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Esame avvocato 2016 Pareri di diritto civile · Il sistema della responsabilità civile è...

Date post: 15-Feb-2019
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Copyright Formazione Giuridica srl- Marco Zincani 1 Esame avvocato 2016 Pareri di diritto civile TRACCIA 1 Cause ed effetti Nel corso della seconda lezione di equitazione all'interno del maneggio della società Alfa, il piccolo Tizio, figlio dei signori Beta, viene disarcionato dal cavallo e cade rovinosamente a terra. Condotto al Pronto soccorso e sottoposto a controllo radiografico, al piccolo viene diagnosticata una forte contusione al polso destro e applicato un tutore mobile per la durata di 20 giorni. Poiché tuttavia, anche decorso tale periodo, il bambino continua a lamentare una evidente sintomatologia dolorosa e non riesce a muovere la mano, i signori Beta lo fanno visitare da uno specialista che, dopo aver effettuato una radiografia in una diversa proiezione, si avvede dell'esistenza di una frattura (non evidenziata al momento della visita al Pronto soccorso) che, a causa del tempo ormai trascorso, non può più consolidarsi se non attraverso un intervento chirurgico, da effettuarsi quanto prima. Malgrado l'intervento chirurgico venga eseguito a regola d'arte, con conseguente immobilizzazione dell'arto per i successivi 45 giorni, anche dopo le sedute di riabilitazione (protrattesi per i successivi 60 giorni) il piccolo riporta una invalidità permanente del 6%. I signori Beta si recano quindi da un legale e, dopo aver esposto i fatti sopra detti, aggiungono: che il cavallo montato dal piccolo Tizio aveva già mostrato, fin dall'inizio della lezione, evidenti segni di nervosismo, tanto che l'istruttore era già intervenuto due volte per calmarlo; che, al momento dell'iscrizione del proprio figlio al corso, la società Alfa aveva fatto loro sottoscrivere una dichiarazione di esonero da ogni responsabilità per i danni eventualmente derivanti dallo svolgimento della pratica sportiva; che, ove prontamente diagnosticata, la frattura avrebbe potuto consolidarsi senza necessità di ricorrere all'intervento chirurgico; che per l'intervento chirurgico e per la successiva riabilitazione (effettuati entrambi in strutture private a causa dell'urgenza), avevano dovuto sostenere la complessiva spesa di euro 10.000,00. Il candidato, assunte le vesti del difensore dei signori Beta, rediga un motivato parere illustrando le questioni sottese al caso in esame e prospettando le azioni più idonee a tutelare le ragioni dei propri assistiti. Norme rilevanti Art. 1227 c.c. Art. 2043 c.c. Art. 2050 c.c. Art. 2052 c.c. Giurisprudenza rilevante Cass. Civ., Sez. III, 9/4/2015, n. 7093 L'imprevedibilità del comportamento da parte di un animale non può costituire caso fortuito che esonera dalla responsabilità il proprietario/custode, atteso che l'imprevedibilità costituisce una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio (confermata, nella specie, la condanna al risarcimento da parte del gestore di un maneggio per i danni occorsi alla vittima caduta da cavallo). Cass. Civ., Sez. Un., 11.01.2008, n. 581: Ai sensi degli art. 40 e 41 c.p., un evento è da considerarsi causa di un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo; ma l'applicazione di tale principio, temperato dalla regolarità casuale, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, va applicata alla peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile, dove muta la regola probatoria, per cui mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio", nel processo civile vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non". Riferimenti ai materiali Schema fatto illecito, par. 1 Introduzione e struttura del fatto e par 2. Il fondamento della responsabilità extracontrattuale: l’autoresponsabilità e l’allocazione del rischio (Lezione 4, file 4) Variazioni sulla responsabilità aggravata (Lezione 4, file 4bis)
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Copyright Formazione Giuridica srl- Marco Zincani

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Esame avvocato 2016

Pareri di diritto civile

TRACCIA 1 – Cause ed effetti

Nel corso della seconda lezione di equitazione all'interno del maneggio della società Alfa, il piccolo Tizio,

figlio dei signori Beta, viene disarcionato dal cavallo e cade rovinosamente a terra.

Condotto al Pronto soccorso e sottoposto a controllo radiografico, al piccolo viene diagnosticata una forte

contusione al polso destro e applicato un tutore mobile per la durata di 20 giorni.

Poiché tuttavia, anche decorso tale periodo, il bambino continua a lamentare una evidente sintomatologia

dolorosa e non riesce a muovere la mano, i signori Beta lo fanno visitare da uno specialista che, dopo aver

effettuato una radiografia in una diversa proiezione, si avvede dell'esistenza di una frattura (non

evidenziata al momento della visita al Pronto soccorso) che, a causa del tempo ormai trascorso, non può

più consolidarsi se non attraverso un intervento chirurgico, da effettuarsi quanto prima.

Malgrado l'intervento chirurgico venga eseguito a regola d'arte, con conseguente immobilizzazione dell'arto

per i successivi 45 giorni, anche dopo le sedute di riabilitazione (protrattesi per i successivi 60 giorni) il

piccolo riporta una invalidità permanente del 6%.

I signori Beta si recano quindi da un legale e, dopo aver esposto i fatti sopra detti, aggiungono: che il cavallo

montato dal piccolo Tizio aveva già mostrato, fin dall'inizio della lezione, evidenti segni di nervosismo,

tanto che l'istruttore era già intervenuto due volte per calmarlo; che, al momento dell'iscrizione del

proprio figlio al corso, la società Alfa aveva fatto loro sottoscrivere una dichiarazione di esonero da ogni

responsabilità per i danni eventualmente derivanti dallo svolgimento della pratica sportiva; che, ove

prontamente diagnosticata, la frattura avrebbe potuto consolidarsi senza necessità di ricorrere

all'intervento chirurgico; che per l'intervento chirurgico e per la successiva riabilitazione (effettuati

entrambi in strutture private a causa dell'urgenza), avevano dovuto sostenere la complessiva spesa di

euro 10.000,00.

Il candidato, assunte le vesti del difensore dei signori Beta, rediga un motivato parere illustrando le

questioni sottese al caso in esame e prospettando le azioni più idonee a tutelare le ragioni dei propri assistiti.

Norme rilevanti

Art. 1227 c.c.

Art. 2043 c.c.

Art. 2050 c.c.

Art. 2052 c.c.

Giurisprudenza rilevante

Cass. Civ., Sez. III, 9/4/2015, n. 7093 L'imprevedibilità del comportamento da parte di un animale non può costituire caso fortuito che esonera

dalla responsabilità il proprietario/custode, atteso che l'imprevedibilità costituisce una caratteristica

ontologica di ogni essere privo di raziocinio (confermata, nella specie, la condanna al risarcimento da parte

del gestore di un maneggio per i danni occorsi alla vittima caduta da cavallo).

Cass. Civ., Sez. Un., 11.01.2008, n. 581:

Ai sensi degli art. 40 e 41 c.p., un evento è da considerarsi causa di un altro se, ferme restando le altre

condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo; ma l'applicazione di tale principio,

temperato dalla regolarità casuale, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, va applicata alla

peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile, dove muta la regola probatoria, per

cui mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio", nel processo civile

vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non".

Riferimenti ai materiali

Schema fatto illecito, par. 1 Introduzione e struttura del fatto e par 2. Il fondamento della

responsabilità extracontrattuale: l’autoresponsabilità e l’allocazione del rischio (Lezione 4, file 4)

Variazioni sulla responsabilità aggravata (Lezione 4, file 4bis)

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In relazione alla causalità civile, si veda anche la D2 del parere “Cause ed effetti” (Lezione 5, file

2.1)

Svolgimento I La soluzione del caso proposto impone la disamina della tematica della responsabilità civile con particolare

riferimento alle fattispecie di responsabilità aggravata di cui agli artt. 2050 e 2052 c.c..

D1 La previsione del risarcimento del danno ingiusto si giustifica sulla base del principio fondamentale del

neminem laedere, già conosciuto in epoche storiche precedenti alla nostra, secondo cui non deve provocarsi

alcun nocumento alla sfera giuridica altrui. Oggi il dibattito circa il significato e le sue ultime proiezioni si

arricchisce a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana: questa, all’art. 2, impone il

dovere di solidarietà in capo ai consociati, con ciò facendo richiamo al principio giuridico

dell’autoresponsabilità secondo il quale si è sempre tenuti a rispondere dei propri comportamenti non

soltanto verso i terzi ma, in primo luogo, verso se stessi, con la conseguente possibilità di subire una

diminuzione patrimoniale. Il sistema della responsabilità civile è funzionale a consentire, nella prospettiva di

rimediare ai danni prodottisi, la loro redistribuzione: le regole di responsabilità civile dettano i criteri

redistributivi che individuano i soggetti che si ritiene li debbano sopportare, attuando così scelte di politica

del diritto; sono protagonisti di queste scelte il legislatore e il giudice, attraverso l’interpretazione delle

norme. Quest’ultima esigenza di allocazione del rischio e della distribuzione dei costi del danno è

particolarmente avvertita nell’esercizio delle attività che espongono i terzi a rischi: il legislatore, in queste

ipotesi, individua i soggetti che sono nella migliore posizione di controllare e gestire detti rischi e ai quali

sono quindi imputate le eventuali conseguenze dannose che si possono venire a creare, anche considerato

che l’esercente l’attività consegue da questa un profitto. Nell’attuazione del descritto meccanismo, la via

individuata dal legislatore è quella di alleggerire il carico probatorio al danneggiato, addossandolo in modo

rigoroso all’assunto danneggiante: si parla in proposito di fattispecie di responsabilità aggravata, in cui

quest’ultimo viene onerato della prova di un fatto positivo che sia estraneo a quella che viene definita sfera

di azione; in altre parole, la condotta del danneggiante diviene irrilevante per l’esclusione della sua

responsabilità.

f Nel caso in esame il piccolo Tizio, nel corso di una lezione di equitazione avvenuta all’interno del

maneggio gestito e organizzato dalla società Alfa, veniva disarcionato dal cavallo montato e cadeva

rovinosamente a terra procurandosi una lesione personale. Al fine allora di individuare quale sia la più

idonea azione per tutelare le ragioni dei signori Beta, quali esercenti la responsabilità genitoriale sul piccolo

Tizio, occorre verificare la riconducibilità del fatto occorso a una fattispecie di responsabilità aggravata.

D2/F/G In tale prospettiva d’indagine viene anzitutto in rilievo la fattispecie di cui all’art. 2050 c.c., in cui il

legislatore valuta l’intrinseca potenzialità offensiva dell’attività svolta: la pericolosità, in particolare, non

attiene alla condotta del soggetto agente, in termini di imprudenza, imperizia o negligenza, ma al dato

oggettivo dell’attività svolta che presenta un’attitudine offensiva superiore al normale. Deve dunque

affermarsi che esistono attività pericolose di per sé, e attività svolte in modo pericoloso, che divengono cioè

pericolose in relazione al caso concreto; ciò in quanto il carattere di pericolosità non deve essere considerato

in astratto ma deve essere verificato in concreto. Così, nel caso della gestione d'una scuola d'equitazione, può

verificarsi la ricorrenza in concreto di un’attività pericolosa in base alle modalità con cui viene impartito

l'insegnamento, alle caratteristiche degli animali impiegati e alla qualità degli allievi. Ne discende

logicamente che impartire una lezione a un allievo inesperto perché fanciullo o, comunque, principiante, può

costituire un’attività pericolosa; e anzi, proprio in ragione della necessità di accertamento in concreto del

carattere di pericolosità, anche nel caso in cui l’allievo fosse esperto, ben potrebbero sussistere circostanze

obiettive idonee ad integrare la fattispecie in parola: si tratta di una valutazione di fatto che è rimessa al

prudente apprezzamento del giudice. Quanto all’operare del meccanismo di responsabilità, può considerarsi

ormai consolidato l’orientamento interpretativo che imputa la responsabilità risarcitoria in presenza del solo

nesso di causalità tra l’esercizio dell’attività e il danno, senza che possa assumere rilievo la diligenza della

condotta dell’esercente detta attività. Sotto diverso profilo, viene altresì in rilievo la fattispecie di cui all’art. 2052 c.c. che individua nel

proprietario dell’animale il soggetto tenuto a risarcire il danno da questo causato. Tale fattispecie, che deriva

dall’istituto dell’actio de pauperie, assume una presunzione di responsabilità in capo al proprietario

dell’animale o a colui che se ne serve, da ritenersi integrata nel momento in cui l’animale viene in contatto

con il danneggiato: l’assunto deriva dall’applicazione del principio cujus commoda, ejus et incommoda, per

cui chi tragga un beneficio – specialmente patrimoniale - dall’utilizzo di un animale, deve poi sopportare il

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peso economico del danno da questo eventualmente causato. Anche qui, come già nel caso dell’art. 2050

c.c., la prova liberatoria non può essere rinvenuta nella condotta di chi abbia il controllo dell’animale,

cosicché diviene irrilevante la circostanza della normale mansuetudine dello stesso e il fatto che il danno sia

stato cagionato da un suo improvviso e imprevedibile impulso. Così, nel caso qui in esame, la fattispecie

risulta integrata per il fatto che l’animale assegnato al piccolo Tizio si era dimostrato nervoso; e non vi è

dubbio che assegnare a un allievo non esperto - perché alla seconda lezione - la conduzione di un simile

animale costituisca condotta inidonea a prevenire il rischio poi puntualmente verificatosi.

Emerge allora una doppia possibilità di azione di cui i signori Beta potranno beneficiare, particolarmente

efficace in relazione alla presunzione di responsabilità – e di rigorosità della prova liberatoria - che le

fattispecie di cui agli artt. 2050 e 2052 c.c. consentono di addossare alla società Alfa; il medesimo contenuto

che la prova liberatoria assume in entrambe le predette fattispecie, peraltro, consente il loro utilizzo in via

alternativa (Cass. Civ., Sez. III, 9/4/2015, n. 7093).

Deve inoltre aggiungersi, per concludere sul punto, che non assume alcuna rilevanza il fatto che la società

Alfa avesse fatto sottoscrivere ai signori Beta una dichiarazione di esonero da ogni responsabilità per i danni

eventualmente derivanti dallo svolgimento della pratica sportiva: con tale dichiarazione di esonero

l’esercente l’attività di maneggio ha inteso prevedere una causa di esclusione della propria responsabilità

legata all’accettazione del rischio da parte dell’atleta o, più precisamente, considerata la minore età di Tizio,

da parte dei genitori titolari della responsabilità genitoriale e legittimati perciò a esprimere l’accettazione

stessa; tuttavia, nemmeno l’accettazione del rischio di cui si discute è idonea a escludere la responsabilità

qualora sia imputabile all’organizzatore o, meglio, all’istruttore, una colpa generica per violazione

dell’ordinaria regola di diligenza, ovvero una colpa specifica per la violazione di una regola di salvaguardia

dell’allievo. Tale principio di diritto, ancora ribadito dalla sentenza sopra citata, se vale nell’ipotesi ordinaria

di responsabilità ex art. 2043 c.c., assume a maggior ragione efficacia nelle ipotesi di responsabilità qui in

esame, che già di per sé presumono la colpa dell’istruttore; nè potrà affermarsi una concorrente

responsabilità dell’allievo, rilevante ai sensi dell’art. 1227 c.c., che è del tutto mancante nel caso di specie.

D3 Nell’affermazione della responsabilità della società Alfa e nell’individuazione delle conseguenze

risarcitorie, dovrà comunque tenersi conto del fatto che la permanente invalidità che residuerà al piccolo

Tizio è conseguente anche all’errata diagnosi effettuata al Pronto Soccorso, dove non è stata rilevata

l’esistenza di una frattura non risolta neppure dal successivo intervento chirurgico, benché correttamente

eseguito. In proposito viene in rilievo il principio di diritto secondo il quale al responsabile del danno

potranno essere imputate le sole conseguenze risarcitorie che possano dirsi obiettivamente prevedibili nel

momento dell’azione imputata, attraverso un giudizio da compiersi ex ante secondo il criterio della regolarità

causale, cosiddetto di prognosi postuma, avente matrice penalistica. Nel caso in esame non può che

affermarsi come imprevedibile la più grave invalidità derivata dall’errata diagnosi per cui, di quest’ultima,

sarà chiamata a rispondere la struttura sanitaria che ha eseguito colpevolmente l’esame diagnostico, e non la

società Alfa. Quest’ultima, tuttavia, non potrà invocare la circostanza a discarico della propria responsabilità:

va infatti rilevato che, quando alla verificazione di un determinato evento contribuiscano più concause,

ovvero diversi antecedenti che si inseriscono nella serie causale, ciò non implica nessuna elisione del nesso

eziologico laddove le stesse non siano da sole sufficienti a determinare l’evento (c.d. principio

dell’equivalenza delle condizioni di cui a Cass. Civ. Sez. Un., 11/1/2008, n. 581).

C In conclusione, i signori Beta, quali esercenti la responsabilità genitoriale sul piccolo Tizio, potranno agire

nei confronti della società Alfa, esercente l’attività di maneggio, ai sensi degli artt. 2050 e 2052 c.c. per

domandare il risarcimento del danno, tanto patrimoniale quanto non patrimoniale, conseguente alla caduta da

cavallo e consistito nella forte contusione al polso destro. Inoltre, in relazione alla successiva necessità di

intervento derivata dalla mancata diagnosi della frattura non rilevata dal Pronto Soccorso, gli stessi signori

Beta potranno rivolgere una domanda risarcitoria non nei confronti del gestore del maneggio, al quale non è

imputabile una conseguenza dannosa non prevedibile al momento della caduta da cavallo, ma alla struttura

sanitaria che ha eseguito l’esame diagnostico, attraverso le ordinarie regole della responsabilità contrattuale.

Deve precisarsi che l’esistenza di due concause non esclude la responsabilità della società Alfa, non

potendosi affermare che la mancata diagnosi sia causa esclusiva del danno patito dal piccolo Tizio. Si

aggiunge infine che, sul piano patrimoniale, è perfettamente risarcibile l’intera somma di € 10.000,00,

trattandosi di conseguenza diretta e immediata dell’evento di danno e il cui pagamento si è reso necessario

solo per ragioni di urgenza che non sono quindi imputabili a una scelta dei coniugi Beta.

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TRACCIA 2 – Si può o non si può? Questo è il problema!

(traccia assegnata per casa durante il Corso Intensivo Zincani 2016 – file 2.1, lezione 2)

Caio è un giovane molto ben voluto nel piccolo paese in cui vive.

Nel dicembre del 2005 riceve in donazione dall'amico Sempronio un piccolo appezzamento di

terreno. Successivamente, nel maggio del 2008, acquista un piccolo appartamento con denaro

dell'amico Mevio.

Nel febbraio del 2016, però, Caio riceve la visita di Tizio, figlio e unico erede di Mevio (deceduto

nel 2010), che gli rappresenta la propria intenzione di rivendicare la proprietà del predetto terreno

(lasciatogli in eredità da Mevio) nonché di ottenere la restituzione della somma di euro 50.000,00

(pari al prezzo dell'appartamento acquistato con denaro dello stesso Mevio) .

A sostegno della prima pretesa, Tizio sostiene che Caio non possa vantare alcun titolo sul terreno,

non potendo considerarsi tale la donazione di cui il predetto aveva beneficiato nel dicembre 2005,

dal momento che il disponente Sempronio non era titolare di alcun diritto sul bene donato.

Quanto alla seconda pretesa, lo stesso rappresenta che l'acquisto del predetto appartamento con

denaro di Mevio avesse realizzato una donazione di denaro di non modico valore, che doveva

considerarsi nulla per non aver rivestito la forma prescritta dalla legge.

Caio, che sin dalla data della prima donazione (peraltro immediatamente trascritta) aveva goduto

direttamente del terreno adibendolo a orto, seriamente preoccupato per quanto rappresentatogli

da Tizio si rivolge ad un legale, al quale dopo aver riferito i fatti come sopra detti, ribadisce di non

aver mai saputo che il terreno donatogli da Sempronio fosse, in realtà, di proprietà di Mevio.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Caio, rediga un motivato parere illustrando le questioni

sottese al caso in esame e prospettando la linea difensiva più idonea a tutelare le ragioni del

proprio assistito.

Riferimenti normativi Artt. 769 ss. c.c.

Art. 1159 c.c.

Art. 1325 c.c.

Art. 1418 c.c.

Riferimenti giurisprudenziali

Cass. Civ., Sez. Un., 15.03.2016, n. 5068 - sentenza che risolve la questione rimessa alle Sez.

Un. con ordinanza Cass. Civ., Sez. II, 23.05.2014, n. 11545

La donazione di un bene altrui, benché non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di

causa, a meno che nell’atto si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale

non appartenenza del bene al suo patrimonio.

Primo orientamento: Cass. Civ., sez. VI-2, Ordinanza, 23.05.2013, n. 12782 La donazione di cosa altrui, benché non espressamente disciplinata, deve ritenersi nulla alla

stregua della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell'art. 771 cod. civ., poiché

il divieto di donazione dei beni futuri riguarda tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto

entri a comporre il patrimonio del donante; tale donazione, tuttavia, è idonea ai fini

dell'usucapione decennale, poiché il titolo richiesto dall'art. 1159 cod. civ. deve essere suscettibile

in astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che

l'acquisto del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare.

Conforme, Cass. Civ., sez. II, 05.05.2009, n. 10356

La donazione di beni altrui, ancorché nulla, è tuttavia idonea ai fini dell'usucapione decennale

prevista dall'art. 1159 c.c., poiché il requisito richiesto da questa norma va inteso nel senso che il

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titolo deve essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del

diritto reale, ossia tale che l'acquisto del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne

fosse stato titolare.

Secondo orientamento: Cass. Civ., sez. II, 05.02.2001, n. 1596

La donazione di beni altrui, non potendo essere ricompresa nella donazione di beni futuri nulla ex

art. 771 c.c., è semplicemente inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell'usucapione abbreviata ex art.

1159 c.c., in quanto il requisito, voluto da questa disposizione codicistica, della esistenza di un

titolo, idoneo a fare acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, debitamente

trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio,

deve essere valido in astratto e non in concreto a determinare il trasferimento del diritto reale,

ossia tale che l'acquisto del diritto si sarebbe, senz'altro, verificato se l'alienante ne fosse stato

titolare.

Cass. Civ., sez. II, 04.09.2015, n. 17604 Nell'ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro

soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, si configura la donazione

indiretta dell'immobile e non del denaro impiegato per l'acquisto.

SVOLGIMENTO Incipit La soluzione del caso in esame impone di soffermarsi sul principio di autonomia negoziale

in materia donativa, con particolare riguardo alla donazione di cosa altrui e alla donazione indiretta.

D1 L’ordinamento giuridico riconosce ai privati il potere di regolare i propri interessi con

manifestazioni di volontà relative alla propria sfera giuridica: si tratta della cd. autonomia privata, la

quale costituisce esplicazione del potere di autodeterminazione del soggetto riconducibile all’art. 2

della Costituzione. L’autonomia privata ricomprende quella negoziale, intesa coma autonomia del

privato di disciplinare tutti i negozi giuridici che lo riguardano. Quest’ultima può essere esercitata

nell’ambito dei rapporti di famiglia o successori, o può esplicarsi, in ambito contrattuale, nella

possibilità di scegliere se concludere il contratto e nella libertà di scelta del contraente, nonché di

farsi sostituire nel compimento dell’attività negoziale (1322 c.c.).

L’autonomia negoziale si esprime anche negli atti donativi, alla cui disciplina è dedicato il titolo V

del libro II del codice civile, in particolare gli artt. 769 ss. c.c.. Sin dalla disposizione introduttiva, il

legislatore chiarisce che per aversi donazione occorrono due requisiti costitutivi: da un lato,

l’elemento soggettivo dello spirito di liberalità (cd. animus donandi), che consiste nella

consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale; dall’altro, l’elemento oggettivo

costituito dal depauperamento del donante, cui corrisponde l’incremento del patrimonio del

beneficiario della donazione. Dallo stesso art. 769 c.c. si desume, inoltre, che il contratto di

donazione può essere, oltre che ad effetti traslativi, anche ad effetti obbligatori: in tal caso, il

donante assume la posizione di debitore nei confronti del donatario.

L’intento di donare, che qualifica soggettivamente come donazione un’attribuzione patrimoniale a

titolo gratuito, ricorre tutte le volte che l’attribuzione priva di controprestazione sia compiuta dal

disponente senza essere determinata da un vincolo giuridico o extra-giuridico rilevante per

l’ordinamento. Ciò vale a dire che lo spirito di liberalità richiamato dall’art. 769 c.c. si identifica

non tanto con un intento benefico o altruistico - posto che i motivi interni e psicologici non

assumono rilevanza – quanto piuttosto con la coscienza del donante di effettuare un’elargizione

patrimoniale, cui non è in realtà tenuto.

L’intento di donare può realizzarsi attraverso molteplici forme: l’ordinamento ammette, infatti,

anche le cd. donazioni indirette, in cui la liberalità è raggiunta attraverso negozi giuridici aventi una

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causa tipica diversa, alla quale l’animus donandi si affianca, come scopo ulteriore rispetto a quello

del negozio adottato.

f Nel caso in esame vengono in rilievo due distinti atti donativi. Nel dicembre 2005, infatti, Caio

riceve in donazione dall’amico Sempronio un piccolo appezzamento di terreno; successivamente,

nel maggio 2008, egli acquista un piccolo appartamento con denaro dell’amico Mevio. Diversi anni

dopo, nel febbraio 2016, si scopriva che il bene oggetto della prima donazione era in realtà di

proprietà dello stesso Mevio, che l’aveva lasciato in eredità all’unico figlio Tizio: posta l’altruità del

terreno oggetto della liberalità in questione, occorre innanzitutto chiedersi quale sia, nel nostro

ordinamento, la sorte delle donazioni di beni altrui.

In seconda battuta, è necessario individuare l’esatta qualificazione giuridica del secondo atto

traslativo, compiuto da Caio con denaro di Mevio.

D2/G Quanto al primo punto, è opportuno rilevare che manca, nel codice civile, una disposizione

che espressamente disciplini il regime della donazione di res aliena. Tale considerazione ha dato

origine ad un vivace dibattito, dottrinale ma soprattutto giurisprudenziale.

Per un primo orientamento, rivelatosi minoritario - in quanto fatto proprio, nella giurisprudenza di

legittimità, da una pronuncia del tutto isolata (Cass. Civ., sez. II, 05.02.2001, n. 1596) - la

donazione di beni altrui sarebbe semplicemente inefficace, ma non nulla, per mancanza di una

disposizione ad hoc, quale è l’art. 771 c.c., non suscettibile di applicazione analogica. La norma

citata, infatti, nello stabilire espressamente, al comma 1, la nullità della donazione di beni futuri, fa

riferimento ai soli beni non ancora esistenti in rerum natura. Un’interpretazione estensiva della

suddetta norma, tale da ricomprendervi anche i beni non attualmente di proprietà del soggetto,

andrebbe non solo a forzare il dato letterale della disposizione, ma sarebbe altresì incompatibile con

il carattere eccezionale della fattispecie codicistica del cui significato si discute. A ciò dovrebbe

aggiungersi anche un dato logico: seppur con altre finalità, il legislatore tende a considerare

separatamente gli effetti di atti di disposizione di beni futuri e di beni altrui. Ciò risulta, ad esempio,

dagli artt. 1472 e 1478 c.c. relativi al contratto di compravendita.

Sulla base delle suesposte argomentazioni, i sostenitori di tale impostazione concludevano che la

donazione di cosa altrui, pur essendo un atto pienamente valido sotto il profilo della fattispecie

normativa, è però, sotto l’aspetto funzionale, un atto non idoneo alla produzione di effetti giuridici.

Al contrario, secondo la giurisprudenza maggioritaria, la donazione di un bene altrui è nulla in

quanto il divieto di donazione di beni futuri di cui all’art. 771 c.c. comprende sia i beni futuri in

senso oggettivo - ancora non esistenti in natura - sia quelli in senso soggettivo, ovvero beni

esistenti, ma non facenti parte del patrimonio del disponente al momento della conclusione del

contratto (Cass. Civ., sez. VI-2, 23.05.2013, n. n.12782).

Le Sezioni Unite, intervenute sul punto, hanno precisato che la mancanza di una espressa previsione

di nullità della donazione di cosa altrui non può di per sé ricondurre la fattispecie nella categoria del

negozio inefficace: il vizio di nullità è comunque ricavabile, sol che si consideri nel suo complesso

la disciplina della donazione. Dalla definizione contenuta all’art. 769 c.c., che identifica l’oggetto

della disposizione patrimoniale in un diritto del donante, si ricava che la regola dell’attualità dello

spoglio deve intendersi come tratto caratterizzante della donazione con effetti reali immediati, a

differenza di quanto avviene nell’ipotesi di donazione obbligatoria di dare, in cui il donante si

impegna a procurare al donatario l’acquisto dal terzo. Quando l’altruità del bene donato non risulti

dal titolo e non sia nota alle parti, il contratto non potrà dunque produrre effetti obbligatori, né potrà

applicarsi la disciplina di vendita di cosa altrui.

A prescindere dalla disposizione di cui all’art. 771 c.c., dunque, la altruità del bene incide sulla

possibilità stessa di ricondurre il trasferimento della cosa altrui allo schema causale della donazione

dispositiva. In sostanza, la nullità della donazione di res aliena è ricavabile dal combinato disposto

degli artt. 1325 e 1418 c.c. (Cass. Civ., Sez. Un., 15.03.2016, n. 5068).

F Nel caso di specie, stante l’ignoranza dell’altruità del bene in capo a Caio e Sempronio, deve

concludersi nel senso della nullità dell’atto donativo del dicembre 2005. E’ necessario rilevare,

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tuttavia, che il donatario Caio ha continuato a possedere il terreno di Mevio per più di dieci anni,

adibendolo ad orto e dunque utilizzandolo direttamente. Oltre a ciò, la donazione in questione è

stata immediatamente trascritta; Caio, infine, si trova senza dubbio in una situazione psicologica di

buona fede, stante la sua inconsapevolezza, ribadita anche al legale, che il terreno donatogli fosse in

realtà di proprietà di Mevio. Ricorrono, in sintesi, tutti i requisiti – oggettivi e soggettivi – richiesti

dall’art. 1159 c.c. ai fini dell’usucapione abbreviata.

Occorre, pertanto, domandarsi se la donazione di cosa altrui, seppur nulla, sia comunque idonea a

fondare l’acquisto del terreno da parte di Caio a titolo originario.

D3 Secondo una opinione minoritaria, il negozio nullo non potrebbe costituire titolo idoneo ai fini

dell’usucapione abbreviata, in quanto l’iniziale e assoluta inefficacia che caratterizza un simile

negozio non lo renderebbe produttivo di alcun effetto. Per tale ragione, secondo tale orientamento,

si dovrebbe escludere che la donazione di bene altrui, in quanto nulla, costituisca titolo idoneo ai

fini dell’usucapione abbreviata.

L’opinione ampiamente maggioritaria e la giurisprudenza pressoché univoca della Cassazione,

invece, si esprimono in senso opposto ed affermano che la donazione di bene altrui, benché atto

nullo, può fungere da co-elemento essenziale della fattispecie acquisitiva a titolo originario a norma

dell'art. 1159 c.c..

Difatti, la nullità della donazione di cosa altrui dipende esclusivamente da una ragione inerente alla

funzione del negozio, ossia dalla altruità del bene donato rispetto al patrimonio del donante, altruità

dalla quale, tuttavia, occorre prescindere allorché si proceda alla valutazione della idoneità del

titolo, che si ha tutte le volte in cui l'effetto immediatamente attributivo sia unicamente precluso

dalla carenza di legittimazione traslativa dell'alienante. In altri termini, la provenienza

dell'attribuzione dal non legittimato, se intacca la validità della donazione, non consentendo ad essa,

per questa sola ragione, di adempiere concretamente la funzione traslativa del tipo al quale

appartiene, non inficia la sua astratta idoneità ad inserirsi in una più complessa fattispecie

acquisitiva a non domino.

Pertanto, la donazione di cosa altrui, sussistendone gli altri requisiti (buona fede e trascrizione), è

suscettibile di fungere da titolo per l’acquisto ai fini dell'usucapione abbreviata ai sensi dell'art.

1159 c.c., in quanto il requisito, richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della esistenza di

un titolo idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato

debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo deve essere idoneo in astratto, e non in

concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale: l’atto, cioè, deve essere tale che l'acquisto

del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare (Cass. Civ., sez. VI-2,

23.05.2013, n. 12782). Caio, dunque, nonostante la nullità dell’atto donativo, ha acquistato la

proprietà del terreno per usucapione, ai sensi dell’art. 1159 c.c..

Resta infine da esaminare l’atto con cui lo stesso ha acquistato l’appartamento, utilizzando denaro

di Mevio. Sul punto, la giurisprudenza è costante nell’affermare che l’elargizione di una somma di

denaro, quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto di un immobile da parte del

beneficiario, configura una liberalità qualificabile come donazione indiretta avente ad oggetto

l’immobile (Cass. Civ., sez. II, 04.09.2015, n. 17604). Ciò acquista rilievo ai fini

dell’individuazione della forma necessaria per la realizzazione dello scopo di liberalità: se nel caso

della donazione diretta è richiesto l’atto pubblico (art. 782 c.c.), per la donazione indiretta è

richiesta la forma prescritta per il negozio tipico utilizzato per il conseguimento dello scopo di

liberalità. L’art. 809 c.c., infatti, nel sancire l’applicabilità delle norme sulla donazione anche agli

“altri atti di liberalità” realizzati con negozi diversi, non richiama anche l’art. 782 c.c..

f Nel caso di specie, l’atto del maggio 2008 configura dunque non una donazione di modico valore

– in effetti esclusa dall’ammontare della somma corrisposta – ma una donazione indiretta, per la cui

validità è sufficiente la forma scritta richiesta per la compravendita immobiliare.

C In conclusione, alla luce di quanto esposto, nonostante l’insanabile nullità del contratto di

donazione di bene altrui, Caio ben potrà opporsi, anche in sede giudiziale, alle pretese di Tizio.

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Egli, più nello specifico, potrà rilevare l’intervenuto acquisto del terreno per usucapione decennale,

data la sussistenza di tutti i presupposti richiesti dall’art. 1159 c.c.. Caio, inoltre, potrà far valere la

validità dell’atto di acquisto del maggio del 2008, configurando quest’ultimo una donazione

indiretta per la cui validità è sufficiente la forma scritta richiesta per la compravendita immobiliare.

Pareri di Diritto Penale

TRACCIA N.1 - Falso determinato da altrui inganno

v. Corso Zincani 2016- Schema file 6 - Lezione 1: Temi rilevanti n.3 "Il falso indotto" (e n.2); in

relazione alla natura giuridica della falsità in autocertificazioni v. anche Parere 11, Lezione 1 -

L'altra faccia della Luna

Tizio, avendo intenzione di intraprendere l'esercizio di una attività di somministrazione di alimenti

e bevande, chiede l'iscrizione nell'apposito registro pubblico utilizzando il modulo di domanda

predisposto dalla locale Camera di Commercio. In epoca successiva all'ottenimento

dell'iscrizione e all'inizio dell'attività, Tizio viene però rinviato a giudizio per il reato di cui agli

artt. 48 e 479 c.p., per aver dichiarato falsamente, nella parte della domanda relativa al possesso

dei requisiti morali e professionali, di non aver mai riportato condanne per reati in materia di

stupefacenti. Tizio si reca dunque da un legale per un consulto e, dopo aver rappresentato quanto

sopra, precisa di non aver compreso, al momento della redazione della dichiarazione sostitutiva di

certificazione in questione, che i requisiti morali e professionali richiesti consistessero nel non aver

riportato condanne per reati in materia di stupefacenti, in quanto il modulo conteneva

esclusivamente il richiamo ad alcuni articoli di legge speciale, senza riportarne il testo né fornire

alcuna spiegazione al riguardo. Assunte le vesti del legale di Tizio, rediga il candidato un motivato

parere, illustrando le questioni sottese alle fattispecie in esame e le linee di difesa del proprio

assistito.

Riferimenti normativi

Articolo 48. Errore determinato dall’altrui inganno. Le disposizioni dell’articolo precedente si

applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in

tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo.

Art. 479 c.p. Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Il pubblico

ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che

un fatto è stato da lui compiuto o avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute

dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta

falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell’art.

476 c.p.

Articolo 483. Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico. Chiunque attesta falsamente

al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito

con la reclusione fino a due anni.

Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile, la reclusione non può essere inferiore a tre

mesi.

D.p.R. 445/2000, Art.46. Dichiarazioni sostitutive di certificazioni Sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all'istanza, sottoscritte dall'interessato e

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prodotte in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti:

a) data e il luogo di nascita;

b) residenza;

c) cittadinanza;

d) godimento dei diritti civili e politici;

e) stato di celibe, coniugato, vedovo o stato libero;

f) stato di famiglia;

g) esistenza in vita;

h) nascita del figlio, decesso del coniuge, dell'ascendente o discendente;

i) iscrizione in albi, in elenchi tenuti da pubbliche amministrazioni;

l) appartenenza a ordini professionali;

m) titolo di studio, esami sostenuti;

n) qualifica professionale posseduta, titolo di specializzazione, di abilitazione, di formazione, di

aggiornamento e di qualificazione tecnica;

o) situazione reddituale o economica anche ai fini della concessione dei benefici di qualsiasi tipo

previsti da leggi speciali;

p) assolvimento di specifici obblighi contributivi con l'indicazione dell'ammontare corrisposto;

q) possesso e numero del codice fiscale, della partita IVA e di qualsiasi dato presente nell'archivio

dell'anagrafe tributaria;

r) stato di disoccupazione;

s) qualità di pensionato e categoria di pensione;

t) qualità di studente;

u) qualità di legale rappresentante di persone fisiche o giuridiche, di tutore, di curatore e simili;

v) iscrizione presso associazioni o formazioni sociali di qualsiasi tipo;

z) tutte le situazioni relative all'adempimento degli obblighi militari, ivi comprese quelle attestate

nel foglio matricolare dello stato di servizio;

aa) di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che

riguardano l'applicazione di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti

amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa;

bb) di non essere a conoscenza di essere sottoposto a procedimenti penali;

cc) qualità di vivenza a carico;

dd) tutti i dati a diretta conoscenza dell'interessato contenuti nei registri dello stato civile;

ee) di non trovarsi in stato di liquidazione o di fallimento e di non aver presentato domanda di

concordato.

Art. 76. Norme penali

Chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente

testo unico e punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia.

L'esibizione di un atto contenente dati non più rispondenti a verità equivale ad uso di atto falso.

Le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 e le dichiarazioni rese per conto delle

persone indicate nell'articolo 4, comma 2, sono considerate come fatte a pubblico ufficiale.

Se i reati indicati nei commi 1, 2 e 3 sono commessi per ottenere la nomina ad un pubblico ufficio o

l'autorizzazione all'esercizio di una professione o arte, il giudice, nei casi più gravi, può applicare

l'interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione e arte.

Cassazione penale, sez. V, 27.11.2014, (ud. 27.11.2014, dep.25.03.2015), n. 12710

Il delitto sussiste, in quanto l'atto pubblico (iscrizione nel pubblico registro) - nel quale la

trascrizione dell'autocertificazione del cittadino P. è trasfusa - è destinato a provare la verità del

fatto attestato.

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E' però errata l'argomentazione formulata dalla corte nell'affrontare il successivo motivo di appello,

secondo cui nella condotta reticente del dichiarante è mancato l'elemento psicologico del reato, in

quanto nel modulo prestampato le norme richiamate sul possesso dei requisiti morali (art. 2 c.c.

della L. n. 287 del 1991, artt. 4 e 5 e dalla L.R. n. 38 del 2996) non erano riprodotte nel loro

contenuto, non fornendo quindi ai cittadini elementi utili per identificare quali fossero i richiesti

requisiti soggettivi per l'iscrizione del pubblico registro. La corte, infatti, riconosce che il modulo

prestampato era "di non immediata comprensione, in ragione dei plurimi riferimenti normativi (non

spiegati)"

Cassazione penale, sez. II, 23.01.2013, n. 9226 Pur rilevando in termini meramente descrittivi, con il sintagma "autore mediato" di cui all'art. 48

c.p. non deve intendersi una ipotesi peculiare di concorso di persone nel reato - che sarebbe

inconcepibile, in quanto mancherebbe nell'autore materiale del reato (deceptus) l'elemento

psicologico necessario per qualificarlo concorrente ex art. 110 c.p. - ma una forma di reità mediata,

ovvero un caso particolare di esclusione della punibilità con sostituzione della responsabilità, che si

radica unicamente in capo a chi con l'inganno abbia indotto altri a commettere il reato.

Cassazione penale, sez. un., 28.06.2007, n. 35488

Il delitto di falsa attestazione del privato (art. 483 c.p.) può concorrere - quando la falsa

dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato - con quello della falsità per induzione

in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell'atto al quale l'attestazione inerisca (di cui agli

art. 48 e 479 c.p.), sempreché la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l'atto

del pubblico ufficiale è destinato a provarne la verità. (Nella specie, è stato ritenuto sussistente dalla

Corte anche il reato di cui agli art. 48 e 479 c.p., poiché le false dichiarazioni degli imputati, già

costituenti di per sé reato, si sono poste in rapporto strumentale con atti pubblici successivamente

redatti da pubblici ufficiali, pure affetti da falsità ideologiche).

(Fattispecie nella quale gli imputati avevano partecipato alla licitazione per l'appalto di lavori di

costruzione, allegando alla domanda di ammissione le false dichiarazioni sostitutive di

certificazione della loro iscrizione all'Albo nazionale costruttori, richieste dal bando di gara; i

successivi atti deliberativi dell'aggiudicazione dell'appalto erano stati redatti sulla base delle

anzidette dichiarazioni, facenti fede di quanto dichiarato).

Integra il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico la falsa attestazione del

legale rappresentante di una società circa il possesso, da parte di quest'ultima, di un requisito

indispensabile per la partecipazione alla gara per l'aggiudicazione di un appalto pubblico, a nulla

rilevando che tale attestazione sia contenuta in una autocertificazione con sottoscrizione non

autenticata, ma ritualmente prodotta a corredo dell'istanza principale, unitamente alla fotocopia di

un documento di identificazione, in conformità del modello legale vigente.

In caso di falsa autocertificazione del privato presentata a una p.a. al fine di ottenere un

provvedimento poi effettivamente emanato, il privato risponde, in concorso formale tra di essi, sia

del delitto di falsa attestazione di cui all'art. 483 c.p., sia di quello di falsità ideologica per induzione

in errore del pubblico ufficiale ex art. 48 e 479 c.p.

Svolgimento

I. Il caso in esame impone di valutare il rapporto esistente tra l'art.48 ed il delitto di cui all'art.479

c.p.

D1 L’art. 48 c.p. completa la disciplina in materia di errore delineata dall’art. 47 c.p., stabilendo che

tale disposizione si applica anche nell’ipotesi in cui l’errore sul fatto sia determinato dall’altrui

inganno, ma in tal caso del reato commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a

commetterlo. Pertanto, anche la condotta decettiva del terzo è idonea a determinare un errore sul

fatto, rilevante ai fini dell’esclusione della colpevolezza dell’autore del fatto tipico.

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Da un punto di vista strutturale, il richiamo integrale operato dall’art. 48 c.p. alla norma precedente,

ai fini della disciplina dell’errore determinato dall’altrui inganno, induce a ritenere che tale errore

possa dipendere da una carente valutazione del fatto o legge extra penale, ai sensi del comma terzo

dell’art. 47 c.p. Nel caso in cui l’errore sia determinato in parte dalla condotta ingannatrice e in

parte da colpa del deceptus, quest’ultimo sarà punibile, se il fatto è preveduto dalla legge come

delitto colposo, ai sensi del comma primo dell’art. 47 c.p. In relazione alle caratteristiche

dell’inganno fonte dell’errore, esso può consistere in qualunque artificio o raggiro idoneo a

sorprendere l’altrui buona fede e ad indurre in errore il deceptus: condotte descrittive di una realtà

fattuale distorta e diversa dalla reale, così come condotte valutative provenienti da soggetti la cui

posizione istituzionale o le cui qualità professionali siano tali da ingenerare un ragionevole

affidamento in capo all’agente. Parimenti, sono rilevanti il mendacio o il silenzio serbati dal

determinatore, titolare di un obbligo giuridico di informazione; di converso, non rientra nell’ambito

applicativo della norma lo sfruttamento dell’errore in cui versa autonomamente il soggetto.

Sul piano dell'idoneità causale, l’art. 48 c.p. non sembra richiedere una particolare idoneità

eziologica della condotta decettiva, tuttavia, parte della giurisprudenza sostiene che l’inganno rileva

solo se è connotato da una peculiare consistenza e attitudine a provocare l’errore, non altrimenti

evitabile con l’uso della normale diligenza, giacché in difetto, verrebbe meno il nesso causale tra la

condotta ingannatrice e l’errore. Tale lettura, tuttavia, è aspramente criticata, in quanto

determinerebbe una limitazione dell’ambito applicativo dell’art. 48 c.p., incompatibile con

l’integrale richiamo dell’art. 47 c.p., che ammette, invece, la possibilità che l’inganno del decipiens

e la colpa del deceptus concorrano nel provocare la falsa rappresentazione, e che, pertanto,

quest’ultimo risponda a titolo di colpa del fatto commesso. In tale prospettiva, allora la norma

costituirebbe esplicita conferma della configurabilità di un concorso colposo (dell’ingannato) nel

delitto doloso altrui (dell’ingannatore).

Secondo l'indirizzo prevalente, l’art. 48 c.p. configurerebbe un’ipotesi di reità mediata, e non

un’ipotesi concorsuale, in quanto, il decipiens si servirebbe del deceptus come mero strumento

esecutivo del reato: unico autore del fatto criminoso sarebbe l’ingannatore, in qualità di autore

mediato, e non l’esecutore (immediato) del fatto materiale, considerato mero strumento materiale,

con conseguente esclusione della punibilità di quest’ultimo e sostituzione di responsabilità in capo

al primo, considerato unico artefice dell’illecito.

L’ingannatore, così, è l’unico soggetto chiamato a rispondere del reato commesso materialmente

dalla persona ingannata, salvo che l’errore sia determinato da colpa e il fatto previsto dalla legge

come reato colposo, con conseguente responsabilità di entrambi i correi con elementi soggettivi

differenziati.

L'indirizzo prevalente, infatti, riconosce l’operatività di tale fattispecie anche in ipotesi di colpa del

deceptus, se l’errore sia colpevole e il reato sia previsto anche nella forma colposa, mentre il

decipiens risponderà a titolo di dolo o di colpa a seconda dello stato soggettivo che ha sorretto la

condotta ingannatrice, sempre che il reato sia punibile in entrambe le forme. Pertanto, se

nell’inganno causativo dell’errore mancasse il dolo del reato di cui s’induce la commissione,

sarebbe configurabile la sola responsabilità colposa, purché quest'ultima fosse espressamente

prevista dalla legge quale titolo di imputazione soggettiva di quello specifico reato.

f Nel caso in esame, Tizio, avendo intenzione di intraprendere l'esercizio di una attività di

somministrazione di alimenti e bevande, nel richiedere l'iscrizione nell'apposito registro pubblico

(Pubblico Registro Esercenti Commerciali) mediante autocertificazione, ha dichiarato falsamente il

possesso dei requisiti morali e professionali stabiliti dalla disciplina del settore (L. n. 287 del 1991 e

di una L.R. n. 38 del 2006, art. 76). Lo stesso, infatti ha omesso di avere riportato una precedente

condanna per reati in materia di stupefacenti; un dato, quest'ultimo, richiesto nella domanda

d'iscrizione.

D2/G/F Occorre stabilire, preliminarmente, se Tizio possa essere chiamato a rispondere del falso al

quale ha indotto l'ufficiale del pubblico registro. In relazione all'individuazione delle condizioni di

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configurabilità del reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p. si è rilevato un contrasto nella giurisprudenza

di legittimità.

Un primo orientamento giurisprudenziale ritiene che il falso per induzione non sussista nei suoi

elementi costitutivi laddove l'attestazione del pubblico ufficiale non abbia ad oggetto il fatto

attestato (falsamente) dal privato, ma la circostanza che lo stesso ha reso la relativa

autocertificazione, cioè l'esistenza dell'atto proveniente dal privato. In tali ipotesi mancherebbe,

infatti, la falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale, in quanto ciò che egli attesta o riporta

corrisponde a quanto realmente esistente, anche se il contenuto non è vero: non vi è, dunque,

un'attestazione falsa, ma la mera espressione di un'argomentazione errata.

Un diverso indirizzo, autorevolmente avallato dalla Cassazione a Sezioni Unite (SS.UU, 35488 del

2007), ritiene invece irrilevante il fatto che il pubblico ufficiale adotti un provvedimento a

contenuto descrittivo o dispositivo, in quanto tutte le volte in cui lo stesso dà atto di condizioni

desunte da atti o attestazioni non veritieri prodotti dal privato, evidenziando in premessa

dell'esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, si è in presenza di un falso del pubblico

ufficiale, del quale risponde, ai sensi dell'art.48 c.p., colui che ha posto in essere l'attestazione. Del

falso, invece, non risponde il pubblico ufficiale, in buona fede in quanto tratto in inganno.

L'autocertificazione di Tizio, che ha dichiarato falsamente di non avere riportato condanne per reati

in materia di stupefacenti, si pone alla base dell'iscrizione nel Registro Esercenti il Commercio;

quest'ultima da ritenersi necessaria per lo svolgimento dell'attività di somministrazione di alimenti e

bevande. L'atto pubblico nel quale la trascrizione dell'autocertificazione del cittadino è trasfusa è

destinato a provare la verità del fatto attestato. Specificamente, le norme giuridiche richiamate nel

modulo sottoscritto dal ricorrente lo obbligavano a dichiarare il vero e ricollegavano specifici effetti

alla iscrizione predetta, nella quale la sua autocertificazione è stata inserita. Ne consegue, sul piano

oggettivo, l'astratta configurabilità del delitto di falsità ideologica del pubblico ufficiale in atti

pubblici del quale dovrà rispondere il solo decipiens ai sensi dell'art.48 c.p.

Si aggiunga che Tizio potrebbe essere chiamato a rispondere dello stesso reato di falso ideologico

del privato in atti pubblici, di cui all'art.483 c.p. Va infatti rilevato come la falsa dichiarazione di

Tizio ben possa essere ricompresa tra gli atti che in base al combinato disposto di cui agli articoli 46

lett. aa - 76 del d.p.r. 445 del 2000 annovera tra le dichiarazioni sostitutive di certificazioni,

equiparandole agli atti pubblici.

Il privato, nel dichiarare il falso al pubblico ufficiale che redige l’atto destinato a provare la verità di

quanto dichiarato, potrà essere chiamato a rispondere del delitto di cui all'art.483 c.p., per la stessa

presentazione (dolosa) di un documento falso, in concorso con il delitto di cui all’art. 479 c.p., per

avere indotto il pubblico ufficiale alla redazione di un atto falso, in forza del combinato disposto

degli artt. 48 c.p. e 479 c.p. In tal caso, stante il concorso formale, si applicherà il cumulo giuridico,

ai sensi dell'art.81, co.1, c.p.,

D3 Nel consulto con il proprio difensore, tuttavia, Tizio dichiara di non aver compreso al momento

della redazione della dichiarazione sostitutiva di certificazione che i requisiti morali e professionali

richiesti consistessero nel non aver riportato condanne per reati in materia di stupefacenti, in quanto

il modulo conteneva esclusivamente il richiamo ad alcuni articoli di legge, senza fornire alcuna

spiegazione. Tale profilo risulta particolarmente rilevante nel fornire una soluzione al caso oggetto

di parere. Laddove la dichiarazione non veritiera sia dovuta ad un errore effettivo dell’agente nella

attestazione, si potrà infatti valutare l’operatività dell’art. 47 c.p. che disciplina l’errore di fatto.

Deve infatti escludersi che il reato possa ritenersi sussistente per il solo fatto che contenga un

asserto obiettivamente non veritiero, dovendosi invece verificare che la falsità non sia dovuta ad

una leggerezza dell’agente come pure ad un'incompleta conoscenza o ad un'errata interpretazione di

disposizioni normative o, ancora, alla negligente applicazione di una prassi amministrativa. Nella

condotta di Tizio parrebbe venir meno proprio il citato elemento psicologico del reato, in quanto nel

modulo prestampato le norme richiamate sul possesso dei requisiti morali (art. 2 c.c. della L. n. 287

del 1991, artt. 4 e 5 e dalla L.R. n. 38 del 2996) non erano riprodotte nel loro contenuto, non

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fornendo quindi elementi utili per identificare quali fossero i richiesti requisiti soggettivi per

l'iscrizione del pubblico registro. Per quanto si possa ritenere che Tizio, a fronte di plurimi elementi

normativi (non spiegati) di non immediata comprensione, avrebbe dovuto accertare con maggiore

cura il contenuto dei singoli rinvii, tale profilo parrebbe porsi sul versante del colpa, venendo a

mancare una cosciente volontà e una consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di

dichiarare il vero (Cass. pen., sez. V, 25.03.2015, n. 12710). In tal caso, tuttavia, la colposa

omissione di indagine sul contenuto delle norme richiamate e sull'identificazione dei requisiti

morali, richiesti dalla legge nazionale e dalla legge regionale, non potrà essere sanzionata

penalmente, in quanto le previsioni sopra richiamate (479 e 483 c.p.) risultano punibili

esclusivamente a titolo di dolo.

C. In conclusione, in relazione a tutte le ipotesi di reato astrattamente configurabili nel caso in

esame potrà escludersi la responsabilità penale di Tizio per mancanza dell'elemento soggettivo.

L'altra faccia della luna

Incipit Il caso prospettato impone la preliminare disamina del concorso apparente di norme in

relazione ai rapporti intercorrenti tra l'art.479 e l'art.483 c.p.

D1 Si ha concorso apparente di norme quando più norme sembrano disciplinare un medesimo fatto,

ma una sola di esse è applicabile al caso concreto o, altrimenti detto, quando una stessa condotta,

attiva o omissiva, è suscettibile di essere ricondotta nel novero di più norme penali incriminatrici.

La disciplina rappresenta un'applicazione del principio del ne bis in idem sostanziale, a sua volta

predicato dei principi del giusto processo, di cui all'art.111 della Costituzione, e della funzione di

risocializzazione della pena dichiarata dall'art.27 Cost. Si definisce ne bis in idem sostanziale il

divieto di irrogare ad un soggetto una duplice sanzione per lo stesso fatto. Nelle fonti

sovranazionali, il principio trova esplicito riconoscimento nell'art. 4 Prot. 7 CEDU e nell'art. 50

della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Il codice penale italiano, all'art.15, adotta il

criterio di specialità quale metro risolutivo di un concorso apparente di norme. L’operatività del

rapporto di specialità presuppone che una norma contenga tutti gli elementi costitutivi di un’altra

disposizione generale, con l’aggiunta di in contenuto ulteriore, c.d. specializzante, sul presupposto

indefettibile che ambo le prescrizioni regolino la stessa materia e abbiano identità strutturale. L’art.

15 c.p. stabilisce la prevalenza della legge speciale rispetto a quella generale che regoli la stessa

materia. Speculare è la previsione dell’art.9, l. n.689 del 1981, che adotta lo stesso criterio per

disciplinare il concorso tra norma penale e violazione amministrativa. In giurisprudenza è

largamente dominante il ricorso ad un criterio di tipo logico-formale, incentrato su un confronto

strutturale tra le fattispecie. Il rapporto di specialità può descriversi come un rapporto di continenza

strutturale fra due norme, nel quale tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie generale sono

contenuti in un’altra fattispecie, la quale presenta a sua volta uno o più elementi specializzanti, per

aggiunta o specificazione.

f Nel caso in esame, Tizio, avendo intenzione di intraprendere l'esercizio di una attività di

somministrazione di alimenti e bevande, nel richiedere l'iscrizione nell'apposito registro pubblico

(Pubblico Registro Esercenti Commerciali) mediante autocertificazione, ha dichiarato falsamente il

possesso dei requisiti morali e professionali stabiliti dalla disciplina del settore (L. n. 287 del 1991 e

di una L.R. n. 38 del 2006, art. 76). Lo stesso, infatti ha omesso di avere riportato una precedente

condanna per reati in materia di stupefacenti; un dato, quest'ultimo, richiesto nella domanda

d'iscrizione.

D2/F/G Occorre stabilire, preliminarmente, se Tizio possa essere chiamato a rispondere del falso al

quale ha indotto l'ufficiale del pubblico registro, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 48 e

479 c.p. o se debba invece essere chiamato a rispondere soltanto del reato di falso ideologico del

privato in atto pubblico ai sensi dell'art. 483 c.p. Va infatti rilevato come la falsa dichiarazione di

Tizio ben possa essere ricompresa tra gli atti che in base al combinato disposto di cui agli articoli 46

lett. aa - 76 del d.p.r. 445 del 2000 annovera tra le dichiarazioni sostitutive di certificazioni,

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equiparandole agli atti pubblici, così integrando l'autonoma fattispecie di cui all'art.483 c.p.

Quest'ultima integra un reato comune, che si configura quando il privato attesti falsamente in un

atto pubblico fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, ossia quando una norma obblighi il

privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto nel quale la sua dichiarazione è stata

inserita dal pubblico ufficiale. Diversa risulta la previsione dell'art. 479 c.p., che integra un reato proprio, in quanto soggettivo

attivo è soltanto il pubblico ufficiale, con il quale può concorrere un soggetto non qualificato, o

ingannando, o istigando l’autore materiale, oppure assumendo egli stesso tale ruolo. È un delitto a

fattispecie multipla, che può manifestarsi in quattro differenti modalità: nella prima il pubblico

ufficiale attesta falsamente che un atto è stato da lui compiuto o è avvenuto in sua presenza, nella

seconda rileva la falsa attestazione di dichiarazioni non ricevute, le altre due ipotesi concernono

l’alterazione o omissione di dichiarazioni ricevute e la falsa attestazione di fatti dei quali l’atto è

destinato a provare la verità. Sul versante soggettivo, il delitto è punito a titolo di dolo generico,

consistente nelle coscienza e volontà di immutare il vero tramite la documentazione della falsa

rappresentazione della realtà.

Nel caso in esame, si rende necessario valutare se possa configurarsi un falso per induzione laddove

l'attestazione del pubblico ufficiale non abbia ad oggetto il fatto attestato (falsamente) dal privato,

ma la circostanza che lo stesso ha reso la relativa autocertificazione, cioè l'esistenza dell'atto

proveniente dal privato. In tali ipotesi mancherebbe, infatti, la falsità ideologica commessa dal

pubblico ufficiale, in quanto ciò che egli attesta o riporta corrisponde a quanto realmente esistente,

anche se il contenuto non è vero: non vi è, dunque, un'attestazione falsa, ma la mera espressione di

un'argomentazione errata.

Un diverso indirizzo, autorevolmente avallato dalla Cassazione a Sezioni Unite (SS.UU, 35488 del

2007), ritiene invece irrilevante il fatto che il pubblico ufficiale adotti un provvedimento a

contenuto descrittivo o dispositivo, in quanto tutte le volte in cui lo stesso dà atto di condizioni

desunte da atti o attestazioni non veritieri prodotti dal privato, evidenziando in premessa

dell'esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, si è in presenza di un falso del pubblico

ufficiale, del quale risponde, ai sensi dell'art.48 c.p., colui che ha posto in essere l'attestazione. Del

falso, invece, non risponde il pubblico ufficiale, in buona fede in quanto tratto in inganno.

L'autocertificazione di Tizio, che ha dichiarato falsamente di non avere riportato condanne per reati

in materia di stupefacenti, si pone alla base dell'iscrizione nel Registro Esercenti il Commercio;

quest'ultima da ritenersi necessaria per lo svolgimento dell'attività di somministrazione di alimenti e

bevande. L'atto pubblico nel quale la trascrizione dell'autocertificazione del cittadino è trasfusa è

destinato a provare la verità del fatto attestato. Specificamente, le norme giuridiche richiamate nel

modulo sottoscritto dal ricorrente lo obbligavano a dichiarare il vero e ricollegavano specifici effetti

alla iscrizione predetta, nella quale la sua autocertificazione è stata inserita. Ne consegue, sul piano

oggettivo, l'astratta configurabilità del delitto di falsità ideologica del pubblico ufficiale in atti

pubblici del quale dovrà rispondere il solo decipiens ai sensi dell'art.48 c.p.

Alla luce di quanto osservato, può rilevarsi, stante la sussistenza di elementi di specialità biunivoca,

come il delitto di falsa attestazione del privato (art. 483 c.p.) possa concorrere con il delitto indotto

di cui all'art.479 c.p., in quanto la dichiarazione non veritiera del privato concerne fatti dei quali

l'atto del pubblico ufficiale è destinato a provarne la verità. In tal caso, dovendosi escludere che

possa rilevare un concorso apparente di norme, opererà un concorso di reati ex art.81, co.1, c.p. con

applicazione del cumulo giuridico.

D3 Nel consulto con il proprio difensore, tuttavia, Tizio dichiara di non aver compreso al momento

della redazione della dichiarazione sostitutiva di certificazione che i requisiti morali e professionali

richiesti consistessero nel non aver riportato condanne per reati in materia di stupefacenti, in quanto

il modulo conteneva esclusivamente il richiamo ad alcuni articoli di legge, senza fornire alcuna

spiegazione. Tale aspetto risulta particolarmente rilevante nel fornire una soluzione al caso oggetto

di parere. Laddove la dichiarazione non veritiera sia dovuta ad un errore effettivo dell’agente nella

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attestazione, si potrà infatti valutare l’operatività dell’art. 47 c.p. che disciplina l’errore di fatto.

Deve infatti escludersi che il reato possa ritenersi sussistente per il solo fatto che contenga un

asserto obiettivamente non veritiero, dovendosi invece verificare che la falsità non sia dovuta ad

una leggerezza dell’agente come pure ad un'incompleta conoscenza o ad un'errata interpretazione di

disposizioni normative o, ancora, alla negligente applicazione di una prassi amministrativa. Nella

condotta di Tizio parrebbe venir meno proprio il citato elemento psicologico del reato, in quanto nel

modulo prestampato le norme richiamate sul possesso dei requisiti morali (art. 2 c.c. della L. n. 287

del 1991, artt. 4 e 5 e dalla L.R. n. 38 del 2996) non erano riprodotte nel loro contenuto, non

fornendo quindi elementi utili per identificare quali fossero i richiesti requisiti soggettivi per

l'iscrizione del pubblico registro. Per quanto si possa ritenere che Tizio, a fronte di plurimi elementi

normativi (non spiegati) di non immediata comprensione, avrebbe dovuto accertare con maggiore

cura il contenuto dei singoli rinvii, tale profilo parrebbe porsi sul versante del colpa, venendo a

mancare una cosciente volontà e una consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di

dichiarare il vero (Cass. pen., sez. V, 25.03.2015, n. 12710). In tal caso, tuttavia, la colposa

omissione di indagine sul contenuto delle norme richiamate e sull'identificazione dei requisiti

morali, richiesti dalla legge nazionale e dalla legge regionale, non potrà essere sanzionata

penalmente, in quanto le previsioni sopra richiamate (479 e 483 c.p.) risultano punibili

esclusivamente a titolo di dolo.

C. In conclusione, in relazione a tutte le ipotesi di reato astrattamente configurabili nel caso in

esame potrà escludersi la responsabilità penale di Tizio per mancanza dell'elemento soggettivo.

TRACCIA N.2

v. Corso Zincani 2016, file 4 lezione 2 (Schema reati contro la pubblica amministrazione) - in

stesura alternativa, v. Lezione 5, file 9, Parere Una poltrona per due

Tizio, rappresentante legale della società Alfa, avendo saputo che sarebbe stata di lì a poco

bandita una gara per l'appalto del servizio di somministrazione dei pasti all'interno dell'ospedale

pubblico Beta, contatta il suo amico di vecchia data, Mevio, preposto alla predisposizione del

bando di gara, che acconsente a consegnargli indebitamente i documenti pre-gara. Grazie alle

informazioni avute, la società Alfa si aggiudica l'appalto. Successivamente, però, la Guardia di

Finanza, sequestra presso l'abitazione di Mevio alcuni appunti manoscritti, concernenti la fase

preparatoria della gara, con i quali Tizio aveva dato indicazioni per modificare le condizioni del

bando in senso favorevole alla propria società Alfa (indicazioni poi effettivamente recepite nella

versione definitiva del detto bando di gara).

Il candidato, aventi le vesti del legale di Tizio, individui le fattispecie di reato configurabili a carico

di entrambi i soggetti e gli istituti giuridici applicabili.

Riferimenti normativi

326 c.p. Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio.

Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti

alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali

debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione

da sei mesi a tre anni.

Se l'agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.

Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri

un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano

rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di

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procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno

ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni.

353 c.p. Turbata libertà degli incanti

Chiunque, con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti,

impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche

Amministrazioni, ovvero ne allontana gli offerenti, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque

anni e con la multa da centotre euro a milletrentadue euro.

Se il colpevole è persona preposta dalla legge o dall'Autorità agli incanti o alle licitazioni suddette,

la reclusione è da uno a cinque anni e la multa da cinquecentosedici euro a duemilasessantacinque

euro.

Le pene stabilite in questo articolo si applicano anche nel caso di licitazioni private per conto di

privati, dirette da un pubblico ufficiale o da persona legalmente autorizzata; ma sono ridotte alla

metà .

353bis c.p. Turbata libertà del procedimento di scelta del contraente

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con violenza o minaccia, o con doni,

promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto a

stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di

scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione è punito con la reclusione da sei mesi

a cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032.

Riferimenti giurisprudenziali

Cassazione penale, sez. V, 11.05.2016, n. 25091

Il reato di turbata libertà degli incanti di cui all’art. 353 cod. pen. - a differenza della fattispecie

prevista dall’art. 353-bis cod. pen. - non è configurabile, neanche nella forma del tentativo, prima

che la procedura di gara abbia avuto inizio (e cioè prima della pubblicazione del relativo bando),

dovendosi ritenere carente in tale situazione il presupposto oggettivo per la realizzazione delle

condotte previste dalla norma incriminatrice.

Cassazione penale, sez. VI, 26.02.2016, n. 23355

Il reato di corruzione appartiene alla categoria dei reati “propri funzionali” perché elemento

necessario di tipicità del fatto è che l'atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle

competenze o nella sfera di influenza dell'ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto, nel senso

che occorre che siano espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata da

quest'ultimo, con la conseguenza che non ricorre il delitto di corruzione se l'intervento del pubblico

ufficiale in esecuzione dell'accordo illecito non comporti l'attivazione di poteri istituzionali propri

del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, e invece sia destinato a incidere

nella sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali il soggetto agente è

assolutamente carente di potere funzionale. Ne discende che, ai fini della configurabilità del reato di

corruzione propria, non è determinante che il fatto contrario ai doveri di ufficio sia ricompreso

nell'ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale, ma è necessario e sufficiente che si

tratti di un atto rientrante nelle competenze dell'ufficio cui il soggetto appartiene e in relazione al

quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto.

Cassazione penale, sez. VI, 26.01.2016, n. 6259

In tema di turbata libertà degli incanti, integrano il reato previsto dall'art. 353 c.p. i comportamenti

manipolatori che incidono sulla formazione di un bando di gara poi adottato, non rilevando che essi

siano stati commessi prima dell’art. 353-bis c.p., atteso che in quest’ultima fattispecie

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incriminatrice rientrano, invece, le condotte manipolatorie del procedimento non seguite dalla

emissione del bando e quelle di manipolazione dell’iter procedurale che non abbiano, tuttavia,

influenzato la legittimità del bando poi adottato.

Cassazione penale, sez. VI, 24 aprile 2007, n. 18310

L'aggravante prevista dall'art. 353 comma 2 c.p. ha natura di circostanza speciale che, rientrando tra

quelle concernenti le qualità personali del colpevole e non tra quelle inerenti alla persona del

colpevole, non è soggetta al regime di cui all'art. 118 c.p., bensì a quello ordinario previsto dall'art.

59 comma 2 stesso codice, sicché essa si comunica al correo, se da costui conosciuta o ignorata per

colpa.

Cassazione penale, sez. VI, 04.12.2015, n. 4896

Integra il reato di rivelazione di segreti d’ufficio, previsto dall’art. 326 c.p., la comunicazione

anticipata ad una delle imprese concorrenti, da parte del direttore amministrativo di un Azienda

Ospedaliera, del contenuto di un bando relativo ad una gara d’appalto per l’affidamento dei servizi

di competenza aziendale.

Cassazione penale, Sez. Un., 27.10.2011, n. 4694

Il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio riveste natura di reato di pericolo effettivo e non

meramente presunto nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in

quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta.

Cassazione penale, sez. I, 17 gennaio 2011, n. 5842

In tema di rivelazione di segreti d'ufficio, ai fini della sussistenza del concorso nel reato

dell’“extraneus”, è necessario che questi, lungi dal limitarsi a ricevere la notizia, abbia istigato o

indotto il pubblico ufficiale a porre in essere la rivelazione.

Svolgimento

I. Il caso in esame impone la preliminare disamina dei reati contro la pubblica amministrazione, con

particolare riferimento al delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio.

D1 I delitti contro la pubblica amministrazione sono stati oggetto di ripetute riforme a far corso

dalla fondamentale legge 86 del 1990. La legge 190/2012, allineandosi alle indicazioni fornite dalla

Convenzione di Merida del 2003, già ratificata dall’Italia, ha dato vita ad una riforma organica dei

reati contro la pubblica amministrazione, modificando le ipotesi di corruzione e concussione ed

introducendo il nuovo art. 319quater, co.1 (concussione mediante induzione per pubblico ufficiale e

incaricato di pubblico servizio) e co.2, con un precetto di nuovo conio che estende la punibilità

anche al privato indotto indebitamente.

La riforma ha modificato l'art. 318 c.p., in relazione alla corruzione per l'esercizio della funzione e

l'art. 320 c.p., nel quale risulta allargato il novero dei soggetti attivi del reato, con contestuale

eliminazione del riferimento al pubblico impiego. Il legislatore è intervenuto nuovamente, con l. 69

del 2015, sviluppando le coordinate già presenti nella riforma 2012, aggravando le pene principali

ed accessorie di alcuni delitti posti a presidio della P.A. ed estendendo il delitto di concussione

anche all'incaricato di un pubblico servizio (317 c.p.). Successivamente, la legge n.69 del 2015 ha

aggravato le pene principali ed accessorie di alcuni delitti contro la pubblica amministrazione,

estendendo il delitto di concussione anche all'incaricato di un pubblico servizio e prevedendo

un'inedita pena accessoria a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione (art.322

quater). In relazione ad alcuni reati contro la pubblica amministrazione, inoltre, la sospensione

condizionale della pena è subordinata alla riparazione del danno cagionato all'amministrazione. Con

l'introduzione del comma 1ter all'art.444 c.p.p., inoltre, è stato subordinato il patteggiamento per

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alcuni gravi delitti contro la pubblica amministrazione alla restituzione integrale del prezzo o del

profitto del reato.

D2 La disciplina dell’art. 326 c.p., in particolare, è stata oggetto di riforma ad opera della legge 86

del 1990 che ha introdotto nel tessuto normativo l'autonoma figura criminosa dell'utilizzazione dei

segreti d'ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, sottraendola al

controverso ambito applicativo dell'abuso innominato. L’art. 326 c.p. prevede un reato proprio del

pubblico ufficiale (o dell’incaricato di un pubblico servizio), secondo lo schema della norma a più

fattispecie (rivelazione, agevolazione colposa, utilizzazione), ed è posto a tutela dell’interesse alla

segretezza delle notizie d’ufficio in funzione del buon andamento della pubblica amministrazione.

La nozione di segretezza della notizie dev’essere intesa in senso ampio, comprendendo qualsiasi

informazione in possesso dell’amministrazione, sia in forma orale che trascritta su un documento od

un supporto informatico. La norma tutela la segretezza anche di segreti che non sono propri della

p.a.: ciò che conta ai fini dell’integrazione del reato è la mera obiettiva disponibilità della notizia da

parte dell’amministrazione, mentre non è necessario che sussista un collegamento tra il dato e

l’esercizio della funzione pubblica. La fonte del dovere di segretezza può essere rinvenuta in leggi,

regolamenti o un ordini legittimi dell’autorità. Secondo l’orientamento prevalente, la segretezza

della notizia costituisce un presupposto del reato di cui all’art. 326 c.p., il cui accertamento deve

essere svolto secondo precisi riferimenti normativi. Peraltro, le Sezioni Unite hanno chiarito che il

delitto di rivelazione di segreti d’ufficio ha natura di reato di pericolo concreto, sicché la rivelazione

del segreto è punibile non in sé per sé, ma solo in quanto suscettibile di produrre nocumento a

mezzo della notizia da tenere segreta (Cass. pen., Sez. Un., 27 ottobre 2011, n. 4694).

G Un primo quesito riguarda innanzitutto la segretezza delle informazioni: devono essere ritenute

tali non soltanto le informazioni sottratte all’accesso, ma anche quelle che, nell’ambito delle notizie

accessibili, non possono essere diffuse a persone che non hanno il diritto di riceverle. Al riguardo,

appare chiaro che le informazioni riservate contenute nei documenti pre-gara non possono essere

accessibili ai partecipanti della gara stessa e dunque siano da intendersi segrete. Più in particolare,

con riferimento al caso in esame, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che integra il reato di

rivelazione di segreti d’ufficio la comunicazione anticipata ad un concorrente di informazioni

riservate, quali sono quelle relative al contenuto di un bando di gara d’appalto per l’affidamento dei

servizi (Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 2015, n. 4896). Per quanto riguarda poi il concorso

dell’extraneus nel reato proprio, esso si ritiene ammesso ai sensi dell’art.110 c.p., e non dell’art.

117 c.p., a condizione che questi, consapevole della qualifica soggettiva dell’intraneus, abbia

istigato o indotto il pubblico ufficiale a porre in essere la rivelazione.

D3 Con riferimento alla seconda questione, si osserva quanto segue. La fattispecie dell’art. 353-bis

c.p. è stata introdotta dalla L. 13 agosto 2010, n. 136, che fra l’altro ha aumentato la pena per il

reato di turbata libertà degli incanti. La norma, che prevede peraltro una clausola di sussidiarietà,

mira a colmare un vuoto di tutela dell’art. 353 c.p., che presuppone l’inizio della procedura di gara:

per converso, l’art. 353-bis c.p. – pur sanzionando il medesimo tipo di condotte finalizzate ad

alterare il risultato finale della scelta del contraente – si pone a tutela della fase antecedente al

bando di gara. La condotta consiste dunque nel turbare il procedimento di definizione del contenuto

del bando di gara «o di altro atto equipollente» per il condizionamento della scelta del (futuro)

contraente. Si ritiene che entrambi i reati abbiano natura plurioffensiva: da un lato, essi tutelano

l’interesse della pubblica amministrazione alla regolarità delle proprie gare e, dall’altro, l’interesse

della parti private al rispetto delle regole delle procedure di affidamento e dunque, in ultima analisi,

alla libertà di competizione e concorrenza.

D3/G Si deve dunque risolvere il concorso apparente di norme fra l’art. 353 e l’art. 353-bis c.p.:

secondo la giurisprudenza più recente, i comportamenti manipolatori che incidono sulla formazione

di un bando di gara poi effettivamente adottato integrano il reato di cui all’art. 353 c.p., non

trovando applicazione l’art. 353-bis c.p.: in quest’ultima fattispecie incriminatrice – che prevede fra

l’altro una clausola di sussidiarietà – rientrano soltanto le condotte manipolatorie del procedimento

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non seguite dalla emissione del bando e quelle di manipolazione dell’iter procedurale che non

abbiano influenzato la legittimità del bando poi adottato (Cass. pen., sez. VI, 26 gennaio 2016, n.

6259). Nel caso di specie, si è poi verificata una vera e propria «collusione» fra Tizio e Mevio, con

ciò intendendosi ogni forma di accordo clandestino intercorrente tra soggetti privati comunque

interessati alla gara o tra questi e i preposti alla gara, diretto a influire sul normale svolgimento delle

offerte. Mevio risponderà poi dell’ipotesi aggravata del secondo comma dell’art. 353 c.p.,

rivestendo egli la qualifica di preposto all’incanto: tale circostanza, di natura soggettiva, si

applicherà anche all’extraneus Tizio ove conosciuta (come nel caso di specie) ovvero ignorata per

colpa, secondo gli ordinari criteri di imputazione dell’art. 59, co. 2., c.p. (e non quindi secondo il

regime della incomunicabilità dell’art. 118 c.p.). Infine, va sottolineato che i delitti di turbata libertà

degli incanti e di rivelazione di segreti d’ufficio possono concorrere ex art. 81, co. 1 c.p., in quanto

le due norme non si pongono in rapporto di specialità, essendo fra l’altro poste a tutela di due beni

giuridici differenti (la regolarità delle gare e la segretezza delle informazioni).

F Nel caso in esame, Tizio, da un lato, ha istigato l’amico di vecchia data Mevio, preposto alla

predisposizione del bando di gara, alla consegna indebita di documenti pre-gara, concorrendo

quindi con lo stesso nel reato proprio di rivelazione di segreti d’ufficio; dall’altro lato, ha fornito a

Mevio dei propri appunti manoscritti concernenti la fase preparatoria della gara, ottenendo la

modifica delle condizioni del bando in senso favorevole alla società Alfa da lui rappresentata.

C In conclusione, Tizio e Mevio risponderanno in concorso ex art. 110 c.p. del reato di reato di

rivelazione di segreti d’ufficio ex art. 326 c.p.: Mevio nella sua qualità di pubblico ufficiale e Tizio

quale extraneus istigatore della condotta dell’intraneus. Inoltre, Mevio risponderà dell’ipotesi

aggravata dell’art. 353, co. 2, c.p. (circostanza aggravante ad effetto speciale), in quanto persona

preposta dalla legge all’incanto; tale circostanza riguardante la persona del colpevole si applicherà

anche all’extraneus Tizio in quanto da lui conosciuta, secondo il criterio di imputazione dell’art. 59,

co. 2, c.p.

L'altra faccia della luna (Stesura alternativa - Atto II)

I. Il caso in esame impone la preliminare disamina del concorso apparente di norme, con particolare

riferimento al rapporto tra l'art.326 e gli articoli 353 e 353bis c.p.

D1 Si ha concorso apparente di norme quando più norme sembrano disciplinare un medesimo fatto,

ma una sola di esse è applicabile al caso concreto o, altrimenti detto, quando una stessa condotta,

attiva o omissiva, è suscettibile di essere ricondotta nel novero di più norme penali incriminatrici.

La disciplina rappresenta un'applicazione del principio del ne bis in idem sostanziale, a sua volta

predicato dei principi del giusto processo, di cui all'art.111 della Costituzione, e della funzione di

risocializzazione della pena dichiarata dall'art.27 Cost. Si definisce ne bis in idem sostanziale il

divieto di irrogare ad un soggetto una duplice sanzione per lo stesso fatto. Nelle fonti

sovranazionali, il principio trova esplicito riconoscimento nell'art. 4 Prot. 7 CEDU e nell'art. 50

della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Il codice penale italiano, all'art.15, adotta il

criterio di specialità quale metro risolutivo di un concorso apparente di norme. L’operatività del

rapporto di specialità presuppone che una norma contenga tutti gli elementi costitutivi di un’altra

disposizione generale, con l’aggiunta di in contenuto ulteriore, c.d. specializzante, sul presupposto

indefettibile che ambo le prescrizioni regolino la stessa materia e abbiano identità strutturale. L’art.

15 c.p. stabilisce la prevalenza della legge speciale rispetto a quella generale che regoli la stessa

materia. Speculare è la previsione dell’art.9, l. n.689 del 1981, che adotta lo stesso criterio per

disciplinare il concorso tra norma penale e violazione amministrativa. In giurisprudenza è

largamente dominante il ricorso ad un criterio di tipo logico-formale, incentrato su un confronto

strutturale tra le fattispecie. Il rapporto di specialità può descriversi come un rapporto di continenza

strutturale fra due norme, nel quale tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie generale sono

contenuti in un’altra fattispecie, la quale presenta a sua volta uno o più elementi specializzanti, per

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aggiunta o specificazione. Oltre al principio di specialità, potranno rilevare il criterio della

sussidiarietà espressa e le ipotesi di assorbimento riconducibili alla struttura del reato complesso ex

art.84 c.p. Il criterio di assorbimento o consunzione si fonda sul principio del ne bis in idem

sostanziale, secondo il quale, anche al di fuori dei casi di vera e propria specialità, sussiste un

rapporto di valore tra le norme incriminatrici, in base al quale il disvalore del fatto riconducibile ad

un’unica condotta è tutto compreso nella norma che prevede il reato più grave, secondo una

valutazione normativa-sociale. Diverso è il criterio della sussidiarietà, che postula un rapporto di

complementarietà tale per cui la norma sussidiaria possa trovare applicazione solo quando non sia

applicabile quella primaria.

La sussidiarietà si dice “espressa” quando la stessa norma sussidiaria contenga una clausola di

riserva del tipo “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato” e “tacita” quando il rapporto

in questione va enucleato in via di interpretazione.

Nel caso in esame occorre stabilire preliminarmente se trovi applicazione l’art. 353 o l’art. 353-bis

c.p. e, in secondo luogo, se la norma ritenuta applicabile possa concorrere con il delitto di

rivelazione di segreti d’ufficio.

L’art. 326 c.p. prevede un reato proprio del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di un pubblico

servizio), secondo lo schema della norma a più fattispecie (rivelazione, agevolazione colposa,

utilizzazione), ed è posto a tutela dell’interesse alla segretezza delle notizie d’ufficio in funzione del

buon andamento della pubblica amministrazione. La nozione di segretezza della notizie dev’essere

intesa in senso ampio, comprendendo qualsiasi informazione in possesso dell’amministrazione, sia

in forma orale che trascritta su un documento od un supporto informatico. La norma tutela la

segretezza anche di segreti che non sono propri della p.a.: ciò che conta ai fini dell’integrazione del

reato è la mera obiettiva disponibilità della notizia da parte dell’amministrazione, mentre non è

necessario che sussista un collegamento tra il dato e l’esercizio della funzione pubblica. La fonte

del dovere di segretezza può essere rinvenuta in leggi, regolamenti o un ordini legittimi

dell’autorità. Secondo l’orientamento prevalente, la segretezza della notizia costituisce un

presupposto del reato di cui all’art. 326 c.p., il cui accertamento deve essere svolto secondo precisi

riferimenti normativi. Peraltro, le Sezioni Unite hanno chiarito che il delitto di rivelazione di segreti

d’ufficio ha natura di reato di pericolo concreto, sicché la rivelazione del segreto è punibile non in

sé per sé, ma solo in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere

segreta (Cass. pen., Sez. Un., 27 ottobre 2011, n. 4694).

G Un primo quesito riguarda innanzitutto la segretezza delle informazioni: devono essere ritenute

tali non soltanto le informazioni sottratte all’accesso, ma anche quelle che, nell’ambito delle notizie

accessibili, non possono essere diffuse a persone che non hanno il diritto di riceverle. Al riguardo,

appare chiaro che le informazioni riservate contenute nei documenti pre-gara non possono essere

accessibili ai partecipanti della gara stessa e dunque siano da intendersi segrete. Più in particolare,

con riferimento al caso in esame, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che integra il reato di

rivelazione di segreti d’ufficio la comunicazione anticipata ad un concorrente di informazioni

riservate, quali sono quelle relative al contenuto di un bando di gara d’appalto per l’affidamento dei

servizi (Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 2015, n. 4896). Per quanto riguarda poi il concorso

dell’extraneus nel reato proprio, esso si ritiene ammesso ai sensi dell’art. 110 c.p., e non dell’art.

117 c.p., a condizione che questi, consapevole della qualifica soggettiva dell’intraneus, abbia

istigato o indotto il pubblico ufficiale a porre in essere la rivelazione.

D3 Con riferimento alla seconda questione, si osserva quanto segue. La fattispecie dell’art. 353-bis

c.p. è stata introdotta dalla L. 13 agosto 2010, n. 136, che fra l’altro ha aumentato la pena per il

reato di turbata libertà degli incanti. La norma, che prevede peraltro una clausola di sussidiarietà,

mira a colmare un vuoto di tutela dell’art. 353 c.p., che presuppone l’inizio della procedura di gara:

per converso, l’art. 353-bis c.p. – pur sanzionando il medesimo tipo di condotte finalizzate ad

alterare il risultato finale della scelta del contraente – si pone a tutela della fase antecedente al

bando di gara. La condotta consiste dunque nel turbare il procedimento di definizione del contenuto

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del bando di gara «o di altro atto equipollente» per il condizionamento della scelta del (futuro)

contraente. Si ritiene che entrambi i reati abbiano natura plurioffensiva: da un lato, essi tutelano

l’interesse della pubblica amministrazione alla regolarità delle proprie gare e, dall’altro, l’interesse

della parti private al rispetto delle regole delle procedure di affidamento e dunque, in ultima analisi,

alla libertà di competizione e concorrenza.

D3/G Si deve dunque risolvere il concorso apparente di norme fra l’art. 353 e l’art. 353-bis c.p.:

secondo la giurisprudenza più recente, i comportamenti manipolatori che incidono sulla formazione

di un bando di gara poi effettivamente adottato integrano il reato di cui all’art. 353 c.p., non

trovando applicazione l’art. 353-bis c.p.: in quest’ultima fattispecie incriminatrice – che prevede fra

l’altro una clausola di sussidiarietà – rientrano soltanto le condotte manipolatorie del procedimento

non seguite dalla emissione del bando e quelle di manipolazione dell’iter procedurale che non

abbiano influenzato la legittimità del bando poi adottato (Cass. pen., sez. VI, 26 gennaio 2016, n.

6259). Nel caso di specie, si è poi verificata una vera e propria «collusione» fra Tizio e Mevio, con

ciò intendendosi ogni forma di accordo clandestino intercorrente tra soggetti privati comunque

interessati alla gara o tra questi e i preposti alla gara, diretto a influire sul normale svolgimento delle

offerte. Mevio risponderà poi dell’ipotesi aggravata del secondo comma dell’art. 353 c.p.,

rivestendo egli la qualifica di preposto all’incanto: tale circostanza, di natura soggettiva, si

applicherà anche all’extraneus Tizio ove conosciuta (come nel caso di specie) ovvero ignorata per

colpa, secondo gli ordinari criteri di imputazione dell’art. 59, co. 2., c.p. (e non quindi secondo il

regime della incomunicabilità dell’art. 118 c.p.). Infine, va sottolineato che i delitti di turbata libertà

degli incanti e di rivelazione di segreti d’ufficio possono concorrere ex art. 81, co. 1 c.p., in quanto

le due norme non si pongono in rapporto di specialità, essendo fra l’altro poste a tutela di due beni

giuridici differenti (la regolarità delle gare e la segretezza delle informazioni).

F Nel caso in esame, Tizio, da un lato, ha istigato l’amico di vecchia data Mevio, preposto alla

predisposizione del bando di gara, alla consegna indebita di documenti pre-gara, concorrendo

quindi con lo stesso nel reato proprio di rivelazione di segreti d’ufficio; dall’altro lato, ha fornito a

Mevio dei propri appunti manoscritti concernenti la fase preparatoria della gara, ottenendo la

modifica delle condizioni del bando in senso favorevole alla società Alfa da lui rappresentata.

C In conclusione, Tizio e Mevio risponderanno in concorso ex art. 110 c.p. del reato di reato di

rivelazione di segreti d’ufficio ex art. 326 c.p.: Mevio nella sua qualità di pubblico ufficiale e Tizio

quale extraneus istigatore della condotta dell’intraneus. Inoltre, Mevio risponderà dell’ipotesi

aggravata dell’art. 353, co. 2, c.p. (circostanza aggravante ad effetto speciale), in quanto persona

preposta dalla legge all’incanto; tale circostanza riguardante la persona del colpevole si applicherà

anche all’extraneus Tizio in quanto da lui conosciuta, secondo il criterio di imputazione dell’art. 59,

co. 2, c.p.

Una poltrona per due (Stesura alternativa, atto III)

Incipit La corretta soluzione della questione sottoposta implica una preventiva disamina del

complesso tema del concorso di persone nel reato e, in particolare, del concorso dell’extraneus nel

reato proprio.

D1 L’art. 110 c.p. svolge una funzione incriminatrice, volta a rendere punibili dei comportamenti

che, in quanto atipici rispetto alle fattispecie monosoggettive di parte speciale, non sarebbero

punibili; ed una funzione di disciplina, nel senso che vengono sanzionati comportamenti che

potrebbero essere già di per sé tipici, ma qualificati dalla presenza di una pluralità di soggetti.

Ai fini della punibilità concorsuale dei soggetti coinvolti, non occorre più che la condotta offensiva

del bene giuridico sia posta in essere dall’autore immediato, al quale accede il contributo del

partecipe, bensì risulta necessario e sufficiente che ciascuna delle condotte degli agenti, anche se

individualmente consentite, abbiano portato alla realizzazione di un evento penalmente sanzionato.

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Pertanto, la combinazione degli articoli 110 ss. c.p. con la norma incriminatrice di parte speciale dà

vita ad una nuova tipicità. Quest'ultima si caratterizza, sul piano oggettivo, per la pluralità di agenti

ciascuno dei quali fornisce un contributo rilevante alla realizzazione del fatto; sul piano soggettivo,

nella consapevolezza di cooperare con altri alla realizzazione del reato.

In questa sede preme evidenziare una diversa tipologia di concorso di persone, ovverosia l’ipotesi

afferente al mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti di cui all’art. 117 c.p.

Pare doverosa una premessa in ordine alla tripartizione, di matrice dottrinale, della nozione di reato

proprio, diretta a suddividere tale categoria di reati in: esclusivi (o “di mano propria”, ove il reato

può essere commesso solo dal soggetto qualificato), semiesclusivi (ove in presenza della qualifica si

trasforma il nomen iuris della responsabilità), non esclusivi (cioè fatti che senza la qualifica

costituirebbero illeciti extrapenali, ovvero sarebbero comunque offensivi di altrui interessi). Il

vigente diritto positivo, derogando, parzialmente, ai principi generali (si pensi all’art. 47, comma 3,

c.p.), estende la punibilità al concorrente sprovvisto della qualifica, determinando il mutamento del

titolo di reato (cioè del nomen iuris del reato) per l’estraneo concorrente, anche laddove

quest'ultimo non sia a conoscenza della qualifica dell’intraneus. Pertanto, ai fini dell’applicazione

dell’art. 117 c.p., è necessario il possesso della qualifica soggettiva da parte di un concorrente,

idoneo a generare il mutamento del titolo di reato (senza di essa, il fatto integrerebbe comunque un

reato comune); la coscienza e volontà di concorre con altri in un fatto di reato, cioè che sussista il

dolo rispetto al reato comune; il dolo del reato proprio, cioè che l’intraneus sia a conoscenza della

qualifica. Diversamente, ove l’extraneus sia a conoscenza della qualifica soggettiva e – ad es. –

istighi o comunque induca l’intraneus a commettere il reato proprio previsto dalla norma,

troveranno applicazione i principi generali previsti in materia di concorso ex art. 110 c.p.

f Nel caso di specie, Tizio, rappresentante della società Alfa, ha contattato l’amico di vecchia data

Mevio, preposto alla predisposizione del bando di gara e dunque pubblico ufficiale, per farsi

consegnare indebitamente i documenti pre-gara; inoltre, da indagini successive è emerso che Tizio

aveva dato indicazioni a Mevio per modificare le condizioni del bando in senso favorevole alla

propria società (circostanza poi verificatasi). Occorre pertanto stabilire se Tizio, privo della

qualifica soggettiva, possa concorrere con il pubblico ufficiale nella rivelazione di segreti d’ufficio;

secondariamente, si dovrà verificare a quale concreta fattispecie ricondurre la turbativa della gara

poi effettivamente avvenuta.

D2 L’art. 326 c.p. prevede un reato proprio del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di un pubblico

servizio), secondo lo schema della norma a più fattispecie (rivelazione, agevolazione colposa,

utilizzazione), ed è posto a tutela dell’interesse alla segretezza delle notizie d’ufficio in funzione del

buon andamento della pubblica amministrazione. La nozione di segretezza della notizie dev’essere

intesa in senso ampio, comprendendo qualsiasi informazione in possesso dell’amministrazione, sia

in forma orale che trascritta su un documento od un supporto informatico. La norma tutela la

segretezza anche di segreti che non sono propri della p.a.: ciò che conta ai fini dell’integrazione del

reato è la mera obiettiva disponibilità della notizia da parte dell’amministrazione, mentre non è

necessario che sussista un collegamento tra il dato e l’esercizio della funzione pubblica. La fonte

del dovere di segretezza può essere rinvenuta in leggi, regolamenti o un ordini legittimi

dell’autorità. Secondo l’orientamento prevalente, la segretezza della notizia costituisce un

presupposto del reato di cui all’art. 326 c.p., il cui accertamento deve essere svolto secondo precisi

riferimenti normativi. Peraltro, le Sezioni Unite hanno chiarito che il delitto di rivelazione di segreti

d’ufficio ha natura di reato di pericolo concreto, sicché la rivelazione del segreto è punibile non in

sé per sé, ma solo in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere

segreta (Cass. pen., Sez. Un., 27 ottobre 2011, n. 4694).

D2/G Un primo quesito riguarda innanzitutto la segretezza delle informazioni: devono essere

ritenute tali non soltanto le informazioni sottratte all’accesso, ma anche quelle che, nell’ambito

delle notizie accessibili, non possono essere diffuse a persone che non hanno il diritto di riceverle.

Al riguardo, appare chiaro che le informazioni riservate contenute nei documenti pre-gara non

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possono essere accessibili ai partecipanti della gara stessa e dunque siano da intendersi segrete. Più

in particolare, con riferimento al caso in esame, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che

integra il reato di rivelazione di segreti d’ufficio la comunicazione anticipata ad un concorrente di

informazioni riservate, quali sono quelle relative al contenuto di un bando di gara d’appalto per

l’affidamento dei servizi (Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 2015, n. 4896). Per quanto riguarda poi

il concorso dell’extraneus nel reato proprio, esso si ritiene ammesso ai sensi dell’art. 110 c.p., e non

dell’art. 117 c.p., a condizione che questi, consapevole della qualifica soggettiva dell’intraneus,

abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale a porre in essere la rivelazione. Innanzitutto, si osserva

che la conoscenza della qualifica soggettiva esclude già di per sé la ricorrenza dell’ipotesi del

concorso anomalo dell’art. 117 c.p. (la norma risulterebbe altrimenti inutiliter data, essendo

pacificamente ammesso il concorso ex art. 110 c.p. dell’estraneo nel reato proprio). E così, là dove

il privato sia a conoscenza della qualifica e soprattutto sia a conoscenza del fatto che soltanto il

pubblico ufficiale, in quanto tale, si trovi in possesso di informazioni riservate (peraltro presidiate

dai doveri di segretezza inerenti alle sue funzioni) dovranno trovare applicazione i principi generali

in materia di concorso di persone nel reato.

D3 Con riferimento alla seconda questione, si osserva quanto segue. La fattispecie dell’art. 353-bis

c.p. è stata introdotta dalla L. 13 agosto 2010, n. 136, che fra l’altro ha aumentato la pena per il

reato di turbata libertà degli incanti. La norma, che prevede peraltro una clausola di sussidiarietà,

mira a colmare un vuoto di tutela dell’art. 353 c.p., che presuppone l’inizio della procedura di gara:

per converso, l’art. 353-bis c.p. – pur sanzionando il medesimo tipo di condotte finalizzate ad

alterare il risultato finale della scelta del contraente – si pone a tutela della fase antecedente al

bando di gara. La condotta consiste dunque nel turbare il procedimento di definizione del contenuto

del bando di gara «o di altro atto equipollente» per il condizionamento della scelta del (futuro)

contraente. Si ritiene che entrambi i reati abbiano natura plurioffensiva: da un lato, essi tutelano

l’interesse della pubblica amministrazione alla regolarità delle proprie gare e, dall’altro, l’interesse

della parti private al rispetto delle regole delle procedure di affidamento e dunque, in ultima analisi,

alla libertà di competizione e concorrenza.

D3/G Si deve dunque risolvere il concorso apparente di norme fra l’art. 353 e l’art. 353-bis c.p.:

secondo la giurisprudenza più recente, i comportamenti manipolatori che incidono sulla formazione

di un bando di gara poi effettivamente adottato integrano il reato di cui all’art. 353 c.p., non

trovando applicazione l’art. 353-bis c.p.: in quest’ultima fattispecie incriminatrice – che prevede fra

l’altro una clausola di sussidiarietà – rientrano soltanto le condotte manipolatorie del procedimento

non seguite dalla emissione del bando e quelle di manipolazione dell’iter procedurale che non

abbiano influenzato la legittimità del bando poi adottato (Cass. pen., sez. VI, 26 gennaio 2016, n.

6259). Nel caso di specie, si è poi verificata una vera e propria «collusione» fra Tizio e Mevio, con

ciò intendendosi ogni forma di accordo clandestino intercorrente tra soggetti privati comunque

interessati alla gara o tra questi e i preposti alla gara, diretto a influire sul normale svolgimento delle

offerte. Mevio risponderà poi dell’ipotesi aggravata del secondo comma dell’art. 353 c.p.,

rivestendo egli la qualifica di preposto all’incanto: tale circostanza, di natura soggettiva, si

applicherà anche all’extraneus Tizio ove conosciuta (come nel caso di specie) ovvero ignorata per

colpa, secondo gli ordinari criteri di imputazione dell’art. 59, co. 2., c.p. (e non quindi secondo il

regime della incomunicabilità dell’art. 118 c.p.). Infine, va sottolineato che i delitti di turbata libertà

degli incanti e di rivelazione di segreti d’ufficio possono concorrere ex art. 81, co. 1 c.p., in quanto

le due norme non si pongono in rapporto di specialità, essendo fra l’altro poste a tutela di due beni

giuridici differenti (la regolarità delle gare e la segretezza delle informazioni).

F Nel caso in esame, Tizio, da un lato, ha istigato l’amico di vecchia data Mevio, preposto alla

predisposizione del bando di gara, alla consegna indebita di documenti pre-gara, concorrendo

quindi con lo stesso nel reato proprio di rivelazione di segreti d’ufficio; dall’altro lato, ha fornito a

Mevio dei propri appunti manoscritti concernenti la fase preparatoria della gara, ottenendo la

modifica delle condizioni del bando in senso favorevole alla società Alfa da lui rappresentata.

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C In conclusione, Tizio e Mevio risponderanno in concorso ex art. 110 c.p. del reato di reato di

rivelazione di segreti d’ufficio ex art. 326 c.p.: Mevio nella sua qualità di pubblico ufficiale e Tizio

quale extraneus istigatore della condotta dell’intraneus. Inoltre, Mevio risponderà dell’ipotesi

aggravata dell’art. 353, co. 2, c.p. (circostanza aggravante ad effetto speciale), in quanto persona

preposta dalla legge all’incanto; tale circostanza riguardante la persona del colpevole si applicherà

anche all’extraneus Tizio in quanto da lui conosciuta, secondo il criterio di imputazione dell’art. 59,

co. 2, c.p.

Atti giudiziari

Atto in materia di diritto civile

Con accordo di separazione coniugale omologato nel marzo 2016, Caio, sul presupposto che il

reddito familiare prima della separazione ammontasse ad euro 5.000 mensili e quello suo

personale ad euro 3.200 mensili, si è impegnato a corrispondere a Sempronia un assegno mensile

di euro 1.600 per il mantenimento del figlio della coppia, Caietto, nonchè a trasferire a

quest'ultimo senza ricevere alcun corrispettivo la piena ed intera proprietà dell'unico immobile di

cui è proprietario. L'accordo tra i coniugi prevede, inoltre, che Caietto continui a vivere insieme

alla madre presso altro appartamento di proprietà di quest'ultima, che fino alla data della

separazione aveva costituito l'abitazione coniugale. Tizio, che vanta nei confronti di Caio un

ingente credito in forza di rapporti commerciali intercorsi con il predetto nell'anno 2015, venuto

a conoscenza di tale trasferimento di proprietà avvenuto nel settembre 2016 e ritenendo che lo

stesso possa pregiudicarlo, si reca dal proprio legale di fiducia per conoscere se sono

concretamente esperibili delle azioni a tutela del proprio credito.

Il candidato, assunte le vesti del difensore di Tizio, rediga l'atto giudiziario ritenuto più utile alla

difesa degli interessi di Tizio.

Riferimenti normativi Art. 2901 c.c.

Art. 711 c.p.c.

Riferimenti giurisprudenziali

Cass. Civ., sez. III, 22.01.2015, n. 1144 È suscettibile di revocatoria ex art. 2901 c.c. l'atto con cui il proprietario di un immobile

trasferisce lo stesso ai propri figli, anche quando il trasferimento sia avvenuto in virtù degli

impegni assunti in sede di separazione consensuale. Anche in questa ipotesi, infatti, l'atto trae

origine dalla libera determinazione del debitore e non si configura come “dovuto”. L'accordo

separativo omologato, dunque, costituisce esso stesso parte dell'operazione revocabile, ove si

dimostri il pregiudizio per le ragioni del creditore.

Riferimenti ai materiali

In materia di separazione personale dei coniugi, di pattuizioni a latere del verbale di

separazione omologato e di accordi prematrimoniali: Lezione 1, file 3; Lezione 2, file 2.1,

2.2, 2.3 (materiali assegnati come esercitazione per casa);

In materia di azione revocatoria: Lezione 4, file 13 (nell’introduzione iniziale); Lezione 5,

file 14 (esempio di sequestro conservativo ex art. 2905 c.c., visto anche in relazione

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all’azione revocatoria, oggetto quest’ultima di spiegazione in aula da parte del docente)

SVOLGIMENTO

Tribunale Ordinario di _____

Atto di citazione

Agisce:

TIZIO, nato a____, il _____, c.f. _______, residente in ______, rappresentato e difeso dall’Avv.

_______ del Foro di _______, c.f. ________, con Studio in ______, Via _____, presso il quale è

elettivamente domiciliato in forza di procura speciale alle liti posta in calce al presente atto;

per le notificazioni e le comunicazioni vengono indicati:

telefax:xxxxxxxxx

p.e.c.: [email protected]

contro

CAIO, nato a____, il _____, c.f. _______, residente in _______

e contro

SEMPRONIA, nata a____, il _____, c.f. _______, residente in ________

quali esercenti la responsabilità genitoriale sul loro figlio minore CAIETTO, nato a ____, il ____,

c.f. ______, residente in _________

In fatto

1. L’attore Tizio è creditore nei confronti del convenuto Caio della ingente somma di €

______, in forza di rapporti commerciali con il medesimo intercorsi nell’anno 2015 (doc. 1).

2. Con verbale di separazione redatto ai sensi dell’art. 711 c.p.c. ed omologato il _ marzo 2016

dal Tribunale di ______ (doc. 2), Caio si era obbligato a versare alla moglie Sempronia, a

titolo di mantenimento del figlio Caietto, la somma di € 1.600,00 mensili e a trasferire,

senza ricevere alcun corrispettivo, al predetto Caietto, la proprietà dell’immobile sito in

_____ catastalmente identificato al N.C.E.U. del comune di _____ al foglio __, mappale

____ sub ___ cat. ___ rendita cat. ____ ;

3. In data __ settembre 2016 le parti provvedevano poi a formalizzare il trasferimento della

proprietà dell’immobile sopra indicato con atto pubblico rogato dal Notaio Dott. _____, rep.

___ racc. ____ (doc. 3), previa autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 c.c. (doc. 4).

4. Caio non è proprietario di alcun bene immobile, come risulta dalla visura che si produce

(doc. 5).

In diritto

L’atto pubblico del __ settembre 2016, con il quale Caio ha trasferito al figlio Caietto la

proprietà dell’immobile sopra descritto, senza ricevere alcun corrispettivo, deve ritenersi inefficace

poiché compiuto nella piena consapevolezza del pregiudizio che esso arrecava alle ragioni

creditorie dell’attore Tizio.

Il diritto di credito di quest’ultimo, infatti, era maturato ben prima che fosse compiuto il citato atto

di disposizione e, soprattutto, era maturato anteriormente al marzo 2016, quando Caio si era

obbligato, sottoscrivendo il verbale di separazione consensuale poi omologato, ad effettuare

l’operazione di cui stiamo trattando.

Il Sig. Tizio agisce dunque in questa sede affinché il tribunale dichiari che l’atto pubblico citato in

narrativa non è a lui opponibile e chiede che esso sia dichiarato inefficace nei propri confronti, in

quanto, ricorrendo tutte le condizioni previste dall’art. 2901 c.c., si tratta di un atto di disposizione

del patrimonio del debitore che ha arrecato pregiudizio alle proprie ragioni di credito, non

possedendo il Sig. Caio altri beni da sottoporre a fruttuosa esecuzione forzata.

La declaratoria di inefficacia ex art. 2901 c.c. non viene infatti richiesta riguardo al verbale di

separazione omologato: esso, infatti, non produce effetti traslativi, ma solo obbligatori, tutelabili ex

art. 2932 c.c., e, conseguentemente, non è configurabile come atto di disposizione del patrimonio

assoggettabile all'azione revocatoria ordinaria.

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Quest'ultima, infatti, deve invece avere ad oggetto il contratto definitivo stipulato in adempimento

dell’accordo contenuto nel verbale omologato che, nel caso di specie, è stato poi successivamente

effettuato con l’atto del __ settembre 2016.

Venendo ad esaminare specificatamente le condizioni per l’esperimento dell’actio revocatoria, va

evidenziato come esse appaiano pienamente sussistenti.

L’eventus damni. Il danno, nell’azione revocatoria ordinaria, è ravvisabile non soltanto quando si

determini la perdita, in tutto o in parte, della garanzia patrimoniale offerta dal debitore, ma anche

quando si verifichi una maggiore difficoltà o incertezza o dispendio nell’esazione coattiva del

credito. Nel caso di specie, il bene trasferito era l’unico bene immobile di proprietà del debitore sul

quale l’attore avrebbe poi potuto soddisfarsi e, quindi, l’azione esecutiva che egli dovrà esperire

sarà notevolmente più difficoltosa e dall’esito incerto.

Né potrebbe sostenersi che il trasferimento del bene costituisse un atto dovuto da parte dei coniugi

Caio e Sempronia, che, in sede di separazione consensuale, intendevano destinare l’immobile al

mantenimento del loro figlio Caietto.

Infatti, anche un accordo separativo, lungi dal divenire fonte di un obbligo idoneo a giustificare

l'applicazione dell'art. 2901, comma 3, c.c., costituisce esso stesso parte dell'operazione revocabile

(Cass. Civ., sent. n. 1144/2015).

Inoltre, nel caso di specie, il mantenimento del figlio della coppia era già ben assicurato dal fatto

che il padre Caio si era obbligato a versare, per tale titolo, alla moglie la metà del suo reddito

mensile, vale a dire € 1.600; si aggiunga, inoltre, che il figlio Caietto avrebbe continuato a vivere,

con la madre, presso un altro immobile di proprietà di quest’ultima.

Non sussisteva, dunque, alcuna valida ragione per trasferire a Caietto la proprietà del bene

immobile di cui si discute, atteso che le condizioni di separazione offrivano a costui una piena e

completa tutela economica.

La scientia damni. Vertendosi, nel caso che ci occupa, in ipotesi di atto di disposizione posteriore al

sorgere del credito, non occorre la dimostrazione di una dolosa preordinazione dell’atto a nuocere

le ragioni dei creditori, essendo viceversa sufficiente che il debitore fosse consapevole del

pregiudizio arrecato alle ragioni e, più in generale, all’interesse del creditore con l’atto di

disposizione posto in essere.

A tale fine, secondo la costante giurisprudenza, l’effettiva conoscenza di tale dato è equiparabile

alla sua agevole conoscibilità.

Parimenti, è sufficiente che anche il terzo abbia una semplice conoscenza, cui va equiparata la

agevole conoscibilità, di tale pregiudizio, a prescindere dalla specifica conoscenza del credito per la

cui tutela viene esperita l'azione, e senza che assumano rilevanza l'intenzione del debitore di ledere

la garanzia patrimoniale generica del creditore (c.d. "consilium fraudis") né la partecipazione o la

conoscenza da parte del terzo in ordine alla intenzione fraudolenta del debitore.

Ad ogni buon conto, trattandosi di atto a titolo gratuito, è sufficiente il requisito della mera

conoscibilità (da accertarsi secondo il parametro della media diligenza) del pregiudizio che l'atto è

in grado di produrre alla garanzia del credito, il cui accertamento in capo al debitore (Cass. Civ.,

sent. n. 23509/2015) conduce alla dichiarazione di inefficacia dell'atto.

Dunque, appare irrilevante, nel caso che ci occupa, ogni indagine nei confronti di Caietto, ovvero su

Sempronia, esercente, unitamente a Caio, la potestà genitoriale sul figlio, dovendosi spostare

l’attenzione unicamente sulla conoscibilità in capo a Caio.

Infatti, come sottolineato anche dalla giurisprudenza, tra il terzo che riceve un vantaggio senza

corrispettivo ed il creditore pregiudicato la legge non può che preferire quest'ultimo.

Anzi, quando l'atto fosse stato posto in essere immediatamente dopo l'emissione di una pronunzia

che valesse a dichiarare l'esistenza del debito, addirittura si prescinderebbe dal dover dar conto di

tale elemento, essendo sufficiente la prova dell'elemento oggettivo dell' eventus damni.

Ora, è vero che, nel nostro caso, ancora non esisteva una specifica pronuncia di condanna a carico

di Caio; tuttavia, va evidenziato che questi sapeva benissimo di essere debitore, per un’ingente

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somma, verso l’attore: il convenuto, quindi, non avrebbe dovuto disporre così liberamente – e senza

una valida ragione, atteso il versamento di un assegno di mantenimento pari ad € 1.600 mensili -

dell’unico suo bene immobile.

La domanda contenuta nel presente atto di citazione verrà trascritta, ai sensi dell’art. 2652, n. 5),

c.c., presso la competente Agenzia del Territorio di ___, servizio di pubblicità immobiliare, al fine

di ottenere l’effetto prenotativo che così tutelerà pienamente le ragioni di credito dell’attore.

In considerazione di quanto sopra esposto, dedotto ed eccepito, il Sig. Caio, come in atti

rappresentato e difeso,

cita

CAIO, nato a____, il _____, c.f. ____, residente in _______ e SEMPRONIA, nata a____, il _____,

c.f. ____, residente in ____ quali esercenti la responsabilità genitoriale sul loro figlio CAIETTO,

nato a____, il _____, c.f. _______, residente in _________ a comparire dinanzi all'intestato

tribunale di ______, nei locali di sue sedute, all'udienza che sarà tenuta il _______________ alle

ore di rito, con l'invito a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell'udienza sopra indicata ai

sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166 c.p.c. e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al

giudice designato ai sensi dell'art. 168-bis c.p.c., con avvertimento che la costituzione oltre i

suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c., per ivi udire accogliere le

seguenti

conclusioni

- dichiarare inefficace, con ogni conseguenza di legge, nei confronti dell’attore Sig. Tizio, ai

sensi dell’art. 2901 del codice civile, l’atto pubblico in data __.09.2016, rogato dal Dott. ______,

Notaio in ____ – rep. ___, racc. ____, con il quale Caio ha trasferito a Caietto la proprietà del bene

immobile sito in _______, catastalmente identificato al N.C.E.U. del comune di _____ al foglio __,

mappale ____ sub ___ cat. ___ rendita cat. ____

Vinte le spese di lite del presente giudizio.

Ai sensi degli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 115/2002, il sottoscritto difensore dichiara che il valore del

presente procedimento è di € ___________ e che verrà quindi versato il contributo unificato

previsto per legge.

In via istruttoria: in caso di contestazione ed all’esito delle difese che assumeranno i

convenuti, si richiederà prova per interrogatorio e per testi sui fatti esposti in narrativa,

eventualmente ricapitolati.

Si offrono in produzione mediante deposito:

1) copia della documentazione attestante il credito dell’attore Sig. Tizio;

2) copia del verbale di omologazione del __ marzo 2016;

3) copia dell’ atto pubblico rogato dal Notaio Dott. _____, rep. ___ racc. ____;

4) copia del ricorso ex art. 320 c.c. e del decreto in data _____ del G.T. del Tribunale di

_________;

5) Visura immobiliare di Caio in data _____ ;

6) Consenso al trattamento dei dati personali;

7) Informativa ex D.Lgs. n. 28/2010.

Luogo e data

Avv. ______________

Procura speciale alle liti. Io sottoscritto Tizio, nato a ________, il _________ delego a

rappresentarmi ed a difendermi nel presente giudizio, in ogni sua fase e grado, con ogni facoltà di

legge, nessuna esclusa, l'Avv. __________, del Foro di ________, con studio in __________,

presso il quale eleggo domicilio.

Luogo e data

F.to Tizio

Visto per autentica

Avv. __________

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Atto giudiziario di diritto penale

v. Corso Zincani 2016; Lezione 2, file 2.2. Brutti sporchi e cattivi; Volume metodologico Zincani,

Profili operativi per l'atto di penale e per le conclusioni del parere Cap.5, par.6, (pp.91 ss.)

***

Quando al Ministero qualcuno sbaglia la traccia..

(n.b. l'ipotesi contestata nella traccia d'esame, l'art.99, IV, non risulta riferibile al caso di specie, in

quanto, in caso di contestazione del delitto di rapina aggravata di cui all'art.628, co.3, c.p. si

ricadrebbe nella previsione dell'art.407, co.2, lett.a, n.2, con conseguente applicazione della

recidiva di cui all'art.99, V, c.p.: in tal caso sarebbe venuta in rilievo la recente statuizione della

Corte Cost., sent. n.185 del 2015 e non la risalente SSUU 20798/2011, a sua volta riconducibile al

perimetro delineato da Corte Cost. 192 del 2007).

Tizio e Caio si accordano per commettere una rapina ai danni del gioielliere Sempronio del quale

hanno studiato le abitudini. Nel giorno prefissato dopo aver atteso a volto coperto che quest'ultimo,

chiuso il negozio, salga sulla propria autovettura, entrano in azione: mentre Tizio fa da palo

all'angolo della strada, a circa 200 metri di distanza Caio entra nell'auto di Sempronio e dopo

averlo colpito al viso con diversi pugni, si impossessa della sua valigetta per poi darsi alla fuga

seguito da Tizio. Le indagini successive consentono di individuare in Tizio e Caio gli autori del

fatto. Sottoposti a processo vengono entrambi condannati alla pena di anni 7 e mesi 6 di reclusione

ed euro 2000 di multa per il reato di rapina aggravata in quanto commesso da più persone riunite e

con il volto travisato, ritenuta la sussistenza della recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale

contestata dal P.M. in considerazione dei precedenti a carico di entrambi risultanti dal certificato

penale. Nel determinare il trattamento sanzionatorio il Tribunale ha fissato la pena base in anni 4 e

mesi 6 di reclusione ed euro 1200 di multa di cui all’art. 628, c. 3, n. 1), c.p. e su questo ha

applicato l’aumento per la recidiva. Tizio si reca immediatamente dal proprio legale e lo incarica

di assumere immediatamente la propria difesa. In tale veste il candidato rediga l'atto ritenuto più

opportuno evidenziando le problematiche sottese alla fattispecie in esame e soffermandosi anche, in

particolare, sulla natura giuridica della recidiva di cui all'art 99 comma 4 c.p. e sulle conseguenze

in punto di pena.

Riferimenti normativi

Art. 63 c.p.

Art. 64 c.p.

Art. 69 c.p.

Art. 99 c.p.

Art. 110 c.p.

Art. 628, co. 3, n. 1), c.p.

Art. 609-octies c.p.

Riferimenti giurisprudenziali

Cass. pen., Sez. Un., 29 marzo 2012, n. 21837

«Per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per il

delitto di estorsione, è necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed

al momento in cui si realizza la violenza o la minaccia».

Cass. pen., Sez. Un., 24 febbraio 2011, n. 20798

«La recidiva è circostanza aggravante ad effetto speciale quando comporta un aumento di pena

superiore a un terzo e pertanto soggiace, in caso di concorso con circostanze aggravanti dello

stesso tipo, alla regola dell'applicazione della pena prevista per la circostanza più grave, e ciò pur

quando l'aumento che ad essa segua sia obbligatorio, per avere il soggetto, già recidivo per un

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qualunque reato, commesso uno dei delitti indicati all'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. (La Corte

ha precisato che è circostanza più grave quella connotata dalla pena più alta nel massimo edittale

e, a parità di massimo, quella con la pena più elevata nel minimo edittale, con l'ulteriore

specificazione che l'aumento da irrogare in concreto non può in ogni caso essere inferiore alla

previsione del più alto minimo edittale per il caso in cui concorrano circostanze, delle quali l'una

determini una pena più severa nel massimo e l'altra più severa nel minimo)».

Cass. pen., sez. III, 29 gennaio 2015, n. 7920

«La “partecipazione” al reato di violenza sessuale di gruppo non è limitata al compimento, da

parte del singolo, di un’attività tipica di violenza sessuale, ma ricomprende qualsiasi condotta

partecipativa, tenuta in una situazione di effettiva presenza non da mero “spettatore”, sia pure

compiacente, sul luogo ed al momento del reato, che apporti un reale contributo materiale o

morale all'azione collettiva (tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 44408 del 18/10/2011 Ud. dep.

30/11/2011 Rv. 251610)».

SVOLGIMENTO

ECC.MA CORTE DI APPELLO DI …

per il tramite

DELLA CANCELLERIA DEL TRIBUNALE PENALE DI …

RGNR

RG DIB

Sent. N. ATTO DI APPELLO

Avverso la sentenza n. ..., pronunciata in data …, dal Tribunale in composizione collegiale di …, nel

procedimento n. … RGNR, n. … RG DIB, con la quale Tizio è stato condannato – in concorso con Caio –

alla pena, previo aumento per la contesta recidiva, di anni sette (7) e mesi sei (6) di reclusione ed € 2000,00-

di multa per il reato di rapina aggravata di cui all’art. 628, co. 3, n. 1), c.p. per essersi impossessati, mediante

violenza alla persona, della valigetta del gioielliere Sempronio per procurare a sé un ingiusto profitto; con la

circostanza aggravante di aver commesso il fatto in più persone riunite e con il volto travisato; con recidiva

reiterata, specifica ed infraquinquennale per entrambi; pena così calcolata: pena base anni quattro (4) e mesi

sei (6) di reclusione ed € 1.200,00- di multa per il delitto di cui all’art. 628, c. 3, n. 1), c.p., pena aumentata

per l’effetto della riconosciuta recidiva ad anni sette (7) e mesi sei (6) di reclusione ed € 2000,00- di multa.

Il sottoscritto Avv. … del Foro di … difensore di fiducia di Tizio, nato a …, il …, residente a …, in via …,

n. …, come da nomina in calce al presente atto,

DICHIARA

di proporre appello avverso tutti i capi e i punti della summenzionata sentenza del Tribunale in

Composizione Collegiale di …, ritenuta erronea in fatto e in diritto, per i seguenti

MOTIVI

1) Insussistenza delle circostanze aggravanti contestate e, per l’effetto, riqualificazione del fatto in

rapina semplice.

Il Tribunale ha ritenuto la sussistenza di due circostanze aggravanti speciali e ad effetto speciale del delitto di

rapina: in primo luogo, il fatto commesso «da più persone riunite» e, quindi, «da persone travisate».

L’assunto non può essere condiviso. Ed invero, la circostanza ad effetto speciale delle più persone riunite, di

natura oggettiva e concernente le modalità dell’azione, trova la sua ratio nella maggiore offensività della

condotta di chi agisca in concorso – simultaneamente e contestualmente – nella condotta tipica di violenza

alla persona (o di minaccia) di cui all’art. 628 c.p., ponendo dunque la vittima in condizione di inferiorità: il

fatto circostanziato appare dunque più grave per la maggiore pericolosità determinata dall’apporto causale

del correo (o dei correi) al momento e sul luogo del reato. Sul punto è intervenuta di recente anche una

pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte, ad avviso della quale la circostanza in esame ricorre

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soltanto ove vi sia la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e nel momento in cui si

realizza la violenza o la minaccia (Cass. pen., Sez. Un., 29 marzo 2012, n. 21837). Si tratta dunque di

un’ipotesi di reato circostanziato a concorso necessario, che richiede la presenza di almeno due persone

contemporaneamente alla commissione dello stesso: esso si differenzia dunque dall’ipotesi del (mero)

concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p. in quanto contiene l’elemento specializzante della «riunione»,

che deve necessariamente intendersi riferito soltanto alle modalità commissive della violenza o della

minaccia (là dove il concorso di persone ex art. 110 c.p. può manifestarsi, secondo gli ordinari principi in

materia, in varie forme – anche atipiche, purché causalmente rilevanti – in tutte le fasi della condotta

criminosa). Peraltro, è interessante notare che anche in caso di violenza sessuale di gruppo ex art. 609-octies

c.p. la giurisprudenza di legittimità ha affermato l’analogo principio della necessità della simultanea

presenza di almeno due persone sul luogo di commissione degli atti sessuali (da ultimo, Cass. pen., sez. III,

7 gennaio 2015, n. 7920): e così, da un lato, si esclude che il compartecipe necessario debba per forza

compiere un’attività tipica di violenza sessuale e, dall’altro lato, si ricomprende nell’alveo di punibilità

soltanto ogni attività partecipativa sul luogo ed al momento del reato, purché non da mero “spettatore”, che

apporti un reale contributo materiale o morale all’azione collettiva.

Ebbene, nel caso di specie Tizio si è limitato a fare da “palo” all’angolo della strada, addirittura ad una

distanza di circa duecento (200) metri dall’azione di Caio: appare dunque evidente che egli non fosse in

alcun modo presente al momento della violenza alla persona perpetrata da Caio nei confronti di Sempronio:

per l’effetto, in ossequio alla ricostruzione prospettata (che ha ricevuto l’autorevole avallo delle Sezioni

Unite, così come della giurisprudenza di legittimità in materia di violenza sessuale di gruppo) andrà dunque

esclusa la sussistenza della circostanza aggravante erroneamente riconosciuta dal Tribunale.

Per quanto riguarda la circostanza aggravante, speciale e ad effetto speciale, del fatto commesso «da persona

travisata» possono in parte valere le osservazioni appena svolte. In particolare, Tizio è rimasto lontano

dall’azione tipica del delitto di rapina, con una condotta al più agevolatrice o comunque rafforzatrice sul

piano causale, secondo quanto previsto dall’art. 110 c.p. Come noto, la ratio della circostanza aggravante in

parola consiste nella maggiore pericolosità dell’aggressore che – consapevole di essere irriconoscibile (o più

difficilmente riconoscibile) – è facilitato nella commissione del reato, potendo egli superare la comune

prudenza rispetto al rischio di essere identificato dalla vittima. Ebbene, nel caso in esame la grande distanza

(circa duecento metri) a cui si trovava Tizio, oltre alla sua mancata partecipazione all’azione tipica di

violenza nei confronti di Sempronio, rendono del tutto superfluo ed inutile il travisamento dello stesso.

Pertanto, anche la sussistenza di tale circostanza aggravante andrà ritenuta esclusa.

In conclusione, il fatto reato andrà riqualificato nell’ipotesi di rapina semplice del primo comma dell’art. 628

c.p., con esclusione delle circostanze aggravanti del terzo comma, n. 1).

2) Erroneo riconoscimento in capo al prevenuto della recidiva reiterata specifica e infraquinquennale

ex art. 99, comma IV, c.p.; in ogni caso, errore di calcolo dell’aumento per la recidiva ex art. 63, co. 4,

c.p. Oltre a quanto espresso al precedente motivo di gravame, il Giudice di prime cure errava altresì nel

riconoscere come sussistente in capo a Tizio la contestata circostanza aggravante della recidiva reiterata

specifica e infraquinquennale, considerando, a tal riguardo, unicamente i precedenti a carico di entrambi i

correi così come risultanti dai rispettivi certificati penali. Invero, l'istituto della recidiva prevista dall'art. 99 c.p. ebbe a subire una profonda interpolazione ad opera

della legge 251/2005; questa volle inasprire grandemente la risposta punitiva nei confronti di coloro che

variamente “ricadevano” nel reato qualora fossero già stati in precedenza condannati. Detto intervento normativo comportava il riaffiorare di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la

natura giuridica da attribuire all'istituto della recidiva comportante un aumento di pena superiore ad un terzo

giacché si registravano, in merito, posizioni contrastanti. Secondo un primo indirizzo, che valorizzava esclusivamente l’interpretazione letterale dell’art. 70, comma 2,

c.p., siffatto genere di recidiva rappresentava esclusivamente una circostanza inerente alla persona del

colpevole e non una circostanza aggravante ad effetto speciale. Viceversa, secondo un diverso orientamento, la recidiva che determinasse un aumento di pena superiore ad

un terzo costituiva una circostanza aggravante ad effetto speciale. Il descritto contrasto ermeneutico veniva da ultimo risolto dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di

Cassazione, le quali con la sentenza n. 20798 del 24.02.2011 aderivano senza remore alla concezione della

recidiva quale circostanza pertinente al reato fondata su di un accertamento, nel caso concreto, di una

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relazione qualificata tra lo status soggettivo del reo e il fatto-reato; siffatta relazione deve risultare

sintomatica, alla luce della tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano

della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale. In coerenza con tale impostazione quel Supremo

Consesso riteneva che, in particolare, la recidiva reiterata (art. 99, comma quarto, c.p.) fosse una circostanza

facoltativa nell’an e vincolata nel quantum. Tale lettura della norma imponeva, conseguentemente, il ripudio

di qualsiasi automatismo. Si escludeva, dunque, la sussistenza di qualunque presunzione circa la relazione

qualificata tra status della persona (con precedenti) e reato commesso. La matrice di tale orientamento andava ricercata in una decisione della Corte Costituzionale (sent. n. 192 del

2007), poi seguita da molte altre analoghe pronunce, che escludeva la conformità ai principi costituzionali di

una lettura dell’art. 99 c.p. basata su qualsiasi forma di automatismo. Tant'è che, in ossequio alla ridetta

interpretazione, recentemente il Giudice delle leggi interveniva nuovamente sull'articolo da ultimo citato con

la sentenza Corte Cost., n. 185 del 23 luglio 2015. Con essa la Consulta dichiarava l'illegittimità

costituzionale dell'art. 99, comma V, c.p. limitatamente alle parole “è obbligatoria e”, in questo modo

eliminando dall'applicazione dei diversi tipi di recidiva qualsivoglia restante automatismo e divenendo così

anche la recidiva reiterata qualificata obbligatoria esclusivamente nel quantum di aumento di pena, non

nell'applicazione al caso concreto. Il giudice, anche in caso di commissione di uno dei gravi reati elencati

nell'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. non può dunque basarsi esclusivamente sul titolo del reato commesso,

ma ha il dovere di accertare se, in concreto, la reiterazione del delitto sia espressione di più accentuata

capacità a delinquere del reo. Di tal ché, la valutazione circa la sussistenza della recidiva non riguarda l’astratta pericolosità del soggetto o

un suo status personale svincolato dal fatto reato. La sua applicazione quale circostanza aggravante postula,

piuttosto, la valutazione della gravità della condotta illecita commisurata alla maggiore attitudine a

delinquere manifestata dal soggetto agente, idonea ad incidere sulla risposta punitiva quale aspetto della

colpevolezza e della capacità di commissione di ulteriori reati; dunque, è soltanto nell’ambito di una

relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questi commesso che deve essere

concretamente significativo – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti nonché avuto

riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 c.p. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della

maggiore pericolosità del reo. Pertanto, la recidiva reiterata di cui all'art. 99, quarto comma, c.p., opera quale circostanza aggravante

facoltativa, nel senso che è consentito al giudice escluderla ove non la ritenga in concreto espressione di

maggior colpevolezza o pericolosità sociale del reo; l'esclusione di tale aggravante determina la sua

ininfluenza non solo sulla determinazione della pena ma anche sugli ulteriori effetti commisurativi della

sanzione costituiti dal divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti di cui all'art. 69, quarto

comma, c.p., dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all'art. 81, quarto comma,

c.p., dall'inibizione all'accesso al "patteggiamento allargato" di cui all'art. 444, co.1bis, c.p.p. Nell'enunciare

tale principio, la giurisprudenza richiamata precisava che, in presenza di contestazione della recidiva a norma

di uno dei primi quattro commi dell'art. 99 cod. pen., è compito del giudice quello di verificare in concreto se

la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo

autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado

di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro,

all'eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della

personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale

dell'esistenza di precedenti penali. Alla luce di quanto espresso, pare allora erroneamente applicata all'odierno prevenuto la recidiva prevista

dall'art. 99, quarto comma, c.p. In effetti, il mero dato oggettivo della presenza di precedenti specifici non

risulta di per sé indicativo della sussistenza di quella relazione qualificata testé descritta e richiamata. Di

contro, in punto alla concreta offensività del comportamento oggetto di giudizio, il contegno tenuto da Tizio,

che rimane a circa 200 metri di distanza dal luogo della rapina e si limita ad allontanarsi dal medesimo

nonché la distanza tra i precedenti e l'odierno fatto reato, conduce a ritenere non integrata la ridetta relazione.

In altri termini, il concorso di Tizio nella rapina orchestrata congiuntamente a Caio così come concretizzatosi

in uno con i suoi illeciti pregressi, non parrebbero indice di una maggiore colpevolezza ovvero di una

peculiare proclività al delitto di Tizio, sicché nel suo caso è possibile escludersi l'applicazione della

contestata recidiva. A riprova della scarsa pericolosità di Tizio milita poi l’ulteriore argomento della mancata

applicazione nei suoi confronti di misure cautelari custodiali. Inoltre, si deve osservare che il medesimo arresto delle Sezioni Unite più sopra citato esprimeva altresì il

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principio giuridico secondo cui, alla ritenuta natura giuridica di circostanza soggettiva ad effetto speciale

della recidiva, consegue necessariamente l'applicazione a tale istituto delle disposizioni codicistiche riservate

giustappunto a quella tipologia di circostanze del reato, tra cui inevitabilmente anche l'art. 63, comma quarto,

c.p. A tal riguardo, l'autorevole arresto ermeneutico si soffermava, inoltre, sul criterio di individuazione della

circostanza “più grave” individuando il giusto criterio nella valutazione in astratto delle fattispecie. Dunque,

si intendeva far riferimento al massimo della pena edittale e, in caso di parità di tale limite, del maggior

minimo. Tutto ciò, fermo restando che l'individuazione della circostanza più grave sulla base del massimo

della pena astrattamente prevista non può comportare, in presenza di un'altra aggravante il cui limite sia più

elevato, l'irrogazione di una pena ad esso inferiore. Sicché, anche laddove non si ritenesse di accedere all'impostazione difensiva oggetto del presente atto di

appello, in ogni caso il trattamento sanzionatorio irrogato non risulterebbe conforme ai dettami

giurisprudenziali, giacché rispetto all'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 628, comma 3, c.p. la

recideva deve intendersi meno grave. Pertanto, anche da tale vicario angolo visuale deve necessariamente

rideterminarsi la misura della pena in concreto irrogata al prevenuto in misura al medesimo maggiormente

favorevole.

In particolare, nella denegata ipotesi di ritenuta sussistenza dell’aggravante speciale e ad effetto speciale del

delitto di rapina, nonché del riconoscimento in concreto della recidiva (a questo punto, in combinato disposto

dell’art. 99, co. 5, c.p. e dell’art. 99, co. 4, ult. per., c.p.), il calcolo della pena avrebbe dovuto basarsi ex art.

63, co. 4, c.p. sulla pena stabilita per la circostanza più grave facoltativamente aumentata nei limiti generali

fino ad un terzo per la ritenuta ipotesi dell’art. 99, co. 4 e 5, c.p.: in sintesi, la pena per la circostanza più

grave (art. 628, co. 3, n. 1, c.p.), irrogata dal Tribunale nella misura di anni quattro (4) e mesi sei (6) di

reclusione (oltre a multa) anche ove fosse stata aumentata con l’aumento facoltativo massimo (fino a un

terzo) previsto dall’art. 63, co. 4, c.p. per la recidiva non avrebbe potuto superare nel computo finale gli anni

sei (6) di reclusione (4 anni e 6 mesi più un terzo = 6 anni). Per quanto sopra esposto, con riserva di meglio specificare i motivi testé enunciati ovvero di proporne di

nuovi anche attraverso memoria defensionale, il sottoscritto difensore rassegna le seguenti CONCLUSIONI

Si chiede che l'Ecc.ma Corte di Appello di … voglia, in accoglimento delle doglianze esposte:

in via principale, in riforma dell’impugnata sentenza, previa riqualificazione del fatto nel delitto di

rapina semplice ex art. 628, comma 1, c.p., irrogare il minimo della pena; intoltre, in via principale, in riforma dell’impugnata sentenza, escludere l'applicazione al prevenuto

della circostanza aggravante della recidiva ex art. 99, comma 4, c.p.; in ogni caso, rideterminare comunque la pena in misura maggiormente favorevole al reo anche

applicando correttamente il disposto dell'art. 63, comma 4, c.p.; ogni ulteriore beneficio concedibile

ex lege. Con osservanza.

Luogo, data Firma Avv. ...

NOMINA DEL DIFENSORE DI FIDUCIA

Io sottoscritto Tizio, nato a …, il …, residente a …, in via …, n. …, imputato nel suindicato procedimento,

nomino quale mio difensore di fiducia l’Avv. …, del Foro di …, cui conferisco ogni e più ampia facoltà di

legge, compresa quella di impugnare la sentenza n…. emessa dal Tribunale in composizione collegiale di ….

in data ….. nell’ambito del procedimento in epigrafe;

dichiaro

di eleggere domicilio ai fini e per gli effetti del presente procedimento presso lo studio del suindicato

difensore Avv. …

autorizzo

il trattamento dei miei dati personali ai sensi del D. Lgs 196 del 2003.

Con osservanza.

Firma Tizio

È autentica

Firma Avv. ...

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Atto in materia di Diritto amministrativo

In data 23 aprile 2016, Tizio aliena a Caio un immobile di interesse storico artistico (ritualmente

dichiarato) di sua proprietà al fine di ottemperare all'obbligo di legge. Lo stesso trasmette alla

competente soprintendenza, con lettera raccomandata ricevuta in data 02 maggio 2016 copia

autentica del contratto di compravendita.

Il Ministero per i beni e le attività culturali, senza comunicare l'avvio di procedimento agli

interessati, esercita il diritto di prelazione sull'immobile con provvedimenti del 25 ottobre 2016, nel

quale dopo aver affermato la sussistenza dei presupposti di legge per l'applicazione del termine di

legge di 180 giorni (non avendo Tizio effettuato la prescritta denuncia di alienazione) si limita a

fare generico riferimento all'interesse storico artistico dell'immobile stesso. Tale provvedimento

viene consegnato all'ufficio notificatorio il 26 ottobre 2016 e notificato alle parti del contratto in

data 4 novembre 2016. Caio, preoccupato di perdere la proprietà del predetto immobile, si reca

dunque da un legale al quale, dopo aver esposto i fatti sopra detti, rappresenta che Tizio, nel

trasmettere alla Soprintendenza copia del contratto di compravendita, aveva comunque indicato il

domicilio in Italia di ciascuna delle parti contraenti. Il candidato, assunte le vesti del legale di Caio,

rediga l'atto ritenuto più idoneo alla tutela delle ragioni del proprio assistito, illustrando le

problematiche sottese alla fattispecie in esame.

Riferimenti normativi

artt. 59, 60, 61 e 62 del D.lgs. 42/2004

artt. 3 e 7 l. n. 241/1990

Riferimenti giurisprudenziali

Consiglio di Stato, sez. V, 4337/2014

“Deve ritenersi che spettino alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie

attinenti all'esercizio del diritto di prelazione, ivi comprese quelle concernenti la tempestività

dell'esercizio di tale diritto”

Consiglio di Stato, sez. V, 4959/2016

“L'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, in coerenza con la funzione che essa

svolge, di esternazione del percorso logico-giuridico seguito dall'Amministrazione pubblica

nell'emanazione dell'atto finale, è soddisfatto quando il destinatario è in grado di comprendere le

ragioni di quest'ultimo e, conseguentemente, di utilmente accedere alla tutela giurisdizionale, in

omaggio ai principi di cui agli artt. 24 e 113, Cost.”

Consiglio di Stato, sez. VI, 2913/2015

“L’atto di esercizio della prelazione in ordine alle alienazioni di beni di interesse storico-artistico

necessita di congrua motivazione che dia conto degli interessi pubblici attuali all'acquisizione del

bene”

Svolgimento

ECC.MO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

DEL LAZIO

Sede di Roma

RICORSO

promosso da Caio, nato a …, il …, residente in …, via … n. …., C.F. …, rappresentato e difeso

dall’Avv. … del Foro di … (C.F. …, pec: …, fax … ) ed elettivamente domiciliato presso lo Studio

e la persona di quest’ultimo in …, via … n. …, giusta procura speciale in calce al presente atto

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contro

il Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del ministro in carica, nella sede in …, via …

n…, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura dello Stato, con sede in (00186) Roma, via dei

Portoghesi n. 12,

nei confronti di

Tizio, nato a …, il …, residente in …, via … n…, C.F. ….,

per l’annullamento, previa sospensione

- del provvedimento prot. n. … del …, ricevuto il 4 dicembre 2016, adottata dal Ministero per i beni

e le attività culturali (doc. 1);

- di ogni altro atto e/o provvedimento comunque annesso, connesso e/o presupposto.

Considerazioni in fatto

In data 23 aprile 2016, con atto a ministero del Notaio Dott. … (doc. 2), Caio acquistava da Tizio la

proprietà di un immobile sito in …, alla via ... n …, catastalmente identificato al foglio …, mappale

… sub … (doc. 3) e censito quale bene di interesse culturale.

La copia autentica del predetto contratto, recante tutti i dati necessari ai fini della denuncia di cui

all’art. 59 comma 4 del D.lgs. 42/04, alla quale veniva aggiunta una nota integrativa recante, tra

l’altro, l’espressa specificazione del fatto che sia Tizio, sia Caio risiedono in Italia (doc. 4), veniva

regolarmente ricevuta dalla soprintendenza di … il 2 maggio 2016 (doc. 5).

Nulla più accadeva fino a quando, del tutto inaspettatamente, in data 4 novembre 2016, ossia oltre

sei mesi dopo il perfezionamento del contratto, il ricorrente e, contestualmente, il Sig. Tizio,

ricevevano la copia del provvedimento prot. n. … (doc. 1, cit.) con il quale il Ministero per i beni e

le attività culturali (da qui in poi, per brevità, “il Ministero”) esercitava la prelazione di cui al D.lgs.

42/04 invocando l’acquisizione del bene. In particolare, il Ministero invocava genericamente, quale

causa dell’esercizio della prelazione, la sussistenza di un non meglio precisato interesse storico-

artistico, nonché, a giustificazione dei tempi dell’esercizio della prelazione stessa, l’asserita

omissione della denuncia di trasferimento cui all’art. 59 D.lgs. 42/04.

Il provvedimento di cui sopra è manifestamente illegittimo ed ingiusto e pertanto avverso lo stesso

il Sig. Caio, come in epigrafe rappresentato e difeso, ricorre per i seguenti

motivi in diritto

1. Sulla natura della prelazione c.d. artistica di cui agli artt. 59 ss. D.lgs. 42/04 e sulla

sussistenza della giurisdizione amministrativa

Il provvedimento impugnato è palesemente illegittimo in quanto adottato in totale assenza dei

presupposti di fatto e di diritto che giustificano e fondano l’esercizio del diritto di prelazione

riconosciuto al Ministero dei beni culturali a norma dell’art. 60 del D.lgs. 42/04.

Come è noto, la titolarità del diritto-potere alla prelazione del Ministero nel caso di trasferimento di

beni di interesse storico-artistico è volta ad assicurare che le opere (mobili ed immobili) di pregio

storico e artistico possano essere acquisite dall’Amministrazione e gestite nell’interesse della

collettività. Al fine di comprendere al meglio la natura di tale potere, vale la pena rilevare come la

prelazione c.d. artistica riconosciuta dal D.lgs. 42/04 sia eterogenea rispetto a quella propria della

prelazione ex lege generalmente stabilita dal codice civile (si veda la prelazione agraria, quella

commerciale, quella riconosciuta al coerede o, ancora, quella abitativa). Infatti, i beni identificati

come aventi interesse culturale sono, per un lato, soggetti al regime giuridico di diritto comune in

quanto, ove appartenenti a soggetti privati, possono essere oggetto di atti di disposizione; dall’altro

lato, tuttavia, il loro valore culturale intrinseco ne condiziona la gestione al rispetto di disposizioni

pubblicistiche volte ad assicurarne la conservazione nell’interesse del patrimonio culturale

collettivo. Sotto tale profilo, dunque, si spiega l’ontologica differenza tra il potere di esercitare la

prelazione nel caso di atti di trasferimento attribuita al Ministero e la disciplina generale che il

codice civile stabilisce in materia di prelazione legale: mentre, in via generale, la prelazione

civilistica comporta che, nell’ambito di un rapporto negoziale non ancora perfezionatosi, intervenga

un soggetto terzo il quale ne entra a far parte a pieno titolo, nella prelazione c.d. artistica il

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Ministero interviene, avocando a sé la proprietà di un bene, a fronte di un atto di alienazione già

perfezionatosi, anche se i relativi effetti sono sospesi per il periodo stabilito dalla legge. L’esercizio

della prelazione c.d. artistica, ex art. 61 comma 3 D.lgs. 42/04, comporta infatti il passaggio della

proprietà dal privato allo Stato a partire dall’ultima notifica alle parti. Tale ontologica e strutturale

differenza rende evidente come la prelazione di cui al Codice dei beni culturali costituisca

espressione di un potere autoritativo a carattere ablatorio, in quanto incide direttamente ed in modo

unilaterale sulla sfera giuridica dei destinatari che, di contro, hanno già regolato autonomamente i

propri interessi mediante un negozio perfetto. La sussistenza di un potere autoritativo giustifica, tra

l’altro, la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo anche per la presente

controversia, posto che “deve ritenersi che spettino alla giurisdizione del giudice amministrativo

tutte le controversie attinenti all'esercizio del diritto di prelazione, ivi comprese quelle concernenti

la tempestività dell'esercizio di tale diritto” (Cons. Stato, VI, 4337/2014).

2. Illegittimità del provvedimento violazione di legge e delle condizioni temporali di

legittimità dell’azione amministrativa come stabilite dell’art. 61 del D.lgs. 42/04

Quanto sopra premesso e precisato, si rileva come il provvedimento ministeriale in contestazione

sia stato adottato ben oltre i termini che il D.lgs. 42/04 assegna all’Amministrazione per l’esercizio

della prelazione. Infatti, a norma dell’art. 61 del Codice dei beni culturali, l’Amministrazione può

esercitare la prelazione entro sessanta giorni dalla ricezione della denuncia di trasferimento di cui

all’art. 59 D.lgs. 42/04. Posto che, come anticipato in punto di fatto e regolarmente documentato

(cfr. doc. 5, cit.), tale denuncia è regolarmente pervenuta alla soprintendenza il 2 maggio 2016, i

termini risultano ampiamente scaduti. Si rileva, peraltro, che a nulla vale l’invocazione, da parte del

Ministero, dell’applicazione del termine più lungo di centottanta giorni che la l’art. 61 comma 2 del

decreto in parola assegna all’Amministrazione nel caso in cui la denuncia sia omessa. Invero, è

evidente come il Legislatore non abbia imposto uno schema particolare per la formazione e per la

trasmissione della denuncia in parola, premurandosi invece di stabilire, all’art. 59 comma 2 D.lgs.

42/04, quali informazioni essenziali la stessa debba contenere per la sua validità. Ciò in quanto, con

tutta evidenza, scopo della denuncia è fornire all’Amministrazione tutte le informazioni necessarie

per valutare l’opportunità o meno di esercitare il potere di prelazione. Nel caso che qui ci occupa,

l’alienante Sig. Tizio ha provveduto a fornire tempestivamente non solo tutti i dati minimi richiesti

dalla legge, ma addirittura ha trasmesso la copia autentica dell’atto di compravendita stipulato con il

ricorrente Caio, così da mettere a conoscenza l’Amministrazione di tutte le circostanze e condizioni,

ivi comprese quelle non strettamente necessarie, di trasferimento del bene. Proprio al fine di

integrare le informazioni, Tizio ha provveduto a precisare a chiare lettere il domicilio delle parti in

Italia, così da consentire all’Amministrazione la trasmissione di ogni e qualsiasi comunicazione in

relazione al subprocedimento che ordinariamente si avvia fronte della trasmissione della citata

denuncia. Non sussistono dunque in alcun modo i presupposti per applicare il termine c.d. lungo di

180 giorni come invocato dal Ministero per fondare la validità del proprio provvedimento.

Del resto, pur avendo regolarmente appreso della sussistenza dell’atto di compravendita e di tutti

dettagli imposti dalla legge, l’Amministrazione ben avrebbe potuto richiedere, in via istruttoria, la

trasmissione di dati integrativi, fino anche a sollecitare l’invio di una nuova denuncia con diversi

requisiti formali, con ciò verosimilmente potendosi ammettere un effetto sospensivo che parte della

giurisprudenza ammette per l’esercizio di potestà pubblicistiche fissato in termini perentori. Nulla

di tutto ciò è invece avvenuto, nonostante il Ministero non abbia manifestato alcuna difficoltà

particolare nel reperire il ricorrente, né tantomeno il Sig. Caio, i quali hanno infatti ricevuto

regolarmente la notifica del provvedimento in contestazione.

In aggiunta a quanto sopra si rileva come, anche ammettendo, senza concederlo, che fosse

applicabile il termine di cui al comma 2 dell’art. 61, D.lgs. 42/04, la prelazione sarebbe comunque

tardiva essendo il termine spirato al 29 ottobre 2016, mentre il provvedimento impugnato è stato

notificato sia al ricorrente, sia al Sig. Tizio, in data 4 novembre 2016. A nulla rileva nemmeno la

circostanza che il provvedimento in esame sia stato consegnato per la notifica in data 26 ottobre

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2016. Alla luce di quanto esposto al punto I, nonché tenendo conto del dato letterale della legge

speciale applicabile, è evidente che i provvedimento di prelazione, spiegando effetti ablatori e

traslativi della proprietà, costituisce atto amministrativo recettizio, il quale spiega i suoi effetti non

al momento della sua emanazione, ma da quanto l’atto viene notificato ad entrambe le parti. Solo a

partire da tale momento, infatti, la proprietà passa allo Stato (art. 61, comma 3 D.lgs. 42/04),

costituendo in capo allo stesso il corrispondente diritto reale. È evidente, dunque, come non possa

in alcun modo attribuirsi un effetto “prenotativo” né alla data del decreto con cui si stabilisce la

prelazione, né tantomeno alla data di consegna dello stesso all’ufficio notificatorio, essendo i

termini stabiliti dalla legge quelli entro i quali la prelazione deve pervenire necessariamente agli

interessati.

3. Illegittimità del provvedimento sotto il profilo della violazione di legge per mancata

trasmissione della comunicazione di avvio ex art. 7, l. 241/90 Ancora, si rileva come il decreto impugnato sia manifestamente illegittimo anche in quanto adottato

all’esito di un procedimento al quale le parti interessate sono rimaste del tutto estranee. Nonostante

la disciplina di cui agli artt. 60 ss. D.lgs. 42/04 delinei, all’esito della ricezione della denuncia,

l’avvio di un vero e proprio subprocedimento che vede coinvolte le Amministrazioni interessate

all’acquisizione del bene al patrimonio pubblico, Tizio e Caio non hanno ricevuto alcuna

comunicazione in ordine al relativo avvio, circostanza che, peraltro, ha portato Caio a confidare del

tutto in buona fede nel buon fine della compravendita stipulata. Invero, dal tenore letterale

normativo, è evidente che la prelazione non costituisce in alcun modo un provvedimento vincolato,

godendo l’Amministrazione di ampia discrezionalità in ordine alla scelta se acquisire o meno il

bene, valutandone le caratteristiche e considerando la sussistenza di uno speciale interesse

(pubblicistico) alla tutela e valorizzazione culturale dello stesso. Tuttavia, nel caso che qui ci

occupa, Tizio e Caio sono rimasti del tutto estranei alle valutazioni dell’Amministrazione (ammesso

e non concesso che vi siano state alla luce di quanto si preciserà meglio al punto successivo), con

ciò essendo impossibilitati anche ad esercitare i diritti partecipativi che avrebbero potuto portare

l’Amministrazione ad escludere l’esercizio della prelazione nel caso dell’immobile di cui si tratta.

4. Illegittimità del provvedimento sotto il profilo del difetto di motivazione per violazione

dell’art. 3 l. 241/90 e dell’art. 62 comma 2 D.lgs. 42/06, eccesso di potere per carenza di

istruttoria

Come accennato sopra, non è dato ad oggi conoscere se l’Amministrazione abbia effettivamente

valutato in modo adeguato e coerente tutti gli elementi necessari ed utili al fine di esercitare la

prelazione, a fronte dell’esclusione del ricorrente e del Sig. Tizio dalla partecipazione al

procedimento. Infatti, il provvedimento impugnato reca, quale unica motivazione, il generico

riferimento all'interesse storico artistico dell'immobile stesso. Tale indicazione, tuttavia, non è in

alcun modo idonea a dare atto specificamente dei presupposti di fatto delle ragioni giuridiche che

hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria,

come invece espressamente imposto dall’art. 3 della l. 241/90, il quale costituisce principio e regola

generale dell’azione amministrativa in quanto funzionale sia alla garanzia della sua trasparenza, sia

alla tutela del diritto di azione e difesa (ex plurimis, cfr. Cons. Stato, V, 4959/16). Come è evidente,

tale obbligo di motivazione risulta tanto più stringente e rigoroso quanto più ampi sono i margini di

discrezionalità dell’Amministrazione, in quanto solo in tal modo è possibile ricostruire e verificare

ex post il buon operato del soggetto pubblico. Il procedimento finalizzato all’esercizio della

prelazione prevede che la regione e gli altri enti pubblici territoriali formulino al Ministero una

proposta di prelazione, indicando “le specifiche finalità di valorizzazione culturale del bene” (art.

62, comma 2 D.lgs. 42/04). Ciò significa che, al di là dell’interesse artistico e/o culturale dichiarato

all’atto di apposizione del vincolo sul bene, ai fini dell’esercizio della prelazione occorre, da parte

dell’Amministrazione, una valutazione ulteriore dalla quale risulti la sussistenza di uno speciale

interesse pubblico superiore idoneo a prevalere sul diritto di proprietà del privato, incidendo

negativamente sui corrispondenti atti di disposizione: “l’atto di esercizio della prelazione in ordine

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alle alienazioni di beni di interesse storico-artistico necessita di congrua motivazione che dia conto

degli interessi pubblici attuali all'acquisizione del bene” (Cons. Stato, VI, 2913/15).

Istanza cautelare

In ordine al fumus, si rinvia a quanto già ampiamente illustrato supra.

Quanto al periculum, è evidente che, nelle more della decisione del presente ricorso, le conseguenze

del provvedimento impugnato rischiano di pregiudicare irrimediabilmente il diritto di proprietà del

ricorrente, il quale ad oggi si trova nelle condizioni di non poter esercitare pienamente un diritto

costituzionalmente garantito che pur legittimamente gli spetta. Laddove il provvedimento

impugnato non venisse sospeso, sussiste il rischio oggettivo, grave ed imminente che

l’Amministrazione provveda all’acquisizione materiale del bene ed all’avvio di attività e di

interventi che difficilmente sarebbero poi rimediabili da parte del Sig. Caio. Diversamente, la

sospensione non pregiudica in alcun modo l’interesse pubblico, posto che l’immobile da sempre

appartiene a privati e da sempre è stato custodito in modo da preservarne il valore artistico, come

del resto imposto dalla stessa sussistenza del vincolo.

Alla luce di quanto sopra esposto, si chiede che l’Ill.mo Tribunale Amministrativo Regionale adito

Voglia accogliere le seguenti

conclusioni

- in via cautelare:

sospendere il provvedimento prot. n… del …. 26 ottobre 2016 e ricevuto il 4 novembre 2016 per la

sussistenza del fumus e del periculum come precisati nell’istanza cautelare;

- nel merito:

annullare il provvedimento impugnato in quanto manifestamente illegittimo ed ingiusto.

In ogni caso, con vittoria di spese e compensi di causa, nonché rimborso del contributo unificato

come per legge.

Dichiarazione di valore del procedimento

Il sottoscritto procuratore dichiara che l’importo del contributo unificato è dovuto nella misura fissa

pari ad Euro 650,00 regolarmente versato.

Si producono:

1) copia provvedimento prot. n. … del …, ricevuto il 4 dicembre 2016

2) copia atto di compravendita;

3) copia estratto catastale;

4) copia nota integrativa;

5) copia ricevuta di ritorno.

Con osservanza.

… , li …

Avv. …

Procura speciale

Io sottoscritto Caio, nato a … il …, residente in .. via … n … , C.F. …, delego l’Avv. …. del Foro

di … a rappresentarmi ed a difendermi in ogni fase e grado del presente giudizio, eleggendo

domicilio presso il suo studio in … via … n … e conferendogli ogni e più ampio potere, ivi

compreso quello di proporre istanze cautelari e domande risarcitorie, di formulare motivi aggiunti,

di nominare sostituti, di conciliare e transigere, di rinunciare all’azione ed al diritto di cui si

controverte.

Ai sensi del D.lgs. 196/03 e ss. mm. e ii. dichiaro di avere ricevuto l’informativa riguardante il

trattamento al quale possono essere destinati i miei dati personali e ne fornisco autorizzazione.

Firma Caio

È autentica

Avv. …


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