Date post: | 25-Mar-2016 |
Category: |
Documents |
Upload: | rexhina-saraci |
View: | 233 times |
Download: | 5 times |
2
f 451
15 marzo – il treno austriaco
Attraversiamo pianure, cumuli di neve, argini e fiumi densi e sopiti,
masse fluide agglomerate nel buio. Tutto fuori appare netto, pulito e
definito; le luci saltuarie sono oniriche, generose e incantate. Le super-
fici riposano, morbide, e il treno traballa più e più volte. Si ferma, ser-
peggia, tartaglia… le scosse si confondono con i canti, le luci, i battiti
di mani. La chitarra si impenna, la fisarmonica langue, la tromba fre-
me… blues… folk… i ragazzi dei Flexus afferrano il microfono nel va-
gone spoglio: “Rock ‘n roooooll”.
“Avevamo vent'anni oltre il ponte
oltre il ponte ch'è in mano nemica,
vedevamo l'altra riva, la vita,
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore,
a vent'anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l'amore.”
Cinquanta e più voci- maldestre, scatenate, timide o grintose- si alza-
no sulle note dello splendido brano scritto da Italo Calvino. Saltiamo a
ritmo, ci abbracciamo. Le nostre chiacchiere si confondono con le ru-
ghe delle Mondine scatenate, donne libere e fiere della vita trascorsa
nelle risaie. Sono belle, luminose, ispirano sentimenti di profonda am-
mirazione e smodata simpatia. “Che cos’è l’amor?” incalza il cantante
dei Flexus, in una versione riadattata del brano di Vinicio Capossela
“…E’ un sasso nella scarpa” “Altro che sasso, giovane, l’è un giaròn!”
esclamano le signore dai visi aperti, saggi di una saggezza popolare.
Verso l’una e mezza ci fermiamo a Salisburgo. La mia compagna di
stanza e io rimaniamo a chiacchierare dopo il concerto, e la mondina
ci rivela: “Ragazze, no, dicevo per dire: ne ho avuti di amori… è giu-
sto… adesso sono in stand-by”, e ride.
A notte inoltrata ci stendiamo nelle brandine strette e striminzite, spa-
lanchiamo il finestrino della cuccetta, stendiamo una mano verso i
campi ignoti ricoperti di neve. Si avverte un suono: non riusciamo a
distinguere se è il fischio del treno o l’urlo di un ragazzo che si è sporto
dai vetri, dopo la prima lattina di birra.
16 marzo – l’arrivo
Durante la notte non si dorme mai tutti. Ci si rigira, ci si aggira per i corridoi, si scambiano battute tra i bagagli ammucchiati alla meglio. La mattina ci svegliamo piano, mentre inizia a cadere qualche fiocco di neve e il treno è fermo in un’anonima stazioncina della Repubblica Ce-ca. Il paesaggio cambia: distese e distese sottili di steppe, serre, recinti, ampi prati, stradine strette, vecchie case di campagna gialle, ocra e co-lor pesca, dai larghi tetti arzigogolati e spioventi. Incontriamo persino vecchie macchine abbandonate, e un pub affacciato alla ferrovia, con un’ampia insegna. Fanno effetto anche i cartelli di stop, rossi e mime-
E così da bestie nacquero nuovamente uomini>> Maria Francesca Di Feo IIC
f 451
3
Maggio 2013
tizzati tra i passaggi ferroviari, piccoli fram-menti di universale, contornati da scritte in ceco. Ripartiamo, è la volta di un lago ghiac-ciato, e alle otto e venti un sms della nostra compagnia telefonica ci avvisa: siamo in Po-lonia. Sostiamo nel piccolo spiazzo di Ze-brzydowice, in cui troneggia un edificio gri-gio, pare quasi uno di quegli antichi istituti da film dove bacchettavano i bambini… è facile immaginarli correre e giocare al vento. Il sole sferza gli occhi attraverso la tendina carica di polvere, socchiusa: parrebbe quasi che ci fosse caldo. Il treno fischia una, due, tre volte; vola il cappello di un passante soli-tario. Il suo piccolo sacchetto giallo continua a ondeggiare al nostro passaggio.
A Zabrzeg c’è un supermercato, e un muc-chio di insegne colorate, scomposte, che pro-fumano di est. Un rivolo d’acqua ghiacciata costeggia i binari; le case hanno larghe scali-nate, viene voglia di scivolarci sopra. Al no-stro passaggio ci sono disposti in fila furgoni con colori sgargianti, volti dipinti, stilizzati e calcati come i cosmetici delle pubblicità degli anni ’50. Sotto alcune grondaie color azzurro acceso spuntano stalattiti di ghiaccio che scintillano, vivaci.
Sorridendo penso per un istante che siamo lo scompartimento meglio assortito del treno, un gruppo variegato, emblematico: aggregati di corpi, conversazioni e silenzi che conver-gono con spontanea cortesia.
17 marzo - Birkenau
La vita, la morte, le risa. Tutto si ingigantisce, tutto diventa follia.
“Tell me, do you think mankind’s insane? Insane, incomprehensible, aren’t they the same?”
Iniziamo la visita al campo seguiti da Paolo Nori e scortati da Margherita, la nostra gui-da polacca. E’ una donna minuta, mora, di mezz’età; presto si dimostra mite e affettuosa tanto quanto appassionata al suo lavoro. Par-la un italiano più che discreto ma composto da frasi semplici, nude e crude. “Meglio così”, credo di non essere l’unica a pensare, “meglio ridursi all’essenziale, meglio che ci siano li-miti espressivi a quello che di per sé sarebbe inesprimibile”. “Mamma mia, non ci sono parole” è un ritornello che così ci accompa-gna lungo tutto il percorso; mentre spiega, i suoi lineamenti slavi sono corrucciati e gli occhi sbarrati. Ogni racconto sembra poi finire con la frase: “Iniezione di fenolo al
cuore”, pronunciata con lo stesso inconfondibile timbro discendente e un accento che in altri con-testi suonerebbe comico.
Raggiungiamo un boschetto di betulle, nell’ala destra del campo sterminato. Si tratta di un luogo del tutto partico-lare, una sorta di locus amoenus che non mi sarei aspetta-ta: nondimeno, ha ospitato gran parte delle fucilazioni, e tanti cadaveri vi sono stati ammassati prima di essere inviati ai forni.
Margherita, camminando tra i tronchi, ricalca il fatto che neanche i bambini erano oggetto della benché minima compassione. Bambine e ragazze erano costrette a menti-re sull’età, perché se troppo piccole sarebbero state consi-derate inabili al lavoro, un semplice peso, e perciò inviate subito nelle camere a gas. Veniamo anche a sapere che una prigioniera partorì durante un appello –la cui durata poteva variare dal sadismo della SS di turno – e che le compagne, per evitare che fosse scoperta, strangolarono il minuscolo neonato e lo seppellirono nella melma che ri-copriva il piazzale.
18 marzo - dopo pranzo, ad Auschwitz I
Un’insegna luminosa, con quadratini rossi in rapida ripeti-zione, recita “Meble kuchenne”: si tratta di mobili per la cucina. Alcune bambine bionde tornano da scuola con gli zainetti sulle spalle, mentre noi saliamo sul pullman per tornare al campo. Stamattina abbiamo visitato il vero e proprio museo, con mostre e teche, mucchi di protesi e capelli: non è semplice descrivere come simili quantità si scontrino con un senso terribile di vuoto. Per le strade del piccolo centro adocchio colori esotici, malinconici, spenti. “Oswiecim”- per chi non lo sapesse- è il nome polacco, per così dire “originale”, del centro vicino al quale fu fondato il campo di Auschwitz. E’ incredibile quanti negozi di abiti da sposa ci siano, a Oswiecim.
18 marzo - Auschwitz- Birkenau
Un’altra dimensione. Penetra, è penetrata, adesso è un carico per alcuni attimi lievi, appena pungente, per altri opprimen-te, gravoso, violento. Osservo i volti degli altri turisti come loro occhieggiano il mio, come se fossimo tutti curiosi, in attesa della prima lacrima o di un gesto inconsulto e dispera-to. Anche se ognuno porta in sé un segno e questo segno si manifesterà con sorpresa, anche se dai miei occhi o da quelli di un altro traspare l’orrore, una cosa è certa: non durerà a lungo, non sarà senza interruzione. Non saremo mai costan-ti, non fino in fondo: è la riprova che la tragedia non attec-chisce, la tragedia scivola sull’uomo. E’ una pacifica necessi-tà, forse il vero motivo della complessità della natura umana. Se la nostra simpatia, intesa nell’autenticità del termine gre-co di “soffrire insieme”, potesse essere totale, continua, pe-renne, non esisterebbe vita dopo Auschwitz. Chi ha vissuto l’orrore e poi, sopraffatto dai ricordi e dai sensi di colpa, ha
And men from animals were born men again
E così da bestie nacquero nuovamente uomini
4
f 451
ceduto alla disperazione, spesso ha aspettato anni per farlo. Come si so-pravvive al dolore è una questione che mi ha sempre tormentata. Come riusci-re a sopportare la morte di una persona amata, come gioire ancora, una volta trascorso il periodo più o meno lungo di elaborazione del lutto? Succede, è ciò che la vita stessa ci impone di fare. Tut-tavia c’è chi non ce l’ha fatta, chi si è ucciso, chi certamente avrebbe preferi-to morire… sommersa tra il fango del campo, la vita sembra quasi un torto all’amore. Attraversando le baracche mi viene da pensare che, nonostante i lega-mi che naturalmente stringiamo, non siamo e non saremo mai indispensabili a nessuno. E così proprio qui, sopra i resti nudi di queste latrine, l’individua-lità mi pesa in modo insopportabile. Sono stati torturati e uccisi loro, perché non veniamo torturati e uccisi tutti? Perché la solitudine del singolo? “D’amore non si muore”, è la convinzio-ne attorno a cui ruotano le vicende del-la protagonista di uno dei miei film preferiti, “Hiroshima Mon Amour”, un capolavoro del cinema ambientato nel Giappone in ricostruzione circa un ven-tennio dopo la fine della guerra. Eppu-re, continuo a scoprirmi non del tutto d’accordo; eppure, ha ancora senso per-petuare la memoria, perché in ognuno di noi c’è una zona recondita, un qual-cosa che, pur dentro la diversità e il nostro vivere quotidiano, può essere inciso, smosso, e può renderci persone migliori e più consapevoli. Forse d’a-more non si muore, e forse in qualche modo è giusto che sia così, anche se dinnanzi a tali atrocità ce ne sfugge il motivo. “Che giustizia c’è?”- ci doman-diamo allora- “La giustizia è che d’amo-re si può vivere”, potrebbe essere la ri-sposta.
Ho moti viscerali di insofferenza e sel-vaggia irritazione: sul nostro pullman nessuno- a parte i pochi con cui sto parlando e che sento vicini- pare smet-tere di blaterare prima e dopo la com-memorazione, e blaterare del nulla. Cose futili, sputate con compiaciuta disinvoltura. Nel momento di massima desolazione c’è la massima misantro-pia, e la massima vergogna.
Credo che si possa sfiorare il dolore, toccarlo, impugnarlo, compiangerlo, confonderlo tra tempi e giornate come facciamo noi, fronteggiarlo con la men-te per un pugno di minuti e piegare le g i n o c c h i a … m a n o n s i p u ò “impersonare” il dolore. Non si potrà
mai completamente incorporarlo in noi. Impersonare la misera. Scavare nella pochezza di ognuno, nella nostra inguaribile e neces-saria allegria, nella nostra vitale deficienza. L’allegria è necessaria, sì, e penso che sia questo il motivo per cui alcuni ridono come ride-ranno stanotte in albergo, dopo un pugno di patatine e qualche capatina su Facebook; Etty Hillesum, d’altronde, rideva davanti agli interrogatori delle SS semplicemente perché si trattava di esse-ri umani, e, dall’alto delle sue competenze di filosofia e psicologia junghiana, si chiedeva candidamente se la loro crudeltà gratuita ai limiti del grottesco fosse riconducibile al fatto che “erano forse stati traditi dalla loro ragazza”. Appare dunque evidente la necessità di semplificare l’orrore: semplificazione è, in fondo, conoscenza. Cre-diamo di conoscere quando ci è possibile schematizzare, ridurre sensazioni e immagini all’osso, come se si trattasse di matematica o, volendo, del riassunto di una fiaba. E’ così per la Shoah ed è così per le nostre vite, di cui spesso rischiamo di perdere le sfumature. Birkenau si mostra come un vasto parco rigido e spoglio, un grap-polo geometrico di case, un boschetto di betulle. Birkenau lascia l’incubo dell’incompletezza.
“Mom, what does it mean an apple
Mom, what does it mean a chicken
Mom, what does it mean a human being…”
19 marzo – Krakow
Cracovia (“Krakow”, con accento cupo tendente alla “u” alla fine) è
una città dove, dalla torre della cattedrale, un pompiere-
trombettista suona ogni ora, da secoli, la melodia interrotta di
un’antica leggenda. Cracovia è la città dove centinaia di tombe di
ebrei, all’epoca oltre 70 mila nel quartiere fondato da Casimiro il
Grande, vennero salvate dalla furia nazista grazie a cumuli di im-
mondizia che le ricoprivano. Cracovia è il capoluogo della
“małopolskie”, la “piccola Polonia”, che comprende la parte meri-
dionale del paese. E’ un centro sotto certi aspetti noioso, e, volen-
do estremizzare, quasi provinciale e campanilista: non tutti si di-
mostrano sempre accoglienti, non tutti parlano inglese, ma tutti
appaiono profondamente patriottici. In realtà, ho adorato Craco-
via. Ho adorato le sue pasticcerie sontuose, i suoi caffè con le co-
perte calde disposte sui tavolini all’aperto, il suo freddo fastidioso
e penetrante, le sue insegne orientaleggianti, gli umili –nonché
inutili- omini della pubblicità che sorreggono i cartelli con un
thermos di the caldo in mano. Nei mattoni rossi di stile gotico
impilati riga per riga sino al cielo si può trovare tutta la solidità
delle fondamenta e tutta la sensuale voluttà del superfluo.
Un ringraziamento particolare ai miei compagni di gruppo
- Nicole, Sofia, Federica, Pier Paolo, Pietro, Francesca, Mar-
tina e Giulia - in nome dei quali credo di parlare. Ci man-
cheranno le chiacchiere autoironiche, la confusione in cuc-
cetta, le notti in bianco, i tormentoni, le emozioni analizzate
insieme. Un ringraziamento anche agli amici di altre scuole
che abbiamo conosciuto in viaggio, e alla preside che ci ha
accompagnati.
5
Maggio 2013
Oggi è stata un’idea stupida ad implodere in me, come un fa-
scio di luce fortissimo, però diverso, era fatto di comprensione.
Stamattina, si, erano appena le undici, appena varcata la so-
glia del primo campo di sterminio che vedevamo in vita no-
stra, ci hanno lasciati per dieci minuti liberi, per osservare…
per prendere le nostre misure penso.
Ma liberi in realtà mi sembra inesatta o forzata come defini-
zione.
Noi eravamo stati messi li e qualcosa ci legava fermamente al
punto di terra precedente quello in cui avremmo capito davve-
ro in che posto mai ci trovavamo.
Quindi in definitiva se devo dire la mia, non eravamo liberi,
no. Eravamo lì e aspettavamo una reazione: la nostra persona-
le e necessariamente traumatica reazione! E man mano che
questa non arrivava ci guardavamo, ok la smetto di generaliz-
zare, mi guardavo intorno in attesa.
Cercavo negli occhi degli altri, quasi spaventata dal vedere se
loro avessero trovato la chiave di volta prima di me.
Cercavo la guida, volevo che mi dicesse qualche cosa, una
qualsiasi sul serio: cosa cercare, dove cercare, quali sensazioni
far riaffiorare…ma niente.
Così ho preso a giocherellare coi sassolini a terra, vicini e per
metà immersi in una piccola pozzanghera, li sentivo cigolare lì
sotto alla mia suola.
La mia suola di gomma tra me e quel terreno sporco, sporco
ben più in profondità di quanto ci lasciasse vedere. E l’idea
poco brillante di cui parlavo all’inizio è qua che mi sorprende;
mi dico: quattro centimetri di gomma stanno tra me e la veri-
tà. Quattro centimetri sono forse la
libertà.
Non ho mai, e penso in tanti non ab-
biano mai, riflettuto a fondo su che
cosa ci sia in una suola di gomma
termica od impermeabile; ma soprat-
tutto su che cosa permetta a me oggi
qui su questo metro quadrato dove
indubbiamente qualcuno è morto di
infezioni, è stato fucilato o trascinato
al crematorio, d’indossare comodi
scarponcini.
Non è forse questa nostra democra-
zia, rispetto ai millenni precedenti,
considerabile come un fragile, fresco,
imperfetto margine di quattro centi-
metri appena sulla monumentale ba-
bele di ere passate?
Siamo tutti in pericolo, siamo tutti
pericolosi.
Siamo nulla senza la nostra storia.
In corriera
Sono le cinque emmezza del 18 Marzo
2013, il nostro ultimo giorno nei cam-
pi, i nostri ultimi momenti a Birke-
nau per la precisione, e la cerimonia.
Durante la lettura dei vari brani scel-
ti la mia mente si perde, non la riesco
a controllare.
Mi dice che c’è qualcosa di più, deve
esserci… ho le idee annebbiate, non
trovo la mia solita passionalità ma
neppure la razionalità che in questo
tipo di situazioni solitamente riesco
a fare mia.
Sono… qualcosa d’altro.
Auschwitz tutto è qualcosa d’altro.
Io sono già un’altra da quella che ero
e ancora nessuno lo sa, forse nessuno
lo saprà… ma è mai possibile una
cosa simile?
Una domanda ricorrente in questi
giorni quella riguardante la possibi-
lità reale che qualcosa sia così e non
sia diverso da quello che è, da quello
che è stato.
A volte però cercare di trovare un’al-
tra spiegazione temo sia segno di co-
>> Nicole Gasparini Casari 4° E
Birkenau, 17 Marzo 2013
6
f 451
dardia… provare ad
addolcirsi la maledetta
pillola risulta inutile
quasi quanto la doman-
da stessa.
Ed allora cosa ci resta?
Domanderanno i più
che un po’ come me pri-
ma di questo viaggio
non volevano cedere,
smettere di cercare
un’altra risposta.
Forse violentare la no-
stra mente con i raccon-
ti dei campi? Ascoltare
testimonianze, guarda-
re fotografie, immagi-
narci nei panni dei de-
tenuti e dei detentori,
insomma dobbiamo
usare davvero questo
tipo di violenza su noi
stessi per capire?
Bene, qualora noi vo-
gliamo realmente farlo,
la risposta non può es-
sere che sì…e no allo
stesso tempo. La nega-
zione e l’affermazione
in questo caso si fondo-
no perché questa non è
una violenza e per
quanto faccia male la
lenta ma irrefrenabile
presa di coscienza che
ciò porta, dobbiamo ac-
coglierla come una per-
la rara o un amico sin-
cero che non vediamo
da tempo, che in qual-
siasi momento arrivi va
fatto entrare spalancan-
do le braccia e va fatto
accomodare e poi…va
ascoltato.
E se siamo acuti a suffi-
cienza sapremo far teso-
ro dei suoi consigli e
portare le sue esperien-
ze ed errori con noi,
così da non trovarci ad
affrontare i suoi stessi
problemi.
Poi la tromba che aveva
aperto il memoriale ri-
comincia per chiudere
il nostro saluto sempli-
ce ed è lei a colpirmi.
Non è il suono della tromba
bensì l’emozione, che si sen-
tirebbe offesa sapendosi de-
finita tale; non è mera emo-
zione, è uno stato mentale
che ho appena raggiunto e
non so come evolverà e di
questo ho quasi paura. Non
so quali manifestazioni di sé
darà né quanto durerà, ma
ora mi sento forte e quindi
voglio fermarla a questo
preciso istante, cristallizzar-
la così che nessuno possa
più prendermela.
È mia. È cresciuta con me,
in me, tra il cuore e la pan-
cia, si è adattata ai miei spa-
zi ed io mi sono lasciata in-
crinare da lei. Ed ora che è
nata e si fortifica in me men-
tre in lei cresco anche io, so
che dovessi anche condurre
la vita più vuota immagina-
bile, non sarei uno zero.
Non sentirò questo timore,
mai più. Io sarò migliore e
farò in modo che anche gli
altri lo siano.
Voglio condividere questo sentimento
che mi ha travolta come un’onda calda,
che mi ha trovata impreparata, lascian-
domi poi così determinata. E se mai riu-
scirò a vedere negli occhi di qualcuno
comprensione e condivisione per questo,
allora potrò dirmi felice e tanto.
Queste mie divagazioni tipiche mi porta-
no lontano; più in alto, ma pur sempre
lontano ed ora è tempo di tornare giù, mi
sento in dovere di farlo.
Come quei fiocchi di neve che ci battono
il viso negli ultimi minuti di camminata
verso l’uscita – uscita che in migliaia
non hanno mai fatto, continuava a ripe-
termi qualcosa dentro – devo trovare il
mio posticino a terra tra miliardi di altri
fiocchi.
Dura però la vita di un fiocco di neve, ho
pensato ad un certo punto del mio deli-
rio, è il vento a decidere dove andrà a
finire, il sole a decidere se porre fine alla
sua esistenza, la notte a decidere se ren-
derlo più forte, ghiacciandolo.
E lì ho capito di voler essere il mio vento,
il mio sole e la mia notte; perché è fonda-
mentale che io faccia la scelta giusta
quanto lo è non lasciarla fare al caso o ad
altri al posto mio.
7
Maggio 2013
Alice Manzini 4°F Con il 9 maggio, giornata della memoria dedicata alle vittime
del terrorismo, alle porte, il nostro liceo ha (ben) pensato di
dedicare la sua assemblea d’Istituto proprio allo stragismo, e
così il giorno 21 marzo si è tenuta l’assemblea, dal titolo Lo
stragismo italiano degli anni ’70. Durante le cinque ore di as-
semblea, sono stati ripercorsi, grazie all’intervento dei relatori,
gli avvenimenti più importanti dei cosiddetti “anni di piombo”,
quel periodo di terrore e terrorismo sviluppatosi nel nostro
Paese prevalentemente durante gli anni ’70 del Novecento. La
prima parte dell’assemblea, curata dalla professoressa Ricci e
dallo storico Giovanni Taurasi, è stata dedicata ad un’analisi
meramente storica ed eventografica dei fatti, ed è seguita la
proiezione di un v+ideo tratto da “La storia siamo noi” in cui si
mostravano in ordine cronologico le stragi più efferate del pe-
riodo. Alla visione del documento è poi seguito il dibattito.
Nella seconda parte dell’assemblea, invece, il Procuratore Capo
di Modena Vito Zincani ha fatto una riflessione su quelle che
potevano essere le cause e gli effetti di queste stragi che hanno
avuto pesanti ripercussioni sulla vita del nostro Paese. Nel suo
intervento, il Procuratore Zincani non solo ha ricordato quelle
che sono state le stragi più tragiche, come gli attentati di Piaz-
za della Loggia a Brescia o della Stazione di Bologna, ma ha
anche dato conto a grandi linee delle caratteristiche salienti del
terrorismo cosiddetto “rosso” o “nero”, e le differenze che esi-
stono fra i due.
Durante tutta l’assemblea, il leitmotiv è stato la citazione di un
famoso articolo di Pier Paolo Pasolini, apparso su Il Corriere
della Sera il 14 novembre 1974, che diceva: “Io so i nomi dei
responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in
realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione
del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano
del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi
di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi
del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti
ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle pri-
me stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi
più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti,
anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomuni-
sta (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e
Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con
l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della
mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo)
una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito,
sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostitui-
ti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del
"referendum". Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'al-
tra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politi-
ca a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizza-
zione di un potenziale colpo di Stato), a gio-
vani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per crea-
re in concreto la tensione anticomunista) e
infine criminali comuni, fino a questo mo-
mento, e forse per sempre, senza nome (per
creare la successiva tensione antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti
che stanno dietro a dei personaggi comici
come quel generale della Forestale che ope-
rava, alquanto operettisticamente, a Città
Ducale (mentre i boschi italiani bruciava-
no), o a dei personaggio grigi e puramente
organizzativi come il generale Miceli. Io so i
nomi delle persone serie e importanti che
stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno
scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfat-
tori comuni, siciliani o no, che si sono messi
a disposizione, come killer e sicari. Io so
tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati
alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi
colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho
nemmeno indizi.”
Durante i loro interventi i relatori, ripren-
dendo anche l’articolo di Pasolini, hanno
ripetutamente esortato gli studenti a ricor-
dare. Ricordare questo periodo buio della
storia del nostro Paese. Ricordare quelle
vittime che non hanno avuto giustizia; ri-
cordare per fare in modo che barbarie del
genere non accadano più. Ricordare, infine,
perché stanno cercando di farci dimentica-
re. La rimozione della memoria per quanto
riguarda questi avvenimenti è innegabile. E
grave. Il ritornello più usato, quando si par-
la di questo argomento è: “Delle stragi non
si sa niente”. Falso. Delle stragi si sa molto,
ma un molto scomodo che, per ragioni che
non ci è dato sapere, è meglio nascondere e
sperare che si dimentichi il prima possibile.
Credo che tutti noi conosciamo l’importan-
za della memoria come migliore arma di
prevenzione, allora perché non ricordare
tutto questo? Perché lasciare che cada tutto
nell’oblio? Ricordiamo, allora, ed evitiamo
che atrocità del genere accadano una secon-
da volta.
8
f 451
Pronunciare la parola "proprietà" fa subito venire in mente recinzioni, cancelli, siepi e passi carrabili, cioè barriere che, se valicate, offrono il brivido di vedersi materializzare davanti una lingua penzolante di un bulldog, lo strenuo difensore dello spazio sacro appe-na violato. Se però aggiungiamo l'aggettivo "intellettuale", i bulldog non sono più sufficienti a garantire una difesa contro i saltatori di ostacoli con il vizio del furto, perché parliamo di una proprietà non più fisica, ma immateriale. Sono però molto ma-teriali i denari sborsati alla Siae da chiunque di noi abbia mai organizzato un evento musicale: addirittu-ra il Ballo del Qua Qua è protetto dai diritti d'autore!Ma anche la sentenza del tribunale di appello londi-nese che ha decretato l'innocenza della Samsung, accusata dalla Apple di avere violato il diritto di bre-vetto sull'Ipad nel realizzare il suo tablet Galaxy Tab, è molto materiale, visto che la concorrenza della casa coreana sta incrinando il monopolio di fatto sui ta-blet della Mela di Steve Jobs.
La proprietà intellettuale è quindi uno spazio invali-cabile in cui, al posto di immobili o terreni, ci sono idee. E c'è anche chi con le idee ci mangia, c'è chi con le idee riesce a dare lavoro a migliaia di persone, c'è chi con le idee crea divertimento e istruzione, c'è chi con le idee cambia la vita delle persone. Tutte cose molte materiali, che nascono da qualcosa di immate-riale come la creatività, il tema proposto dalla Orga-nizzazione Mondiale per la "Proprietà Intellettua-le" (WIPO) per la prossima Giornata Mondiale della Proprietà Intellettuale, che si terrà il prossimo 26 aprile. In questa occorrenza annuale la WIPO ci ri-corda che "dietro ogni grande innovazione , sia arti-stica che tecnologica, c’è un percorso frutto della cu-riosità, dell’intuito e della determinazione degli indi-vidui" e quindi non riconoscere il valore delle idee di questi individui, anche attraverso una tutela di tipo economico e giuridico, significa disincentivare l'inno-vazione e il "progresso". In realtà non vi saprei dire cosa voglia dire questa ultima parola, visto che sono 3000 anni e forse più che ce lo stiamo chiedendo, ma evidentemente la WIPO lo sa e, proprio in nome del progresso, di fatto rappresenta gli interessi dei deten-tori dei copyright, dei brevetti e dei marchi commer-ciali, pur dipendendo formalmente dalle Nazioni Unite. E voi direte: "Bé, ci sembra il minimo che ven-gano riconosciuti i diritti d'autore in un mondo pieno di marchi contraffatti dai cinesi, album e film scari-cati gratis peer to peer e software che, 24 ore dopo
essere stati messi a punto, hanno già fatto il giro del mon-do senza che il programmatore, dopo una vita da nerd, si sia messo in tasca un soldo!" Peccato che molto spesso quel povero nerd non si metta comunque in tasca nemme-no un soldo, a meno che non sia uno Steve Jobs o un Mark Zuckerberg. Molto spesso l'applicazione del diritto alla proprietà intellettuale nelle leggi dei vari stati o nei regola-menti dell'Ue permette alle grandi aziende e società di vedere sempre difese dai loro avvocati-bulldog la proprietà intellettuale su brevetti o copyright ormai ammuffiti e spremuti fino all'ultima goccia, mentre i singoli individui creativi, portatori di nuove e fresche idee, sono facile preda del primo "copione professionale" con il portafoglio. E così questo tanto celebrato "diritto al riconoscimento del talen-to e della libera creatività" diventa solo l'ennesimo coltello di schiavitù nelle mani dei poteri forti. Per esempio, le na-zioni ricche impongono alcune leggi alle nazioni povere, per spremere loro denaro, sotto la bandiera della "difesa della proprietà intellettuale", che forse sarebbe meglio pa-rafrasare "colonizzazione legislativa".
Dicendo questo non vi voglio né spingere alla pirateria o all'acquisto di materiale contraffatto (anche se non sono certo i vucumprà che mandano in fallimento Armani o Gucci), visto che non dobbiamo meravigliarci se la Siae ci salassa o se i biglietti per i concerti dei nostri cantanti pre-feriti sono carissimi, quando siamo noi i primi a scaricare da Emule: se esiste una giustizia a questo mondo, da qual-che parte dovranno pur prenderli i soldi che rubiamo loro all'uscita di ogni album. Nonostante questo, però, bisogna sempre ricordare che non è tutto oro quello che luccica: quello che, in teoria, dovrebbe essere la salvaguardia della creatività e del riconoscimento del talento, è spesso solo un ostacolo alla libera circolazione di idee e un carico di frustrazione ulteriore per chi ha veramente voglia di cam-biare il mondo, e vede ridotta la propria libertà a schiavitù intellettuale. Per concludere una piccola soluzione a que-sta nostra impotenza nei confronti di chi fa solo i propri interessi: cerchiamo di sostenere quelle piccole iniziative che mettono a disposizione di tutti le idee dei singoli, ben felici di spendere gratuitamente il proprio talento per la comunità. Un esempio è il gruppo bolognese Wu Ming, che scrive romanzi a più mani e mette sul suo blog il pro-dotto del proprio lavoro scaricabile for free e marchiato da un "copyleft", l'esatto opposto del copyright. Come loro gratuitamente e spontaneamente hanno messo a nostra disposizione il loro talento, anche noi utenti possiamo da-re loro spontaneamente non solo un riconoscimento eco-nomico, ma anche la stima umana molto spesso negata dalla riduzione a merce, a prodotto, a "proprietà" delle idee.
Filippo Cioli Puviani IIIA
QUANDO LE IDEE D IVENTANO PROPRIETß
9
Maggio 2013
Anche quest’anno il 22 Aprile si terrà la Giornata della
Terra, il cosiddetto “Earth Day”, dedicato alla salva-
guardia del pianeta. Nato nel 1970, si pone l’obiettivo di
organizzare e supportare in numerosi paesi del mondo
iniziative di vario genere per la sensibilizzazione nei
confronti delle più cruciali problematiche legate all’am-
biente, grazie all’intervento dell’Earth Day Network,
nato lo stesso anno, che comprende poco meno di
20.000 organizzazioni in quasi 200 paesi, comprese
numerose ONG, e che riesce ogni anno a mobilitare per
la ricorrenza circa un miliardo di persone a livello glo-
bale.
Ma facciamo un passo indietro. L’evento chiave che
portò all’Earth Day è da molti identificato con l’inci-
dente della Union Oil nel 1969 al largo di Santa Barba-
ra, California, che provocò la fuoriuscita di 16.000 m3
di petrolio, riversati in mare in un lasso di tempo di
circa 10 giorni. E’ in questi anni che inizia a nascere
una vera e propria sensibilità dell’opinione pubblica
(soprattutto americana) sulle tematiche legate all’am-
biente. Sensibilità che fortunatamente oggi cresce an-
che grazie alle numerose iniziative promosse in occasio-
ne della Giornata della Terra. Per quanto riguarda l’Ita-
lia ad esempio, anche quest’anno ci sarà il “Concerto
per la Terra”, lo stesso 22 Aprile, al Teatro della Luna
di Assago, sponsorizzato da Earth Day Italia. L’associa-
zione Think Green Factory ha invece organizzato l’E-
COFESTIVAL 2013 a Roma, col patrocinio dell’Ente
Parco Appia Antica e fra le associazioni che aderiscono
all’iniziativa troviamo anche Greenpeace e Legambien-
te. Tematiche come l’agricoltura biologica e “riciclare
anziché gettare” sono anche affrontate nelle giornate 19
-22 Aprile a Vignola, per la festa della Giornata della
Terra.
Le iniziative, in Italia e nel mondo, non mancano. Ma
avere a cuore il nostro pianeta non è solo questo. E’
anche la somma di tutti i piccoli gesti che milioni di
persone compiono (o dovrebbero compiere) quotidia-
namente. E’ una lotta in prima persona, e i comporta-
menti potenzialmente dannosi per l’ambiente sono se-
minati qua e là nella vita di tutti i giorni. Si pensi ad
esempio al confezionamento dei cibi, spesso composto
da svariati strati di plastica e/o cartoncino. Quanto co-
sta all’ambiente avere un prodotto “iperconfezionato”?
C’è poi quella miriade di dispositivi elettronici che len-
tamente ma inesorabilmente stanno colonizzando le
nostre case, rigorosamente lasciati in “standby”. Ebbe-
ne, la piccola spia rossa da cui spesso ci mettono in
Eric Zizzi IIA guardia consuma mediamente in
Italia 472 kWh/anno (dati EURE-
CO 2003), pari circa al 15% dei con-
sumi domestici complessivi in Italia.
E se è vero che da una parte i dispo-
sitivi diventano sempre più efficien-
ti da un punto di vista energetico,
dall’altra essi diventano sempre più
numerosi. Ciò significa che un gesto
semplice come spegnere completa-
mente i dispositivi può portare a
una riduzione istantanea e conside-
revole dei consumi energetici, evi-
tando inoltre l’usura degli apparec-
chi, che in questo modo durano più
a lungo. Ma in fondo, che importa?
L’obsolescenza pianificata è una
politica assai comune nel design
industriale: i dispositivi dopo un po’
diventano obsoleti e si rompono, è
“normale”, e i costi di riparazione
sono volutamente proibitivi: basta
sostituirli. L’Earth Day deve essere
anche un’occasione per riflettere
seriamente sull’ambiente in cui vi-
viamo: veramente c’è bisogno di
questo continuo ricambio, che porta
a buttare e sostituire gli apparecchi
dopo un po’ (magari nel frattempo
sono anche passati di moda...), anzi-
ché ripararli? C’è veramente la ne-
cessità, anche a scuola, di continue
comunicazioni cartacee per ogni
avvenimento (problema che, peral-
tro, dubito si risolva con maxischer-
mi stile Times Square)? I cellulari
vecchi, le cartucce delle stampanti,
le batterie consumate finiscono ne-
gli appositi contenitori? O è più
comodo buttarli nell’indifferenzia-
ta?
A costo di sembrare scontato, credo
che si possa dare un segno di auten-
tico rispetto dell’ambiente, nonché
di senso civico, rispettando queste
(e altre) piccole norme, e prestando
attenzione a tutti quei piccoli gesti
quotidiani che moltiplicati per sva-
riati anni e per milioni di persone
comportano per il luogo in cui vivia-
mo, nonché per l’intero pianeta, un
consumo significativo e totalmente
inutile di risorse. Questo è, per chi
scrive, il senso più profondo
dell’Earth Day.
10
f 451
18 aprile, Teatro Storchi
S ono le otto e mezza e fuori
dal teatro si incontrano al-
cuni prof, genitori e parenti,
ma soprattutto gli studenti di ieri e
di oggi. L’impressione è proprio
quella di un ritrovo: siamo tutti qui
per assistere, come ogni anno, allo
spettacolo del Muratori, al nostro
spettacolo. Attori, registi, tecnici..
sono tutti nostri compagni, nostri
amici, volti noti che ci fanno sentire
parte di una comunità.
La solennità del teatro Storchi con-
tribuisce a rendere l’atmosfera anco-
ra più emozionante.
Lo spettacolo inizia. La prima scena
si apre con la notizia della morte di
un uomo, padre di cinque giovani
sorelle, che si ritrovano così abban-
donate a se stesse, divise tra loro e
lasciate sole anche dalla madre, una
donna arrivista e venale, interessata
esclusivamente all’eredità.
Tra dramma e ironia, Amaranta,
Elena, Elettra, Eugenia e Grushen-
ka, vengono private di ogni cosa: la
loro unica speranza è un testamento
costituito da cinque misteriose lette-
re. Ovviamente, spinte dalla curiosi-
tà, vorrebbero scoprirne subito il
contenuto, ma il padre ha incaricato
un anziano e sarcastico notaio di
assicurarsi che le ragazze, prima di
aprire le lettere, superino una gran-
de prova: imparare ad essere sorelle,
vincendo i contrasti che le dividono,
perché, come dice Amaranta, la
maggiore, “non c’è concordia senza
sacrificio”.
Così, confinate in una piccola stan-
za, devono fare i conti con se stesse,
crescere e rendersi conto di quanto
possano valere l’una per l’altra. Qui
la saggia Amaranta guida la matura-
zione delle sorelle, Elena, cinica e un
po’ nevrotica, insegna loro come
divertirsi insieme, le adolescenti
Eugenia e Elettra mettono da parte i
loro battibecchi e la silenziosa Gru-
shenka si rivela attenta e matura per
la sua età.
Quando finalmente riescono ad ac-
cettare le loro diversità, la prova è
superata e possono aprire la scatola
con le lettere, che rivelano non con-
tenere altro che i loro cinque nomi.
Il padre ha lasciato loro l’eredità più
importante: il fatto di essere una
famiglia.
11
Maggio 2013
Il finale è stato di grande impatto emotivo, soprattutto grazie alla bra-
vura degli attori, che hanno impedito una caduta nel banale, conside-
rata la morale un po’ prevedibile.
Molto belle le musiche, sebbene il volume alto talvolta coprisse le voci
degli attori e costumi e trucco veramente ben riusciti (in particolare
quello del Notaio, interpretato da una ragazza perfettamente travesti-
ta, e quello della madre, che ben rendeva la frivolezza del personag-
gio).
Prima ancora che di giovinezza, The Youth parla del diventare adulti,
un tema che ci tocca molto da vicino. Come maturano le cinque sorel-
le, così anche noi siamo chiamati a crescere e a sviluppare le nostre
potenzialità durante e attraverso i nostri percorsi di vita.
La giovinezza rappresenta un trampolino di lancio per l’età adulta, le
difficoltà che si trovano sulla strada sono riti di passaggio da superare
stando uniti. Per citare la colonna sonora dello spettacolo: “in spite of
the weather, we could learn to make it, together”.
Dietro le quinte...
Una breve intervista a due delle attrici: Chiara e Martina, nel gruppo
rispettivamente da 5 e 3 anni.
Come avete vissuto l’esperienza, anche in relazione agli anni passati?
C: Era l’ultimo anno per me e quindi, nonostante abbia sempre messo
l’anima nel gruppo, quest’anno è stato speciale e sono stata felice di
vedere che tante ragazze del biennio si sono interessate al teatro.
M: È cambiato il gruppo ma i requisiti di base sono gli stessi: vai sul
palco e reciti. Ovviamente abbiamo avuto i nostri alti e bassi, ma direi
ne sia valsa la pena.. siamo riusciti a mettere su uno spettacolo fanta-
stico!
Frequentate entrambe la quinta. Parliamo di voi come ragazze più
grandi della compagnia..
C: Da un lato, c’era il senso di responsabilità verso i più piccoli, che
magari non erano mai stati sul palco, quindi andavano rassicurati..
dall’altro, dato che già mi conoscevano, ho sentito per tutto il tempo
la fiducia e l’appoggio dei registi.
M: Io non sentivo tutto questo “istinto da mamma chioccia” nei con-
fronti dei miei compagni. Voglio dire, se avevano bisogno di un consi-
glio mi faceva piacere dar loro una mano, ma non me la sentivo di
assumere un ruolo di guida nei loro confronti.. anche perché già fatico
a gestire me stessa, figuriamoci gli altri!
Cosa consigliate a chi vorrebbe entrare nel gruppo il prossimo anno?
C e M: Buttatevi, non abbiate paura di essere giudicati perché è una
bellissima esperienza. Un’esperienza che fa divertire, crescere, cono-
scere nuove persone, con le quali magari normalmente non parlere-
ste..
M: ..quindi arruolatevi!
C: No Martina, è banale!!
The Youth, MGMT
This is a call of arms to live and love and
sleep together
We could flood the streets with love or
light or heat whatever
Lock the parents out, cut a rug, twist and
shout
Wave your hands
Make it rain
For stars will rise again
The youth is starting to change
Are you starting to change?
Are you?
Together
In a couple of years
Tides have turned from booze to tears
And in spite of the weather
We could learn to make it together
The youth is starting to change
Are you starting to change?
Are you?
Together
The youth
Beatrice Tioli
Elena La Vista
Beatrice Bompani
5°G
12
f 451
13
Maggio 2013
14
f 451
Vi siete mai chiesti perché con certe
persone non riuscite proprio ad an-
dare d’accordo, nemmeno a comuni-
care, mentre con altre basta uno
sguardo per capirsi al volo? Oppure
perché dopo aver studiato come
matti quella determinata materia vi
sentite abbattuti da risultati medio-
cri? O ancora, vi siete mai stupiti
della facilità con cui svolgete deter-
minati compiti e del piacere che ne
traete? Esistono risposte a tutte que-
ste domande, risposte che provengo-
no dall’applicazione di conoscenze
nel campo della psicologia a cono-
scenze neuroscientifiche sulla strut-
tura e la fisiologia del cervello, un
contributo che si deve agli studi del-
la dottoressa americana Katherine
Benziger.
Vediamo un po’ come funziona. La
corteccia cerebrale (la cosiddetta
materia grigia) nella quale viene ge-
stito il nostro pensiero, è divisa da
due scissure, una centrale e una lon-
gitudinale, in quattro aree, ognuna
responsabile di una diversa modalità
di pensiero.
Area Basale Sinistra: ordine e
abitudine, procedure ordi-
nate, routine sequenziali
Area Basale Destra: ritmo e
feeling, memorie emotive,
esperienze spirituali
Area Frontale Sinistra: mate-
matica astratta, analisi
struttutrale, ragionamento
logico, priorità
Area Frontale Destra: immagi-
ne interna, espressività,
immaginazione, metafore
Secondo la legge della Dominanza,
ognuno di noi, sin dalla nascita,
presenta una sostanziale Preferen-
za in una delle quattro modalità,
ovvero, è portato ad agire in ma-
niera più semplice e meno faticosa
nell’ambito delle funzioni regolate
da una sola di queste aree in parti-
colare. Ciò avviene perché “la resi-
stenza elettrica all’interno dei e tra
i neuroni nella nostra area di Pre-
ferenza è talmente più debole che,
quando li usiamo per pensare,
sfruttiamo solo la centesima parte
dell’ossigeno o dell’energia disponi-
bili”.
Esiste inoltre un altro parametro
da tenere in considerazione: il li-
vello di introversione ed estrover-
sione. Esso dipende dal nostro li-
vello di risveglio, cioè dal nostro
stato di allerta quando siamo svegli
e il modo in cui veniamo raggiunti
e reagiamo agli stimoli esterni.
È importante rendersi conto di
quanto questi fattori siano deter-
minanti per il nostro benessere fi-
sico e psichico e quindi per il rag-
giungimento di risultati gratificanti
che portino al successo. Per questo la
Benziger ha scoperto e stilato
“Le due Regole Fondamentali della
vita” (che consiglio di tenere come
piccoli vademecum!)
Regola 1: Per sviluppare o alimentare
la tua autostima, come anche per as-
sicurare la tua efficienza e il tuo suc-
cesso immediati, scegli attività e per-
sone che corrispondono alle tue pre-
ferenze.
Regola 2: Per assicurare la tua so-
pravvivenza, così come per garantire
la tua efficacia e il tuo successo nel
lungo periodo, tratta consapevolmen-
te e con molta attenzione attività e
persone che non corrispondono alle
tue Preferenze e, se possibile, procu-
rati il supporto e l’assistenza di altre
persone con “cervelli” complementari
al tuo.
Purtroppo, avvalersi in maniera na-
turale della propria Preferenza non è
sempre così scontato. Ogni giorno, la
maggioranza di noi affronta pressioni
esterne per sopravvivere, sentirsi par-
te di qualcosa e adattarsi, o, altri-
menti, cerca di assecondare le pro-
prie esigenze interne di sentirsi ri-
spettata e premiata. La reazione di
molti a queste situazioni è la Falsifi-
cazione del Tipo, ossia la tendenza a
fare o essere qualcosa che va contro
la propria Preferenza. Tale atteggia-
mento, dopo un lungo periodo, può
essere causa di disagi quali affatica-
mento, alterazioni del sistema immu-
nitario, indebolimento della memo-
ria, scoraggiamento, depressione.
In “NEUROFITNESS – BTSA, la bussola per la tua Vita Professionale e Personale”, il libro della Benziger (pubblicato in Italia nel 2009) ho trovato un valido supporto per una profonda analisi introspettiva. Grazie ad esso e al mini-test collocato nelle prime pagine, ho iniziato a conoscere me stessa, a valorizzare i miei punti di forza, ma anche ad accettare e ap-prezzare la diversità. Se volete svolge-re l’assessment BTSA (Benziger Thinking Styles Assessment) oppure ottenere ulteriori informazioni potete consultare i sitI www.btsa.it e www.benziger.it.
NEUROFITNESS Greta Scozzi IB
15
Maggio 2013
Con l’avvento della primavera e del pe-riodo caldo- o alme-no così la maggior parte di noi spera- ho pensato in questo numero di parlarvi
dell’origine etimologica dei nomi delle stagioni. Partiamo con un banale interroga-tivo… Cosa significa stagione? Molto probabilmente sta ad indi-care due concetti tra di loro poi non così differenti: da “stare”, sta-tiónem e “seminare”, satiónem, da quest’ultima proviene seison, dive-nuto l’attuale saison in francese nonché in versione inglese, season. Seguendo questa strada, il termine “stagione” potrebbe aver avuto in origine il senso di “periodo dell’an-no in cui seminare”, tantoché è ancora rintracciabile nella moder-na parlata quando diciamo: “I frutti della prossima stagione”. Autunno è un vocabolo di origine latina arrivato nei nostri dizionari attraverso trasmissione delle po-polazioni etrusche, che pronun-ciandolo si riferivano al loro dio del raccolto. Il termine pare infatti svilupparsi dalla radice del verbo augeo (“accrescere”), da cui auc-tumnus, proprio poiché era in au-tunno che si accrescevano le ric-chezze di una società soprattutto agricola, e l’etimo puro si riavrebbe a sua volta nel sanscrito. “*av”, ap-punto, come radice, ritorna nel verbo avati, ovvero “godere” o me-glio “trarre beneficio” (dei frutti della terra nel nostro caso specifi-co). E’ interessante poi il fatto che in greco la stagione delle foglie secche (che gli ellenici pronuncia-vano fthinòporon letteralmente “che porta via i frutti” o meglio “consunzione dell’estate”) non tro-vi alcuna corrispondenza con la famiglia etimologica in questione,
e tenda anzi ad indicare quasi il contrario di auctumnus, decisa-mente più positivo e ottimistico. Ma non dilunghiamoci troppo e passiamo subito a discussioni più fredde… La parola inverno, che ha rimpiazzato i tre termini dell'antica Roma hiems, hiemps e hiemis in tutte le lingue romanze, deriva dall'aggettivo latino hiber-nus (invernale) ; possiamo affer-mare con certezza che i tre voca-boli sopra citati derivano da una radice di nuovo sanscrita, ovvero *him (quasi sicuramente *ghim in indoeuropeo), da cui si svilup-pano in seguito hemàn (“inverno”, appunto, ma anche “neve” per analogia), che in greco giunge come chéimon, nonché chiòm (“neve”), rimasto presso-ché invariato in greco antico nel-la forma chìon. Nelle lingue nordiche abbiamo invece Winter sia in inglese sia in tedesco, nonché in olandese, mentre in danese e svedese tro-viamo vinter. Come è evidente, la radice di questa fredda stagione si è diffusa in quasi tutti i ceppi indoeuropei moderni, mentre autunno trova riscontro solo in inglese, dove la forma americana più pura e anglosassone fall si affianca al nostrano e comprensi-bile Autumn. La tanto rassicurante e vivace
primavera si dice in latino ver, in
modo molto simile al greco anti-
co (f)eàr. I fondatori della citta
capitolina lo utilizzavano molto
spesso nell'espressione primum ver (tautonomico nella traduzio-
ne, perché suona come “l’inizio
della primavera stessa”), a volte
anche primum tempus, come
oltretutto è rimasto nel francese
primtemps. La derivazione di ver dall'indoeu-
ropeo *wer è del tutto ipotetica e,
forse, poco probabile. Più ragione-
vole sembrerebbe invece farla risa-
lire ancora una volta al sanscrito
vasantas (primavera) tramite una
radice comunque indoeuropea seb-
bene più complessa (*veser) che
non ritroviamo in nessuna parola
direttamente ma sembra potesse
avere significato di “ardere” (tesi
sostenuta dal fatto che in latino la
dea del focolare, e quindi dell’arde-
re, è proprio la divinità Vesta), da
cui il già sopra menzionato greco
eàr con caduta del digamma F ini-
ziale. Di derivazione più certa inve-
ce nelle lingue nordiche, dove tro-
viamo l'inglese Spring dalla radice
indoeuropea *sprengh “scaturire”, in tedesco Fruhjahr (letteralmente
primo anno, vale a dire la prima parte dell'anno, poiché in primave-
ra si risveglia la natura e comincia
un nuovo anno) mentre lo svedese
con vår si rifà al latino ver. E’ curio-
so infine il fatto che in provenzale
il termine sia rimasto del tutto
identico a come lo pronunciavano
secoli fa i latini, e che nel dialetto
veneziano primavera suona qualco-
sa come “verta”.
Dulcis in fundo, la stagione forse
più amata da tutti. Il latino aestas, atis, secondo Varrone, deriva da ab aestu (aestus, us = calore ardente);
sia aestas sia aestus si fanno di-
scendere da un tema in *es attesta-
to dal sanscrito edhah = legno da bruciare che può essere confronta-
to con il greco àithos “tizzone”, ma
in greco estate si dice théron dall'antico indiano haras “vampa”. In francese abbiamo été, ma in
spagnolo e in portoghese verano e
verão, quasi che in maniera molto
poetica la primavera sia il primum ver e l'estate la sua continuazione.
CI SONO ANCORA LE MEZZE STAGIONI? Lorenzo Tagliazucchi IIA
16
f 451
L'inizio del nuovo millennio è quanto
mai lontano. Sono ricordi sbiaditi i
tempi delle felpe larghe e dei pantaloni
a cavallo basso, lo Streetwear e la sua
correlazione al mondo dell'under-
ground che qualche volta fuoriesce im-
petuoso per illuminare il mainstream
della sua torbida luce come nel caso dei
Linkin Park. Erano gli anni di Meteo-
ra, capolavoro sensazionale, e prima
ancora di Hybrid Theory, pietra milia-
re del genere e manifesto musicale di
quella generazione.
Ecco, con questa nuo-
va fatica intitolata Li-
ving Things i Linkin
Park ribadiscono la
loro distanza da un
modello musicale che
non gli appartiene più.
La svolta era stata quel
Minutes To Midnight
del 2007, che aveva
aperto nuovi orizzonti
rock, pop, electro alla
band di Los Angeles.
Living Things prose-
gue sull'onda cavalcata
da Minutes To Mid-
night in poi. Non solo,
ha le sue radici nel ri-
flesso sbiadito di quel
mondo underground
che nonostante tutto la
band non riesce a
scrollarsi di dosso
completamente.
L'album si apre col
classico pezzo potente
“Lost In The Eco” ca-
Marcello Vaccari
ratterizzato da un rap serra-
tissimo e da un ritornello tan-
to potente quanto catchy e
melodico. Al posto dei poten-
tissimi riff di chitarra ora ab-
biamo campionamenti e
synth, cosa che può (e deve?)
far storcere il naso al fan me-
dio.
Ma il brano scorre tanto po-
tente e intenso che non si può
che ben sperare. Si passa ad
una serie di brani che rappre-
sentano al meglio ciò che pos-
sono offrire i Linkin Park allo
stato attuale.
“In My Remains, Burn It
Down, I'll Be Gone, Roads Un-
travelled” scorrono piacevoli
in una commistione vivace di
elettronica (forse troppo pre-
ponderante) POP (non a caso
maiuscolo) e rock potente.
Cori a non finire, armonizza-
zioni vocali, sovrastano la
struttura pop di brani da ra-
dio.
Ancora pezzi come “Lies
Greed Misery, Until It
Breaks” con il loro hip pop
sorretto dagli arrangiamenti
elettronici possono ricordare
l'underground dei primi Lin-
kin Park.Ovunque i brani so-
no addolciti da sezioni fin
troppo pop melodico oriented.
Menzione a parte meritano
“Castle Of Glass” e
“Victimized”. La prima, pro-
fonda (leggere il testo), si ar-
rampica sul riflesso di certe
antiche Breaking The Habit
(con il dovuto rispetto). La
seconda, tiratissi-
ma,cattiva, riff elettro-
nico, dalle sfumature Hardco-
re,
impreziosita dalla voce rug-
gente
di Chester.
L'album nel complesso scorre
veloce e piacevole, pingue di
richiami, nostalgico di un pas-
sato vicino ma irraggiungibi-
le. Escono ancora una volta
vincenti le voci, magnifiche,
potenti, complesse e mature
di Chester e Mike. Meno con-
vincente a mio parere la pro-
posta generale del gruppo, che
sforna una serie di canzoni
usa e getta, pop, radiofoniche,
(potrebbero fare tutte poten-
zialmente successo). Questo
album mischia le carte ma
non aggiunge nulla di nuovo
alla causa.
Ha il grande merito di farsi
ascoltare dall'inizio alla fine
rispetto al precedente “A
Thousand Suns”, ma risulta
nel complesso sterile, già sen-
tito.
La differenza col passato è
troppo insistente, latente,
preponderante per non essere
considerata.
I Linkin Park sembrano aver
definitivamente vestito i loro
nuovi panni, camicie a quadri
e jeans stretti, e aver definiti-
vamente cambiato il loro
guardaroba.
Una lacrima di nostalgia è
inevitabile.
f 451
MUSICA
LIVING THINGS
17
Maggio 2013
"Il destino è come il cuore, è den-tro di noi fin dal primo istante, quindi è inutile cambiare strada." Margaret Mazzantini propone ai suoi lettori "Venuto al mondo per racconta-re una storia di guerra e pace, amore e odio, forza e debolezza. Un romanzo variegato, dai forti contrasti, fatto dalle contraddizioni che normalmente sono insite nelle persone, senza la paura di farle uscire allo scoperto. Siamo a Roma, nel 2008. Gemma, donna non più giovanissima decide improvvisamente di partire per la Bo-snia portando con sé il figlio Pietro. Nonostante il tempo sia trascorso tra-scinandosi via le orme del passato, cambiando i volti delle persone e la conformazione delle strade, vuole che il ragazzo conosca la terra in cui è nato, in cui i genitori si sono conosciuti e amati. I ricordi di Gemma ci guidano a Sara-jevo nel 1984. E' l'anno delle Olimpiadi invernali e la città è in pace, festosa. La sera prima di tornare in Italia conosce Diego, un fotografo genovese dal carat-tere sensibile e solare, a tratti bizzarro e strampalato. Tra i due in apparenza così diversi, lei razionale controllata e borghese, lui estroverso e creativo, di origine proletaria, nasce un grande
amore. E' l'inizio di un lungo cammino insieme, segnato da tanta felicità ma anche da intenso dolore, dal desiderio e dalla demolizione del sogno di avere un figlio perché Gemma è sterile. Ma smania disperata li porta nel 1992 in Bosnia, dove trovano una realtà completamente diversa: la bella Sarajevo è sotto assedio, segnata dalla violenza e dalle atrocità della guerra. In questo luogo infernale Gemma e Diego, risuc-chiati in una tragedia storica, vanno inconsapevolmente incon-tro al compiersi del loro dram-matico destino… Procedendo in modo sapiente avanti e indietro nel tempo, tra l'Italia e la Bosnia, Margaret Mazzantini racconta la storia di Gemma e del sentimento che la lega a Diego, dell'umano deside-rio di diventare genitori che si trasforma in una ricerca sempre più frustrante da renderli prigio-nieri e portarli a oltrepassare la soglia del rispetto per se stessi e della legalità. "Venuto al mondo" è un roman-zo che ricerca la profondità, che si catapulta in realtà spesso con-traddittorie facendoci assaporare i gusti della diversità, della sco-
perta, del confronto, soprattutto con le cose che ci fanno paura perché ci mostrano fragili. La "piccola" storia personale di un uomo e una donna si intreccia e si fonde con la "grande" storia: un Pae-se lacerato dalla guerra, dalla crudele violenza e dall'immensa sofferenza e povertà che porta con sé. Nonostante la scrittura talvolta trop-po ricercata e poetica si legge con voracità; l’attenzione è catturata dal-le complesse ed emozionanti vicende dei protagonisti e dei personaggi che ruotano loro intorno, tutti delineati con grande forza narrativa. Pagina dopo pagina, spiazzanti colpi di scena e abili intrecci narrativi sor-prendono il lettore che divora la sto-ria per scoprire il mistero che si cela dietro la nascita di Pietro. Sarà il finale del racconto a conferire valore a tutto.
"Forse questo è l'amore quando raggiunge la sua vetta. Ebbro come uno scalatore che s'è ar-rampicato e poi è arrivato, e più su di così non può andare, per-ché comincia il cielo".
Teresa Camellini IIA
LIBRI
18
f 451
Alabama, 1924. Nella piccola cittadina di Whistle Stop,
ha inizio l’amicizia di Idgie e Ruth, due giovani donne
bianche che decidono di rompere ogni schema per ri-
bellarsi al razzismo e al maschilismo. La prima, di buo-
na famiglia, ribelle e dinamica, lotta contro i pregiudizi
di petto ed impulsivamente; Ruth, invece, colpisce tutti
quanti per i suoi modi dolci ma non per questo meno
efficaci. Insieme gestiscono una locanda che diventa il
simbolo di un paese che non vuole ancora smettere di
odiare.
Alabama, 1985. Qualche giorno prima di Natale, alla
“Rose Terrace Nursing Home”, Evelyn Couch, una si-
gnora di mezz’età con un livello davvero minimo di au-
tostima, incontra l’ottantenne Ninny, un’ospite del pen-
sionato, che la prende a cuore e nasce tra loro un lega-
me che va al di là della semplice complicità. L’energica
Ninny inizia a raccontare la storia di Ruth e Idgie ad
Evelyn. In lei si sveglia allora un inaspettato desiderio
di combattere contro le proprie paure ed insicurezze e
cambia vita.
In questo film (basato sul libro Fried Green Tomatoes
at Whistle Stop Cafè), si intrecciano così le storie di 4
donne che hanno visto nell’amicizia un modo per riscat-
tarsi e per fare valere i propri diritti e quelli degli altri. I
temi serissimi del razzismo e della violenza sono mesco-
lati alla vivace atmosfera colloquiale del sud degli Stati
Uniti unendo momenti comici ad altri si spietata cru-
1942, Myriam e Nour vivono entrambe nello stesso
quartiere di Tunisi. La loro amicizia è salda nonostante
la prima sia ebrea e l’altra di religione islamica, fino a
che le leggi razziali antisemite dilagano anche nella Tu-
nisia occupata. Le famiglie ebree vengono emarginate e
Nour riceve il divieto di frequentare l’amica. Entrambe
si vedono costrette ad affrontare culture maschiliste e
razziste che non voglio cambiare.
Attraverso questo racconto di amicizia si scoprono le
aspettative, le emozioni e la ricerca di un’identità che
coinvolge i giovani di tutti i tempi e luoghi. La storia
narrata non è così lontana dalla nostra realtà e fa riflet-
tere sul perché tante cose, seppur sbagliate, rimangono
sempre le stesse.
Film come questi sono proprio come gli amici, si conta-
no sulle dita di una mano.
deltà.
Lo consiglio, specialmente in lingua originale; basta
fare un attimo l’orecchio all’accento dell’Alabama e poi
sembrerà anche a voi di trovarvi seduti sotto un albero
ad ascoltare la voce di Ninny che vi racconta di “quella
volta che le anatre hanno portato con loro un lago fino
in Georgia”.
Beatrice Bompani 5°G
CINEMA
19
Maggio 2013
"E' il contatto fisico.." "Cosa?" "In una città vera si cammina, sai no? Sfiori gli altri passanti, sbatti contro la gente.. Qui a Los Angeles non c'è contatto fisico con nessuno.. Stiamo tutti dietro vetro e metal-lo. Il contatto ci manca talmente che ci schiantiamo contro gli altri solo per sentir-ne la presenza." L'incomunicabilità in una realtà perenne-mente collegata.. è questo il paradosso della nostra vita di tutti i giorni, e "Crash", film statunitense del 2004 con Matt Dillon e Sandra Bullock, ne è la prova. E in effetti, per quanto possa sembrare strano, è nei momenti di scontro, nella tensione della quotidianità sconvolta che riusciamo a sen-tirci veramente a contatto con le persone intorno a noi. L'intolleranza e il razzismo sono i maggiori danni causati dalla nostra esclusione degli altri. Nel film tante storie di personaggi diversi si intrecciano, o meglio, si scontrano, e chi crede di aver dato una direzione definita alla propria vita si accorge di non aver fatto poi tanta strada. Questo film mostra una Los Angeles problematica e violenta, in cui una pistola puntata alla tem-pia capita di trovarsela con molta facilità, in cui l'assistenza medica è quella che è, e no-nostante l'apparente facciata cosmopolita episodi di discriminazione sono all'ordine del giorno. E allora in un mondo così si de-vono per forza raggiungere dei compromes-si, sopportare umiliazioni, finché non ci si rende conto di aver perso dignità e di essere comunque al punto di partenza. Credo che "Crash", sia un film commovente, a volte violento, ma che rispecchi totalmente la realtà della nostra vita e che fornisca un quadro assolutamente lucido dei problemi di razzismo e dei pregiudizi che si creano in una società multietnica come quella ameri-cana. Non esistono buoni o cattivi, ogni personaggio si trova ad affrontare un dolo-roso esame di coscienza, a convivere con i propri fallimenti e a riconoscere i propri errori. A volte è necessario lo scontro con l'altro da sè per riconoscersi, per autodeter-minarsi, per cambiare e ricordarsi che ac-canto ai nostri percorsi quotidiani scorrono infinite strade. "Quando ti muovi alla velocità della vita.. Scontrarsi è inevitabile."
In un mondo dove il tempo è
denaro (e non tanto per dire) e i
secondi che separano dalla fine
sono scanditi da un timer im-
piantato nel braccio, me ntre
alcuni immortali conducono un
esistenza felice nel quartiere di
New Greenwich, altre persone
vivono perennemente ad un
passo dalla morte, con meno di 8
ore di vita guadagnate giorno
per giorno e i prezzi del cibo, dei
trasporti, pagati in minuti, in
continuo aumento. E' questo
l'universo immaginato da An-
drew Niccol, e il protagonista
del film, Will Salas, che vive nei
quartieri più poveri, si ritrova
per caso a possedere un secolo di
vita. Ha inizio quindi l'avventura
tra gli "immortali" i ricchi mi-
liardari che nella nuova società
non invecchiano più. E' sicura-
mente interessante il fatto che la
ricchezza sia vincolata alla vita
stessa, e la crudele verità "per
pochi immortali, la maggioranza
deve morire" potrebbe non ri-
guardare solo la realtà in pellico-
la. C'è una separazione totale,
una discriminazione a priori,
quando una parte dell'umanità
si eleva a rango di semi-dei e chi
ha il potere può di fatto vivere
meglio e di più. Non penso che
solo il realismo più fedele sia in
grado di descrivere pienamente
la realtà , ma che anzi una pro-
spettiva insolita possa analizzare
un problema attuale in maniera
più che chiara, sferzante.
I "gamberoni" sono atterrati sulla terra, e sono assolutamente disgustosi. Un'a-stronave è piazzata su Johannesburg ormai da 20 anni e un milione di questi alieni sono da gestire nel distretto 9, una baraccopoli che causa sempre più proteste da parte della popolazione umana, spaventata e sempre più esa-sperata. Il riferimento del titolo stesso del film è al district six, il quartiere residenziale di Città del Capo, teatro del regime dell' apartheid sudafricano, ed infatti l'intera pellicola affronta xenofobia e segrega-zione razziale, anche se in maniera as-solutamente anticonvenzionale. Gli alieni "sbarcati" sul pianeta vivono nel caos e organizzazioni criminali si sono già inseriti nel business, e gli organi istituzionali sudafricani, seguiti dai mass media di tutto il mondo, temono per la sicurezza nazionale, sopraffatti dai disordini causati dagli invasori e le proteste della popolazione . Anche i sostenitori dei diritti umani in una si-tuazione così si ritrovano a temere e disprezzare, per l'appunto, i "non uma-ni". Credo che la forza di questo film sia nel ribaltamento dei ruoli caratteristici: l'alieno diviene paradossalmente l'unica creatura capace di provare sentimenti profondi e sinceri, di non seguire le ciniche leggi che ormai regolano le rela-zioni interpersonali, quelle del profitto. "District 9" è un drammatico documen-tario, infatti è così che viene presenta-to, con tanto di filmati girati con teleca-mere amatoriali, video di sicurezza, cellulari, interviste e reportage per la stampa. Acquista così una impronta di realismo assolutamente affascinante e che contribuisce ad aumentare la resa degli effetti speciali assolutamente effi-caci. Il film diventa quindi l'ultimo servizio televisivo di un incontro ravvi-cinato alieno, del cinismo spietato di organizzazioni internazionali e di un uomo solo davanti a una terribile realtà, tuttavia non è solo questo, è anche una storia di fiducia e di affetto. L'azione non manca, e neanche la tensione, pos-so assicurare. A dire la verità non credo manchi proprio nulla a questo film. Buona visione!
Giulia Sala IIIB
20
f 451
Omofobia: etimologicamente “paura dell’uguale”, ma in realtà, paradossalmente, “paura del diver-so”, paura (o meglio avversione) di coloro che amano persone del pro-prio stesso sesso. Se lo spieghi a un bambino, non capisce. Mio fratello stesso, a dieci anni, tornò a casa da scuola raccontando come a educa-zione sessuale la maestra abbia spe-so diverse parole a favore di questi “omosessuali”, insistendo sul fatto che non fossero pericolosi, che non bisognasse odiarli, che fossero per-sone come tutte le altre. Mio fratello non capì come mai fosse necessario sottolinearlo: era scontato. Tutta-via, nel mondo dei grandi, così scontato non è: l’ignoranza, nel sen-so più proprio del termine, insieme al pregiudizio, porta molte persone a essere omofobiche, a odiare con ostinazione uomini che hanno come unica “colpa” l’amare un altro uomo e donne che hanno come unica “devianza” l’amare un’altra donna. Ci sono diversi tipi di omofobia. C’è l’omofobia violenta, quella dei raid anti-gay che massacrano singoli individui, giovani coppie o luoghi di aggregazione omosessuale. C’è l’o-mofobia istituzionale, quella dei politici che ritengono l’omosessuali-tà “contro natura” o che, in modo non meno nocivo, non prendono posizione. Sono gli stessi che boc-
ciano le leggi anti-omofobia, non tutelando una parte di popolazione che, a loro piaccia o no, esiste e ha bisogno di protezione. Sono gli stessi che partecipano alle manifestazioni in difesa della famiglia tradizionale, magari essendo divorziati o condu-cendo uno stile di vita non esatta-mente in linea con i dettami religiosi tradizionali. Poi c’è l’omofobia finta-mente “razionalista”, quella degli pseudo-giuristi o degli pseudo-filosofi che vanno a ricercare nella natura o nella religione il motivo del loro odio, cercando di stordire gli ascoltatori con mille giri di parole apparentemente colte e con le loro argomentazioni costruite sul pregiu-dizio. Infine, c’è l’omofobia sottile, quella del non detto, quella degli sguardi di superiorità, di odio o di scherno, quella dei sussurri malevoli, delle risatine e delle battute spiacevo-li. Quest’ultima è quella nelle scuole, quella di coloro che dovrebbero esse-re i tuoi amici, quella dei familiari: quella che, insomma, fa più male. Ciò che ogni omosessuale vorrebbe far capire a chi lo circonda, innanzi-tutto, è che non c’è alcuna diversità, non c’è nessuna innaturalità, non c’è nulla di cui avere paura o da cui sen-tirsi minacciati: anche loro si inna-morano, anche loro non vedo l’ora stare accanto alla persona che ama-no, anche loro sono gelosi, esatta-mente come te. Però ci sono cose che
loro, a differenza tua, non possono fare. Non possono camminare tranquilli per strada tenendo la mano al proprio com-pagno, non possono baciarlo se non chiusi nella loro stanza, non possono presentarlo subito alle altre persone per quella che è per loro. Non possono fare tutto ciò senza provare una paura di fon-do che paralizza, umilia, sconforta e li fa vivere male con se stessi e con tutte le altre persone che li circondano. Gli omo-sessuali sono esattamente come tutti voi. Non sono né superiori né inferiori. Vor-rebbero fare parte del vostro mondo e condividere il loro amore e il loro modo di essere con i parenti, con gli amici, e i semplici conoscenti, senza doversi na-scondere come colpevoli di un crimine che nessuno riesce a precisare. Non si è preparati ad essere omosessua-le, semplicemente si cede all’amore quando non si può più tenere nascosto. Forse non tutti possono capire cosa si-gnifichi dover tenere nascosta la voglia di urlare al mondo che si è innamorati, di urlare quanto sia meraviglioso aver tro-vato il proprio posto nel mondo. È diffi-cile e, soprattutto, fa male. Gli omoses-suali non vogliono essere violenti, non vogliono conquistare il mondo, non vo-gliono rovinare le vostre famiglie, non sono dei mostri depravati. Vogliono solo essere felici, rispettati e tutelati come qualunque essere umano. Perché? Per-ché non ci siano più, nel mondo, omoses-suali torturati o condannati alla pena di morte poiché l’omosessualità costituisce ancora un reato tanto grave quanto l’o-micidio, perché non ci siano più omoses-suali che decidono di suicidarsi non riu-scendosi più neanche a guardare allo specchio, convinti ormai anche loro di essere mostri perché così la società li vede. Vorrei dire una cosa a voi studenti (e non) che leggete queste parole: l’omofo-bia, come l’ignoranza, va combattuta innanzitutto nelle scuole. E’ facile, basta parlarne. Parliamone. Impariamo il reale valore delle parole, non veliamo il signi-ficato di Libertà, Tolleranza, Condivisio-ne, Confronto e Rispetto. L’omofobia, come ogni paura, va affrontata insieme, proteggendo chi ne è vittima e facendo capire a chi ne è colpevole che sta facen-do del male a una persona. L’odio non è un’opinione, è solo e sempre un enorme pericolo. Perché perdere tempo ad odia-re, se si può amare? L’amore non è qual-cosa di cui aver paura, ma qualcosa di cui essere felici. Se amare è un crimine, allora non esistono più valori al mondo.
Lidia Bonifati
Diletta Marchesi
21
Maggio 2013
ORIZZONTALI
VERTICALI Laura Fregni IIA
B A D A L U C C O
22
f 451
Di Marco: “Scrivere tra-
gedie non è come parte-
cipare a MasterChef!”
Visentin: “E’ un segnale di
difesa dell’organismo: vado
in bagno per difendermi da
Biologia!”
Paradisi: “Voi siete pa-
gati per tradurre i dimo-
strativi con relativi”.
Traduzione “violento e frizzante” Paradisi: “Sì, sì, come il lambrusco!”
Codeluppi, si mette
gli occhiali da sole:
“Ora valorizzo le
pause e faccio un
sonnellino”.
Paradisi: “Quando fate le versioni
state 10 minuti su un verbo...poi
trovate quello sbagliato!
Ruini: “Si racco-
glie. Do you know
raccogliere?”
Paradisi: “Come si chiamano quelli lì...in bi-cicletta…” Alunno: “Ciclisti?” - quelli che pre-dicano in bicicletta...di Geova”.
Alunno: Prof! Che cosa ha fatto sto tipo di utile?
Pianesani : “È morto”.
Pianesani: “è inutile pian-
gere sul dentifricio versa-
to.. eh si perché non puoi
Filoni: “Van Gogh voleva
seguire le orme del padre:
diventare un pastore...
non un pecoraio eh! “
Pianesani: “Campana fa rima
con... non lo voglio dire”.
Paradisi: "..volerne due da 20 al
posto della moglie da 40"
Codeluppi: “Dico cose
di una tale saggezza
che vanno al di là
della comprensione
immediata, più che
perle di saggezza,
grandi verità"
23
Maggio 2013
FOTO DI MARTINA DI TORO
FAHRENHEIT 451 Redattrice e grafica
Rexhina Saraci IIA
Eric Zizzi
Cecilia Caliumi
Muriel Ferraresi
Beatrice Bompani
Giulia Sala
Lorenzo Tagliazucchi
Elena Cavazzoni
Martina di Toro
Teresa Camellini
Ginevra Cerami
Alice Manzini
Laura Fregni
Sara Magli
Greta Malavolti
Giulia Ghirelli
Matteo Rivoli
COPERTINA BY GIUSEPPE ZUCCARATO
- Perché non ti trovi un lavoro decente?
- Non ci sono lavori decenti. Se un artista non riesce a campare creando, vuol dire che è morto.
- Oh, smettila, Carl! Al mondo ci sono miliardi di persone che non campano creando. Vuol dire che sono morte?
- Sì
Charles Bukowski, a sud di nessun nord (1973)
Walt Disney tenta di spremere il suo cervello per trarne profitto, ma né lui né i suoi discendenti possono farlo.