lo raccolgono, icinesi lo commerciano, affare che riesce bene comea nessun altro popolo al mondo. Solo il piccolocommercio al dettaglio è lasciato alle anzianedonne di etnia Akha. La pelle scurissima, le maniossute e forti, sempre vestite in abiti tradizionali,con il pretesto dei braccialetti colorati agguerrite esimpaticissime si avvicinano per vendere oppiomettendo in scena una trattativa degna di una com-media napoletana. In questa zona si vedono villenuovissime dal gusto pacchiano, grandi negozi si-mili ai nostri centri commerciali e concessionariedi scooter con piazzali enormi. La Cina è penetrata,se metterà radici e prenderà in mano le redini del-l'economia, come è successo negli altri paesi delsud est asiatico, allora l'incantato mondo laotianorischia davvero di essere stravolto.

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MAURIZIO SILVESTRI, 46 anni, scrive di viaggi ecultura enogastronomica per il progetto editorialePorthos. Collabora anche con Pietre Colorate(www.pietrecolorate.com) e Slow Food. Dirige, insieme a Giuseppe Gennari, il Festival Ferré diSan Benedetto del Tronto, città dove risiede. In realtà, vive altrove.

pagina 140PER SAPERNEDI PIÙ VAI A

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orosariete21 Marzo -19 AprileSe la sua vita era così completa,come spiegare la costante sensazionedi vuoto che provava, come se tuttaquell’attività che l’assorbiva, la do-minava e la muoveva fosse stata inu-tile e vana? Se aveva abbastanza davivere decorosamente, e per di più damettere via per antica abitudine qual-che piccola economia, se la sua vitaera tranquilla e persino gaia, perchéallora era così vuota?Consiglio di stagione: il pieno e ilvuoto sono concetti relativi, da cheparte vuoi guardare?

toro20 aprile -20 maggioLo trovò seduto sulla riva a guardarscorrere il fiume. “Continui a cantare,capitano” gli disse. Si sedette accantoa lui, e quando conosceva il testodella canzone lo accompagnava conla sua voce scarsa. Non aveva maiudito cantare nessuno con tantoamore, né nessuno così triste che co-munque attirasse tanta felicità intornoa sé. “Grazie capitano” gli disse“Con dieci uomini che cantino comelei, salveremmo il mondo.”Consiglio di stagione: anche la tuavoce può contribuire a salvare ilmondo.

gemelli21 Maggio -20 GiugnoPoveri uomini! Cerchiamo di esserecomprensive. Non sanno come ridefi-nire il loro modo di guardare la realtàin relazione al fenomeno delle donnedi oggi perché, se ci pensate bene, ilnostro cambiamento è la vera rivolu-zione culturale di questo secolo in-fame. Perché noi siamo comel’economia di mercato o i regimi to-talitari; non ci possono cambiare, nésostituire, né azzerare. Il nostro è unprocesso irreversibile, ecco perchésiamo la vera rivoluzione.Consiglio di stagione: qual è la tuarivoluzione in questo momento?

cancro21 Giugno – 22 LuglioLa vicinanza di quest’uomo che co-nosco a malapena è intossicante, ag-gettivo che uso con cautela perché neconosco troppo bene il significato,ma non ne trovo un altro per descri-vere questa esaltazione dei sensi,questa dipendenza così simile all’as-suefazione. Ora capisco perché gliamanti dell’opera lirica e della lette-ratura, davanti all’eventualità di unaseparazione, si suicidano e muoionodi dolore.Consiglio di stagione: abbandonatiai sensi, sperimenta per una voltala dipendenza.

leone23 Luglio - 22 AgostoLei ignorava in quei tempi l’abitu-dine di mandar donzelle nel letto deiguerrieri, così come si mettono legalline sotto i galli di razza, ma nelcorso di quell’anno l’apprese: altrinove figli del colonnello furono por-tati in casa per essere battezzati. Ilmaggiore aveva passato i dieci annied era uno strano moretto con gliocchi vedi che non aveva nulla dellafamiglia paterna.Consiglio di stagione: c’è qualcosadi tuo anche in ciò che non riconosci.

vergine23 Agosto - 22 SettembreA poco a poco le nuove sementi at-tecchirono nei campi; ma le vecchiequerce, dominatrici dei pascoli, pian-tate là da tempo immemore, non vol-lero dividerli e non scostarono i lororami per lasciar passare il sole. I semigermogliarono ugualmente, aiutatidall’acqua e dai raggi di sole che riu-scivano a farsi strada comunque at-traverso i folti rami. Minuscoli,pazienti, i semi attesero che i lorofrutti prendessero forma.Consiglio di stagione: abbi fiducianei nuovi semi che stanno germo-gliando, niente può fermarli.

ZODIACO LATINOAMERICANOI libri, a volte, diventano talismani. E, perfino, oroscopi. Letizia Sgalambra ha indagato fra le costellazioni estive e le pagine degli scrittori latinoamericani. Erodoto a cercato di viaggiareper il continente sudamericano per questo ha cercato indizi e tracce zodiacali abbandonati fra lefrasi scritte fra la Patagonia il Rio Grande. L’oroscopo di questa estate è una mappa da rico-struire. Un filo rosso da disegnare per risalire, come Ernesto Guevara, il Latinoamerica. Toccheràa voi capire quale libro e quale scrittore ha tracciato il destino del vostro segno. Non ci sono premi, ma se ci scriverete [email protected] indovinando i libri dai qualiLetizia ha tratto i suoi vaticini ne saremo felici.Siamo generosi, un po’ vi aiutiamo gli scrittori e le scrittrici che hanno aiutato Letizia a donare isuoi consigli sono Isabel Allende, Jorge Amado, Gabriel Garcia Màrquez, Carolina De Robertis, Alejandro Jodorowsky, Marcela Serrano. A voi unirli alle loro pagine.

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copobilancia23 settembre - 22 ottobreBisogna essere capaci di toccare ilcorpo di un altro, di entrare in con-tato con il suo spirito, senza chequella intimità risvegli problemi irri-solti. La cosa importante è porsi inuna condizione interiore che escludaqualsiasi tentazione di approfittaredell’altro, di abusare del potere che inquel momento si esercita su di lui. Consiglio di stagione: raggiungerel’intimità altrui richiede sempremolta delicatezza.

scorpione23 ottobre - 21 novembreNel 1918, su consiglio del medico, sifece un paio di occhiali, e pubblico ilsuo secondo libro. A parte la vistastanca, non s’era mai sentito cosìbene di salute, così pieno di coraggioe di fiducia, e non fosse stato perl’assenza di Tadeu, in così perfetta al-legria. Le prime copie del libro fu-rono pronte alla vigilia dei suoi 50anni, una settimana intensa e rumo-rosa, con Rosalia aperta in sorrisi,sfogliata nell’intimità della soffitta.Consiglio di stagione: è in arrivoun periodo di perfetta allegria, preparati ad accoglierlo.

sagittario22 novembre – 21 dicembreGli chiesi di parlarmi di quello che inun modo o nell’altro mi fa semprevenire i brividi: il fanatismo. “Biso-gna distinguerlo dalla parola impe-gno, sebbene alcuni tendano adassociare i due termini. Nel linguag-gio degli idealisti più radicali e deimessianici la parola impegno è unaparola sporca. Loro credono che im-pegno equivalga a opportunismo, di-sonestà, vigliaccheria. Impegnoinvece è sinonimo di vita, ma il suocontrario non è integralismo e neppurcoraggio. Il contrario di impegno èfanatismo e morte”.Consiglio di stagione: è il momentodi un tuo un impegno che significhivita, sei pronto?

capricorno22 Dicembre -19 GennaioSi stupiva vedendola fluttuare incon-taminata nell’aria delle sue buone in-tenzioni. Quell’ingiustificatoottimismo, quella pulita e fresca vita-lità della sua amica erano come unbalsamo versato sui suoi tormenti pernon poter cambiare le circostanze.Quel giorno, tuttavia, ebbe la tenta-zione di afferrarla per le spalle e discuoterla fino a riportarla con i piediper terra e aprirle gli occhi sulla ve-rità. Consiglio di stagione: a volta ancheun ottimismo ingiustificato è la giusta via.

acquario20 gennaio- 18 febbraioPiù del cattolicesimo, rappresentatodal frate che non si curava della po-polazione, prendeva radice lo spiriti-smo. Nella casa di Eufrosina, unamedium che cominciava a salire ingrande fama, si radunavano i “cre-denti” per comunicare coi parenti egli amici morti. Eufrosina, sedutasulla sua seggiola, veniva presa dauna specie di tremarella, poi comin-ciava a borbottare parole di coloreoscuro, e sempre qualcuno degliastanti riconosceva la voce di unmorto di sua conoscenza.Consiglio di stagione: su quali credenze basi la tua vita?

pesci19 febbraio - 20 marzoEra una massima che aveva imparatoa scuola: l’energia non si crea, né sidistrugge. Niente scompare mai dav-vero. E siccome anche le persone, infondo, sono energia, quando non levedi significa semplicemente chehanno cambiato posto o forma, op-pure entrambi. C’è l’eccezione deibuchi neri, che ingoiano le cose senzalasciarne traccia, ma Salomé fecescorrere la penna come se non esi-stessero.Consiglio di stagione: le personenon scompaiono, si trasformano,esattamente come te.

LETIZIA SGALAMBRO 52 anni, sagittario, counselor ed esperta di processi formativi.Crede che per ognuno sia già scritto il punto più alto dove possiamo arrivare in questavita, e che il nostro libero arbitrio ci fa scegliere se raggiungere quel traguardo o meno.L'oroscopo? Uno strumento come altri per illuminare la strada.

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BRASILELetture• Jorge Amado - Paloma J. Amado, La cucina di Bahia,ovvero Il libro di cucina di Pedro Archanjo e le merendedi Dona Flor, Einaudi, 2007• Chico Buarque, Latte versato, Feltrinelli, 2012• Yurij Castelfranchi, Amazzonia. Viaggio dall'altra partedel mare, Laterza, 2004• Roberta Deiana, In cucina con Dona Flor. JorgeAmado e le sue cuoche appassionate, Il Leone Verde, 2013• Angelo D'Orsi, Alfabeto brasileiro. 26 parole perriflettere sulla nostra e l'altrui civiltà, Ediesse, 2013• Davide Enia, Italia-Brasile 3 a 2, Sellerio, 2010• Peter Fleming, Avventura brasiliana, Nutrimenti, 2013• Gilles Edua, Maria Guimaraes, Brasil. 100 palavras,Companhia das Letrinhas, 2014• Alexiev Gandman, Perdidos bo Brasil. Para brincar eaprender, V & R Editoras, 2014• Miriam Giovanzana, Fermo come un albero, liberocome un uomo Storia di Chico Mendes in difesa dellaforesta, Terre di Mezzo, 2014 • Oscar Niemeyer, Il mondo è ingiusto, Mondadori, 2012• Alberto Riva, Seguire i pappagalli fino alla fine. Voci diRio de Janeiro, Il saggiatore, 2011• Simona Stoppa, Brasile, White Star, 2014• Francisco J. Viegas, Lontano da Manaus. Le indaginidell'ispettore Jaime Ramos, La nuova frontiera, 2012• Danijel Zezelj, Amazzonia, Edizioni Di, 1998• Stefan Zweig, Brasile. Terra del futuro, Elliot, 2013

Colonna sonora• La vita, amico, è l'arte dell'incontro di Vinicius deMoraes, Tropicália 2 di Caetano Veloso e Gilberto Gil,1993• O que voce quer saber de verdade di Marisa Monte, 2011• Desafinado. The Greatest Bossa Nova Composerdi Antonio Carlos Jobim, 2012• Ao Vivo no Theatro São Pedro di Marcelo Camelo, 2013

Film e documentari• Fitzcarraldo di Werner Herzog, 1982• Il fuoco della resistenza. La vera storia di ChicoMendes di John Frankenheimer, 1994 • Central do Brasil di Walter Salles, 1998• Brasileirinho di Mika Kaurismäki (DVD con libro), 2006• Hélio Oiticica di César Oiticica Filho, 2012

BOLIVIA• Paolo Fattori, La Federazione del Tropico. Viaggio tra icocaleros boliviani, EDT, 2000• Tristan Jones, Il viaggio incredibile, Mursia, 2003• Federica Rigliani, La mia Bolivia esiste, EdizioniTracce, 2009• Luís Sepúlveda, La frontiera scomparsa, Guanda, 2009

BUENOS AIRES• Buenos Aires Style, Taschen, 2008• Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires, Adelphi,2010• Haim Burstin, Il tango ritrovato, Donzelli, 2008• Massimo Carlotto, Le irregolari. Buenos Aires horrortour, E/O, 1999• Julio Cortázar, Bestiario, Einaudi, 2005• Giovanni Greco, L'ultima madre, Feltrinelli, 2014• Hugo Pratt, Corto Maltese. Tango, Rizzoli Lizard, 2009• Ernesto Sabato, Prima della fine, SUR, 2011• Diego Sebastián Tomasi, Cortázar por Buenos Aires.Buenos Aires por Cortázar, Seix Barral, 2013• Manuel Vázquez Montalbán, Quintetto di BuenosAires, Feltrinelli, 2003• Riccardo Verrocchi, Le utopie sono possibili. LeMadres di Plaza de Mayo nell'Argentina di ieri oggi edomani, Sensibili alle foglie, 2014• Jason Wilson, Buenos Aires, Bruno Mondadori, 2005

RAPA NUI• James Cook, Giornali di bordo nei viaggid'esplorazione. Vol. 2: Il viaggio della «Resolution» edell'«Adventure» 1772-1775, TEA, 2009• Diamond Jared, Collasso. Come le società scelgono dimorire o vivere, Einaudi, 2014• Hugo Pratt, Corto Maltese. Mu la città perduta, Rizzoli Lizard, 2010• Rapa Nui di Kevin Reynolds, 1994• Luis Sepulveda, Patagonia express. Appunti dal suddel mondo, Guanda, 1999

FRIDA KAHLO• Frida Kahlo. Biografia per immagini, Abscondita, 2008• Jean-Marie Le Clézio, Diego e Frida. Un amoreassoluto e impossibile sullo sfondo del Messicorivoluzionario, Il Saggiatore, 2008• Alexandra Scheiman, Il diario perduto di Frida Kahlo, Rizzoli, Milano 2013

CUBA• T. J. Englis, Notturno Avana. Mafiosi, giocatorid'azzardo, ballerine e rivoluzionari nella Cuba degli annicinquanta, Il Saggiatore, 2009• Pedro Juan Gutierrez, Trilogia sporca dell'Avana, E/O, 2006• Reinhard Kleist, Habana. Un viaggio a Cuba, Black Velvet, 2011• Yoani Sánchez, Cuba libre. Vivere e scrivere all'Avana,Rizzoli, 2009• Vedi Cuba e poi muori, Feltrinelli, 2003

CHE GUEVARA• Jon L. Anderson, Che Guevara, Fandango libri, 2009• Alberto Breccia - Enrique Breccia - Hector Oesterheld,Che. Un romanzo grafico rivoluzionario, Rizzoli, 2007• Julio Cortázar, Reunion. Che Guevara e lo sbarco aCuba, Gallucci, 2009• I diari della motocicletta di Walter Salles, 2004 • Ernesto Guevara, Sulla Sierra con Fidel. Cronachedella rivoluzione cubana, Editori Riuniti, 2005• Ernesto Guevara, Latinoamericana. Un diario per un

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A CURA DI SARA LOZZI

PER SAPERNE DI PIÙ

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viaggio in motocicletta, Feltrinelli, 2004• Marco Rizzo - Lelio Bonaccorso, Que viva CheGuevara, Beccogiallo, 2011• Andrea Semplici, In viaggio con Che Guevara. Comepartire, perché, quando, Terre di mezzo, 2012• Andrea Semplici, Gli anfibi slacciati di ErnestoGuevara. Viaggio in Argentina sulle tracce del Che, Terredi mezzo, 2012• Sergio Sinay - Miguel A. Scenna, Che Guevara,Feltrinelli, 2009• Paco Ignacio Taibo II, Senza perdere la tenerezza. Vitae morte di Ernesto Che Guevara, Il Saggiatore, 2012

MESSICOLetture• Baudoin – Troubs, Viva la vida, Coconino Press, 2012• Roberto Bolaño, I detective selvaggi, Adelphi, 2013• Carlos Fuentes, Tutti i soli del Messico, Il saggiatore, 1998• Sergio González Rodríguez, Ossa nel deserto,Adelphi, 2006• Richard Grant, Messico e crimine. Nel cuore senzalegge della Sierra Madre, Neri Pozza, 2010• Maria Longhena, Viaggio in Messico. Sulle tracce delSerpente Piumato, Einaudi, 2009• Juan Miralles, Cortes, l'inventore del Messico,Mondadori, 2010• Guadalupe Nettel, Il corpo in cui sono nata, Einaudi,2014• Sacks Oliver, Diario di Oaxaca, Feltrinelli, 2006• José Emilio Pacheco, Il vento distante, SUR, 2014• Octavio Paz, Il labirinto della solitudine, SE, 2013• Enrique Serna, La paura degli animali, Voland, 2006• Jérôme Sessini, The wrong side. Living on theMexican border, Contrasto, 2012

Cinema• Qué viva Mexico! di Sergej Eisenstein, 1931• Y tu mamà tambien - Anche tua madre di AlfonsoCuaron, 2002• Babel di Alejandro González Inárritu, 2006• I figli degli uomini di Alfonso Cuaron, 2006

PALERMO• Roberto Alajmo, Palermo è una cipolla, Laterza, 2009• Gaetano Basile, Palermo è, Flaccovio Dario, 2013• Mauro D`Agati, Vucciria, Contrasto, 2005• Germana Fabiano, Balarm. Voci da una città inostaggio, Robin, 2009• Maria Concetta Salemi, Mandorle e pescespada aBallarò. Raccontare Palermo, Nardini, 2011• Ferdinando Scianna - Giuseppe Tornatore, BaariaBagheria. Dialogo sulla memoria, il cinema, la fotografia,Contrasto DUE, 2009• Palermo Shooting di Wim Wenders, 2008

VILNIUS• Ralph Tuchtenhagen, Storia dei paesi baltici, Il Mulino, 2008• Jeroen Van Marle - Andrew Quested, Vilnius, Morellini, 2008

BIRMANIA• Aung San Suu Kyi, Libera dalla paura, Sperling &Kupfer, 2005• Lelia Belgrado, Myanmar, Silvana, 2007• Claudio Bussolino - Simone Sturla, Myanmar. InBirmania alla scoperta dei tesori d'Oriente, Polaris, 2013• Michele Cucuzzella, Viaggio in Birmania. Terra dipagode e colori, Vallecchi, 2010• Guy Delisle, Cronache birmane, Rizzoli Lizard, 2013• Amitav Ghosh, Estremi orienti, Einaudi, 1998• Carmen Lasorella, Verde e zafferano. A voce alta perla Birmania, Bompiani, 2008• George Orwell, Giorni in Birmania, Mondadori, 2006• Aldo Pavan, Birmania. Sui sentieri dell'oppio, Feltrinelli, 2007

VIET NAM• Denise Chong, La bambina nella fotografia. La storiadi Kim Phuc e la guerra del Vietnam, Codice, 2004• Marguerite Duras, L'amante, Feltrinelli, 2005• Franco La Cecla, Good morning karaoke, TEA, 2004• Khue Le Minh, Fragile come un raggio di sole.Racconti dal Vietnam, O Barra O Edizioni, 2010• Gianluigi Ricuperati – Amedeo Martegani, Viet Now. Lamemoria è vuota, Bollati Boringhieri, 2007• Tiziano Terzani, Pelle di leopardo, TEA, 2014

Cinema• Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, 1979• Platoon di Oliver Stone, 1986• Tra cielo e terra di Oliver Stone, 1993• Tre stagioni di Tony Bui, 1999

LAOS• Fred Branfman, Voci dalla piana delle giare, Marsilio, 1973• Claudio Bussolino, Laos: l'antica Asia bagnata dallaMadre delle Acque, Polaris, 2009• Marco Del Corona, Strade di bambù. Viaggio in Cina,Laos, Birmania, EDT, 1999• Laura Leonelli, Lem. Il viaggio iniziatico di un piccoloBuddha, Constrasto DUE, 2012• Massimo Morello, Mekong Story. Lungo il cuored'acqua del Sud-Est asiatico, Touring, 2005• Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, TEA, 2014

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SARA LOZZI, Sara Lozzi, 31 anni. Convinta che l'accesso consapevole per tutti alla cultura eall'informazione portino vera innovazione sociale mette in pratica questi concetti ogni giorno,da quando è diventata bibliotecaria nel 2009. Fotografia, viaggi e libri la guidano nella suaesplorazione del mondo. Il mare delle isole del Mediterraneo, le montagne abruzzesi e i piccolimusei sono i luoghi che la fanno sentire a casa.


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