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Figura 1: Frontespizio di una delle 26 ristampe cinquecentesche del Petrarca di Alessandro Vellutello;
la princeps è del 1525.
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SONETTI PROEMIALI
1. Una data ‘convenzionale’: 1530
Jacopo Sannazaro, Sonetti e canzoni Il titolo Sonetti e canzoni della princeps postuma del 1530 (che richiamava significativamente quello della silloge
pubblicata dai Giunti a Firenze nel 1527 *) si conserva fino all'edizione giolitina del 1552, che fu intitolata più
genericamente Rime.
I Se quel soave stil che da' prim'anni
infuse Apollo a le mie rime nove,
non fusse per dolor rivolto altrove
a parlar di sospir sempre e d'affanni,
io sarei forse in loco ove gl'inganni
del cieco mondo perderian lor prove,
né l'ira di Vulcan né i tuon di Giove
mi farebbon temer ruina o danni.
Ché se le statue e i sassi il tempo frange,
e de' sepolcri è incerta e breve gloria,
col canto sol potea levarmi a vuolo;
onde con fama et immortal memoria,
fuggendo di qua giù libero e solo,
avrei spinto il mio nome oltra Indo e Gange.
II Eran le Muse intorno al cantar mio
il dì che Amor, tessendo il bel lavoro,
si stava meco sotto un verde alloro,
quando così fra lor cominciai io:
–Io benedico il primo alto desio
che a cercar mi costrinse il vostro coro,
e benedico il dì che gemme et oro
et ogni vil pensier posi in oblio.
Per voi, seme gentil del sommo Giove,
e per costui che fu mia scorta e duce,
scrivendo or qui, sento il mio nome altrove.
Oh suprema eccellenzia, in cui riluce
quanto ben da le stelle e grazia piove,
se vivi e morti in ciel ne riconduce! –
* Sonetti e canzoni di diversi antichi Autori Toscani è un volume miscellaneo di poesia del Duecento, in XI libri,
edito dalla stamperia fiorentina dei Giunti nel 1527 (oggi lo si indica come ‘Giuntina di rime antiche’); comprende
rime di Dante, di Cino da Pistoia, di Guido Cavalcanti, di Dante da Maiano, di Guittone d'Arezzo, e “di diversi”:
poeti a volte noti altre sconosciuti, a volte nominati altre no (per es. Fazio degli Uberti, Lapo Gianni, Iacopo da
Lentini, Chiaro Davanzati, ecc.).
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Pietro Bembo, Rime Il “primo Bembo” è quello di una raccolta lirica ‘cortigiana’ rimasta manoscritta, databile al periodo feltresco-
urbinate (1510-11), ancora ben lontana da RVF sebbene molto accurata nelle correlazioni intertestuali e nella
distribuzione delle forme metriche: non costruisce la vicenda dell’Io ma offre un repertorio canonico di temi
amorosi, ed è aperta da una ballata per la duchessa Elisabetta Gonzaga; significativamente, però, a un certo punto
B. decide di cassare il sonetto finale indirizzato a Federico Fregoso (grande interlocutore nei dialoghi del
Cortegiano e delle Prose della volgar lingua) e di chiuderla con la ballata di invocazione a Dio che
immediatamente lo precedeva.
Le Rime, cioè il canzoniere bembiano che servirà da modello ai petrarchisti, sono invece un libro a stampa in
progressiva crescita di dimensioni: nella prima edizione (Venezia, da Sabbio, 1530) contava 114 componimenti, poi
138 nella seconda (Venezia, da Sabbio, 1535), fino ai 179 dell'edizione postuma (Venezia, Dorico, 1548, curata
dall’amico ed esecutore testamentario Carlo Gualteruzzi).
Con petrarchesca numerazione progressiva dei componimenti, le Rime sono articolate in due sezioni: per volonta
del B. la prima si chiuderà nell’ed. postuma del 1548 con il sonetto 141 (l’ultimo da lui scritto prima di morire)
dedicato a Della Casa; la seconda è una singolare sezione “in morte”: quella “ di Messer Carlo suo fratello [1503]
e di molte altre persone”; la canzone d’apertura, appunto quella per Carlo (Alma cortese, che del mondo errante),
riproduce l’elaborato schema metrico di RVF 23 (Nel dolce tempo de la prima etade: cfr. Prose della volgar lingua,
2. XIII).
I Piansi e cantai lo strazio e l´aspra guerra,
ch´i´ ebbi a sostener molti e molti anni
e la cagion di così lunghi affanni,
cose prima non mai vedute in terra.
Dive, per cui s´apre Elicona e serra,
use far a la morte illustri inganni,
date a lo stil, che nacque de´ miei danni,
viver, quand´io sarò spento e sotterra.
Ché potranno talor gli amanti accorti,
queste rime leggendo, al van desio
ritoglier l´alme col mio duro exempio,
e quella strada, ch´a buon fine porti,
scorger da l´altre, e quanto adorar Dio
solo si dee nel mondo, ch´è suo tempio.
CXLII (stanza I) Alma cortese, che dal mondo errante
partendo ne la tua più verde etade,
hai me lasciato eternamente in doglia,
da le sempre beate alme contrade,
ov´or dimori cara a quello amante,
che più temer non puoi che ti si toglia,
risguarda in terra e mira, u´ la tua spoglia
chiude un bel sasso, e me, che ´l marmo asciutto
vedrai bagnar, te richiamando, ascolta.
Però che sparsa e tolta
l´alta pura dolcezza e rotto in tutto
fu ´l più fido sostegno al viver mio,
frate, quel dì, che te n´andasti a volo:
da indi in qua né lieto né securo
non ebbi un giorno mai, né d´aver curo;
anzi mi pento esser rimaso solo,
ché son venuto senza te in oblio
di me medesmo, e per te solo er´io
caro a me stesso; or teco ogni mia gioia
è spenta, e non so già, perch´io non moia. [...]
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CXLI Casa, in cui le virtuti han chiaro albergo,
e pura fede e vera cortesia,
e lo stil, che d´Arpin sì dolce uscia,
risorge, e i dopo sorti lascia a tergo,
s´io movo per lodarvi e carte vergo,
presontuoso il mio penser non sia:
ché mentre e´ viene a voi per tanta via,
nel vostro gran valor m´affino e tergo.
E forse ancora un amoroso ingegno,
ciò leggendo, dirà: – più felici alme
di queste il tempo lor certo non ebbe.
Due città senza pari e belle et alme
le dier al mondo, e Roma tenne e crebbe.
Qual può coppia sperar destin più degno? –
2. Bembo e non più Bembo
Giovanni Della Casa, Rime (1ª ed. postuma, curata da Erasmo Gemini e Carlo Gualteruzzi, in G.D.C., Rime et Prose, Venezia, Bevilacqua, 1558)
I
Poi ch'ogni esperta, ogni spedita mano,
qualunque mosse mai più pronto stile,
pigra in seguir voi fôra, alma gentile,
pregio del mondo e mio sommo e sovrano;
né poria lingua, od intelletto umano
formar sua loda a voi par, né simile,
troppo ampio spazio il mio dir tardo umile
dietro al vostro valor verrà lontano:
e più mi fôra onor volgerlo altrove;
se non che 'l desir mio tutto sfavilla,
angel novo del ciel qua giù mirando:
o se cura di voi, figlie di Giove,
pur suol destarmi al primo suon di squilla,
date al mio stil costei seguir volando.
XXXVII
Or piagni in negra vesta, orba e dolente
Venezia, poi che tolto ha Morte avara
dal bel tesoro, onde ricca eri e chiara,
sì preziosa gemma e sì lucente.
Ne la tua magna, illustre, inclita gente,
che sola Italia tutta orna e rischiara,
era alma a Dio diletta, a Febo cara,
d'onor amica e 'n bene oprar ardente.
Questa, angel novo fatta, al ciel sen vola,
suo proprio albergo, e 'mpoverita e scema
del suo pregio sovran la terra lassa.
Bene ha, Quirino, ond'ella plori e gema
la patria vostra, or tenebrosa e sola,
e del nobil suo Bembo ignuda e cassa.
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Galeazzo di Tarsia, Rime
G. muore nel 1553; la 1ª ed. delle sue Rime uscirà solo nel 1617, a Napoli, per le cure di Gio. Battista Basile,
l’autore del Cunto de li cunti.
I Non perché chiaro in queste parti e 'n quelle
Passi 'l mio nome a le future genti
Rivolsi il corso con piè tardi e lenti
A i vostri sacri poggi, alme sorelle.
Sperai, adorno sì di verdi e belle
Frondi, piacere a due begli occhi ardenti,
E piangendo il suo viso e i miei tormenti
Sfogar il mal che vien da ferme stelle.
Ma che pro? Veggio omai che nulla valme:
Sordo aspe chiamo, e 'l duol, fatto immortale,
Non sostien che d'amor altri m'affidi.
Vergini, e tu che a lor Febo mi guidi,
Di lode no, ma di mia vita calme:
Ecco lo stile se a pietà non vale.
3. ‘Altri’ petrarchismi
Ludovico Ariosto, Rime Questo sonetto apriva una raccolta ordinata in forma di ‘canzoniere’ allestita dall’A. tra 1522-32 (gli anni
dell’ultima redazione del Furioso) e testimoniata solo da un codice ms. Vaticano, dalla quale sarà totalmente
difforme la prima edizione a stampa, postuma (Modena, Coppa, 1546) delle Rime, dove questo sonetto appare ma
non in proemio e manca una vera struttura organica (per tacere del fatto che vi figurano anche componimenti non
ariosteschi).
O messaggi del cor sospiri ardenti,
o lacrime che 'l giorno io celo a pena,
o prieghi sparsi in non feconda arena,
o del mio ingiusto mal giusti lamenti;
o sempre in un voler pensieri intenti,
o desir che ragion mai non rafrena,
o speranze ch'Amor drieto si mena
quando a gran salti e quando a passi lenti;
sarà che cessi o che s'alenti mai
vostro lungo travaglio e 'l mio martìre,
o pur fia l'uno e l'altro insieme eterno?
Che fia non so, ma ben chiaro discerno
che mio poco consiglio e troppo ardire
soli posso incolpar ch'io viva in guai.
Giovan Giorgio Trissino, Rime
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La princeps esce per le cure dell’autore a Vicenza nel 1529 (a c. di A. QUONDAM 1981 la ristampa moderna); T.
propone una scelta della sua produzione lirica (47 sonetti, 14 ballate, 10 canzoni, 2 sestine, 2 madrigali, 2
serventesi e 2 ecloghe in versi sciolti); l’amore cantato non è ‘monogamo’, alla donna ritrosa, poi malata e infine
morta, si affianca anche la donna che si concede all’amante; non si attengono al modello di RVF né l’ incipit (v.) né
l’explicit del canzoniere (che non si chiude con il tradizionale tema del pentimento).
I Se 'l duro suon de' gravi miei sospiri,
che già raccolsi, e se le vaghe e liete
lode di lei, che 'n voi dipinte havete,
se la dolce pietà d'altrui martiri,
ponno haver forza, che 'n pietosi giri
si volgan gli occhi, onde soavi e quete
voci n'attenda, allegre andar possete,
rime, che forse haren nostri desiri.
Ma ben avanti a quell'angelic'alma
v'appresentate sì pietose in vista,
che si degni appo lei darvi ricetto;
e se d'alcun mio detto ella s'attrista,
iscusi noi, che sotto sì gran salma
s'offusca la ragione e l'intelletto.
Matteo Bandello, Alcuni fragmenti de le rime B. ha ormai lasciato per sempre l’Italia quando raccoglie nel 1544 ad Agen (in Aquitania o Guienne), le rime
composte in oltre un ventennio; le offre a Margherita di Francia, figlia di Francesco I, in un manoscritto autografo
che si apre con una canzone alla dedicataria; anche il sonetto II, il vero proemio del ‘canzoniere’, è stato
probabilmente composto nella stessa circostanza. Il codice manoscritto, conservato alla Bibl. Naz. di Torino, fu
stampato solo nel 1816 ed è andato perduto in un incendio ai primi del Novecento. Nonostante il titolo (che allude
semmai alla dispersione materiale degli scritti bandelliani – testimoniata anche nelle Novelle – a seguito di
avventurose vicende storico-biografiche), la raccolta non intende riprodurre la struttura dell’archetipo; incorniciata
tra la canzone iniziale per Margherita di Francia e quella finale in lode di Lucrezia Gonzaga da Gazuolo, è
espressione di un petrarchismo ‘non canonico’, filtrato attraverso quello ‘cortigiano’ di fine Quattrocento [v. supra
il “primo Bembo”].
II Se mai sarà chi queste rime prenda
mosso dal suon d' i caldi lor sospiri,
pietoso pensi a gli aspri miei martiri
e, quanto può, d'amar il cor difenda.
Di me si faccia specchio e non attenda
di duo begli occhi a sì fallaci giri,
che forza poi sarà che 'n van sospiri
il folle error, che mal al fin s'ammenda.
Al ciel si volga mentre in libertate
l'alma si trova e 'l tempo in miglior studi,
con più lodati inchiostri, al fin consumi.
I' che lunga stagion i regni crudi
seguì' d'Amor, trovai ch'in ogni etate
il cor si pasce sol di sogni e fumi.
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4. Al femminile
Vittoria Colonna, Rime Si riporta qui il testo proemiale delle cosiddette rime “profane”, un canzoniere funebre ideato dopo il 1530 in morte
del marito Ferrante Francesco D’Avalos marchese di Pescara (rimasto sul campo, da vittorioso, nella battaglia di
Pavia, 1525). Ne uscì un’edizione non ‘autorizzata’: Rime de la divina Vittoria Colonna novamente stampate,
Parma, Viotti, 1538 (117 sonetti, un madrigale, una canzone e altri 17 sonetti di vari argomenti), per le cure di un
Filippo Pirogalli che dichiarava di non aver seguito un originale ma più fonti. La poetessa rivendicò allora le ragioni
della sua scrittura poetica, violate in tipografia, curando l’allestimento di tre importanti codici manoscritti (non
autografi) di “dono”, cioè destinati a uno scambio assolutamente privato: uno fu inviato nel 1540 a Margherita di
Navarra (102 poesie di prevalenza spirituali, 71 amorose e 12 ‘di corrispondenza’); uno, tra il 1540 e il 1541, a
messer Francesco della Torre (100 poesie di contenuto amoroso – escluse quelle per il marito ancora vivo – e due
componimenti spirituali); il terzo e il più importante fu donato a Michelangelo tra 1540-42: è l’elegante bella
copia membranacea delle Rime sacre e morali (195 sonetti e un capitolo di argomento ascetico-religioso, più 23
sonetti che trattano vari temi morali); ma anche di queste vide la luce una versione sottratta al controllo dell’autrice,
Le Rime spirituali non più stampate, Venezia, Valgrisi, 1546. Fra le molte edizioni che seguirono v. Tutte le rime a
cura di Girolamo Ruscelli, 1558.
AI [F1= ms. II.IX.30 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)
Scrivo sol per sfogar l’interna doglia
ch’al cor mandar le luci al mondo sole,
e non per giunger lume al mio bel Sole,
al chiaro spirto e a l’onorata spoglia.
Giusta cagion a lamentar m’invoglia;
ch’io scemi la sua gloria assai mi dole;
per altra tromba e più sagge parole
convien ch’a morte il gran nome si toglia.
La pura fe’, l’ardor, l’intensa pena
mi scusi appo ciascun; ché ’l grave pianto
è tal che tempo né ragion l’affrena.
Amaro lacrimar, non dolce canto,
foschi sospiri e non voce serena,
di stil no ma di duol mi danno vanto.
I Scrivo sol per sfogar l'interna doglia,
Di che si pasce il cor, ch'altro non vole,
E non per giunger lume al mio bel sole,
Che lasciò in terra sì onorata spoglia.
Giusta cagione a lamentar m'invoglia:
Ch'io scemi la sua gloria assai mi dole;
Per altra penna e più saggie parole
Verrà chi a morte il suo gran nome toglia.
La pura fè, l'ardor, l'intensa pena
Mi scusi appo ciascun, grave cotanto
Che nè ragion nè tempo mai l'affrena.
Amaro lagrimar, non dolce canto,
Foschi sospiri e non voce serena,
Di stil no, ma di duol mi danno il vanto.
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Gaspara Stampa, Rime La princeps (Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554) esce pochi mesi dopo la morte di Gasparina per le cure della sorella
Cassandra, che dedica le Rime a Monsignor Della Casa. Sono ristampate nel 1738 e poi nel 1913, nella collana
“Scrittori d’Italia” di Laterza insieme a quelle di Veronica Franco, con pesanti interventi sulla struttura del libro da
parte del curatore (A. Salza). Nel 2010, a Chicago, è stata ripubblicato il testo del 1554 con traduzione inglese.
I
Voi, ch'ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l'altre prime,
ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de' miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.
E spero ancor che debba dir qualcuna:
– Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!
Deh, perché tant'amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?
Veronica Gambara, Rime La poetessa non si curò di dare un assetto organico ai suoi versi, che giacciono dispersi nei manoscritti e in non
meno di ottanta raccolte miscellanee di poesie tra il 1505 e il 1754. In assenza del progetto riconoscibile di un
canzoniere, nonché di elementi affidabili per una datazione, i componimenti sono stati ordinati secondo nuclei
tematici a partire dalla raccolta Rizzardi (Rime e lettere, Brescia 1759), che ha costituito il testo di riferimento fino
all'edizione critica di A. Bullock nel 1995 (che consta di 67 componimenti) .
I Mentre da vaghi e giovenil pensieri
Fui nodrita, or temendo, ora sperando,
Piangendo or trista, ed or lieta cantando,
Da desir combattuta or falsi, or veri,
Con accenti sfogai pietosi e feri
I concetti del cor, che spesso amando
Il suo male assai più che 'l ben cercando,
Consumava dogliosa i giorni interi.
Or che d'altri pensieri e d'altre voglie
Pasco la mente, a le già care rime
Ho posto ed a lo stil silenzio eterno.
E, se allor, vaneggiando, e quelle prime
Sciocchezze intesi, ora il pentirmi toglie,
Palesando la colpa, il duolo interno.
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Chiara Matraini, Rime Il sonetto proemiale viene modificato dalla poetessa (nata nel 1515 e morta nel 1604) nel laborioso ‘farsi’ di un
canzoniere che ha 3 redazioni, tutte affidate alle stampe dell’editore Busdrago di Lucca, la città di Chiara: gli
studiosi le indicano con le sigle A (1555), B (1595), C (1597). Le Rime escono sempre congiunte a Prose o Lettere
dell’autrice.
I (A) Se lieta e verde, chiara, alta cantai
d'amor sola, e de l'alma i santi ardori,
la virtù, la beltà, gli eterni onori
di quell'alto mio Sol che tanto amai,
ben dovea vincer tutte l'altre assai
nel mostrar quel, ch'altre celaron, fuori,
poi che co' suoi beati, almi splendori
vins'egli ogn'altro, ond'io sì chiara andai.
Però, s'oltra al comune affetto, sempre
mi fu questo a virtù di gloria sprone,
che sol d'alti pensier l'anima cinse,
scusimi appo ciascun sì caste tempre,
l'infinite vittorie, e le corone
d'Amor ch'in terra e 'n Ciel tutt'altri vinse.
I (B, C) Se lieta in verde età sola cantai
dell'interne mie fiamme i cari ardori,
la virtù, la beltà, gli eccelsi onori
di quell'alto mio Sol che tanto amai,
ben dovea tutte vincer l'altre assai,
in mostrar quel, ch'altre celaron, fuori,
poiché co' suoi divini, almi splendori
vins'egli ogn'altro, ond'io sì chiara andai.
Però, s'oltr'al comune affetto, sempre
mi fu questo a virtù di gloria sprone,
che sol d'alti pensier l'anima cinse,
scusimi appo ciascun sì caste tempre,
l'infinite vittorie, e le corone
d'Amor, che 'l saggio, il santo, e 'l forte vinse.
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5. La fine nel principio: ‘soglia’ sepolcrale secentesca
Celio Magno, Rime C.M. (Venezia, 1536-1602) svolse importanti incarichi nel sistema politico-amministrativo della
Serenissima e fu poeta molto stimato (per es. nel circolo petrarchista raccolto intorno a Domenico
Venier e nell’Accademia veneziana del Badoer). Numerose le sue rime di corrispondenza, rimaste in
larga parte manoscritte: solo una scelta di ‘proposte’ e ‘risposte’vede la luce nel suo canzoniere,
pubblicato insieme con quello di un carissimo amico nel volume Rime di Celio Magno et Orsatto
Giustiniano, Venezia,1600. Nella raccolta, curata dall’autore con criteri rigorosamente selettivi,
confluisce circa la metà di tutta la sua produzione poetica (132 sonetti, 16 canzoni e 5 madrigali, più 22
‘corrispondenze’ in versi); i temi non sono esclusivamente amorosi, ma politici e morali, e la struttura
del libro non è petrarchesca. Celio ebbe anche contatti con poeti di una generazione ormai ‘secentesca’,
come Angelo Ingegneri o Tommaso Stigliani, e conobbe di persona Giambattista Marino quando questi,
fra il 1601 e 1602, soggiornò a Venezia per curare la princeps delle Parti I e II delle sue Rime presso lo
stampatore Ciotti.
Non di porfido tomba eletto e duro,
ove il mio nome in note d'or s'imprima
e bel marmo scolpito il volto esprima,
lasciar, morendo, in mia memoria curo.
Questo che di mia man schermo io procuro
contro l'aspra del tempo avida lima,
sia 'l mio sepolcro; e se non d'altra stima
d'un generoso ardir pegno sicuro.
E s'è l'incolto crin di lauro indegno,
il pregio almen de la mia nobil brama
d'altra povera fronde il faccia degno;
ché perfetta non pur s'onora ed ama
virtù, ma di lei solo un'ombra, un segno,
merta in premio benigno eterna fama.