+ All Categories
Home > Documents > Fiorenzo Toso Corso di Linguistica Generale e Anno ... · Parte III – Semantica e lessicologia 9....

Fiorenzo Toso Corso di Linguistica Generale e Anno ... · Parte III – Semantica e lessicologia 9....

Date post: 26-Apr-2020
Category:
Upload: others
View: 3 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
93
Università degli Studi di Sassari Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Fiorenzo Toso Corso di Linguistica Generale e Plurilinguismo in Sardegna Anno Accademico 2018-2019 Da integrare con: G. Berruto – M. Cerruti, La linguistica. Un corso introduttivo, Torino, UTET (ultima ed.)
Transcript

Università degli Studi di Sassari Facoltà di Lingue e Letterature Straniere

Fiorenzo Toso

Corso di Linguistica Generale e

Plurilinguismo in Sardegna

Anno Accademico 2018-2019

Da integrare con:

G. Berruto – M. Cerruti, La linguistica. Un corso introduttivo, Torino, UTET (ultima ed.)

Parte I – Lingua e linguaggio 1. Il linguaggio e le scienze linguistiche 1.1. Cos’è la linguistica 1.2. Evoluzione della linguistica 1.3. Linguaggio e lingua 1.4. Il linguaggio verbale 2. La lingua 2.1. Il codice lingua 2.2. Funzioni comunicative del linguaggio 2.3. Proprietà del linguaggio Parte II – Nozioni di grammatica 3. Fonetica 3.1. Che cos’è la grammatica 3.2. Fonetica articolatoria 3.3. Vocali 3.4. Consonanti 3.5. Alfabeto 4. Fonologia 4.1. Fono e fonema 4.2. Sillabe, accento, intonazione 4.3. Cenni di fonosintassi 5. Morfologia 5.1. Il morfema 5.2. Doppia articolazione 5.3. La parola e la sua flessione 5.4. Coniugazione 5.5. Declinazione 6. Formazione delle parole 6.1. Derivazione 6.2. Affissazione 6.3. Composizione 7. Sintassi 7.1. Il sintagma 7.2. La frase: coordinazione e subordinazione 8. Classificazione tipologica delle lingue 8.1. Criteri di classificazione 8.2. Lingue isolanti 8.3. Lingue agglutinanti 8.4. Lingue flessive 8.5. Lingue polisintetiche

Parte III – Semantica e lessicologia 9. Semantica 9.1. Significato e significante 9.2. Il segno linguistico 9.3. Lessico e lessema 9.4. Estensione, intensione, campi semantici 9.5. Rapporti tra lessemi 10. Lingue e visione del mondo 10.1. Lingue e visione del mondo 10.2. La costruzione e la segmentazione della realtà 11. Lessicografia e lessicologia 11.1. La classificazione del lessico 11.2. I dizionari: tipi e funzioni 11.3. I dizionari nella storia Parte IV – Nozioni di linguistica storica 12. Fondamenti di linguistica storica 12.1. Il concetto linguistico di sincronia e diacronia 12.2. Nozioni di linguistica storica 12.3. Classificazione genealogica delle lingue 13. Dal latino alle lingue neolatine 13.1. Frammentazione e ricomposizione del mondo latino 13.2. Sostrato, adstrato, superstrato 13.3. Processi endogeni di variazione 13.4. Circolazione linguistica 14. Storia linguistica 14.1. Storia linguistica ed evoluzione delle lingue 14.2. Testimonianze documentarie dal latino al vol-gare Parte V – Sociolinguistica 15. Funzioni identificanti del linguaggio 15.1. Lingua e cultura 15.2. Lingua e identità 15.3. La teoria dell’omogeneità linguistica 16. Concetti della sociolinguistica 16.1. Comunità linguistica 16.2. Repertorio linguistico

16.3. La nozione di prestigio 16.4. Rete sociale e dominio 17. Variabilità 17.1. Nozione di variabilità 17.2. Dimensioni della variabilità 17.3. Variazione diatopica 17.4. Variazione diastratica 17.5. Variazione diafasica 17.6. Variazione diamesica 17.7. Antilingua Parte VI – Plurilinguismo e interlinguistica 18. Plurilinguismo 18.1. Definizioni di bi- e plurilinguismo 18.2. Padronanza 18.3. Bilinguismo individuale, collettivo, comunita-rio 18.4. Diglossia 19. Interlinguistica 19.1. Pidgin e lingue creole 19.2. Prestiti e calchi Parte VII – Aspetti del patrimonio linguistico sardo 20. Il panorama linguistico sardo 20.1. Panorama geolinguistico 20.2. Varietà sarde 20.3. L’italiano regionale sardo 21. Aspetti storico-culturali 21.1. Profilo di storia linguistica sarda 21.2. Strati linguistici 21.3. Usi scritti antichi e recenti

21.4. Aspetti sociolinguistici Parte VIII – Aspetti del patrimonio linguistico europeo 22. Lingue e dialetti 22.1. Distanziazione ed elaborazione 22.2. Il pregiudizio antidialettale 22.3. Il concetto di standard 22.4. Lingue ufficiali 22.5. Il plurilinguismo dell’Unione Europea 23. Profili linguistici 23.1. Lo spagnolo 23.2. Il francese 23.3. L’inglese 23.4. Il tedesco Parte IX – Aspetti del patrimonio linguistico ita-liano 24. Il panorama geolinguistico italiano 24.1. Il repertorio linguistico italiano: considerazio-ni generali 24.2. Le aree dialettali 24.3. Le lingue minoritarie 25. Aspetti della storia e della realtà linguistica ita-liana 25.1. L’affermazione di una lingua comune 25.2. L’interferenza lingua-dialetto e gli italiani re-gionali 25.3. Il panorama contemporaneo 25.4. Immigrazione e problemi linguistici

Parte I – Lingua e linguaggio

1. IL LINGUAGGIO E LE SCIENZE LINGUISTICHE

1.1. Cos’è la linguistica La linguistica è la scienza che studia il linguaggio umano nei suoi caratteri generali e le lingue storico-naturali in particolare: le analizza, ne confronta gli elementi, i fe-nomeni e le leggi; ne cataloga la tipologia e i rapporti di parentela, ne studia l’evoluzione.

La riflessione sul linguaggio risale all’antichità, ma come disciplina scientifica es-sa si afferma principalmente a partire dal XIX sec. per influsso delle scienze naturali e grazie, come vedremo, ai progressi del metodo storico-comparativo basato sul confronto di vari idiomi allo scopo di individuarne l’eventuale origine comune e il diverso grado di «parentela»: fondamentali furono in proposito, alla fine del Settecen-to, la scoperta, conoscenza e studio del sanscrito, un’antica lingua indiana della quale apparvero evidenti i rapporti di parentela con alcuni idiomi della tradizione europea. Proprio l’analisi di questo tipo di affinità aprì la strada all’analisi comparata delle lin-gue, dalla quale prese origine la disciplina nella sua forma modernamente intesa.

La linguistica comprende varie branche, che si occupano di particolari livelli di analisi delle lingue: la fonetica e la fonologia, la morfologia, la sintassi, la semanti-ca. I campi di queste diverse discipline verranno illustrati nel prosieguo di questi ap-punti. In base ai settori specifici di ricerca si distinguono inoltre varie specializzazioni linguistiche: si parla ad esempio di linguistica storica (quella che studia l’evoluzione delle lingue nel tempo), linguistica sincronica (che studia la realtà attuale di una lin-gua), linguistica testuale (analizza la lingua dei testi scritti, soprattutto letterari) ecc.; in relazione alle famiglie linguistiche si possono distinguere invece una linguistica indoeuropea e all’interno di essa, ad esempio, una linguistica slava, germanica, neo-latina (o romanza); quest’ultima si può scindere a sua volta in linguistica italiana, francese, spagnola, sarda ecc. Con riferimento poi alle modalità di approccio all’oggetto di ricerca, si parla ad esempio di linguistica strutturale, generativa, co-gnitiva ecc. Vi sono infine altre specializzazioni: la dialettologia ad esempio costi-tuisce lo studio a livello teorico e generale delle lingue prevalentemente vernacolari, non scritte, ossia i dialetti: essa può contemplare a sua volta una dialettologia italia-na, con riferimento allo specifico dei dialetti di quest’area (e quindi si avrà una dialet-tologia ligure, siciliana, ecc.), e articolarsi in dialettologia storica (che studia l’evoluzione nel tempo di un dialetto), areale (studia la variazione dei dialetti nello spazio), percettiva (analizza le valutazioni che i parlanti danno del proprio dialetto) ecc. In rapporto con altri ambiti disciplinari, la linguistica si articola poi in discipline che utilizzano anche i metodi e le riflessioni teoriche delle scienze con le quali entra in contatto: si parla così di linguistica applicata, etnolinguistica, neurolinguistica,

psicolinguistica ecc. Particolare rilievo metodologico e teorico riveste sotto questo punto di vista la sociolinguistica. 1.2. Evoluzione della linguistica L’interesse per la lingua è antico probabilmente quanto la lingua stessa, e di esso si hanno testimonianze fin dalle tradizioni culturali dell’antico Oriente, quando la riflessione sulla lingua appare già legata al concetto di identità e di diversità tra le genti. Nel mondo occidentale, la speculazione scientifica in materia linguistica si fa iniziare con le riflessioni dei filosofi presocratici, che discussero almeno due delle questioni fondamentali legate al linguaggio: il suo carattere naturale e proprio della specie umana e la sua natura di codice strutturato e ordinato da regole. Questioni linguistiche furono dibattute anche da Platone e soprattutto da Aristotele, che nutrì un particolare interesse per lingua in rapporto alla retorica e la critica letteraria: furono però i filosofi dello Stoicismo i primi a considerare la linguistica come una disciplina separata dalla filosofia. In età ellenistica, lo studio della linguistica si sviluppò anche per esigenze pratiche in seguito all’estensione dell’impero di Alessandro, nel cui territorio erano parlate molte lingue diverse: il predominio del greco come strumento di coesione tra i vari popoli pose esigenze di codificazione grammaticale e stilistica, circostanza che avviò anche la riflessione sui principi logici e psicologici della lingua. A loro volta gli studiosi romani, facilitati in ciò dall’affinità tra i due idiomi, codificarono la grammatica del latino sul modello greco: Marco Terenzio Varrone (116-27 aC), proprio riflettendo sulla natura del latino, concluse che la lingua è un codice disciplinato da norme, e che scopo del linguista è quello di scoprire e classificare tali norme individuandone le eccezioni, senza tuttavia cercare di migliorare la struttura del linguaggio, un compito questo riservato piuttosto agli scrittori e ai retori; grammatiche descrittive come quella di Donato testimoniano il livello di elaborazione raggiunto in epoca imperiale dai linguisti dell’antichità romana.

Durante il medioevo tali opere furono essenziali per la conservazione e la trasmissione del latino (lingua ufficiale dell’Impero Romano d’Occidente e della Chiesa, ma ormai avviata alla frammentazione in vari idiomi neolatini e alla progressiva sostituzione con le lingue volgari). Intorno al XII sec., quando l’Europa per tramite arabo riscoprì la cultura greca, tornò a farsi sentire l’influsso aristotelico e la linguistica tornò ad acquisire una maggiore autonomia come disciplina speculativa: i linguisti medievali indagarono allora il modo in cui la realtà esterna è rappresentata dal linguaggio, che costituisce il mezzo attraverso il quale l’umanità può comunicare la propria visione del mondo. Il contributo più importante di questa linguistica speculativa fu la teoria della grammatica universale: attraverso lo studio delle lingue parlate, i grammatici conclusero che tutti gli esseri umani hanno la capacità di imparare una lingua, e che le differenze da lingua a lingua sono solo fattori puramente accidentali. Tale circostanza non ne sminuiva tuttavia il valore: nel 1492 apparve così

la Grammatica castigliana di Antonio de Nebrija con la quale lo spagnolo veniva posto sullo stesso piano della lingua che allora si considerava perfetta, ossia il latino.

Se nel Rinascimento fu viva l’esigenza di salvaguardare la lingua latina come portatrice della cultura classica, l’interesse suscitato dalle ricerche sulle lingue volgari, legato anche all’insorgere dei primi nazionalismi, rese possibili studi comparati volti a individuare le caratteristiche comuni del linguaggio: intorno all’origine del linguaggio stesso e alle sue relazioni col pensiero, si sviluppò così, nel XVIII sec. la disputa tra empirici e razionalisti (i pensatori dell’Illuminismo) influenzati dai principi del razionalismo cartesiano espressi in particolare già nella Grammatica (1660) di Port-Royal, con la quale si teorizzava un legame diretto tra linguaggio, pensiero e realtà.

Il Romanticismo, con la rinascita dell’interesse per tutto ciò che ha a che fare con la cultura e l’«anima» dei popoli introdurrà il concetto della lingua come espressione principale dello spirito delle nazioni, e farà riemergere, in un’epoca di studi comparativi ed etnografici, l’interesse per la descrizione e la comparazione delle lingue, concepite come organismi viventi, dotate di un’origine, soggette a mutamenti, caratterizzate da rapporti di analogia e differenza, e così via.

Come abbiamo già visto, la scoperta del sanscrito diede un notevole impulso in questa direzione. Nel 1786, William Jones stabilì appunto il rapporto di parentela esistente tra questa lingua, il latino, il greco e le lingue germaniche. Poi, nel 1816, con un lavoro dal titolo Coniugazione del sistema Sanscrito, Franz Bopp sancì che lo studio dei rapporti di parentela tra le lingue, ossia la comparazione tra loro alla ricerca di affinità e differenze, avrebbe potuto costituire una scienza autonoma: era questo l’atto di nascita della linguistica intesa come disciplina. Le ricerche linguistiche si svilupparono soprattutto attraverso lo studio delle lingue romanze e delle lingue germaniche: Friedrich Diez con la sua Grammatica delle lingue romanze (1836-1838) contribuì non poco a sollecitare la riflessione su questi temi, facilitato dal fatto che per le lingue romanze si dispone del latino, loro antecedente storico immediato, la cui analisi consente di seguire nei dettagli l’evoluzione delle lingue da esso derivate. La scuola dei neogrammatici, nel XIX sec., ebbe a sua volta il merito di leggere in prospettiva storica i risultati delle riflessioni sull’evoluzione delle lingue.

In un primo tempo come si vede, ci si limitò essenzialmente a stabilire raffronti e parentele tra le lingue, e non fu mai sollevata la questione dei motivi e dei meccanismi che stanno all’origine del linguaggio e della sua evoluzione. Nella seconda metà del XIX sec., sulla base di questi precedenti e per influsso della metodologia applicata alle scienze sociali ed etnografiche, intorno alla figura dello svizzero Ferdinand de Saussure, andò invece definendosi più chiaramente l’oggetto di studio della linguistica come scienza: per Saussure, scopo della linguistica è l’analisi del funzionamento dei segni all’interno della vita sociale. Il contributo principale di Saussure alla nuova scienza fu in particolare la distinzione tra lingua (sistema) e parola (sua manifestazione), e la definizione del segno linguistico come insieme di significante e significato, tutti concetti questi sui quali ci soffermeremo più avanti.

Nel XX sec. il linguista americano Noam Chomsky elaborò i principi del generativismo, scuola che intese spostare l’attenzione dal linguaggio come sistema (la langue saussuriana) alla lingua come prodotto della mente del parlante, dotato della capacità innata di conoscere le regole secondo cui la lingua funziona, al punto da riuscire a formulare frasi che non ha mai sentito prima: ogni essere umano appare dotato di questa capacità, che attinge alla grammatica universale, definita ora come un insieme di regole che governano tutte le lingue allo stesso modo. Saussure e Chomsky si sono posti dunque il problema di descrivere e spiegare il linguaggio come fenomeno autonomo e isolato, un obiettivo che appare superato da alcune tendenze della linguistica più recente, come la corrente funzionalista secondo la quale il linguaggio non può essere studiato senza tener conto della sua funzione principale, quella della comunicazione umana nel suo complesso. 1.3. Linguaggio e lingua Prima di sviluppare ogni altra considerazione, è opportuno attuare una distinzione tra lingua e linguaggio: il linguaggio si definisce in generale come l’insieme dei feno-meni di comunicazione che si verificano all’interno del mondo animale in base alla capacità di utilizzare un codice comune. Per codice intendiamo qui un insieme di cor-rispondenze che mettono in comunicazione determinati contenuti con determinate forme espressive, conoscendo le quali, per convenzione, a un ricettore è possibile in-terpretare i messaggi inviati da un emittente.

Mentre la lingua è un sistema di comunicazione caratteristico e peculiare della specie umana, esistono quindi forme di linguaggio peculiari di altri esseri animati: ad esempio i canti e i richiami degli uccelli, il linguaggio dei delfini, ma anche linguaggi basati su movimenti (la «danza» con la quale le api segnalano la presenza di nettare) o addirittura su emissioni ormonali (il linguaggio «chimico» delle formiche). Anche l’uomo del resto ricorre a forme di comunicazione che escludono l’emissione di suo-ni: si pensi ad esempio alla gestualità con la quale è possibile esprimere alcuni con-cetti, agli alfabeti di segni (spesso molto elaborati) dei sordomuti, ma anche ai lin-guaggi artificiali come quello matematico, utilizzati per esprimere concetti esclusi-vamente astratti.

Lingua e linguaggio, di conseguenza, non sono sinonimi: tuttavia, con riferimento alla forma più normale di comunicazione tra esseri umani, il concetto generale di lin-guaggio, enunciato qui sopra, può essere inteso come la facoltà peculiare degli esseri umani di comunicare usando la lingua. Mentre la facoltà del linguaggio è una caratte-ristica innata di ogni individuo della specie, le diverse lingue costituiscono, in pratica, il modo in cui tale facoltà si realizza, ossia viene messa in pratica in un determinato contesto sociale e culturale. Infatti, in condizioni normali, qualsiasi persona è in grado di parlare, così come, sempre in condizioni normali, qualsiasi persona è in grado di camminare; ma mentre il movimento degli arti inferiori viene appreso in maniera i-dentica in qualsiasi società o comunità, si impara a parlare una lingua piuttosto che un’altra in base al contesto ambientale nel quale si verifica l’apprendimento. Cammi-

nare rappresenta quindi una mera funzione biologica e fisiologica, mentre nell’apprendimento del linguaggio entrano evidentemente in gioco fattori di ordine culturale, ossia di trasmissione di un insieme tradizionale di usi sociali. 1.4. Il linguaggio verbale Una lingua è essenzialmente un repertorio di segni verbali e di regole che li governa-no. Attraverso di essi si attua la comunicazione nell’ambito della società che accetta per convenzione l’utilizzo di tale codice. Le lingue verbali si definiscono naturali o storico-naturali in quanto frutto di un’evoluzione spontanea, indipendentemente dal livello di elaborazione che esse possono aver conosciuto per motivi di ordine cultura-le. In questo senso, è lingua qualsiasi sistema di comunicazione verbale condiviso da una società, indipendentemente dalla sua estensione e dal numero dei parlanti: la stes-sa distinzione tra lingua e dialetto è, come vedremo più avanti, di ordine specifica-mente culturale.

Ammettendo che la lingua sia, sostanzialmente, una particolare forma di linguag-gio costituita di suoni, occorre tuttavia distinguere tra la mera produzione sonora e il legame che si instaura tra quest’ultima e un qualsiasi messaggio. Non attiene necessa-riamente alla lingua, infatti, una qualsiasi forma di produzione sonora istintiva da par-te di un essere umano. Un grido di dolore o di sorpresa rappresenta ad esempio un’emissione sonora, ma si tratta di un fatto puramente istintivo e del tutto privo di una funzione comunicativa: non contiene, cioè, un messaggio volontariamente e-spresso, è uno sfogo automatico privo di valenze simboliche e inoltre non è partico-larmente rivolto a un determinato ricettore.

La volontarietà del segno verbale è quindi un aspetto essenziale della comunica-zione linguistica. Anche le interiezioni alle quali siamo soliti affidare la rappresenta-zione di determinati stati d’animo (ah, oh, ahi, ecc.) rappresentano già una stilizza-zione dotata di valore simbolico, che parte dalla riproduzione e interpretazione dei suoni naturali (il grido di dolore, di stupore ecc.) ma come elaborazione non sponta-nea di essi.

Allo stesso modo le parole di origine onomatopeica (upupa, cuculo, croccante, scricchiolare ecc.) non rappresentano affatto dei suoni naturali, ma sono creazioni della mente ispirate alla natura. L’ipotesi che il linguaggio umano parta in primo luo-go da formazioni di tipo onomatopeico appare contraddetta quindi dal fatto che tale tipo di creazione implica un processo intellettuale non diverso da quello che porta alla coniazione di qualsiasi altra espressione: è significativo osservare in proposito che molte lingue parlate presso società primitive sono quasi o del tutto prive di formazio-ni onomatopeiche, che abbondano invece in lingue molto elaborate concettualmente, come ad esempio l’inglese.

2. LA LINGUA

2.1. Il codice lingua Da quanto è stato fin qui enunciato, la lingua può definirsi come un metodo pura-mente umano e non istintivo per comunicare idee, emozioni e desideri attraverso un sistema di segni verbali volontariamente prodotti.

Tali segni, secondo Ferdinand de Saussure, fondatore della Linguistica generale, si manifestano come espressioni di una langue, ossia dell’insieme di convenzioni ne-cessariamente adottate dalla società come sapere collettivo, destinato a permettere l’uso della facoltà del linguaggio da parte degli individui; e al tempo stesso come e-spressioni di parole, ossia dell’atto individuale mediante il quale la langue si manife-sta come messaggio concreto dei singoli parlanti.

Dal punto di vista fisiologico, i simboli della comunicazione umana sono prodotti dai cosiddetti organi vocali (polmoni, palato, naso, bocca, lingua, denti, labbra, la-ringe...), fatto che pare determinare la lingua come una funzione di ordine prevalen-temente biologico. Tuttavia, mentre le gambe – per tornare a un esempio già enuncia-to – espletano essenzialmente la funzione che consente di camminare, nessuno degli organi vocali è preposto esclusivamente alla funzione di parlare: tale funzione costi-tuisce quindi una facoltà secondaria, un po’ come l’utilizzo delle dita per suonare il pianoforte non rappresenta certamente la funzione primaria di tali arti.

Il linguaggio non è dunque un’attività involontaria, ma rappresenta un’applicazione complessa di energie dal cervello al sistema nervoso ai vari organi, il cui fine ultimo è la comunicazione (lat. communico ‘metto in comune [un’informazione]’): si tratta quindi di una funzione che si sovrappone alle altre fun-zioni degli organi preposti, che vengono sfruttati per tale specifico scopo.

La localizzazione del linguaggio nel cervello rappresenta a sua volta un aspetto prevalentemente biologico di tale funzione: nel cervello risiedono infatti anche altre sensazioni uditive (esso percepisce allo stesso modo anche suoni inarticolati, rumori ecc.), o processi motori diversi da quelli che regolano la funzione del linguaggio at-traverso gli organi vocali (il movimento delle corde vocali, della lingua ecc. si verifi-ca in modo non diverso dai processi che regolano il movimento delle dita o delle gambe). È quindi evidente che la lingua non può essere definita esclusivamente in termini psicofisici (per quanto essi siano essenziali) perché l’esperienza sociale è un elemento fondamentale per la sua comprensione: infatti, si può discutere di una lingua dando per scontati i meccanismi organici che la producono, ma non i tratti culturali che la individuano.

Se ne deduce che un determinato suono (o combinazione di suoni) «presente» nel cervello non è un elemento di lingua fino a quando non viene associato all’esperienza della comunicazione, all’immagine visiva che determina il significato o alla consape-volezza di certe relazioni che si instaurano tra il suono e gli oggetti che esso è chia-

mato a determinare: il cervello, cioè, può possedere il «suono» della parola casa, ma esso non assume significato fino a quando non viene associato al concetto preciso che tale parola significa.

Ciò implica che il segno linguistico si compone in realtà di un significante e di un significato: il significante è l’aspetto sensibile del segno e consta degli elementi fono-logici che lo compongono; il significato rimanda indirettamente alla cosa significata. 2.2. Funzioni comunicative del linguaggio In base al modello elaborato da Roman Jakobson all’inizio degli anni Sessanta, la comunicazione può avere sei diverse funzioni: referenziale, emotiva, conativa, fàtica, metalinguistica e poetica, le quali caratterizzano e differenziano tra loro i diversi e-nunciati. In realtà è difficile produrre atti linguistici che corrispondano a una sola e una soltanto delle funzioni del linguaggio: la specificità di un dato enunciato non ri-siede nell’esclusività dell’una o dell’altra funzione, ma nella prevalenza esercitata dalla funzione in esso predominante.

Le funzioni principali del linguaggio sono le prime tre, referenziale, emotiva e co-nativa. La funzione referenziale è orientata verso il contesto, ossia verso la realtà e-xtralinguistica: i messaggi ci trasmettono un’informazione, un’asserzione su un con-tenuto dell’esperienza, sia concreta (oggi piove) sia mentale (la felicità non esiste) o immaginaria.

La funzione emotiva è invece indirizzata verso la persona che parla, della quale proietta in primo piano un’emozione determinata o l’atteggiamento rispetto a ciò di cui si parla (sono stanco; come sei simpatico!). Essa ricorre spesso a frasi esclamati-ve, interiezioni ecc.

La funzione conativa è orientata verso il destinatario: sono messaggi conativi quelli presenti in frasi imperative (Alzati!), esortative (su, usciamo!), o nel vocativo (ti prego, cara, ascoltami).

La funzione fàtica si esplica invece con messaggi privi di autentica carica infor-mativa, che servono essenzialmente per stabilire, prolungare e mantenere la comuni-cazione. Sono a carattere fatico i convenevoli e le formule di cortesia (ciao, come va?), gli attacchi di conversazione, le formule vuote di reale significato con le quali si fa in modo di tenere costantemente aperto il canale della comunicazione. La funzione metalinguistica si ha ogni volta che il discorso riguarda lo stesso codice di comuni-cazione, sia a livello di riflessione elaborata (ad esempio una lezione di linguistica), sia in locuzioni con le quali si precisa la richiesta di chiarezza da parte di chi ascolta (non ti seguo) o la conferma da parte di chi parla che il suo messaggio è chiaramente recepito (capisci cosa intendo dire?) La funzione poetica infine, accessoria e sussi-diaria rispetto a tutte le altre, riguarda la particolare attenzione che si presta alla forma del linguaggio.

2.3. Proprietà del linguaggio Rispetto ad altri codici, il linguaggio verbale presenta alcune caratteristiche peculiari: alcune, come la scomponibilità del segno linguistico in elementi che rappresentano una parte del messaggio (articolazione) verranno trattate più ampiamente nella sezio-ne dedicata agli elementi costitutivi del linguaggio. Vanno qui ricordate invece alcune proprietà che consentono di perfezionare e concludere la riflessione di base sulla na-tura stessa della lingua. Arbitrarietà del segno linguistico: come si è in parte anticipato, la lingua assegna suoni convenzionali volontariamente articolati (significanti) ai diversi elementi dell’esperienza umana (significati): la parola casa non è un fatto linguistico soltanto per l’effetto acustico che produce, ma diventa tale quando alle esperienze connesse a questa combinazione di suoni si associa l’immagine di una casa.

Per funzionare perfettamente, tale associazione deve essere di ordine simbolico: l’esperienza connessa all’apprendimento del legame che intercorre tra la parola casa e una particolare casa deve essere trasferita su tutte gli altri oggetti individuabili come case: ciò costituisce un’astrazione che, per risultare funzionale alla comunicazione, deve essere condivisa e accettata dall’intera comunità dei parlanti: al di là delle diffe-renze che caratterizzano ciascuna di esse, si conviene infatti che tutte le case presen-tino un certo numero di caratteristiche comuni, tali da consentire di definirle unita-riamente.

È importante osservare inoltre che il segno linguistico connesso al concetto di casa è del tutto arbitrario: nulla vieta infatti di stabilire per convenzione che il concetto di casa possa essere associato a qualsiasi altra parola, senza che ciò implichi, per le per-sone che accettano tale convenzione, limite alcuno nella comprensione del messag-gio: non a caso, del resto, in lingue diverse lo stesso concetto viene espresso in forme diverse: it. casa, lat. domus, fr. maison, ingl. house, ecc.

Illimitatezza di esprimere contenuti: Per quanto la lingua rappresenti di fatto un insieme di simboli riferiti a concetti, non sempre i suoi utenti portano a compimento lo sfruttamento delle sue possibilità concettuali. Si possono fare usi estremamente di-versi del sistema simbolico rappresentato dalla lingua. L’aspetto formale del linguag-gio è costante nel suo utilizzo, ma il suo contenuto varia enormemente a seconda del-le attitudini e dei contenuti che le persone coinvolte intendono trasmettere o sono chiamate ad apprendere. Evidentemente, altra cosa è esprimere un semplice enunciato del tipo ho fame, altra cosa è esporre la teoria della relatività, anche se i meccanismi di trasmissione e di ricezione del messaggio sono sostanzialmente identici.

Tutto ciò implica che il pensiero è il più alto grado di contenuto della lingua, e la lingua si pone in certo qual modo al servizio di esso nel tentativo di renderlo esplici-to: ciò implica che il pensiero non è possibile senza il linguaggio, e che il linguaggio, a sua volta, non avrebbe ragione di esistere senza il pensiero.

Trasferibilità su supporti diversi: Il sistema simbolico normalmente in uso nella lingua, basato come si è visto sulla concordanza di significato tra le immagini acusti-che emesse e le immagini acustiche percepite può essere trasferito su altri supporti: ad

esempio si può avere una percezione visiva dell’articolazione (tecniche di lettura del-le labbra da parte dei sordomuti); si può avere il trasferimento su un piano visivo at-traverso la parola scritta, nella quale ogni singolo elemento grafico corrisponde a un elemento specifico del sistema originario; ancora, si può avere l’utilizzo della gestua-lità mediante la realizzazione di un vero e proprio alfabeto di segni (linguaggio a ge-sti dei sordomuti).

Altre forme di gestualità, invece, non riflettono perfettamente il sistema simbolico della lingua: molti aspetti della gestualità umana sono infatti comprensibili da perso-ne che parlano lingue diverse: il gesto di portarsi la mano alla bocca per indicare la necessità di mangiare, ad esempio, può essere capito facilmente da chi esprimerebbe tale esigenza col verbo francese manger, con quello spagnolo comer, con l’inglese to eat o col tedesco essen.

In linea di massima, comunque, qualsiasi comunicazione volontaria di idee è basa-ta su una trasposizione diretta o indiretta del simbolismo caratteristico del linguaggio verbale così come esso viene normalmente prodotto e percepito. Ne consegue l’importanza essenziale del meccanismo linguistico per la trasmissione della cultura umana: infatti, le immagini acustiche che lo producono sono la sorgente storica di ogni altra forma di linguaggio; al tempo stesso, la facilità con la quale il sistema di simboli del linguaggio può essere trasportato da un supporto a un altro, da una tecnica all’altra, indica che i semplici suoni non costituiscono la parte essenziale della lingua: tale parte essenziale va ricercata quindi nel sistema di classificazione, nella struttura-zione formale e nel modo di collegare i concetti che costituiscono un aspetto peculia-re del linguaggio umano.

Possibilità di creare messaggi inediti: l’importanza speciale che va attribuita alle strutture linguistiche può essere constatata dal fatto che tutti i popoli della terra di-spongono di sistemi linguistici ugualmente sviluppati nell’articolazione della loro possibilità di trasmettere informazioni: la struttura di qualsiasi dialetto di popolazioni scarsamente evolute da un punto di vista culturale è in grado di sostenere, potenzial-mente, gli stessi concetti che vengono espressi nelle grandi lingue di cultura europee, come il francese o il tedesco.

In sostanza, i fondamenti strutturali del linguaggio sono comuni a tutte le lingue, e ciascuna di esse ha la possibilità di svilupparli e di portarli a un grado raffinato di e-laborazione, così come il lessico può risultare arricchito, come vedremo, attraverso meccanismi di conio o l’assunzione di prestiti.

Parte II – Nozioni di grammatica

3. FONETICA 3.1. Cos’è la grammatica Tra le possibili definizioni della grammatica, quella che meglio soddisfa una conce-zione generale di questo tipo di disciplina la propone come descrizione degli elementi costitutivi di una lingua. In genere si intende piuttosto, per grammatica, la descrizione delle norme che regolano l’organizzazione e il funzionamento della lingua, ma tale definizione attiene in particolare alle grammatiche normative, a quelle, cioè, che fis-sano e divulgano i criteri di un uso «corretto» della lingua sulla base di una tradizione consolidata o come fissazione di uno standard. Altri tipi di grammatiche sono la grammatica storica, che esamina l’evoluzione nel tempo (diacronica) di un idioma, e la grammatica comparata, che attua raffronti tra le strutture di idiomi diversi.

Gli elementi costitutivi della lingua, ai quali si è fatto cenno, si definiscono nell’uso tradizionale categorie grammaticali o anche parti del discorso, e corrispon-dono a classi di parole che condividono determinate caratteristiche morfologiche, sin-tattiche o semantiche che le differenziano da altre categorie. Le parti del discorso si dividono tradizionalmente in variabili (nome, pronome, aggettivo, verbo, articolo) e invariabili (interiezioni, preposizioni, avverbi, congiunzioni).

Le categorie grammaticali non corrispondono a tipologie universali: esistono lin-gue che non possiedono l’articolo, ad esempio, o addirittura lingue del tutto prive di aggettivi, e ancora lingue che fanno un uso del rapporto tra verbo e sostantivo assolu-tamente diverso da quello che siamo abituati a considerare «normale» nelle lingue appartenenti alla nostra tradizione europea. 3.2. Fonetica articolatoria Come è ovvio, le parti del discorso sono costituite da parole, e queste ultime si scom-pongono in suoni. La disciplina che si occupa in particolare dei suoni è detta foneti-ca.

Esistono diverse branche della fonetica; ad esempio, la fonetica acustica si occupa dei suoni in quanto onde sonore, mentre la fonetica uditiva studia i meccanismi di percezione dei suoni e la loro trasmissione al cervello. Tali discipline sono spesso le-gate intimamente ad altre scienze, e in particolare alla fisiologia, mentre attiene più specificamente alle scienze del linguaggio la fonetica articolatoria, quella cioè che analizza i suoni in base alle modalità con cui essi vengono prodotti, o, in altre parole, il modo in cui i suoni linguistici sono prodotti dall’apparato fonatorio.

Come è già stato anticipato, la fonazione, ossia il processo di produzione dei suoni linguistici, implica l’utilizzo di organi diversi. I polmoni emettono attraverso la tra-chea l’aria necessaria a produrre il suono; le corde vocali, all’interno della laringe, sono pieghe muscolari che vibrano al passaggio dell’aria producendo la voce; l’ossatura, i muscoli e le diverse cavità della bocca determinano con la propria posi-zione o azione l’articolazione del suono, che può definirsi pertanto come la produ-zione dei suoni linguistici attraverso la disposizione degli organi dell’apparato fona-torio.

I suoni si distinguono in vocali, e sono quelli emessi quando le corde vocali sono rilassate, e l’aria emessa non incontra ostacoli, e consonanti, che vengono prodotte quando il passaggio dell’aria è impedito da restringimenti totali o parziali prodotti dall’azione degli organi fonatori. A seconda che l’aria, passando, faccia o no vibrare le corde vocali, le consonanti si distinguono a loro volta in sonore e sorde. In base alla durata di emissione, sia le vocali che le consonanti possono essere brevi o lunghe. 3.3. Vocali Prodotte come si è detto dal flusso dell’aria che non incontra ostacoli nel suo percor-so, le vocali si differenziano tra loro in base alla posizione della lingua, durante l’emissione vocale, rispetto al palato. Si hanno quindi vocali:

- aperte (o basse) se la lingua è appiattita verso il basso; - medie, se la lingua è in una posizione intermedia all’interno del cavo orale;

si distingue tra medie semiaperte (o mediobasse) e semichiuse (o medioalte) in base alla maggiore o minore vicinanza della lingua al palato;

- chiuse (o alte), se la lingua si avvicina maggiormente al palato.

Inoltre, la lingua può determinare un restringimento maggiore verso le diverse regioni del palato, quella anteriore – il palato duro vero e proprio – quella centrale, e quella posteriore (palato molle, detto anche velo palatino). Ciò determina l’emissione di vo-cali rispettivamente dette anteriori (o palatali), centrali e posteriori (o velari). Si determinano inoltre vocali arrotondate o non arrotondate a seconda che le labbra si protendano o meno in forma circolare.

La lingua italiana possiede un inventario di sette vocali toniche (sulle quali, cioè, cade l’accento) così definibili in base alla posizione della lingua e al diverso grado di apertura:

- vocale aperta (o bassa) centrale: a di casa, faccia - vocale media semiaperta (o mediobassa) anteriore: e di festa, bello - vocale semiaperta (o mediobassa) posteriore: o di fuoco, luogo - vocale semichiusa (o medioalta) anteriore: e di cena, vero

- vocale semichiusa (o medioalta) posteriore: o di solo, molo - vocale chiusa (o alta) anteriore: i di dito, vini - vocale chiusa (o alta) posteriore: u di tutto, puro

Nel caso delle vocali atone (sulle quali cioè non cade l’accento) viene meno la di-stinzione tra e ed o aperte e chiuse, e il sistema vocalico si riduce a cinque elementi. 3.4. Consonanti Prodotte come si è visto dall’incontro del flusso d’aria con ostacoli totali o parziali, le consonanti sorde o sonore si distinguono in base alle parti dell’apparato fonatorio che vengono coinvolte durante l’emissione dell’aria (luogo di articolazione) e al mo-do in cui l’aria viene fatta passare (modo di articolazione).

In base al luogo di articolazione si hanno, nella lingua italiana, consonanti

- bilabiali, ossia prodotte dal contatto delle labbra; - labiodentali, prodotte dal contratto tra il labbro inferiore e i denti superiori - alveodentali, prodotte dal contatto della lingua con gli alveoli degli incisivi

superiori - palatali, prodotte dal contatto tra lingua e palato - velari, prodotte dal contatto della parte posteriore della lingua col velo pa-

latino. In base al modo di articolazione si distinguono invece consonanti

- occlusive, quando si attua una chiusura totale - fricative, quando la chiusura è parziale - affricate, date dall’incontro rapido tra un’occlusiva e una fricativa - nasali, quando si verifica il passaggio dell’aria nella cavità nasale - approssimanti laterali, quando l’aria passa ai lati della lingua - polivibranti quando si verifica una vibrazione della lingua o dell’ugola.

Inventario delle consonanti dell’italiano (secondo la grafia corrente):

p occlusiva bilabiale sorda (pane, tappo) b occlusiva bilabiale sonora (bene, abbastanza) m nasale bilabiale (sonora) (mano, amare) f fricativa labiodentale sorda (fame, ceffo) v fricativa labiodentale sonora (vento, avviso) n nasale alveodentale (sonora) (nuovo, cane) t occlusiva alveodentale sorda (tana, etto) d occlusiva alveodentale sonora (dente, addio) z affricata alveodentale sorda (stazione, pazzo)

z affricata alveodentale sonora (zona, azzerare) s fricativa alveodentale sorda (sera, fosso) s fricativa alveodentale sonora (smodato, rosa) l approssimante laterale alveodentale (sonora) (lana, palla) r polivibrante alveodentale (sonora) (rana, carro) sc fricativa palatale sorda (scena, ascia) c affricata palatale sorda (cena, accento) g affricata palatale sonora (giorno, aggiustare) gn nasale palatale (sonora) (gnomo, ignorare) gl approssimante laterale palatale (sonora) (famiglia, aglio) c occlusiva velare sorda (cane, pacchi) g occlusiva velare sonora (gatto, ghiro)

Si chiamano semiconsonanti quei suoni nell’emissione dei quali si attua un leggero restringimento delle vie di passaggio dell’aria; in italiano, sono semivocali (dette an-che semivocali o approssimanti) la i e la u pronunciate prima o dopo una vocale, con la quale formano dittonghi ascendenti (quando la semivocale precede la vocale, co-me in fuoco) o discendenti (quando la vocale precede la semivocale, come in causa). 3.5. Alfabeto

È necessario avere ben chiara, per quanto possa sembrare banale, la distinzione ter-minologica che si propone tra suono e lettera: la seconda corrisponde a una mera tra-sposizione grafica, ed è una convenzione artificiale, accettata dai parlanti, per l’utilizzo scritto della lingua attraverso l’alfabeto.

Si definisce alfabeto l’insieme ordinato dei simboli grafici corrispondenti ai suoni di una lingua. Il suo nome deriva dalle prime due lettere della sequenza alfabetica greca, alpha (α) e beta (β).

Nelle prime forme di scrittura, a ogni segno doveva corrispondere una parola, come nel caso dei geroglifici, successivamente si passò a segni che rappresentavano singole sillabe (come nell’alfabeto cuneiforme diffuso nel mondo mesopotamico), e infine singoli suoni, in particolare quelli consonantici. Rispetto alla scrittura geroglifica, basata su un complesso utilizzo di simboli dotati di varie funzioni, la scrittura alfabetica rappresenta dunque una notevole semplificazione: si ritiene che i primi ad elaborarla furono i popoli semitici occidentali stanziati lungo le rive del Mar Rosso e del Mediterraneo (1700-1500 a.C.), e in particolare gli Ebrei e i Fenici, che elaborarono il proprio alfabeto di 22 segni fra il XIII e l’XI sec. a.C.

I greci impararono questo sistema di scrittura attraverso le loro relazioni con città commerciali e mercati fenici come Byblos, lo adottarono verso il 900 a.C. ma vi introdussero i segni destinati a rappresentare le vocali e la consuetudine di scrivere da sinistra a destra. Dall’alfabeto greco in varie epoche sono derivati quelli etrusco gotico, copto, armeno, georgiano, slavo (glagolitico e cirillico) e così via. L’alfabeto latino è a sua volta un’evoluzione di quello che gli Etruschi elaborarono a partire dal

modello greco. Con l’espansione della civiltà latina e del cristianesimo, l’alfabeto romano ha conquistato tutta l’Europa: celti, slavi, germani, scandinavi, ecc. lo hanno adottato introducendovi varianti proprie.

Non sempre la scrittura alfabetica garantisce una corrispondenza costante tra i fonemi e i grafemi (o lettere) che sono usati in una lingua: i simboli alfabetici possono allora combinarsi tra loro o adottare dei segni diacritici (accenti, dieresi ecc.) allo scopo di evitare ambiguità tra suoni diversi che rappresentano; è il caso ad esempio dello spagnolo, che richiede il segno diacritico su n per rappresentare il suono della nasale palatale (España), o dell’italiano, per il quale, nella scrittura dello stesso suono, occorrono due lettere (gn).

Per ovviare a questi inconvenienti, quando si richieda per motivi scientifici o didattici un’estrema esattezza nella rappresentazione di ciascun suono, si adottano i cosiddetti alfabeti fonetici, ossia sistemi convenzionali di pronuncia basati su una descrizione accurata di ciascun fono.

L'alfabeto fonetico internazionale, in particolare, è usato dai linguisti, a partire dal 1886, per rappresentare in maniera univoca ciascuno dei diversi suoni che l’apparato vocale è in grado di produrre. La maggior parte dei suoi simboli sono rica-vati dall’alfabeto latino o derivati da esso, alcuni sono tratti dall’alfabeto greco, e altri sono stati elaborati appositamente.

4. FONOLOGIA 4.1. Fono e fonema

Nell’ambito della fonetica, la fonologia è la disciplina che si occupa dei suoni intesi nella loro funzione di identificatori di significato all’interno della parola. Quando e-spletano tale funzione, i suoni (o foni) vengono tecnicamente definiti fonemi, e si de-finiscono come i segmenti minimi isolabili privi di un loro autonomo significato, la cui combinazione rende tuttavia possibile la formazione di unità portatrici di signifi-cato.

Sono considerati fonemi diversi, cioè, i suoni che permettono di distinguere attra-verso coppie minime di parole significati diversi: ad esempio, la r, la p e la v rispetti-vamente in caro, capo, cavo sono altrettanti fonemi perché contribuiscono a distin-guere il significato delle parole in cui sono compresi attraverso una opposizione fo-nematica; lo stesso si può dire per la c e la l in cavo e lavo, per la a e la e in lavo e levo, e così via.

I fonemi si identificano per i tratti distintivi che li oppongono quando le parole vengono organizzate in coppie minime: ad esempio, tra la p di capo e la v di cavo i tratti distintivi sono l’opposizione tra sordità di p e sonorità di v, tra l’articolazione labiale di p e labiodentale di v, tra il modo di articolazione occlusivo di p e fricativo di v, e così via; tra fato e fatto, l’opposizione è data invece dalla diversa intensità del-la t.

Si definiscono varianti (o allòfoni) quei foni che, pur essendo presenti in una lin-gua, non espletano la funzione di identificatori di significato in quanto non sono in grado di porsi in opposizione fonematica con altri: ad esempio la n che precede una consonante velare è diversa dalla «normale» nasale alveodentale (si può verificare questa differenza confrontando il suono nasale presente nelle parole anche, sangue con quello che si riscontra in tono, naso), ma questa nasale velare è presente solo in quella determinata posizione (variante di posizione o combinatoria) e non contri-buisce a determinare coppie minime; analogamente la r «francese» comunemente det-ta r moscia è semplicemente una variante di pronuncia (variante libera) rispetto alla r «italiana», e non costituisce pertanto un fonema.

4.2. Sillabe, accento, intonazione

Si definiscono sillabe le sequenze foniche minime di fonemi. Ogni sillaba è composta da almeno un fonema vocalico che ha funzione di nucleo, e che può essere preceduto o meno da una testa e seguito da una coda, costituite da consonanti. Si chiamano a-perte o libere le sillabe che terminano per vocale, chiuse o implicate quelle che ter-minano per consonante.

L’accento distingue una sillaba particolarmente significativa nella sequenza fono-logica: esso delimita, scandendole, le singola parole, e può distinguere parole altri-menti ambigue (come nel caso ad esempio di àncora e ancòra). A seconda delle lin-gue, l’accento può essere in posizione fissa (come in francese: sempre sull’ultima sil-laba) o libera come in italiano, lingua in cui si hanno parole piane (in cui l’accento cade sulla penultima sillaba), tronche (ultima), sdrucciole (terzultima), ecc.

Si definiscono clitici le parole prive di accento, per lo più a carattere grammaticale (preposizioni, pronomi, ecc.) che si appoggiano ad altre parole durante l’emissione vocalica: gli enclitici seguono la parola (diglielo, dillo), i proclitici la precedono (ne vuoi, gli dico).

L’accento italiano è realizzato attraverso un aumento dell’emissione della voce, ma altre lingue hanno ad esempio un accento tonale, basato sulla modulazione della voce. In italiano, invece, la modulazione o intonazione della voce esprime le inten-zioni con le quali la parola viene pronunciata, e viene rappresentata graficamente, quando è possibile, attraverso la punteggiatura: si distingue ad esempio tra una into-nazione interrogativa (vieni?) ed esclamativa (vieni!), ma il tono della voce può essere ad esempio dubitativo, ironico, scherzoso, affettuoso ecc. 4.3. Cenni di fonosintassi È la disciplina che si occupa dei mutamenti fonetici che si verificano all’incontro fra parole diverse in una frase o fra elementi morfologici all’interno della stessa parola. Tra i fenomeni di rilievo che attengono alla fonosintassi vanno registrate le restrizio-ni fonotattiche o limitazioni relative alla posizione dei fonemi (ad esempio, in italia-no il gruppo str non si incontra mai in fine di parola), in base alle quali si definiscono tra l’altro quali incontri di fonemi siano possibili in una determinata lingua: ciò è par-ticolarmente importante quando la restrizione impone fenomeni assimilativi che at-tengono al mutamento storico della lingua (poiché l’italiano rifiuta il nesso -dt-, ad esempio, dal latino adtrahere si è passati ad attrarre) e alle variazioni morfologiche (poiché i è una vocale palatale, ad esempio, nel plurale di amico la c si assimila ad es-sa e si ha la forma amici).

5. MORFOLOGIA

5.1. Il morfema La morfologia è una branca della grammatica che si occupa della struttura delle pa-role e dei meccanismi attraverso i quali le unità portatrici di significati semplici si or-ganizzano in significati complessi; in altre parole, studia l’insieme degli elementi, ca-tegorie e regole che riguardano la forma delle parole di una data lingua.

L’unità minima isolabile portatrice di significato è il morfema, da considerarsi su-periore ai fonemi, dai quali è formato, e inferiore alla parola, che contribuisce a sua volta a formare. Il significato del morfema non è isolabile rispetto a quello degli altri morfemi, ed è usato solo in funzione di specificazione reciproca. Ciò si può verificare agevolmente quando si scomponga una parola nei diversi segmenti che ne definisco-no il significato: in una parola come sganciavamo, ad esempio, la s- iniziale indica una negazione, -ganc- ha il significato di ‘attaccare qualcosa mediante un apposito meccanismo’, -av- indica un’azione continua nel passato, -amo indica un soggetto molteplice nel quale è incluso colui che parla: il significato complessivo si deduce, come è evidente, dall’insieme dei significati specifici di ciascun morfema, che può essere sostituito da un morfema diverso in grado di modificare il senso della parola. Togliendo -ganc- e inserendo -radic- si ha ad esempio sradicavamo, togliendo -amo e inserendo -ate si ha sganciavate, e così via.

I morfemi si distinguono in lessicali (portatori di specifici significati, come -ganc- dell’esempio precedente) e grammaticali (portatori di funzioni grammaticali, come -av- e -amo); mentre i morfemi lessicali sono potenzialmente infiniti, quelli grammati-cali sono in numero limitato e rigidamente codificati, al punto che i neologismi e i prestiti che vengono adattati morfologicamente alla lingua implicano la loro adozione (sportivo, masterizzare ecc.) per consentire il loro funzionamento all’interno del si-stema che li accoglie. La conoscenza dei morfemi grammaticali è essenziale affinché il parlante possa pienamente condividere il codice linguistico col proprio interlocuto-re.

I morfemi grammaticali stabiliscono sempre un rapporto logico tra loro: mediante questo accordo, la forma di una parola determina quella delle parole ad essa collega-te: la rosa fiorita, le rose fiorite sono costrutti grammaticalmente validi, mentre ciò non si può dire evidentemente di un enunciato come *le rosa fioriti.

Nella grammatica tradizionale, il morfema lessicale corrisponde in genere alla ra-dice di una parola, mentre i morfemi grammaticali sono noti di volta in volta come desinenze, o anche suffissi e prefissi.

5.2. Doppia articolazione In base alle definizioni offerte di fonema e morfema appare evidente come il linguag-gio umano costituisca un insieme di elementi articolato ed analizzabile su due livelli, quello delle unità rappresentato dalle unità dotate di significato (i morfemi), che si combinano per formare le parole (primo livello), e quello rappresentato da unità pri-ve di significato ma dotate di una funzione distintiva (i fonemi) che si combinano per formare i morfemi (secondo livello).

Il primo livello dell’articolazione riguarda quindi sia il piano dell’espressione che quello del contenuto, mentre la seconda articolazione riguarda soltanto il piano dell’espressione.

La teoria della doppia articolazione linguistica, elaborata da André Martinet sot-tolinea in particolare l’economicità del linguaggio umano, e la sua capacità di funzio-nare attraverso un numero finito e limitato di suoni che combinandosi tra loro genera-no significati. 5.3. La parola e la sua flessione

La parola può essere definita, grosso modo, come una sequenza di morfemi che as-sumono un significato compiuto. In virtù di questa definizione, la parola può subire due tipi di modifiche della propria forma:

- la flessione, che la inserisce nel giusto contesto sintattico in base alla fun-

zione grammaticale che la la parola stessa è chiamata a svolgere; - la derivazione, attraverso la quale viene coniata una parola nuova.

La flessione è quindi l’insieme delle regole che determinano la congruenza della for-ma assunta dalla parola rispetto al contesto linguistico nella quale è inserita, in modo che ne sia immediatamente chiara la funzione logica. Ciò è reso possibile dai morfemi flessivi (in italiano si tratta di desinenze) che intervengono nelle parti variabili del di-scorso. Si chiama coniugazione la flessione che riguarda i verbi, declinazione quella degli elementi nominali. 5.4. Coniugazione I morfemi flessivi che attengono alla coniugazione contribuiscono a definire l’atteggiamento col quale il parlante presenta l’azione espressa dal verbo (modo), il tempo nel quale l’azione viene collocata dal parlante (tempo), la dimensione tempo-rale attribuita all’azione espressa dal verbo indipendentemente dal tempo assoluto in cui è collocata (aspetto), il tipo di partecipazione della persona o degli oggetti coin-volti (diatesi), le persone coinvolte (persona) e il loro numero (numero).

In italiano, i modi possono essere finiti, e sono quelli coniugati con desinenze di-stinte per persona e numero (indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo), o in-definiti, che presentano solo la marca modale e temporale (infinito, gerundio, parti-cipio). Inoltre il modo può corrispondere a un’azione reale (indicativo), eventuale (congiuntivo), soggetta a condizioni (condizionale), demandata ad altri (imperati-vo).

I tempi principali sono presente, passato e futuro; l’aspetto può essere perfettivo (quando l’azione è conclusa: perfetto, passato prossimo, futuro anteriore) o imper-fettiva, se l’azione è duratura (imperfetto); si distingue una diatesi attiva (il soggetto corrisponde all’agente) e passiva (il soggetto corrisponde all’oggetto ma non all’agente). La persona e il numero definiscono il parlante (I), il ricevente (II), un’altra persona che li esclude entrambi (III), un gruppo che include il parlante (IV), un gruppo che include il ricevente (V), un gruppo che li esclude entrambi (VI).

5.5. Declinazione La declinazione rappresenta l’insieme dei fenomeni flessivi relativi agli elementi nominali (sostantivo, aggettivo, pronome, articolo). Essa si articola in

- caso, che indica la funzione sintattica svolta dall’elemento nominale all’interno della frase: in italiano i casi sono definiti dalle preposizioni, che hanno sostituito le desinenze della flessione latina articolata in nominativo, genitivo, dativo, accusativo, ablativo;

- genere, che indica la categoria naturale che implica l’accordo grammaticale degli altri elementi della frase: l’italiano riduce alla tipologia grammaticale di maschile e femminile anche il genere neutro presente ad esempio in latino;

- numero, che indica la quantità degli individui e degli oggetti ai quali deve essere adeguato l’accordo grammaticale: l’italiano distingue tra singolare e plurale, ma restano riconoscibili anche le categorie di collettivo (es. la gente) e non numerabile (es. il sale).

6. FORMAZIONE DELLE PAROLE

6.1. Derivazione La derivazione rappresenta il tipo di mutamento che interviene per indicare un nuovo significato rispetto a quello originariamente detenuto dalla parola.

Rispetto all’infinito amare, ad esempio, i mutamenti che intervengono nella co-niugazione (amavo, amerò ecc.) appartengono come si è visto alla flessione, mentre la costruzione di un avverbio come amorevole implica mediante la creazione di una nuova parola significato autonomo, e attiene perciò alla derivazione.

6.2. Affissazione

Mentre la flessione implica un numero fisso di contesti sintattici possibili la deri-

vazione rappresenta un sistema aperto attraverso la pratica della affissazione, ossia della formazione di nuove parole mediante l’aggiunta di affissi (prefissi, suffissi) alla radice originaria. Per affisso si intende quindi un morfema lessicale in grado di modi-ficare il significato della radice.

Normalmente i suffissi sono in grado di modificare anche la categoria grammatica-le della parola: di conseguenza, il sostantivo mare genera ad esempio l’aggettivo ma-rino, l’aggettivo facile il sostantivo facilità, e così via; altri suffissi attribuiscono alla voce sfumature di significato, come i diminutivi (libretto), i peggiorativi (libraccio), gli accrescitivi (librone), ecc. Si definiscono affissoidi (prefissoidi, suffissoidi) que-gli affissi di origine dotta che entrano in gioco nella costruzione di neologismi (es. te-le- in televisione è un prefissoide, mentre la parola bibliografia è costituita dall’unione di un prefissoide e di un suffissoide). 6.3. Composizione

La composizione è il processo attraverso il quale si creano nuove parole attraverso l’unione di forme diverse. Tale processo si attua per coordinazione (quando le parole formano una coppia di significati: agrodolce, dormiveglia) e per specificazione (quando una delle due parole implicate contribuisce a chiarire e specificare il signifi-cato dell’altra: capotreno, cassaforte). Naturalmente una voce composta condivide le proprietà comuni alle altre parole della sua categoria, compresa quella di formare nuove parole per derivazione: maledire > maledizione.

7. SINTASSI 7.1. Il sintagma Si definisce sintassi di una lingua l’insieme delle norme che regolano la formazione delle frasi e la distribuzione degli elementi che le costituiscono. E’ detta catena sin-tattica la struttura logica in cui si dispongono i significati.

All’interno della catena sintattica, l’unità minima individuabile è rappresentata dal sintagma, una serie di parole accomunate da una medesima funzione logica. All’interno del sintagma si riconosce una testa, ossia la parola fondamentale del sin-tagma stesso, che può essere o meno dotata di modificatori, parole che svolgono una funzione accessoria nella definizione del senso: in una frase come il suo coltello a serramanico, la parola coltello costituisce la testa, senza la quale la frase stessa non avrebbe alcun senso. I sintagmi vengono classificati in base alla categoria grammati-cale della testa: se essa è rappresentata da un sostantivo, si avrà un sintagma nomi-nale, se si tratta di verbo, un sintagma verbale, e così via.

Gli elementi nominali all’interno di un sintagma si accordano sempre tra loro; tut-tavia, non sempre e non necessariamente le parole in accordo reciproco appartengono allo stesso sintagma: nella frase la tua maglia è rossa, l’aggettivo rossa concorda con maglia, ma fa parte del sintagma verbale è rossa, non di quello nominale la tua ma-glia. In questo caso, ci troviamo di fronte a due sintagmi dipendenti, che hanno sen-so soltanto in rapporto tra loro, ma esistono anche sintagmi indipendenti per i quali si creano connessioni a senso: è il caso ad esempio delle proposizioni incidentali del tipo ascoltando la musica, non mi sono accorto che il campanello suonava.

Il sintagma verbale esprime un’azione, uno stato o una qualità in relazione a un determinato oggetto o persona ed è formato da un verbo coniugato o da un verbo as-sociato a modificatori (nomi: fate attenzione; avverbi: si è comportato bene; forme preposizionali: il gelato è andato a ruba). Quando il sintagma è formato dal solo ver-bo, esso corrisponde al predicato verbale: Marco corre; quando vieni? Il sintagma verbale può comprendere all’oggetto dell’azione (Marco mangia la mela).

Il sintagma nominale esprime il soggetto dell’azione e può essere integrato in un sintagma verbale (mangia la mela); la testa del sintagma nominale determina l’accordo coi suoi modificatori: i miei colleghi nuovi.

7.2. La frase: coordinazione e subordinazione La frase rappresenta il segmento maggiore nel quale può essere suddiviso un enun-ciato, e può essere formata da uno o più sintagmi. Normalmente una frase comprende almeno un sintagma nominale e uno verbale: io mangio. Può bastare tuttavia il solo sintagma verbale se il soggetto risulta espresso dalla marca morfologica del verbo (mangio). In frasi esclamative o interrogative può verificarsi anche l’ellissi del verbo:

tu vieni? io no (= io non vengo). A seconda dello scopo col quale viene enunciata, la frase può essere definita affermazione, comando, domanda, esclamazione.

L’ordine dei costituenti della frase o del sintagma è uno dei tratti caratteristici del-le diverse tipologie linguistiche. La funzione di una parola all’interno dell’enunciato può essere infatti determinata dalla sua posizione all’interno di esso non meno che dalla presenza di modificatori. Ad esempio, in italiano il sintagma lettura di libri ha un senso preciso, mentre lettura libri di non ne ha evidentemente alcuno, e libri di lettura ne assume uno del tutto differente. Sono costituenti della frase il soggetto, os-sia il sintagma nominale che indica colui che compie l’azione; l’oggetto, ossia il sin-tagma nominale che indica chi o cosa è interessato all’azione espressa da un verbo transitivo attivo; il predicato, un sintagma verbale che esprime la relazione tra sog-getto e oggetto, oppure una qualità o stato relativa all’oggetto; il complemento, che completa le informazioni date dal verbo relativamente al soggetto.

In italiano, l’ordine dei costituenti è più comunemente soggetto - verbo - oggetto, ma ciò non costituisce una regola generale valida per tutte le lingue: il latino, ad e-sempio, prediligeva l’ordine soggetto - oggetto - verbo.

Si definisce periodo o frase composta ogni frase nella quale siano presenti almeno due sintagmi verbali costituiti da verbi di modo finito, ossia da più frasi semplici. Quando due proposizioni si trovano a livello di equivalenza sintattica, si definiscono coordinate; sono subordinate quelle che stabiliscono un rapporto di dipendenza da una principale.

Pertanto, la coordinazione, che è il tipo di struttura più semplice, è il legame logi-co che unisce due o più elementi omogenei per categoria grammaticale e aventi la stessa funzione all’interno dell’enunciato: amo il mare e detesto la montagna; due e-lementi coordinati possono disporsi liberamente (detesto la montagna e amo il mare).

La subordinazione è una forma di dipendenza logica che lega due o più elementi di un enunciato. Gli elementi indipendenti dagli altri sono chiamati reggenti o sovra-ordinati, gli altri dipendenti o subordinati. Un costituente, peraltro, può essere al tempo stesso reggente e subordinato, ad esempio in frasi come i giochi del figlio di Luigi. Nell’ambito della subordinazione, normalmente il sintagma verbale regge quel-lo nominale e quelli preposizionali.

Una frase subordinata può essere introdotta da congiunzioni subordinative, prepo-sizioni, pronomi relativi o interrogativi, aggettivi interrogativi o indefiniti, avverbi. I costituenti subordinati di una frase, se non sono a loro volta reggenti, possono essere omessi senza che la frase perda un senso compiuto: il libro che mi hai prestato è mol-to bello. Al contrario, l’elemento subordinato non può esistere senza la reggente: il sintagma che mi hai prestato, preso isolatamente, non ha senso compiuto. Possono verificarsi tuttavia casi di ellissi della reggente: Di chi è il libro? di Luca, dove, nella risposta, è sottinteso il verbo essere.

8. CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA DELLE LINGUE 8.1. Criteri di classificazione Lo studio della fonetica, della fonologia, della sintassi e della morfologia, e in parti-colare di quest’ultima, consente di analizzare brevemente le modalità attraverso le quali si attua la classificazione tipologica delle lingue: essa prevede infatti che gli i-diomi siano categorizzati, indipendentemente dalla dimensione spazio-temporale che li coinvolge, secondo le loro caratteristiche strutturali e secondo i meccanismi di fun-zionamento. Le tipologie individuabili si basano quindi su analisi di tipo sincronico, in base alla comparazione delle categorie grammaticali. In realtà tali tipologie si rifanno a modelli astratti, e non è pertanto sostenibile che una lingua appartenga esclusivamente a una di esse: una lingua classificata come flessiva, ad esempio, può presentare al suo interno elementi tipici di una lingua agglutinante, e così via. Vediamo in dettaglio le quattro tipologie nelle quali si è soliti suddividere le lingue parlate nel mondo, indipendentemente dai rapporti reciproci di parentela. 8.2. Lingue isolanti

Sono lingue isolanti, come ad esempio il cinese, quelle che non risultano dotate di una vera e propria struttura grammaticale, nelle quali le singole parole rimangono in-variabili essendo prive di flessione e derivazione, affidando l’espressione dei rapporti grammaticali all’ordine degli elementi nella frase. In cinese, così, non vi è distinzione di genere né di numero: per esempio, ma significa ‘cavallo’, ‘cavalla’, ‘cavalli’ e ‘ca-valle’. L’aggettivo è invariabile e solo la sua posizione rispetto al sostantivo ne stabi-lisce il valore attributivo o quello predicativo: hsiao ma significa ad esempio ‘il pic-colo cavallo’, ma hsiao ‘il cavallo è piccolo’; analogamente, il verbo non ha segni di-stintivi per le persone: quindi, ad esempio, lai può significare di volta in volta ‘io vengo’, ‘tu vieni’, ‘egli viene’ ecc., e i tempi sono indicati con avverbi o con verbi servili, ad esempio wo kuai lai ‘io presto venire’ corrisponde al futuro ‘io verrò’. 8.3. Lingue agglutinanti Le lingue agglutinanti come il turco e l’ungherese, prediligono tecniche di affissa-zione, aggiungendo cioè al morfema lessicale una sequenza di affissi nettamente de-limitabili l’uno dall’altro, ognuno dei quali è portatore di un solo e unico significato. Ad esempio, la parola turca ev significa ‘casa’, e il suffissso ler indica il plurale: di conseguenza, ‘case’ si dirà evler; ma poiché l’altro suffisso de esprime il concetto di stato in luogo, la forma evlerde significherà ‘nelle case’, mentre evde vale ‘in casa’.

8.4. Lingue flessive Le lingue flessive come l’italiano e il latino esprimono le diverse valenze grammati-cali variando la forma della parola per mezzo di morfemi (desinenze di genere, nume-ro, caso, persona ecc.) o di altre modificazioni, ma, a differenza delle lingue aggluti-nanti, possono cumulare in ciascun affisso una pluralità di valori e possono fondere le forme grammaticali con il corpo lessicale della parola. Tra le lingue flessive si distin-guono lingue sintetiche e analitiche a seconda se sintetizzino l’informazione gram-maticale in parole singole o se la diluiscano in forme complesse. E’ un procedimento sintetico, ad esempio, la flessione nominale organizzata per casi (come in latino, rex, regis), è analitico il ricorso alle preposizioni (in italiano del re, al re); l’italiano, lin-gua analitica, ha tuttavia forme sintetiche come nel caso di forme come migliore, bra-vissimo, suo contrapposte a più buono, molto bravo, di lui. 8.5. Lingue polisintetiche

Sono dette di volta in volta lingue incorporanti o polisintetiche quelle (ad esempio molti idiomi amerindi e polinesiani) nelle quali si riscontra la tendenza ad amalgama-re in un’unica parola un gran numero di morfemi lessicali e grammaticali, annullando di fatto la differenza tra la parola e la frase: ad esempio, l’espressione esquimese ta-kuqariartorumaluanerpâ? significa ‘pensate che egli abbia veramente intenzione di occuparsi di ciò?’ senza che sia possibile scorporare di fatto i vari morfemi che la compongono.

La classificazione tipologica non implica una valutazione gerarchica delle tipolo-gie linguistiche: ciascuna di esse rappresenta infatti un modo diverso ma sostanzial-mente equivalente di manifestare i concetti e di riflettere le funzioni comunicative che sono tipiche del linguaggio verbale.

Parte III – Semantica e lessicologia

9. NOZIONI DI SEMANTICA

9.1. Significato e significante La semantica si occupa del rapporto tra i segni linguistici e ciò che essi rappresenta-no: analizza quindi la corrispondenza tra parole e concetti e la sua evoluzione nel tempo. Mentre la fonetica, la morfologia e la sintassi individuano le unità portatrici di signi-ficato, la semantica individua quindi le modalità attraverso le quali a determinate uni-tà strutturali (i significanti) si associano corrispondenti unità di significato.

Il significato di una parola non è percepibile né qualificabile se non attraverso la parola stessa; tuttavia non sempre il significato complessivo di una comunicazione è legato soltanto al significante, perché entrano in gioco valori pragmatici legati ad e-sempio a messaggi impliciti o allusivi: una frase come stasera Giovanni esce con Lui-sa ad esempio, può provocare nell’interlocutore, a seconda del contesto extralingui-stico, indifferenza, interesse, sorpresa, ilarità, preoccupazione, ira ecc.

Se il permine parola indica genericamente sia il segno sia il suo contenuto, il ter-mine significante viene contrapposto a significato in quanto indica la sola manife-stazione sensibile dell’espressione verbale, presa in esame separatamente rispetto al contenuto.

Tuttavia il significante non è del tutto indipendente dal significato: all’interno di un sistema linguistico, significato e significante sono considerati due attributi della parola, in quanto ambedue si pongono in rapporto logico con l’oggetto che designa-no; il significato è in rapporto logico diretto col significante da un lato e con l’oggetto dall’altro, mentre significante e oggetto sono in rapporto solo indirettamente: ad e-sempio in ‘casa’, sono in rapporto diretto il significante rappresentato dalla parola ca-sa e l’idea di casa, ma non la parola casa e la casa in quanto oggetto materiale.

9.2. Il segno linguistico All’associazione tra significante e significato viene dato il nome di segno: in lingui-stica, il segno è quindi un simbolo che rappresenta un oggetto. Il segno linguistico è una espressione verbale che nella comunicazione sostituisce allo stesso tempo sia un concetto astratto, sia, per mediazione di questo, l’oggetto del mondo reale che tale pensiero descrive o rappresenta. Il segno casa è composto dal significante casa e da un significato che, a seconda del contesto, può essere ‘abitazione’, ‘edificio in mura-tura’, ‘famiglia’, ‘ditta’ ecc.: tale segno richiama alla mente un pensiero al quale ne sono associati altri (‘il posto dove abito’ ‘dove crescono i miei figli’ ecc.) e al tempo

stesso un oggetto tangibile, spazioso, costruito in muratura, ecc. Ma mentre la rap-presentazione mentale di un oggetto è un processo naturale e logicamente necessario, l’associazione di tale rappresentazione a un segno linguistico è, come abbiamo visto, del tutto arbitraria, e lo provano l’esistenza in ogni lingua di segni simili per rappre-sentare oggetti diversi (casa, caso, cosa) e il fatto che le varie lingue usino segni dif-ferenti per esprimere lo stesso oggetto (casa, house, maison, domus).

In realtà, sia il pensiero che la lingua sono rappresentazioni del mondo, e perciò l’oggetto rappresentato può variare da cultura a cultura: non solo la casa italiana è so-stanzialmente diversa dalla domus latina, ma il significante italiano copre significati che in altre lingue possono essere espressi da significanti diversi: in inglese vi è diffe-renza ad esempio tra house in quanto ‘casa’ inteso genericamente e home in quanto ‘casa propria’.

Per quanto arbitrario, il rapporto tra segno e cosa è costante e necessario, in quanto consente il corretto funzionamento della lingua e l’evoluzione del patrimonio lessica-le. Solo quando si abbia chiaro il rapporto tra a parola computer e ciò che si intende con essa, ad esempio, è possibile comprendere e usare un derivato come computeriz-zare.

9.3. Lessico e lessema

Il lessico è l’insieme delle parole che costituiscono una lingua, ossia di tutte le realiz-zazioni verbali che vengono utilizzate in quella lingua per esprimere pensieri o raffi-gurazioni di oggetti. In genere il lessico è la parte della lingua più facilmente soggetta a evoluzione mediante l’introduzione di nuove parole e l’abbandono di vecchi termi-ni. Il lessico di una lingua può essere quindi individuato in una visione sincronica, in riferimento a un momento preciso dell’evoluzione storica di una lingua, o in visione diacronica, quando se ne studia la formazione e se ne analizzano le modificazioni nel tempo.

Il lessema costituisce l’unità di base da cui è formato il lessico di una lingua: come tale si intende l’unità minima che rappresenti un solo significato semantico, e può es-sere formata da una o più parole grammaticali: cane, andiamo, cavalli di Frisia, sono stati aiutati ecc. Un lessema rappresenta quindi un insieme di significati singolarmen-te rappresentati da elementi lessicali, fonetici, morfologici e funzionali.

Una semplice prova di commutazione consente di verificare l’opposizione tra les-semi che si differenzino anche solo per uno dei significati di cui sono composti: ri-spetto a Gianni beve una birra, si ottengono frasi di senso differente sostituendo beve con gusta, desidera, rovescia, ma anche con beveva, berrebbe, berrà ecc. Nella prima serie di commutazioni è costante il significato grammaticale, nelle seconde quello lessicale.

9.4. Estensione, intensione, campi semantici

La varietà e ricchezza lessicale di una lingua è strettamente collegata con la varietà di categorie con cui la comunità che condivide quella lingua classifica il mondo. Infatti, in uno stesso sistema linguistico possono essere attestati diversi termini per indicare oggetti simili ma non uguali, oppure un numero limitato di termini può essere utiliz-zato per denominale oggetti simili tra loro: ad esempio il lessico scientifico della zoo-logia richiede un’estrema precisione nell’attribuzione di un nome a ogni specie, men-tre il linguaggio corrente è più generico nella definizione delle varie specie di insetti, di pesci ecc. In italiano il termine pasta ha un’estensione molto vasta, in quanto co-pre e comprende oggetti di varia forma e consistenza ma dotati di alcune caratteristi-che comuni, che di volta in volta possono assumere nomi di minore estensione: spa-ghetti, penne rigate, mezze penne, fusilli, trenette ecc.

Si definisce invece intensione l’insieme delle caratteristiche che definiscono i li-miti dell’estensione di un significato: per esempio, il vocabolo spaghetti richiama tra le proprietà specifiche dell’oggetto che designa quella di “essere ricavati da farina di grano”, “poter essere cotti in acqua bollente”, “essere commestibili”, “avere forma al-lungata e sottile” ecc. Tra queste proprietà combinate tra loro fino a formare l’intensione della parole, le prime tre sono condivise anche dal generico pasta e ad altri nomi di singoli tipi; eliminando la seconda, si otterrebbe un riferimento ad altri generi alimentari fatti di farina e di forma allungata e sottile, ad esempio dei biscotti; se si eliminasse la prima proprietà, si otterrebbe il richiamo ad esempio a ortaggi co-me gli asparagi, ecc.

Tuttavia, mediante gli usi metaforici, le parole possono essere utilizzate per indica-re oggetti o concetti diversi da quelli che rappresentano primariamente (una pasta d’uomo, avere le mani in pasta), e a seconda delle persone coinvolte, delle circostan-ze, del contesto culturale e delle esperienze soggettive, il significato di una parola può essere usato o inteso nella comunicazione con valenze soggettive differenti: ad esem-pio la frase stasera si mangia pasta può rappresentare una buona notizia per chi ne è goloso, o una pessima notizia per chi non ama mangiarne.

Accanto a questo valore soggettivo, una parola può assumere anche un significato sociale, convenzionale, stabilmente connesso con il termine. Un esempio è dato dai termini propri di un determinato registro, come l’uso dei pronomi lei e voi in segno di riguardo, o dal confronto tra espressioni come gradisci una tazza di caffè o ti va un caffè?

L’insieme dei lessemi i cui significati condividono una o più caratteristiche con-cettuali costituisce un campo semantico, ossia un settore, una categoria dell’organizzazione del mondo che soggiace a ciascuna lingua: ad esempio tutte le parole che riguardano il concetto di ‘comando’, di ‘dimensione’, di ‘colore’ ecc. Di ogni campo semantico fanno parte parole che non hanno alcuna somiglianza fonica o che appartengono a categorie morfologiche differenti, ma che condividono almeno una componente del loro significato.

Altra cosa è invece una famiglia lessicale, cui appartengono parole accomunate dalla medesima radice lessicale, anche se l’evoluzione linguistica le ha portate a di-verse specializzazioni di significato.

9.5. Rapporti tra lessemi

Tra lessemi diversi possono essere riscontrati rapporti di vario livello, tanto sul piano del significante che su quello del significato.

Sul piano del significato si chiamano sinonimi due diversi lessemi che condivida-no lo stesso significato (papà e babbo). In realtà l’esistenza di perfetti sinonimi è piuttosto rara, in quanto due parole dal significato anche molto simile non sempre condividono esattamente la stessa estensione e intensione. Non di rado possono esse-re usati come sinonimi lessemi che in realtà sono ipònimi o iperònimi: sono iperò-nimi i lessemi la cui estensione comprende il significato di altri lessemi (es. pesce ri-spetto a orata, branzino, salmone), che a loro volta sono detti ipònimi (fusillo rispetto a pasta).

Si dicono antònimi due lessemi che rappresentano oggetti o concetti tra loro con-trari (bello e brutto, facile e difficile, lungo e corto): due antonimi hanno sempre al-meno un tratto semantico in comune: bellezza e bruttezza ad esempio si riferiscono entrambi a una qualità estetica, mentre brutto e difficile non sono in relazione.

Se due lessemi identificano due concetti intuitivamente antitetici ma non hanno al-cun tratto semantico in comune, si dicono complementari (maschio e femmina, cielo e terra).

I lessemi appartenenti a campi semantici diversi possono invece risultare simili nella struttura linguistica: è il caso di due lessemi che siano uguali quanto al signifi-cante, ma il cui significato denoti oggetti diversi (omònimi), come nel caso di canto ‘canzone’ e ‘angolo’. Tra gli omonimi si dicono omografi i termini che si scrivono allo stesso modo pur avendo pronuncia e significato differenti (pésca e pèsca, àncora e ancòra ecc.); sono omòfoni i termini che si pronunciano allo stesso modo pur es-sendo scritti in modo differente (da preposizione e dà del verbo dare).

Quando un lessema denota oggetti differenti ma i cui significati appartengono allo stesso campo semantico si dice che esso è polisemico: es. carta ‘su cui si scrive’, ‘mappa geografica’, ‘oggetto per il gioco’ ecc.

10. LINGUE E VISIONE DEL MONDO

10.1. Lingue e visione del mondo Per quanto riguarda il lessico in particolare diventa dunque importante sottolineare il carattere arbitrario delle categorie attraverso le quali ciascuna cultura stabilisce i propri parametri di classificazione della realtà. Ogni lingua attribuisce un valore dif-ferente a determinate esperienze e organizza la propria visione del mondo, la propria rappresentazione della realtà, in funzione delle esigenze dei parlanti e della tradizione da essi condivisa.

Un esempio lessicale molto citato in questo senso è il numero di parole che gli E-schimesi possiedono per quella che in italiano è chiamata neve. Se osserviamo una scena invernale, in quanto parlanti italiano, riterremo di vedere una sola entità bianca chiamata appunto neve; un eschimese, di fronte alla stessa scena, sarà in grado di ca-librare la sua scelta espressiva distinguendo fra ‘neve che cade’ (qanik) ‘neve già ca-duta’ (aput), ‘neve secca’ (pukak), fresca, ghiacciata, farinosa, granulosa, ammuc-chiata ecc.

Un altro esempio è quello della nozione del ‘riso’, descritta in modo molto generi-co presso le culture occidentali e in modo assai circostanziato presso i Giapponesi, che distinguonocon nomi diversi tra il riso come pianta, come seme, come alimento cotto o crudo ecc. Esempi di una diversa segmentazione della realtà si possono però cogliere anche in comunità a noi vicine: ad esempio in friulano il concetto di ‘albero’ e rappresentato dall’estensione del significato dell’albero «utile» per eccellenza, in questo caso il gelso (morar), mentre rose, il cui significato originario era ovviamente ‘rosa’, si è esteso a indicare qualsiasi tipo di ‘fiore’. 10. 2. La costruzione e la segmentazione della realtà Gli spunti terminologici e le osservazioni legate alla diversa ripartizione delle catego-rie di parentela sono altrettanto interessanti per comprendere come la realtà venga di volta in volta costruita e classificata attraverso la lingua, che riflette a sua volta le esigenze dei parlanti: per quanto concerne le diverse denominazioni dello zio, ad e-sempio, è utile richiamare la quadripartizione latina, che ben si spiega sia perché a lungo lo zio è stato il personaggio familiare degno di maggiore rispetto, sia per l’importanza giuridica del rapporto zio-nipote nell’asse ereditario.

Le lingue moderne, esaurite le motivazioni culturali su cui si reggeva quel com-plesso sistema di denominazioni, lo semplificano riducendo i termini a due (come in tedesco e francese) o ad uno solo, come in italiano. Al sistema latino patruus ‘zio pa-terno’, avunculus ‘zio materno’, amita ‘zia paterna’, matertera ‘zia materna’ corri-spondono così il francese oncle / tante, il tedesco Onkel / Tante e l’italiano zio / zia.

Persino le parole per ‘fratello’ e per ‘sorella’ non sono universali; all’estremo della semplificazione, infatti, il malese non trova indispensabile la distinzione e ripiega su una denominazione comune che prescinde dal sesso; all’opposto, ben maggiore com-plessità rivelano lingue come l’ungherese che, presenta due coppie di parole in cui l’età è combinata con il sesso (fratello maggiore e minore / sorella maggiore e mino-re); le lingue occidentali come l’italiano che prevedono la semplice distinzione sessu-ale occupano stanno dunque una condizione intermedia.

Un altro campo di osservazione sulla diversa percezione della realtà è offerto dalle denominazioni dei colori, che ha attirato l’interesse di linguisti, psicologi e antropo-logi. Lo spettro della luce costituisce un continuum che le nostre abitudini culturali e linguistiche ci inducono a sezionare e individuare in modi differenziati: la definizione linguistica dello spettro avviene in maniera arbitraria sia per quanto riguarda il nume-ro dei colori in due sistemi linguistici differenti, che per la posizione delle frontiere tra i colori.

Il confronto fra gallese e inglese a proposito della gamma cromatica rivela dis-simmetrie per le quali, in gallese, l’area occupata dall’inglese blue è resa col concetto di ‘verde’. Lo studio contrastivo del campo semantico per ‘blu’ e ‘azzurro’ in italiano e in tedesco rivela a sua volta che in italiano esiste una possibilità di scelta tra almeno tre aggettivi diversi (blu, azzurro, celeste, ai quali eventualmente si potrebbe aggiun-gere turchino), ognuno dei quali evoca una diversa tonalità di colore: il blu designa un’intensità marcata da una notazione di ‘cupo’, ‘intenso’ estranea invece all’azzurro, che allude a gradazioni più chiare, mentre una stoffa celeste sarà di un colore decisa-mente chiaro e pallido. Dal canto suo il tedesco può far ricorso ad un indifferenziato blau che occupa dunque, in tale lingua, una porzione molto vasta dello spettro, poten-do essere usato tanto per le sfumature più cupe quanto per quelle più chiare.

Un altro terreno di osservazione interessante, ai fini della diversa classificazione linguistica dell’esperienza, è offerto dal genere grammaticale. Per il parlante italiano ad esempio la ‘luna’ non può che essere femminile, il ‘sole’ non può che essere ma-schile: la connessione è così saldamente radicata da generare immagini poetiche in-dissolubilmente associate alla selezione del genere (le laudi di S. Francesco parlano così di fratello sole e sorella luna). Ma basta fare riferimento a un’altra lingua, nel ca-so specifico al tedesco, perché le nostre coordinate si rovescino: qui il sole è femmini-le (die Sonne) e la luna maschile (der Mond).

11. LESSICOGRAFIA E LESSICOLOGIA 11.1. La classificazione del lessico Se la semantica si occupa in particolare dello studio dei significati delle parole, la les-sicologia si propone l’analisi degli elementi lessicali considerati nell’insieme di for-ma e significato. A sua volta la lessicografia è la tecnica di ordinamento e classifica-zione del lessico, ossia, essenzialmente, della realizzazione dei vocabolari, e la disci-plina che studia tale tecnica in prospettiva storica e di metodo. 11.2. I dizionari: tipi e funzioni

Un dizionario o vocabolario è un’opera che raccoglie le parole e le locuzioni di un lessico fornendo di esse informazioni quali il significato, l’uso, l’etimologia, la tradu-zione in un’altra lingua, la pronuncia, la sillabazione, e così via. Esistono diversi tipi di dizionario. Riguardo al contenuto e alla sua organizzazione un dizionario può esse-re monolingue (quando i vocaboli sono spiegati nella stessa lingua del dizionario) o bilingue (i vocaboli sono tradotti in un’altra lingua), e serrvire a scopi differenti.

Tra le diverse tipologie in uso, i dizionari storici registrano la tradizione letteraria scritta attraverso la citazione di esempi d’autori, per testimoniare l’uso delle singole parole o delle locuzioni nelle varie epoche. Si tratta di dizionari che descrivono la lin-gua nella sua evoluzione basandosi su una fraseologia tratta da testi letterari d’ogni tempo.

I dizionari dell’uso registrano la lingua contemporanea in una dimensione sincro-nica, nel funzionamento e nei caratteri attuali, ma possono prendere in considerazione anche voci del passato, arcaiche o antiquate, varietà regionali, voci letterarie: possono presentare un certo margine di differenza gli uni dagli altri, ma il valore di tali opere va misurato sulla capacità di fornire informazioni grammaticali, indicazione sul livel-lo stilistico, sulla frequenza d’uso, con numerosi esempi di fraseologia esplicativa.

I dizionari etimologici hanno il compito di tracciare la biografia di una parola, ri-percorrendone la storia attraverso la documentazione scritta dalla prima attestazione conosciuta fino ad oggi, e descrivendone le modificazioni di significato subite nel corso del tempo. In questo tipo di dizionari è possibile trovare la data e il luogo di prima attestazione delle parole registrate, anche se l’accertamento di tale data è sem-pre relativo.

I dizionari dei sinonimi registrano, per ogni lemma, i rispettivi sinonimi: in que-sto tipo di dizionario è possibile trovare non solo i sinonimi approssimativi o parziali, ma le parole legate da un rapporto d’equivalenza in determinati contesti e di significa-to contrario.

I dizionari metodici sono quelli in cui le parole non sono disposte alfabeticamen-te, ma raggruppate in base all'affinità delle nozioni che esprimono. Sono detti metodi-ci o sistematici perché gli autori raggruppano i termini secondo un particolare sistema

o metodo, in base a criteri semantici che risalgono dalla cosa e dal suo significato alla parola che vi si riferisce, il significante.

I dizionari di neologismi registrano le parole e le locuzioni nuovi d’una lingua, hanno lo scopo di testimoniare l’innovazione lessicale nelle sue varie manifestazioni e riportano con ampiezza anche voci legati a momenti ed episodi particolari, a mode e tendenze estemporanee.

I dizionari d’ortografia e pronuncia si limitano a indicare la corretta grafia e pronuncia delle parole della lingua.

Nei dizionari dialettali si cercano in genere le corrispondenze tra le voci di un dialetto e quelle italiane, e si dà largo spazio alla fraseologia.

Uno strumento lessicografico diverso dal dizionario è l’atlante linguistico, una se-rie di tavole geografiche che mostrano in genere le varianti locali di un determinato vocabolo: esso trova particolare applicazione nella descrizione delle aree dialettali e per lo studio della geografia linguistica. Per realizzare un atlante geografico, gli spe-cialistici seguono una serie di principi di metodo: la scelta dei punti di indagine, la preparazione del questionario con le domande da porre a individui scelti come cam-pione, la figura del raccoglitore, colui che deve ascoltare ed analizzare le diversità fo-netiche; le fonti, selezionate in base alle caratteristiche culturali e professionali degli individui da ascoltare; il metodo dell’interrogazione, che deve consentire un tipo di risposta genuino e non influenzato dal raccoglitore.

Per quanto riguarda la struttura dei dizionari, si definisce lemma la singola forma registrata in ordine alfabetico nel dizionario; rappresenta in genere un sostantivo, un aggettivo, un pronome, un verbo, ma può anche consistere in un sintagma o in una lo-cuzione, considerate come un’unità lessicale, oppure un prefisso o un suffisso. I sot-tolemmi, pur avendo una propria autonomia semantica, non costituiscono vere e pro-prie unità lessicali, e quindi non sono registrati autonomamente, ma vengono relegati in posizione secondaria, in fondo alla trattazione del lemma. Sono collocate fra i sot-tolemmi: le forme alterate dei sostantivi e degli aggettivi (diminutivi, vezzeggiativi, spregiativi, accrescitivi, peggiorativi), gli avverbi in -mente, quando il loro uso e si-gnificato coincidono con quelli dell’aggettivo dal cui tema sono formati, il participio presente e il participio passato, quando siano usati con funzione d’aggettivo o di so-stantivo, senza avere tuttavia un’autonomia d’uso che ne richieda una registrazione autonoma. Ogni lemma è formato da una sequenza fissa di più elementi: intestazione della voce, definizione (con l’indicazione del significato o dei significati e relativa esemplificazione, fraseologia, citazioni), eventuali sottolemmi.

L’intestazione contiene, subito dopo il lemma, il corredo d’informazioni che lo ri-guardano e che possono variare a seconda dei dizionari. Molti dizionari riportano an-che la trascrizione in Alfabeto Fonetico Internazionale e la sillabazione, nonché le va-rianti del lemma. Alle indicazioni di pronuncia seguono le indicazioni necessarie per la classificazione grammaticale del lessema, e l’etimologia – che in molti dizionari è collocata, invece, alla fine della voce. La definizione illustra il significato del lesse-ma, se unico, o sviluppa e definisce le sue varie accezioni, quando si tratti di parole aventi più d’un significato. La distinzione dei vari significati può esser articolata in più accezioni. Le marche d’uso segnalano l’ambito o il registro d’uso. Tali marche

possono indicare la frequenza d’uso della parola, il settore disciplinare d’appartenenza, l’uso figurato o estensivo, l’ambito geografico. La datazione è pre-sente anche in molti dizionari non etimologici: viene indicata, a seconda dei casi, alla fine o all'inizio delle voci.

Per fraseologia si intende l’insieme delle espressioni riportate che includono il lemma, un elemento indispensabile per integrare e render evidenti i significati e gli usi della voce. Nei dizionari storici attuali la fraseologia è tratta da citazioni letterarie o da brani giornalistici, testi scientifici, ecc…; nei dizionari dell'uso, i vari significati di una parola possono essere illustrati sia da passi d’autore, sia da esempi non d’autore preparati dalla redazione per testimoniare l’uso corrente della lingua sia ora-le che scritta.

Nei dizionari dell’uso sono registrati anche gli arcaismi e le voci poetiche e lette-rarie, cioè forme linguistiche della lingua del passato, della poesia e della letteratura, che non sono usate o lo sono di rado nella lingua comune. La necessità di documenta-re e spiegare parole ed espressioni presenti nei testi degli autori antichi, nasce dalla sopravvivenza di tali forme in contesti scritti e orali, per fini stilistici o per dare parti-colare enfasi al discorso. I forestierismi sono invece parole importate da altre lingue: in passato si sono manifestati vari movimenti di censura nei confronti dell’ingresso di parole straniere, e lo stesso tipo d’opposizione ha riguardato i neologismi. I dizionari dell’uso possono registrare anche regionalismi, soprattutto quando essi acquistano vitalità e diffusione nazionale grazie all’uso e al rilancio di forme particolarmente e-spressive da parte della stampa. 11.3. I dizionari nella storia Le origini dei vocabolari risalgono all’antichità: risalgono al secondo millennio a.C. frammenti di un vocabolario bilingue che traduceva parole egiziane in accadico, anti-ca lingua semitica parlata nella Mesopotamia meridionale. I più antichi vocabolari e-rano dunque semplici elenchi di parole comuni, tradotte in una seconda o terza lingua. La necessità pratica di tradurre in una lingua diversa dalla propria è all’origine di queste compilazioni. Nel primo millennio a.C. ebbe inizio la tradizione dei vocabolari monolingui, legata alla necessità di commentare e spiegare i testi antichi e sacri: vi era infatti la necessità di corredare tali testi con note di chiarimento, dette glosse, per interpretare correttamente i passi meno comprensibili.

Il medioevo è dominato dall’opera monumentale realizzata nel VII secolo da Isi-doro di Siviglia (570-636), che consegnò ai posteri una summa di tutto il sapere dell'antichità, con un’attenzione particolare alle etimologie, talvolta corrette, talvolta fantasiose, in un tentativo costante di arrivare alla conoscenza attraverso la spiegazio-ne dell’origine e del significato delle parole. La consuetudine di realizzare glossari si trasformerà, col passar del tempo, in elenchi di parole concepiti non solo come aiuto alla lettura e alla comprensione di testi, ma come strumento per chi doveva scrivere in latino, quando questa lingua non era più parlata. Altre raccolte mettevano a confronto lingue diverse per soddisfare le esigenze di mercanti e viaggiatori.

Con l'invenzione della stampa, nella metà del XV secolo, i dizionari iniziarono ad avere grande diffusione. Dall’Italia proviene la prima grande realizzazione lessicogra-fica di una lingua moderna, il Vocabolario della Crusca (1612) i cui autori intende-vano codificare il fiorentino del Trecento come lingua comune d’Italia. A differenza del Vocabolario della Crusca il Dictionnaire de l'Accadémie française (1694) contie-ne per la prima volta esempi frutto dell’invenzione dei compilatori e non tratti dalle opere letterarie. Fino al XVII sec. i dizionari raccoglievano principalmente i termini della lingua letteraria e poetica, prestando poca attenzione al linguaggio tecnico. Nel clima dell’Illuminismo, a partire dal 1751, fu pubblicata in Francia L’Encyclopédie (Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, a cura di una società di uomini di cultura), di Denis Diderot e Jean Baptiste Le Rond d’Alembert. In quest’opera largamente aperta all’apporto della scienza e delle arti, i termini venivano spiegati e definiti non solo mediante definizioni accurate con l’aggiunta di tavole d’illustrazione esplicative: tale modello fu ripreso in Italia dal di-zionario universale critico enciclopedico della lingua italiana, in sei volumi, pubbli-cato a Lucca tra il 1797 e il 1805, dall’abate nizzardo Francesco D'Alberti di Villano-va. La necessità di un grande dizionario storico della lingua italiana, da pubblicare all'indomani dell'Unità d'Italia (1861) fu colta da Niccolò Tommaseo, che tra il 1861 e il 1879 pubblicò il suo Dizionario della lingua italiana, l’impresa lessicografica più importante dell’Ottocento: l’opera costituisce il primo esempio di dizionario storico capace di conciliare la dimensione sincronica (la lingua documentata e descritta in un determinato momento storico) con quella diacronica (la lingua documentata e descrit-ta attraverso la sua evoluzione).

Tra la fine dell’Ottocento e i primi de Novecento va ricordata l’intensa produzione di dizionari dell'uso in un unico volume, come il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli pubblicato a partire dal 1917, destinato alla scuola e alle famiglie.

Nel dopoguerra fu avviato il Grande dizionario della lingua italiana (GDLI) di Salvatore Battaglia, pubblicato tra il 1961 e il 2002 in ventun volumi. Nel 1999 è sta-to pubblicato invece il Grande dizionario dell’uso (GRADIT) di Tullio De Mauro, sei volumi comprendenti circa 260.000 lemmi, per i quali viene indicata la data di prima attestazione e la fonte. Tra i dizionari etimologici, i primi sono stati pubblicati nel se-condo dopoguerra. Il Dizionario etimologico italiano (DEI), di Carlo Battisti e Gio-vanni Alessio, pubblicato tra il 1950 e il 1957, comprende non solo il lessico lettera-rio, ma anche quello tecnico-scientifico, e prende in considerazione molte voci dialet-tali, con l'aggiunta della datazione; il Dizionario etimologico della lingua italiana (DELI), di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, ricostruisce la storia di ogni voce fornen-do la data di prima attestazione, l’etimologia, gli ambiti semantici in cui ogni voce è nata e si è sviluppata, e così via. Nel 1979 è stato avviato anche il Lessico Etimologi-co Italiano (LEI) di Max Pfister, la più grande impresa lessicografica relativa alla lin-gua italiana.

Parte IV- Nozioni di linguistica storica

12. FONDAMENTI DI LINGUISTICA STORICA

12.1. Il concetto linguistico di sincronia e diacronia Nella prassi linguistica si definisce studio diacronico l’esame dell’evoluzione delle lingue nel tempo, è sincronico lo studio dello stato attuale (o momentaneo) della lin-gua. Fino a gran parte del XIX sec., nella fase inziale delle discipline linguistiche, prevalse essenzialmente l’analisi diacronica legata all’emergere di esigenze classifi-catorie collegate a una concezione essenzialmente evoluzionistica della ricerca scien-tifica: Hermann Paul tra gli altri giunse persino a negare dignità scientifica a qualsiasi studio dei fatti linguistici che non si fondasse su un rigoroso metodo storico.

Per Ferdinand de Saussure, al contrario, è la descrizione sincronica dei fatti lingui-stici ad assumere particolare rilievo. Sebbene non si tratti di un concetto totalmente nuovo (ad esempio, le grammatiche dell’uso scolastico descrivono da sempre la realtà momentanea di una lingua), fu Saussure ad attribuire un fondamento scientifico a questo tipo di analisi.

Il metodo sincronico ritaglia quindi un determinato «stato» della lingua focaliz-zando l’interesse sull’organizzazione e la concatenazione reciproca dei suoi termini indipendentemente dalle condizioni che lo hanno generato: un po’ come, durante una partita di scacchi, conta di volta in volta la situazione venutasi a creare dopo ogni sin-gola mossa, non le vicende che hanno portato alla posizione dei vari pezzi sulla scac-chiera. Sempre per Saussure, il punto di vista sincronico coincide dunque con quello del parlante, per il quale la storia della lingua non ha alcuna rilevanza nel momento in cui egli comunica attraverso di essa.

In realtà, secondo le proposizioni della Scuola di Praga (1928) in ciascuno stato della lingua vi è però la coscienza dell’esistenza di altri stadi, di volta in volta in via di scomparsa o di formazione: il locutore sa valutare infatti che la differenza che in-tercorre ad esempio tra appropinquarsi e avvicinarsi è legata al carattere arcaizzante e desueto della prima forma, così come sa percepire il carattere innovativo delle voci introdotte recentemente nel lessico di una lingua. 12.2. Nozioni di linguistica storica L’analisi diacronica e l’analisi sincronica rappresentano quindi due aspetti della stes-sa metodologia di indagine. L’analisi diacronica presenta le leggi linguistiche in una dimensione temporale che permette di completare i dati ricavati dall’analisi sincroni-ca, arricchendo il quadro con osservazioni sull’evoluzione della lingua nel tempo.

Un’analisi diacronica richiede essenzialmente l’utilizzo di fonti, ossia, fondamen-talmente, di documenti scritti che attestano e testimoniano uno stato precedente della lingua. Si definiscono attestazioni dirette di un idioma quelle redatte direttamente nella lingua che si studia (testi letterari in versi e in prosa, documenti legali, atti uffi-ciali, lettere, graffiti ecc.): più ampie sono le fonti dirette, più ampia è la conoscenza della lingua nel passato e la possibilità di formarsi un’idea della sua varietà interna; sono invece attestazioni indirette, ad esempio, le parole, le frasi, i passi riportati in documenti redatti in altre lingue, e per certi aspetti le forme sopravvissute all’interno di un’altra lingua come prestiti, nomi di luogo ecc.

Un altro strumento essenziale per l’analisi diacronica della lingua è rappresentato dalla comparazione: il confronto di parole simili in lingue diverse consente ad esem-pio di stabilire parentele e di risalire eventualmente a forme originarie comuni dalle quali si suppone derivino le varie lingue imparentate.

Per mutamento linguistico si intende ogni alterazione della lingua a livello di fo-netica (suoni), morfologia (forme), sintassi (strutture linguistiche), semantica (signifi-cato delle parole): le lingue sono in continua mutazione ed evoluzione. 12.3. Classificazione genealogica delle lingue Chiarite sull’esempio del latino e delle parlate romanze le modalità attraverso le quali i processi evolutivi connessi al mutamento sono alla base della differenziazione delle lingue, possiamo esaminare brevemente le modalità di classificazione genealogica delle lingue, limitandoci per brevità all’esame di quelle che sono parlate nel continen-te europeo. Il criterio diacronico consente di stabilire rapporti di ascendenza e filia-zione fra le lingue fino a delineare una rappresentazione delle loro relazioni storiche e geografiche attraverso la figura dell’albero genealogico. La classificazione genealo-gica delle lingue muove quindi dallo studio dei fenomeni evolutivi: analizzando i mu-tamenti che intervengono negli elementi fonetici, morfologici, sintattici e lessicali di una lingua, fino a generare una lingua totalmente diversa, è possibile ipotizzare anche i passaggi intermedi o risalire a uno stadio originario.

In Europa la maggior parte delle lingue parlare attualmente appartengono alla fa-miglia indoeuropea. Da questo raggruppamento restano escluse una lingua isolata quale il basco, una lingua semitica come il maltese (varietà dialettale di arabo) e quelle appartenenti alla famiglia uralo-altaica (oltre al turco, essenzialmente le lin-gue ugro-finniche come l’ungherese, il finlandese, l’estone, il lappone e alcuni idio-mi parlati in Russia).

Le lingue della famiglia indoeuropea discendono probabilmente da un idioma parlato nelle steppe euroasiatiche intorno al III millennio a.C.; l’emigrazioni delle po-polazioni che lo parlavano originariamente, gruppi nomadi di allevatori e guerrieri, portò alla sovrapposizione degli idiomi indoeuropei su un’area molto vasta, compresa tra l’India a est e l’Europa occidentale ad ovest. In questo modo, si accentuarono i processi di differenziazione interna, con la formazione di varietà assai diversificate.

In Europa si parlano oggi lingue appartenenti al gruppo celtico (gaelico: irlande-se, gaelico scozzese, manx; britannico: gallese, brettone e cornico); germanico (nor-dico: islandese, norvegese, faeroico, svedese, danese; occidentale: inglese, frisone, tedesco e neerlandese); ellenico (greco), baltico (lituano, lettone), slavo (meridiona-le: bulgaro, macedone, sloveno, serbo e croato; occidentale: ceco, slovacco, polacco e sorabo; orientale: russo, bielorusso, ucraino); sono lingue indoeuropee a sé stanti l’albanese e l’armeno. L’altra grande classe delle lingue indoeuropee è quella italica, della quale fece parte, insieme ai dialetti estinti dell’Italia antica il latino, dal quale derivano, oltre a varietà minori e alle loro differenziazioni dialettali, lo spagnolo, il portoghese, il catalano, il francese, l’occitanico o provenzale, il romeno, il sardo, il romancio, il ladino, il friulano e i dialetti italiani, uno dei quali il fiorentino, è assurto al ruolo di lingua letteraria comune.

13. DAL LATINO ALLE LINGUE NEOLATINE 13.1. Frammentazione e ricomposizione del mondo latino L’evoluzione del latino nelle parlate romanze obbedisce a processi che sono comuni a tutte le lingue e a tutti i dialetti. Da tali processi non sono esenti, a loro volta, gli i-diomi neolatini: come il latino appare diverso dal francese dell’XI sec., il francese moderno ha un aspetto diverso dagli stadi precedenti della sua evoluzione. E’ anche ovvio che in questi processi esistano differenti velocità: il toscano, per tutta una serie di fattori, ha avuto dal medioevo a oggi un’evoluzione piuttosto lenta, tanto che la lingua di Dante è ancora leggibile senza troppe difficoltà; al contrario, nel genovese del Trecento (e addirittura in quello del Settecento), si fa una certa fatica a riconosce-re uno stadio evolutivo della parlata attuale. In generale poi, l’evoluzione della lingua parlata è incomparabilmente più rapida del corrispondente uso scritto: la lingua scritta tende infatti a fissarsi in norme e a dare vita a un codice autonomo, più o meno cristallizzato intorno a una tradizione letteraria.

In generale le varietà romanze rappresentano un’evoluzione del latino volgare parlato dal popolo, quello che venne esportato da soldati, coloni, mercanti e piccoli funzionari nei territori dell’Impero durante il lungo processo che va sotto il nome di romanizzazione. Idioma appartenente alla grande famiglia delle lingue indoeuropee (come il celtico, il germanico e il greco), il latino fu introdotto nell’Italia centrale ver-so il 1000 a.C. insieme ai dialetti italici (umbro, osco, ecc.). L’affermazione del latino nella penisola fu contemporanea all’espansione della potenza romana, e la sua diffu-sione tra il II sec. a.C. (conquista della Gallia Cisalpina) e il 107 d.C. (romanizzazio-ne della Dacia, l’attuale Romania) finì per interessare un vastissimo territorio europeo ed extraeuropeo.

Pur non essendo una lingua diversa da quella usata da scrittori come Cesare o Ci-cerone, il latino volgare che venne diffuso nelle province conquistate, accettato da popolazioni locali assai diverse tra loro e desiderose di integrarsi nella società roma-na, fu caratterizzato da processi di semplificazione e adattamento alle realtà locali di quel vasto territorio.

Nell’evoluzione del latino volgare e delle sue differenziazioni locali intervennero diversi fattori. Tra gli altri, l’influsso delle lingue parlate dalle popolazioni incontrate dai Romani nei territori conquistati (un po’ come avviene oggi nella pronuncia regio-nale dell'italiano, che risente in varia misura dell’apporto dei dialetti), e un processo spontaneo di semplificazione della struttura fonetica e grammaticale. Questi e altri e-lementi comportarono delle innovazioni locali che si diffusero attraverso la circola-zione linguistica, in virtù della quale una novità fonetica, sintattica o lessicale, origi-nariamente legata a una determinata località o regione, viene accolta dai parlanti su un’area più o meno vasta, soprattutto quando il punto di partenza dell’innovazione sia dotato di particolare prestigio: la città rispetto alla campagna, un centro politico, am-ministrativo, religioso.

Successivamente, sul latino intervenne anche l’influsso di altre lingue, importate sul territorio da popolazioni sopravvenute dopo la crisi dell’Impero: è proprio con le invasioni barbariche, a partire dal V sec., che il processo di differenziazione interna del latino volgare subisce una brusca accelerazione, e con esso si accelera la forma-zione dei vari dialetti romanzi.

13.2. Sostrato, adstrato, superstrato L’influsso del sostrato, ossia delle lingue preromane, agì soprattutto a livello di fone-tica e di lessico: nel primo caso, la difficoltà di pronunciare correttamente un suono della lingua latina portò a un suo adattamento sulla bocca di quanti avevano ancora dimestichezza con la lingua indigena. All’influsso del sostrato celtico, ad esempio, alcuni fanno risalire il fenomeno della lenizione, ossia l’indebolimento delle conso-nanti tra vocali: esso interessa una vasta area estesa praticamente su tutto l’Occidente neolatino (compresa l’Italia settentrionale), dove le consonanti sorde diventano sono-re (il latino STRATA diventa strada o altre forme equivalenti) e le consonanti occlu-sive diventano fricative (RIPA diventa riva). Sebbene in passato sia stato forse so-pravvalutato, l’influsso fonetico dei sostrati è certamente tra i principali fattori di dif-ferenziazione tra le parlate romanze.

Meno decisivo è stato invece il suo ruolo nel campo lessicale: le lingue preromane hanno offerto agli idiomi neolatini termini legati soprattutto ad aspetti peculiari dell’ambiente (particolarmente ricco in questo senso è l’apporto dei sostrati alla to-ponomastica), o a consuetudini assenti nel costume romano. Sono prestiti del celtico, ad esempio, parole come BETULLA, ALAUDA (da cui allodola), BECCUS, LAN-CEA, CARRUS, BRACA, CAMBIARE.

In Italia, paese etnograficamente poco omogeneo prima della romanizzazione, i diversi sostrati hanno evidentemente contribuito alla definizione dei grandi raggrup-pamenti dialettali, come è dimostrato tra l’altro dalla persistenza di alcuni confini dia-lettali, che corrispondono grosso modo alle antiche suddivisioni tra le popolazioni preromane. Le attuali parlate centromeridionali risultano estese ad esempio sull’area un tempo occupata da popolazioni italiche (Latini, Umbri, Sanniti, Osci, Siculi ecc.), che parlavano idiomi indoeuropei strettamente imparentati tra loro: così, in quell’area, è considerato un elemento comune di sostrato il passaggio dei gruppi latini nd e mb rispettivamente a nn e mm, come nei tipi monno ‘mondo’ e piommo ‘piom-bo’.

L’influsso del sostrato greco è particolarmente evidente nei territori dell’antica Magna Grecia (soprattutto a livello lessicale), ma non bisogna dimenticare che il lati-no, in particolare in epoca cristiana, ricevette numerosi prestiti dal greco, lingua di cultura quanto e più del latino: sono prestiti particolarmente antichi le parole latine corrispondenti ad anfora, ciliegio, olivo, melo, riso, fagiolo, balena, delfino, borsa, canestro, calce, spada o piazza, mentre risalgono all’epoca cristiana altri termini d’origine ellenica come chierico, monaco, prete, chiesa, battesimo, bestemmiare, pa-rola. In questi casi, più che di sostrato, ossia di sovrapposizione, si deve però parlare

di adstrato, ossia di scambio di elementi linguistici tra due aree linguistiche in con-tatto.

Il sostrato celtico ha contribuito invece, come si già è visto, alla connotazione dei dialetti settentrionali, e in particolare di quelli detti galloitalici, favorendo l’appa-rentamento della latinità padana con quella d’oltralpe. Di tipo indoeuropeo erano an-che le lingue parlate nell’area veneta (venetico, euganeo) e sul versante adriatico (a-pulo), che non hanno mancato di lasciare qualche traccia nelle parlate attuali.

Tracce importanti di sostrato non indoeuropeo, mediterraneo, si possono invece cogliere nelle moderne parlate della Sardegna e della Corsica, nel lessico, ma anche in alcuni fenomeni di pronuncia, come forse il passaggio di -LL- latino a -dd- (beddu, casteddu per ‘bello’, ‘castello’) che è esteso anche in Sicilia, Calabria, Lunigiana e altrove. In Liguria e nell’arco alpino è rilevabile invece l’influenza di antiche lingue anch’esse di ceppo mediterraneo (ligure, retico), successivamente aperte all’influsso indoeuropeo: al sostrato, ad esempio, alcuni attribuiscono l’indebolimento della -R- intervocalica che si riscontra nelle attuali parlate della Liguria.

Per quanto riguarda la Toscana, il sostrato rappresentato dalla lingua etrusca, anch’essa non indoeuropea, potrebbe avere agito in negativo: la maggiore conservati-vità dei dialetti toscani rispetto al latino, in confronto ad altre varietà italiane, secondo alcuni studiosi si spiegherebbe proprio con l’assoluta «impermeabilità» che esisteva tra l’etrusco e la lingua di Roma, tale da impedire un influsso marcato del primo sul latino successivamente parlato in quella regione. Sempre meno credito trova invece l’ipotesi di un legame tra l’attuale pronuncia aspirata toscana di k, p e t e il sostrato etrusco. Un ulteriore fattore nell’evoluzione delle lingue romanze è rappresentato dagli influs-si di superstrato, provenienti da idiomi successivamente introdotti nell’area lati-nizzata. E’ il caso in particolare delle tracce lasciate dai dialetti delle popolazioni germaniche (Goti, Franchi, Longobardi, ecc.) infiltratesi nei territori dell’Impero, le quali, prima di essere assimilate dalla maggioranza di lingua latina, culturalmente più evoluta, introdussero nella toponomastica e nelle parlate in formazione elementi di carattere lessicale legati alla loro particolare visione del mondo, alle nuove tecniche di cui erano portatori: parole legate ad esempio

a) al paesaggio o all’agricoltura: forra e greto sono termini gotici, greppia è longobardo, bosco è franco;

b) di carattere militare: banda, bega, guardia, elmo sono voci gotiche, stra-le, spalto, spiedo derivano dal longobardo, dardo, galoppare, tregua e schiera dal franco;

c) connesse a consuetudini giuridiche: castaldo e manigoldo derivano dal longobardo, feudo e barone dal franco); o di costume: albergo e fiasco de-rivano dal gotico, palco e ricco dal longobardo, orgoglio dal franco;

d) termini generali: tra le parti del corpo, zazzera, guancia, schiena, nocca, milza, anca e stinco sono voci longobarde.

Tra le voci che quei popoli introdussero nelle zone in cui si stanziarono alcune conob-bero poi, attraverso la circolazione linguistica, una più larga diffusione, mentre altre rimasero limitate alle aree in cui una determinata popolazione barbarica si stabilì.

Più circoscritto appare invece il successivo influsso lessicale arabo, che interessò particolarmente le parlate della Sicilia, dell’unica regione, cioè, in cui popolazioni di origine orientale si stanziarono stabilmente (IX sec.): nel caso dell’influsso lessicale arabo, comunque, è spesso difficile stabilire se un termine sia entrato nell’area ita-liana attraverso la dominazione musulmana sull’isola (come avvenne sicuramente nel caso di ammiraglio, soda o zagara), oppure attraverso i contatti commerciali e cultu-rali che in seguito, durante il medio evo, Veneziani e Genovesi soprattutto mantenne-ro con il Levante mediterraneo e con la Spagna islamizzata: attraverso questi contatti commerciali, quasi sicuramente, penetrarono nei dialetti e nella lingua comune ter-mini tecnici e nomi di prodotti come arsenale, carciofo, cotone, fondaco, gabella, li-mone, magazzino, melanzana, tariffa, zecca, zibibbo, zucchero, ed altre di carattere marinaro quali libeccio, scirocco, gomena. 13.3. Processi endogeni di evoluzione Quelli che abbiamo definito processi spontanei di evoluzione e di semplificazione attivi nel latino parlato, furono sicuramente l’elemento decisivo nello stacco che a un certo punto si determinò tra latino classico e parlate volgari: la documentazione scrit-ta (graffiti, iscrizioni funerarie, lettere, glosse, ammonimenti di grammatici, testi let-terari di sapore popolareggiante ecc.) e la ricostruzione linguistica permettono spes-so di documentare o ipotizzare la precoce affermazione di molti di tali fenomeni. Al-cuni di essi, quelli più antichi, appaiono condivisi da aree vastissime, e continuano nella totalità o nella grande maggioranza delle parlate neolatine. Tra gli altri fenome-ni, in campo sintattico si possono ricordare:

a) la sostituzione dell’ordine fondamentale della frase latina (Soggetto-Oggetto-Verbo, FILIUS MATREM AMAT) col nuovo ordine Soggetto-Verbo-Oggetto (Il figlio ama la madre); b) l’inversione dell’ordine nella collocazione dell’aggettivo (la mano del padre invece di PATRIS MANUS);

c) la riduzione dei casi e la loro sostituzione con il sistema delle preposi-zioni;

d) lo sviluppo dell’articolo (per lo più dall’antico pronome ILLUM, in Sardegna da IPSUM), inesistente in latino;

e) la formazione del modo condizionale (CANTARE HABUIT > cante-rebbe).

In campo morfologico si ebbe:

f) la riduzione della declinazione a tre tipi fondamentali (maschili in -u, femminili in -a, maschili e femminili in -e);

g) la scomparsa di certe categorie verbali (il deponente) e nominali (il neutro);

h) la formazione di nuovi modi per esprimere il futuro (CANTARE HA-BEO > canterò) e il passato (AMATUS SUM ‘sono amato’).

Per quanto riguarda la fonetica:

i) l’alternanza tra vocali lunghe e brevi, che caratterizzava il latino classi-co, venne sostituita dal valore intensivo dell’accento; da tale evoluzione prese origine una nuova organizzazione del sistema delle vocali accentate:

ī > i ĭ, ē > é ĕ > è ā,ă > a ŏ > ò ō, ŭ > ó ū > u

Questa scelta appare condivisa, salvo ulteriori evoluzioni, da quasi tutte le parlate neolatine con esclusione ad esempio del sardo, nel quale le coppie di vocali brevi e lunghe si unificano (ī, ĭ > i; ē, ĕ > è; ā, ă > a; ŏ, ō > ò; ŭ, ū > u). l) Nel campo delle consonanti, la caduta di t, m ed s finali, la palatizzazio-ne di CE, CI, GE e GI (introduzione dei suoni ce-, ci, ge-, gi-, che in epoca classica si pronunciavano rispettivamente ke, ki, ghe e ghi, come parzial-mente avviene ancora in sardo) e la semplificazione di alcuni gruppi con-sonantici, appaiono anch’esse condivise da quasi tutte le parlate neolatine.

13.4. Circolazione linguistica

Per tornare alle vicende storiche che diedero origine alle varietà dialettali, comun-que, il processo di differenziazione si accelerò, come si è detto, in seguito alla forma-zione delle nuove unità amministrative, religiose e culturali successive alla crisi defi-nitiva dell’Impero. La nuova situazione geopolitica venutasi a creare durante l’alto medioevo, in particolare, determinò le modalità della circolazione linguistica e la formazione dei centri irradiatori di innovazioni che si diffusero su aree più o meno vaste.

La circolazione linguistica rappresenta, più che una concausa nell’evoluzione delle parlate romanze, l’elemento che ne favorì la differenziazione, perché contribuì a ge-neralizzare le innovazioni o a restringere l’area dei fenomeni di conservazione: in vir-tù della circolazione linguistica, infatti, si diffondono e si generalizzano su un’area più o meno vasta le novità originate in un determinato punto, dall’influsso del sostra-to o del superstrato e dai processi evolutivi interni alla lingua. Finché la circolazione nell’insieme dei territori di lingua latina restò ampia, le principali novità si diffusero, come si è visto per gli esempi precedenti, in maniera abbastanza compatta. In seguito al progressivo venir meno dei traffici, nella fase di decadenza dell’Impero, e con il crearsi di nuove frontiere interne (mediante l’organizzazione dei regni romano-barbarici), la circolazione linguistica cominciò invece a limitarsi ad aree più circo-scritte: i grandi centri culturali, amministrativi e religiosi irradiarono i loro modelli linguistici fino ai limiti lungo i quali altri modelli linguistici, provenienti da altri cen-tri, non si opposero o non si sovrapposero ad essi. Sulla base della partecipazione o meno della parlata di un territorio a una determinata innovazione, si consolidarono così differenziazioni e apparentamenti, sui quali si formò l’unità e la varietà dei gran-di gruppi di parlate neolatine: l’espansione di un fenomeno come il passaggio della U lunga latina a ü toccò l’Italia settentrionale ma non quella peninsulare, e la presenza o meno di tali innovazioni contribuisce in maniera decisiva alla definizione di impor-tanti aree dialettali.

14. STORIA LINGUISTICA

14.1. Storia linguistica ed evoluzione delle lingue Esula dagli scopi di questi appunti dare un’informazione complessiva sul modo in cui queste varie dinamiche interagirono nel processo plurisecolare che portò allo stacco netto dei dialetti romanzi rispetto al latino: tale stacco non avvenne contemporanea-mente in tutto il territorio romanizzato, e si suole datare la nascita dei vari idiomi ne-olatini in un periodo compreso tra il VI e l’VIII sec., con le prime attestazioni scritte. Ma in realtà, le nuove lingue ebbero vita propria solo quando i parlanti iniziarono ad acquisire una netta coscienza della differenza che esisteva tra il loro mezzo di e-spressione quotidiana e il latino così come veniva conservato nell’uso ecclesiastico e amministrativo; a un utilizzo scritto degli idiomi neolatini si giunse in epoca ancora più tarda, e alla fissazione di alcune di esse come lingue nazionali si approdò soltanto in virtù di fattori di ordine extralinguistico, condizionati essenzialmente dalle vicende sociopolitiche delle aree interessate. Fondamentalmente ogni lingua parte dalle con-dizioni di dialetto, e diventa lingua quando abbia il riconoscimento, il supporto di un potere politico.

Storicamente, la scelta, tra altri sistemi linguistici presenti sul territorio, di quello che è destinato a diventare la lingua «ufficiale» si appoggerà poi, da parte delle istitu-zioni, sulla concomitanza di determinate situazioni: diffusione al di là di un ambito locale, prestigio dato da una forte tradizione scritta, uso preferenziale di tale sistema da parte dell’élite che si è fatta carico di organizzare le istituzioni statali. 14.2. Testimonianze documentarie dal latino al volgare Diversi documenti segnano la transizione dal latino al volgare e consentono di «leggere» le fasi dell’evoluzione dall’una all’altra lingua attraverso i secoli. Un con-fronto tra alcuni glossari ed elenchi di parole come l’Appendix Probi (anteriore al 320), le Glosse di Raichenau (sec. VIII), il Glossario di Monza (inizio sec. X) rivela ad esempio il passaggio da una fase in cui il latino classico era ancora sufficientemen-te stabile da consentire la correzione degli errori ricorrenti (l’Appendix Probi cor-regge ad esempio la forma speclum con speculum, oricla con auris e così via) a una in cui molte voci della tradizione non erano più comprese (nelle Glosse di Raiche-nau si traducono le voci del latino classico pulchra e binas con le forme moderne bel-la, duas et duas), fino al momento in cui le voci di una lingua straniera vengono or-mai tradotte in «volgare» perché il latino non è più intelligibile (Glossario di Monza).

Contemporaneamente, cominciano ad apparire testi per i quali resta difficile stabi-lire se siano scritti in latino o in volgare, e soprattutto determinare l’intenzionalità delle scelte linguistiche: è il caso ad esempio del cosiddetto Indovinello veronese (fi-ne sec. VIII – inizio IX), il cui testo cela in metafora la pratica della scrittura: Se pa-

reba boues alba pratalia araba & albo uersorio teneba & negro semen seminaba (spingeva avanti dei buoi [le dita], arava prati bianchi [il foglio], teneva un aratro bianco [la penna] e seminava un seme nero [l’inchiostro delle lettere]); qui la caduta delle desinenze rivela già un aspetto prevalentemente volgare, ma molte forme, anche di tipo lessicale, sono ancora latine. Più chiara è invece la matrice volare dell’Iscrizione della catacomba di Comodilla a Roma (prima metà sec. IX), un graffi-to in cui un fedele si fa gioco del prete che durante la funzione pronuncia ad alta voce alcune parole che secondo il rituale dovevano rimanere segrete: NON DICERE ILLE SE-

CRITA A BBOCE. Per quanto riguarda l’Italia comunque, il primo testo che si considera intenzio-

nalmente volgare e integralmente riconoscibile come tale è costituito dal giuramento di un testimone durante una causa per l’attribuzione di alcuni terreni, proveniente dal-la Campania (i cosiddetti Placiti capuani, 960-963): Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte S(an)c(t)i Benedicti. Questo documento non può tuttavia essere considerato il primo redatto in «lingua italiana», bensì la pri-ma attestazione scritta di un volgare italiano, ossia di uno dei tanti idiomi che si evol-veranno successivamente nei diversi dialetti.

Allo stesso modo, il primo documento scritto con intendimenti artistici in un volgare italiano (con forte ritardo rispetto ad altri paesi, ad esempio la Francia) va ri-ferito in particolare all’area ligure, e si tratta di un dialogo in versi (1190-1193) col quale un autore straniero, il trovatore Rambaldo di Vaqueiras, si prende gioco del ge-novese mettendolo a confronto col più raffinato idioma provenzale nella lite tra un giullare e la donna da esso corteggiata: tal enojo ve dirò: / sozo, mozo, escalvao! […] / Certo ja ve scanerò, / andai via frar’ / en tempo millorado “vi darò del sozzone, del ragazzaccio scapigliato! […] Vi scannerò certamente, andatevene via fratello caro, finché siete in tempo!”.

Parte V - Sociolinguistica

15. FUNZIONI IDENTIFICANTI DEL LINGUAGGIO 15.1. Lingua e cultura

Come è stato anticipato, la lingua non esiste al di fuori della cultura, ossia, al di fuori di un insieme ereditato socialmente di usanze e credenze che determinano la struttura della nostra vita. Per gli antropologi, le tre categorie di razza, lingua e cultura sono gli elementi determinanti di una prassi descrittiva alla quale ricorre del resto anche l’uomo della strada, ricorrendo in genere a facili semplificazioni.

Un italiano, ad esempio, è portato a percepire se stesso come membro della «raz-za», o meglio della nazionalità italiana, il cui «genio» ha modellato la lingua italiana e la cultura italiana della quale la lingua è espressione. Tale percezione basata sul da-to di fatto non corrisponde però al criterio rigorosamente scientifico degli antropolo-gi, i quali indagano se questi tre tipi di classificazione – razziale, culturale e linguisti-ca – sono omogenei, se la loro relazione è intrinsecamente necessaria o se è sempli-cemente un fattore storico esterno.

L’analisi scientifica dimostra che le tre categorie non sono affatto distribuite in maniera parallela e omogenea: le razze si mescolano in modo diverso dalle lingue, e queste ultime possono estendersi su un territorio assai più ampio di quello originario, possono addirittura scomparire dal loro ambito primitivo e conoscere una grande vita-lità presso popoli che concepiscono un’avversione profonda per quelli che erano i parlanti originari. A loro volta gli eventi storici modificano continuamente i confini delle aree culturali senza necessariamente cancellare le differenze linguistiche esi-stenti.

Il concetto biologico di razza non aiuta in alcun modo a spiegare le differenze tra lingue e culture: proprio lo studio delle distribuzioni linguistiche e della storia di queste distribuzioni è un’efficace smentita ai miti che collegano i fattori biologici alle differenze culturali: è ormai ampiamente dimostrato, in primo luogo, che le differenze di ordine biologico che distinguono le razze umane (colore della pelle, tratti somatici, ecc.) sono il frutto di una continua ibridazione, e che non esistono pertanto razze «pu-re». Inoltre, le razze si distinguono esclusivamente per questi tratti esteriori, e non e-siste corrispondenza alcuna tra appartenenza razziale (o nazionale) e intelligenza, ca-pacità di apprendimento ecc.; allo stesso modo, è facilmente dimostrabile che un gruppo di lingue non ha bisogno di corrispondere con un gruppo razziale o con un’area culturale, e ciascuna lingua presa singolarmente può passare al di sopra di confini razziali e culturali.

Negli Stati Uniti, l’inglese è la lingua nativa di milioni di persone di colore, che non conoscono altro idioma; ma non solo: gli stessi Bianchi americani si definiscono come tali soltanto in relazione ai Neri e agli Amerindi, perché la popolazione bianca del paese è formata da componenti diverse, che fanno riferimento alle grandi «razze»

in cui si suddivide la popolazione europea (nordica, alpina e mediterranea) e alle na-zionalità in cui tali gruppi umani si suddividono. Se anche tra gli Americani si voles-se isolare un gruppo d’origine prettamente britannica, poi, occorrerebbe pur sempre riconoscere che il popolo inglese nasce a sua volta dalla fusione di elementi etnici di-versi; quello germanico o anglosassone si è sovrapposto alla componente celtica pree-sistente e a quella latina che aveva occupato l’Inghilterra in epoca imperiale, ed ha inoltre subito apporti successivi, da quello scandinavo a quello franconormanno. La ricerca storica potrebbe a sua volta dimostrare che nessuna di queste componenti è da considerarsi razzialmente pura. 15.2. Lingua e identità Altra cosa è sostenere invece che le lingue si sviluppano in ragione di determinati fat-tori legati alla cultura e alle vicende storiche del popolo che in origine le ha elabora-te. L’inglese è evidentemente, in partenza, il risultato del processo storico-culturale che ha portato le popolazioni germaniche anglosassoni a occupare il territorio della Gran Bretagna, isola in precedenza abitata da popolazioni di lingua celtica successi-vamente romanizzate. Sul dialetto germanico degli Anglosassoni si eserciterà poi l’influsso delle lingue dei popoli dominati, e, successivamente, quello degli invasori vichinghi e franconormanni.

Tuttavia, come si è anticipato, una lingua non rimane necessariamente ancorata al-la cultura della quale è espressione: possiamo verificare ad esempio che la cultura americana, condivisa come si è detto da genti diverse per razza e per origine si espri-ma in forme diversissime da quella inglese, pur conservando la stessa impronta lin-guistica in pratica, i meccanismi che governano la diffusione di una lingua sono di-versi da quelli che stabiliscono il successo di modelli culturali e l’espansione di un ti-po razziale.

Le osservazioni sviluppate intorno al rapporto lingua-razza valgono sostanzial-mente anche per il rapporto lingua-nazionalità. Un idioma può essere condiviso da popolazioni divise da elementi culturali e religiosi, ad esempio, e persino contrappo-ste da rivalità secolari: si veda il caso dei Serbi e dei Croati, che pur parlando la stessa lingua costituiscono due realtà nazionali divise da secoli di incomprensioni.

Nondimeno un senso di appartenenza linguistica può contribuire a determinare, al di sopra di altre appartenenze, un senso di solidarietà nazionale: l’uso della stessa lin-gua determina una forte affinità tra afroamericani e bianchi statunitensi, e la lingua tedesca unisce popolazioni tuttaltro che omogenee da un punto di vista etnico, visto che il ceppo «baltico» prevalente nel nord della Germania non è tipologicamente affi-ne a quello «alpino» della Baviera o dell’Austria.

Al tempo stesso, non sempre e non necessariamente l’appartenenza linguistica condiziona l’adesione a un sentimento nazionale: gli Svizzeri ad esempio parlano quattro lingue diverse (tedesco, francese, italiano e retoromancio), ma uno svizzero di lingua tedesca nutre certamente un senso di netto distacco rispetto ai Tedeschi, men-tre sente una forte affinità e condivisione di valori coi suoi connazionali del cantoni

francofoni, del Ticino e dei Grigioni. I condizionamenti storici e istituzionali preval-gono decisamente, in casi come questo, su ogni altra considerazione.

15.3. La teoria dell’omogeneità linguistica L’opinione corrente secondo la quale le lingue sarebbero unità monolitiche prive di sostanziali differenziazioni al loro interno è contraddetta dall’osservazione secondo la quale anche in contesti estremamente ridotti – una comunità, addirittura una famiglia – si praticano abitudini linguistiche diverse; persino uno stesso individuo utilizza mo-di diversi di esprimersi in base ai condizionamenti ai quali è soggetto; quello che noi chiamiamo «una lingua», osserva André Martinet, è in realtà l’aggregato di milioni di comportamenti linguistici diversi: si parla diversamente in situazioni diverse, ad e-sempio a un bambino e a un adulto, a un subalterno e a un superiore, a una persona dello stesso sesso o dell’altro sesso, raccontando una barzelletta e tenendo una lezione universitaria, assistendo a una cerimonia religiosa o a una partita di calcio, e così via: alcune di queste differenze sono legate al contenuto di ciò che viene detto, altre sono di carattere strutturale e riguardano la pronuncia, il lessico che si sceglie di volta in volta, la stessa sintassi impiegata; ovviamente può cambiare la stessa lingua che si u-tilizza, nel momento in cui si adotta sistematicamente una lingua per certi scopi e un’altra lingua per altri. Con grande facilità e addirittura nell’ambito dello stesso di-scorso passiamo da una varietà all’altra, da un registro a un altro.

Il pregiudizio monolingue si consolida nel XIX sec., nel quadro della cultura ro-mantica, in base al principio identificativo lingua = nazione, ossia l’idea che uno sta-to debba necessariamente coincidere con un’area linguistica compatta e omogenea al suo interno. L’idea, formulata già nel corso del XVIII sec. da Herder venne perfezio-nata all’inizio dell’Ottocento in area tedesca, ad esempio nel pensiero di Grimm («non sono i fiumi né i monti a dividere i popoli, ma è la lingua sola a segnare il con-fine per quei popoli che monti e fiumi hanno varcato») e accolta anche in Italia, ad esempio dal Manzoni, che divulga l’idea di un’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor».

La concezione monolingue perdura ancora per gran parte del XX sec.: lo stesso Saussure contribuisce a divulgarla, nel momento in cui descrive la lingua come una sorta di sistema geometrico (langue), relegando sullo sfondo i motevoli aspetti dell’esecuzione (parole).

16. CONCETTI DELLA SOCIOLINGUISTICA 16.1. Comunità linguistica Fino agli anni Cinquanta del Novecento l’attenzione alla variabilità fu piuttosto ridot-ta per l’orientamento strutturalista della disciplina linguistica, poco interessato al ruo-lo del parlante e impegnata a definire una concezione universale e astratta del lin-guaggio.

In realtà ci si accorgerà poi che lo studio della variabilità inerente al comporta-mento linguistico è indispensabile per spiegare più in generale il comportamento ver-bale umano, tenendo conto delle modalità d’impiego della lingua da parte dei singoli individui all’interno delle strutture sociali. Tale angolazione è alla base dello sviluppo della sociolinguistica, disciplina che studia le diversità e le varietà della lingua quali si manifestano in rapporto alle differenze delle situazioni in cui avviene la comunica-zione. La ricerca sociolinguistica basa i propri fondamenti teorici su una serie di concetti che non si prestano facilmente a definizioni univoche. Quello di comunità linguistica, ad esempio, riguarda un gruppo di persone che usa lo stesso sistema di segnali linguisti-ci, ma tale definizione sembra implicare una sostanziale uniformità delle relazioni linguistiche, lasciando sullo sfondo proprio tutto ciò che attiene all’idea di variazione e differenziazione di natura sociale; se ci si attenesse a questo tipo di semplificazione, costituirebbero un’unica comunità linguistica, ad esempio, gli ispanofoni della Spa-gna e dell’America Latina o gli anglofoni della Gran Bretagna, dell’America e dell’Australia, quando invece sono ben note le differenze che intercorrono tra le ri-spettive varietà linguistiche; al contrario, non sarebbe possibile individuare una co-munità linguistica in situazioni di bilinguismo o di plurilinguismo.

Oggi si preferisce definire la comunità linguistica a partire dai gruppi sociali che la costituiscono, e considerare l’organizzazione al suo interno dei mezzi linguistici di-sponibili; non è quindi tanto il possesso di una lingua comune a definire la comunità linguistica, quanto il modo diverso nell’uso del linguaggio che si attua all’interno di essa rispetto ad altre comunità. Entrano in gioco pertanto fattori di autoidentificazio-ne e di percezione, che fanno sì ad esempio che gruppi parlanti lingue molto affini tra loro e dotate di un alto livello di intercomprensione, come gli Svedesi e i Norvegesi, si ritengano tuttavia appartenenti a comunità linguistiche diverse. 16.2. Repertorio linguistico Acquisisce pertanto valore il concetto di repertorio linguistico, che si definisce co-me la somma delle lingue, delle varietà di lingua, dei registri espressivi e delle prati-che comunicative a disposizione di un singolo soggetto parlante o di una comunità linguistica: la sociolinguistica attribuisce particolare importanza alla composizione

del repertorio, che può variare in rapporto al numero e alla gamma degli idiomi che lo costituiscono.

Altro aspetto rilevante del repertorio linguistico è dato dalla nettezza con cui le va-rietà sono separate tra loro: si parla di repertori fluidi quando la distinzione tra i di-versi codici è così sfumata che risulta difficile tracciare linee di confine, e di reperto-ri compartimentati quando le le varietà linguistiche appartengono a tipi linguistici dotati di reciproca autonomia.

La padronanza dei singoli idiomi presenti nel repertorio da parte del parlante sta-bilisce la differenza tra il possesso attivo e passivo di una lingua, ossia la diversa ca-pacità che si ha di parlarla e di intenderla. Hanno inoltre valore l’ordinamento gerar-chico delle varietà e le norme che, sulla base dell’atteggiamento valutativo dei par-lanti, ne regolano l’alternanza.

Alle spalle di questo sistema di valutazioni sta la competenza comunicativa, ossia la capacità da parte del parlante di decidere come e quando scegliere uno degli idiomi o dei registri che costituiscono il repertorio, e la sua capacità di utilizzarlo secondo le regole che gli sono proprie in base alla specifica situazione comunicativa per ottenere un messaggio efficace in base alle circostanze. 16.3. La nozione di prestigio Nel compiere le proprie scelte espressive il parlante può essere sollecitato non solo da ragioni strutturali intrinseche, ma dal particolare ascendente esercitato da una varietà o da una determinata forma linguistica. Si parla a questo proposito di prestigio, una nozione della psicologia sociale con cui si indica la valutazione positiva che comporta una determinata varietà linguistica.

Le forme linguistiche più apprezzate sono di norma quelle praticate da un gruppo sociale più autorevole: è ad esempio il prestigio associato a una determinata cultura, avvertita come superiore, che può indurre persino ad abbandonare la propria lingua a favore di quella in cui si esprime tale cultura.

Il prestigio entra in gioco nella formazione di lingue standard, in quanto condi-ziona la scelta di quell’idioma che, all’interno del repertorio di una comunità lingui-stica, viene praticato in particolare da una collettività o da un gruppo sociale distintosi per l’eccellenza delle sue realizzazioni in vari campi (politico, culturale ecc.): così, come vedremo, nell’adozione del toscano come lingua nazionale italiana entra in gio-co il prestigio letterario, nella scelta del dialetto di Parigi il ruolo centrale della corte stabilita in tale città, ecc.

In situazioni bilingui o plurilingui, è difficile che due varietà si collochino allo stesso livello di prestigio: tra esse è normalmente avvertibile uno scarto più o meno accentuato in termini di status, che determina la dominanza di una lingua sull’altra (o sulle altre): tale dominanza si basa in genere su uno status socioculturale e conse-guentemente sull’attrazione che il parlante avverte nei confronti del sistema di valori di cui quella lingua è portatrice, ma assume particolare rilievo anche la sua funzione

promozionale, ossia il valore che viene attribuito a una lingua ai fini dell’avanzamento sociale. 16.4. Rete sociale e dominio L’appartenenza sociale di un individuo è normalmente alla base dei suoi comporta-menti comunicativi: la lingua che egli apprende è in primo luogo quella dell’ambiente in cui si forma; tuttavia, le sue abitudini linguistiche vengono costantemente modifi-cate e condizionate in base alla serie di ambienti e di gruppi (nell’ambito del luogo di residenza, di lavoro e di svago ecc.) coi quali viene in contatto. Questo insieme di contatti forma la cosiddetta rete sociale, un concetto che consente ad esempio di spiegare come mai due persone che abbiano un’identica collocazione su tutte le va-riabili socio-demografiche essenziali (classe sociale, età, sesso, professione, istruzio-ne ecc.) possano presentare un comportamento linguistico anche assai differente im-piegando diverse varietà di lingua.

È ovvio che le reti sociali non sono entità univoche, e che si può facilmente passa-re dall’una all’altra a seguito dei numerosi punti di intersezione che esse presentano tra loro. La rete sociale è di fatto costituita dall’interazione e dall’influenza sulle abi-tudini linguistiche che viene esercitata dai diversi domini, nozione che consente di raggruppare classi omogenee di situazioni comunicative caratterizzate da una distri-buzione prestabilita dei ruoli o legate a pratiche sociali determinate: sono domini ad esempio la famiglia (dominio personale), il lavoro (dominio occupazionale), l’istruzione (dominio educativo), la chiesa, le relazioni d’amicizia, gli scambi comu-nicativi con i negozianti, ecc.

E’ di estrema importanza definire dunque la cosiddetta configurazione di domi-nanza, ossia il modello di distribuzione, valido per ciascuna società, delle scelte lin-guistiche all’interno dei vari domini: ad esempio, la scuola o l’attività pubblica hanno in genere un rapporto privilegiato con le varietà linguistiche dotate di maggiore pre-stigio (lingua alta), domini come la casa o le relazioni d’amicizia implicano spesso una varietà meno prestigiosa (lingua bassa) ecc.

Quando una simile ripartizione funzionale dei domini opera in modo rigido e com-plementare, si parla di diglossia, ossia della compresenza in una comunità linguistica di più lingue o varietà di una lingua che si differenziano per l’ambito d’uso e per il prestigio di cui godono nella comunità.

17. VARIABILITÀ 17.1. Nozione di variabilità

Una condizione inerente a tutti i sistemi linguistici è la loro intrinseca variabilità, concetto col quale si intende la proprietà delle lingue di possedere stratificazioni al proprio interno. Le lingue sono quindi viste come complessi articolati di più varietà, come insiemi formati da tanti sottoinsiemi omogenei di modalità di usare ciascun i-dioma, caratterizzati da una serie specifica di tratti che differenziano ciascun sottoin-sieme dagli altri, e il cui uso sia in regolare correlazione con un particolare tipo di condizionamento geografico, sociale, situazionale ecc.

La nozione di varietà è neutra, ed esclude ogni giudizio di valore o di connotazio-ni emozionali come quelle che sottostanno a concetti marcati in base al prestigio di un singolo idioma, come nel caso del rapporto lingua~dialetto.

Occorre ancora chiarire la distinzione terminologica che intercorre tra variazione e mutamento: mentre la prima riguarda la differenziazione interna ad ogni lingua i-stituibile in ciascuna delle sue sezioni sincroniche, per mutamento intendiamo le tra-sformazioni che qualsiasi lingua subisce lungo l’asse temporale o diacronico: sono varietà diacroniche, e riguardano quindi il mutamento l’inglese medievale in rapporto a quello moderno, il latino rispetto all’italiano ecc. 17.2. Dimensioni della variabilità La variabilità interna di una lingua si manifesta sotto diversi e complementari aspetti. I principali sono i seguenti:

1) variabilità diatopica (differenziazione nello spazio) 2) variabilità diastratica (differenziazione nella classe sociale, nell’età, nel sesso ecc.) 3) variabilità diafasica (legata alla situazione comunicativa o all’argomento della conversazione) 4) variabilità diamesica (differenziazione nel codice, scritto o parlato, ecc)

Queste dimensioni della variazione non agiscono isolatamente, ma interagiscono e interferiscono in vario modo: ad esempio, in italiano la matrice geografica e le impli-cazioni sociali della comunicazione sono strettamente interrelati.

17.3. Variazione diatopica Concerne la differenziazione linguistica «orizzontale», legata alla localizzazione ge-ografica dei parlanti e del loro spazio comunicativo: una stessa lingua può cioè rea-lizzarsi in varianti diverse da luogo a luogo, come dimostra in particolare il caso ita-liano.

In quest’ambito, ogni atto linguistico può oscillare dall’assoluta topicità, ossia un radicamento vernacolare che ne individui con estrema precisione la dislocazione area-le, a un’assoluta universalità, vale a dire una modalità espressiva sopralocale che non lasci scorgere la matrice territoriale del parlante.

Nel caso italiano ad esempio, la variazione diatopica ha assunto tradizionalmente la forma del contrasto tra lingua e dialetto. In realtà questa opposizione secca, come si vedrà più avanti, è stata perfezionata e integrata dagli studiosi.

Un aspetto della variabilità diatopica è dato dai cosiddetti geosinonimi, quelle va-rianti lessicali di una stessa nozione legate alla diversa appartenenza geografica dei parlanti (ad esempio, sono diversamente distribuite nello spazio parole come anguria, cocomero e melone, babbo e papà ecc). Su diversi aspetti della variazione diatopica si ritornerà più oltre con specifico riferimento alla situazione italiana. 17.4. Variazione diastratica La variazione diastratica prende in considerazione i vari aspetti che una stessa lingua può assumere a seconda della collocazione socioculturale e dell’identità del parlante. Il livello massimo di specificità espressiva è in questo senso rappresentato dall’idioletto o lingua inviduale, mentre la lingua comune rappresenta il livello mas-simo di generalizzazione: ma tra questi due estremi si collocano una serie di varietà che riflettono il particolare comportamento linguistico di collettività e gruppi legati da vincoli di appartenenza o interessi comuni; questa collettività si può identificare in una determinata posizione sociale, ma può anche coincidere con una comunità etnica, con una generazione, col sesso, con gli studenti dell’università, con quanti praticano una determinata attività sportiva, coi membri di un club e così via.

Nella valutazione della dimensione sociale non sempre è chiaro quale debba essere il parametro prevalente nell’individuazione dello status dei parlanti (condizione eco-nomica, attività svolta, livello culturale ecc.): nella situazione italiana contemporanea, ad esempio, l’indicatore diastratico più valido sembra appunto quello che oppone le persone «istruite» da quelle meno provvedute in tal senso.

Anche la distinzione tra la varietà diastratica e quella diatopica non sempre è netta: ad esempio, il ricorso al dialetto può segnalare l’appartenenza a un’area regionale i cui parlanti occupano una posizione sociale marginalizzata (in termini di reddito, pro-fessione, istruzione).

Una varietà diastratica si definisce socioletto quando è strettamente legata a un’appartenenza sociale (sia in senso valutativo positivo che negativo): esistono for-me di variabilità sociale particolarmente vistose nel caso ad esempio delle cosiddette

lingue di casta, che sono il corrispondente linguistico di una compartimentazione so-ciale particolarmente rigida. In realtà culturalmente più vicine a noi, tra le varietà for-temente connotate in chiave sociale si possono menzionare il cockney per l’inglese britannico e il Black English per quello americano: il primo è espressione della classe lavoratrice dei sobborghi londinesi, e in particolare dell’East End; il secondo è la par-lato della maggioranza dei neri nei ghetti delle grandi metropoli, e non è legato all’appartenenza razziale, ma a quella di classe. In Italia, un socioletto è rappresentato dal cosiddetto italiano popolare, caratterizzato ad esempio da semplificazioni morfo-sintattiche (lo telefono per gli telefono, ora ci parlo io per gli parlo io, ecc.).

Non meno vistosi sono i condizionamenti legati alle fasce d’età: il lessico giovani-le (o più in generale il gergo giovanile) rappresenta ad esempio una varietà ben nota agli studiosi. Esso può considerarsi in parte anche una varietà diafasica, in quanto le-gata a particolari contesti situazionali (lo stesso soggetto potrà utilizzare il gergo gio-vanile con i suoi coetanei e un italiano formale con un adulto).

Meno vistosi appaiono invece, almeno per quanto riguarda l’italiano, i condizio-namenti legati al sesso di appartenenza: si ritiene in genere che le donne utilizzino un maggior numero di eufemismi e diminutivi e che evitino maggiormente le espressioni volgari e il turpiloquio. Esistono invece realtà dialettali nelle quali la lingua femmini-le e quella maschile sono nettamente differenziate, soprattutto in ragione del maggio-re conservatorismo della forma in uso presso le donne.

17.5. Variazione diafasica Comprende le alternative funzionali all’interno del repertorio di un dato individuo o gruppo di individui, ossia le diverse modalità d’uso di una lingua che siano influenza-te dal contesto o dall’argomento della comunicazione.

Tra i parametri che determinano la variazione diafasica va notata in primo luogo la correlazione che intercorre con il grado di formalità della situazione comunicativa: il parlante abbassa o innalza il tono del proprio enunciato oscillando tra un livello im-personale e rigido (es. un’udienza in tribunale) e uno massimamente disinvolto (es. conversazione in famiglia), modificando di volta in volta e adeguando alla situazione la sintassi, il lessico, la pronuncia ecc. Ogni parlante si dimostra quindi in grado di se-lezionare moduli linguistici diversi per esprimere più o meno lo stesso contenuto se-mantico in situazioni diverse (casa, abitazione, dimora e persino magione).

In linea di massima la gamma dei possibili registri costituisce in ciascuna lingua un continuum scalare, ossia una transizione impercettibile che va dal più sorvegliato e ufficiale al più spontaneo e dimesso. Si riconoscono tuttavia almeno cinque stili fon-damentali secondo una scala decrescente di formalità:

stile gelido - I visitatori sono invitati a recarsi immediatamente al piano supe-riore servendosi della scala; stile formale - I visitatori sono pregati di salire le scale immediatamente;

stile colloquiale - Vi spiacerebbe andare di sopra subito, per piacere?; stile disinvolto - E’ ora che andiate tutti su di sopra, adesso; stile confidenziale - Dai, andate su, ragazzi.

Altrettanto importante è la relazione di ruolo intrattenuta tra i partecitanti all’atto comunicativo: infatti ciascun parlante occupa nella gerarchia sociale una determinata posizione. A seconda dell’intimità e del rapporto di rango che lo lega all’interlocutore, il locutore adeguerà quindi la propria strategia verbale; anche una stessa persona potrà esprimersi a un livello linguistico differente a seconda che abbia assunto il ruolo di professore che tiene una lezione o del padre che spiega qualcosa al figlio e così via.

A seconda dell’interlocutore innalziamo dunque o abbassiamo il livello dei nostri enunciati: in generale i livelli più bassi sono quelli intrattenuti con interlocutori più giovani o con dipendenti, quelli paritari si intrattengono con coetanei, colleghi, ami-ci, quelli più alti con interlocutori più anziani o che abbiano uno status sociale più e-levato o con cui non ci sia alcun rapporto. In italiano ad esempio vi è un livello di pa-rità individuato dal tu (reciproco) e un livello di cortesia o di semplice distacco indi-viduato dal lei.

Un tipo particolare di varietà dipendente dal destinatario è il cosiddetto baby talk o linguaggio bambinesco, modalità espressiva utilizzata dagli adulti nelle interazioni verbali coi bambini: è stato notato che le caratteristiche espressive che si usano con i bambini riflettono in lingue diverse modalità analoghe, che coincidono con l’esigenza di modificare e semplificare in modo rilevante il linguaggio normale.

Nella variabilità diafasica entra in gioco anche l’argomento della conversazione: si va da enunciati estremamente generici ad altri massimamente specifici, tali da im-primere un significato spiccatamente tecnico al discorso. In quest’ultimo caso si arri-va a parlare di lingue speciali (o linguaggi settoriali, o sottocodici), che sono varietà dipendenti da un settore di conoscenze o da una sfera di attività specialistiche; sono lingue speciali in senso stretto quelle che formano un’area lessicale nettamente di-stinta dalla lingua comune (la lingua dell’informatica, della medicina, della botanica ecc), sono lingue speciali in senso lato quelle accessibili anche a un pubblico più am-pio (il linguaggio dello sport, della politica). 17.6. Variazione diamesica Mentre i concetti di variazione diatopica, diastratica e diafasica furono studiati in par-ticolare, già negli anni Cinquanta, dal linguista romeno Eugenio Coseriu, la nozione di variazione diamesica è stata introdotta più recentemente dall’italiano Alberto Mioni, il quale ha constatato come la lingua possa variare anche in seguito ai condi-

zionamenti che subisce ad opera del mezzo (orale o scritto) impiegato nella comuni-cazione.

Questo tipo di variazione è particolarmente apprezzabile in italiano, lingua nella quale, storicamente, il livello dell’oralità e quello della scrittura risultano particolar-mente distinti: tuttavia la variazione diamesica non riguarda soltanto la fondamentale distinzione tra parlato e scritto, ma anche le sfumature interne a queste forme di e-spressione.

È evidente ad esempio che il parlante ha un diverso comportamento a seconda che la comunicazione orale si svolga in presenza diretta dell’interlocutore o che sia me-diata attraverso apparecchi telefonici: in quest’ultimo caso viene meno infatti tutta la componente gestuale della conversazione, e vi è un’esigenza maggiore di tenere co-stantemente aperto il canale comunicativo attraverso il ricorso a segnali discorsivi che tengano viva l’attenzione della persona con cui si parla. Analogamente, l’uso scritto può variare al suo interno per motivi di ordine stilistico, in base al tipo di in-formazione o messaggio che si intende comunicare ecc.

Nell’ambito della variazione diamesica si collocano anche forme innovative e ori-ginali di comunicazione, collocate ai confini tra oralità e scrittura, come i messaggi sms o le e-mail, nelle quali il ricorso a strumenti meccanici ed elettronici di trasmis-sione si coniuga con una maggiore adesione al parlato rispetto ad altre forme di scrit-tura, e anche a nuovi ricorsi (abbreviazioni, simboli ecc.) che non appartengono né al parlato né a forme convenzionali di uso scritto. 17.7. Antilingua

Un livello estremo di ipercaratterizzazione formale è rappresentato dalla cosiddetta antilingua, nella quale gli aspetti formali finiscono per risultare sovradimensionati rispetto alle esigenze comunicative: l’antilingua emerge tutte le volte che un parlante utilizza l’italiano in maniera impersonale e meccanica dissolvendo la propria indivi-dualità creativa. Una forma diffusa di antilingua è rappresentata ad esempio dallo sti-le burocratico:

I viaggiatori in partenza da stazioni impresenziate e prive di macchine obliteratri-ci, per la dovuta vidimazione, debbono rivolgersi tempestivamente al personale viag-giante.

Parte VI – Plurilinguismo e interlinguistica

18. PLURILINGUISMO 18.1. Definizione di bi- e plurilinguismo Si definisce comunemente con il termine plurilinguismo la condizione in cui due o più lingue siano parlate da uno stesso individuo o collettività. In senso più ampio, se-condo una definizione di Tullio De Mauro, si intende per plurilinguismo «la compre-senza sia di tipi diversi di idiomi, sia di diverse norme di realizzazione di un medesi-mo idioma». Si parlerà in particolare di plurilinguismo esogeno, che consiste nella molteplicità di lingue parlate dal genere umano, e di plurilinguismo endogeno che chiama in causa le stratificazioni interne ad uno stesso sistema linguistico.

Come si è già visto, la condizione del monolinguismo è una pura astrazione, in quanto alla cosiddetta lingua materna o meglio prima lingua, ossia all’idioma appre-so nell’ambito familiare all’atto stesso dell’acquisizione del linguaggio, si affianca normalmente la pratica di una o più varietà addizionali, che possono essere lingue straniere o lingue seconde. 18.2. Padronanza Si creano così le condizioni di una situazione che si definisce di bilinguismo se le lingue a contatto sono soltanto due, o, qualora le varietà che entrano in gioco siano più numerose, di plurilinguismo. Nel senso comune, essere bilingui significa dominare perfettamente due lingue. A lungo si intese per bilinguismo, in particolare, la padronanza piena di due lingue da parte di una data persona: si faceva riferimento alla situazione ideale di quei parlanti che avessero ad esempio acquisito la duplice competenza fin dall’infanzia in virtù della condizione privilegiata di avere genitori di lingua diversa che riuscissero a inte-grare perfettamente i due sistemi linguistici tra loro a un livello piuttosto profondo dell’organizzazione psicologica.

Il bilinguismo così inteso era un fenomeno attinente alla sfera individuale, degno più di osservazione psicologica (per la complessità dei meccanismi in gioco) che so-ciologica o linguistica. Per questo tipo di funzionamento bilingue, in particolare, i due codici erano considerati sovrapponibili, intercambiabili, senza che tra essi operasse cioè una delimitazione degli ambiti d’uso.

A partire dagli anni Cinquanta e soprattutto per iniziativa del linguista americano Uriel Weinreich, il termine bilinguismo ha finito per comprendere «tutte le gradazioni nell’uso di due (o più) lingue»: esistono in effetti innumerevoli posizioni intermedie tra la condizione di un interprete esperto e quella di una persona che a stento riesca ad

asprimere qualche semplice concetto in una lingua straniera. In altri termini, il bilin-guismo è compatibile con un grado di competenza sufficiente per una comunicazione efficace in più di una lingua; dove per efficacia deve intendersi l’abilità di recepire correttamente il significato dei messaggi e l’abilità parallela di produrre messaggi in-telligibili in più di un codice.

Si può parlare di bilinguismo bilanciato o equilibrato, che si realizza quando un parlante si esprime con uguale scioltezza in due lingue senza mostrare una spiccata preferenza per l’una o per l’altra, e di bilinguismo dominante che comporta la preva-lenza di uno dei due idiomi.

Una concezione estensiva del plurilinguismo afferma che lo scarto interlinguistico (ossia la differenza esistente tra le varietà a contatto) è ininfluente ai fini dello stabi-lirsi di una situazione bilingue: in altri termini, si può essere bilingui non solo se si dominano reciprocamente due lingue straniere l’una all’altra, ma anche quando si ab-bia familiarità con due varietà della stessa lingua. 18.3. Bilinguismo individuale, collettivo, comunitario La stessa ampiezza della nozione di bilinguismo ha creato l’esigenza di introdurre una prima distinzione tra bilinguismo individuale, che concerne la pratica dell’uso alternativo di due lingue da parte di un singolo parlante, e bilinguismo collettivo, che si realizza ogni qualvolta l’utilizzo di due lingue come mezzo di comunicazione prenda a riferimento una stessa unità politica e culturale, un gruppo o un determinato contesto sociale.

Il bilinguismo individuale è attinente alla sfera del singolo parlante, e in quest’ambito assume rilievo anche la distinzione tra acquisizione e apprendimento di una lingua: l’acquisizione si verifica quando il parlante, in determinate condizioni, impara una seconda lingua mediante un processo inconscio, il cui esito è altrettanto automatico; per apprendimento linguistico si intende invece lo sviluppo della compe-tenza in una seconda lingua attraverso la conoscenza esplicita di regole di grammatica e liste di vocaboli.

Il bilinguismo collettivo si può presentare in due distinte maniere: parleremo di bi-linguismo territoriale per registrare la semplice convivenza di più lingue su uno stesso territorio, e di bilinguismo comunitario per chiamare in causa più specifica-mente le modalità di distribuzione e utilizzo di più sistemi linguistici in una determi-nata comunità. 18.4. Diglossia

La nozione di diglossia definisce quel particolare regime bilingue in cui coesistano nella stessa comunità due lingue distinte, o anche due varietà di una stessa lingua, una delle quali (quella alta) sia riservata alle occasioni formali e pubbliche, mentre l’altra (bassa) sia adibita agli usi informali e alla comunicazione quotidiana.

Nei casi estremi fra i due idiomi si può instaurare una divergenza così profonda da generare una vera e propria «barriera di inintelligibilità», ma in ogni caso essi assol-vono a funzioni diverse secondo precise regole d’uso largamente condivise dalla co-munità: la selezione dell’uno o dell’altro codice è automaticamente regolata dal livel-lo di formalità della situazione comunicativa e dal tipo di dominio.

La diglossia è insomma espressione del presupposto che le lingue siano equivalen-ti da un punto di vista strettamente linguistico-comunicativo, ma non da quello socio-linguistico.

Casi tipici di diglossia si considerano quelli vigenti nei paesi di lingua araba, dove le diverse varietà di arabo volgare convivono con la lingua classica, o nella Svizzera tedesca, dove il dialetto parlato, lo Schwyzertütsch, è la sola forma usata nella comu-nicazione orale da tutte le classi sociali ma convive col tedesco standard dell’uso scritto.

19. INTERLINGUISTICA

19.1. Pidgin e lingue creole Un caso particolare di diglossia può verificarsi quando l’incontro di due lingue soli-tamente appartenenti a famiglie linguistiche diverse genera situazioni di sovrapposi-zione soltanto sporadica e occasionale: esse creano commistioni tra forme semplifica-te delle lingue, dalle quali si sviluppano nuovi idiomi. Questi idiomi prendono il no-me di pidgin: furono pidgin le varietà parlate in passato sulla costa della Cina, dove il cinese si mescolava all’inglese per motivi commerciali (la stessa parola pidgin è un’alterazione in bocca cinese dell’inglese business); tali lingue permettono una co-municazione molto semplice fra persone che normalmente parlano però altre lingue. Vengono perciò usate a scopi particolari e specifici e hanno in genere un vocabolario molto ristretto, limitato ai termini necessari all’uso.

Quando queste lingue semplificate diventano le uniche parlate da una comunità, vengono dette creoli o lingue creole. Un esempio di creolo è l’idioma parlato ad Hai-ti. I creoli derivano quindi dai pidgin, le cui forme semplificate acquistano nuova ric-chezza e complessità in conseguenza della generalizzazione dell’uso. Si definisce in-vece lingua franca una lingua naturale usata come strumento semplificato di comu-nicazione a livello internazionale, fra comunità che parlano altre lingue.

19.2. Prestiti e calchi L’interlinguistica si occupa dei fenomeni collegati alla compresenza di più lingue in situazioni di bi- e plurilinguismo e diglossia, e più in generale dei contatti tra lingue diverse.

I contatti linguistici si verificano essenzialmente in virtù dell’esistenza di singoli parlanti o di comunità bi- e plurilingui e sono di tipo diverso a seconda del contesto sociale in cui si verificano.

Il caso di contatto linguistico più evidente e più noto è quello offerto dal prestito, fenomeno per il quale una lingua esercita su un’altra un forte influsso sul piano se-mantico, tale da condurre all’introduzione in quest’ultima di nuovi vocaboli in forma più o meno stabile e duratura.

I prestiti possono essere di vario genere. A un primo livello si situano i prestiti les-sicali che si adattano al sistema fonologico della lingua di ricezione e che assumono la stessa forma dei suoi paradigmi morfologici, cioè adeguano la radice della parola importata applicandole le desinenze della lingua di ricezione: to dribble > dribblare. In altri casi l’adattamento morfologico non è possibile e si verifica solo l’adattamento fonetico. Ad esempio bar, gol e garage, parole che vengono pronunciate in italiano in modo diverso rispetto all’inglese e al francese standard.

Il prestito può essere integrato o non integrato: è integrato quando il parlante non lo riconosce come tale (es. bistecca dall’inglese beefsteak), non è integrato invece quando l’aspetto esteriore, cioè l’aspetto fonetico, lo rende riconoscibile come termi-ne forestiero (es. bar, leader, escalation). Si può inoltre distinguere fra prestito di ne-cessità e prestito di lusso o di prestigio: il primo si ha quando si acquisiscono con-temporaneamente significante e significato, ossia quando la voce straniera viene as-sunta assieme all’oggetto che denomina, il quale non esiste nella cultura della lingua di ricezione (è il caso di termini esotici come patata o mais, ma anche di termini tec-nici come computer, hardware, software); si parla invece di prestito di lusso quando un vocabolo, che ha già un corrispondente nella lingua di ricezione, viene sostituito da un termine straniero per evocare uno stile di vita e una civiltà ritenute superiori. Sono prestiti di lusso molti degli anglicismi ormai da tempo in uso nella lingua italia-na, come leader per ‘guida’ o premier per ‘primo ministro’.

Quando i prestiti riproducono totalmente la forma di una parola o di una locuzione straniera ma ricreandola e traducendola in un’altra lingua, si parla invece di calchi strutturali, come nel caso della parola italiana grattacielo, dall’inglese skyscraper, o di lotta di classe, dal tedesco Klassenkampf. Si parla invece di calchi semantici quando la parola in una lingua esiste già, ma riceve un nuovo significato per influenza di una parola simile in una lingua straniera: è il caso di autorizzare, modellato sul francese autoriser, per il quale passa dal significato originario di ‘rendere autorevole’ a quello di ‘permettere’.

Come si è appena visto i prestiti avvengono spesso da una lingua di maggior pre-stigio a una di prestigio minore. Il ruolo del prestigio di una lingua nella sua capacità di esportare modelli lessicali può essere verificato anche attraverso il fenomeno dei falsi prestiti o prestiti apparenti, ossia parole come prémaman, autostop, recordman, footing, antidoping, vitel tonné, che non sono in realtà voci inglesi o francesi passate all’italiano, ma sono state create in Italia seguendo la moda dell’assunzione di voci straniere. In altri casi, i prestiti apparenti sono rappresentati da parole che esistono ef-fettivamente in una lingua straniera, ma che assumono un significato del tutto nuovo e specifico nella lingua che li assume: è il caso dell’inglese body, che significa sem-plicemente ‘corpo’ ma che in italiano indica esclusivamente un certo tipo di indumen-to femminile, o del francese frappé ‘sbattuto’, che in italiano è un tipo di bevanda. In inglese, la locuzione italiana tuttifrutti significa invece ‘macedonia di frutta’.

Parte VII – Aspetti del patrimonio linguistico sardo

20. IL PATRIMONIO LINGUISTICO SARDO

20.1. Panorama geolinguistico Il sardo rappresenta un insieme dialettale fortemente originale nel contesto delle va-rietà neolatine e nettamente differenziato rispetto alla tipologia italoromanza, al punto che gli studiosi sono sostanzialmente concordi nell’affermarne l’originalità come gruppo a sé stante nell’ambito romanzo.

Tra le caratteristiche salienti del sardo, tenendo in considerazione soprattutto le ti-pologie più arcaiche e specifiche, vanno ricordati:

- l’originale sistema a cinque vocali (a, e, i, o, u) originate

dall’annullamento della distinzione tra lunghe e brevi in latino; - la conservazione del suono velare di c e g davanti a e ed i (chentu ‘cen-

to’, chelu ‘cielo’, chimbe ‘cinque’, ghelare ‘gelare’, ghelu ‘gelo’) - la conservazione dei nessi cl-, pl-, gl-, bl-e fl- (per lo più nelle forme

kr-, pr- ecc: kramare ‘chiamare’, krae ‘chiave’, pranghere ‘piangere’); - il passaggio di qu- a b- (battoro ‘quattro’); - la forma degli articoli derivati da ipsum (su, sa, sos, sas); - l’uso del plurale in -s (muros, feminas, omines); - una serie di aspetti sintattici caratteristici, ad esempio la posposizione

del pronome possessivo e dell'ausiliare nelle interrogative, come nel cam-pidanese sa mela ollisi? ‘vuoi la mela?’;

- la presenza nel lessico di voci specifiche spesso corrispondenti a parole

latine che non continuano in italiano (domo ‘casa’, chitto ‘presto’, crai ‘domani’ ecc.).

20.2. Varietà sarde Come abbiamo visto, la lingua sarda si distingue dunque per la sua originalità all’interno delle varietà neolatine, differenziandosi fortemente dai dialetti del resto

d’Italia, e formando un gruppo a sé nell’ambito romanzo. Si possono individuare, se-condo la partizione ormai condivisa dalla maggior parte degli studiosi, tre aree prin-cipali: logudorese, nuorese e campidanese. All’interno di esse i dialetti si diversifica-no in particolare dal punto di vista fonetico e lessicale, in seguito a fenomeni evoluti-vi che li hanno coinvolti nel corso dei secoli. Anticamente, infatti, il sardo era abba-stanza omogeneo, ma anche a causa dei molteplici influssi stranieri, la situazione lin-guistica è mutata fino ad arrivare alle parlate odierne, tuttora soggette a fenomeni e-volutivi.

Il logudorese viene parlato nell’area centro-occidentale dell'isola ed è suddiviso al suo interno in tre varietà sub-areali: il logudorese centrale o centro-occidentale, che funge da varietà letteraria, il logudorese orientale o sud-orientale maggiormente con-servativo e il logudorese settentrionale, che costituisce la varietà più innovativa.

Il nuorese si estende nella regione intorno alla provincia di Nuoro, nel Goceano a ovest e a est fino alla costa del golfo di Orosei. In realtà le due varietà settentrionali, logiudorese e nuorese, si possono accostare tra loro in opposizione al campidanese che non mantiene gli stessi tratti arcaizzanti degli altri dialetti. Il Campidano è l’area più estesa di dominio campidanese, ma non è l’unica. Vi sono aree limitrofe quali il Sulcis a sud-ovest e il Sarrabus a sud-est, la regione della Barbagia meridionale e quella ogliastrina. Anche il campidanese ha quindi diverse varietà sub-dialettali per quanto si presenti in maniera più omogenea rispetto agli altri dialetti sardi.

I dialetti di tipo sardo non sono gli unici a costituire la realtà idiomatica dell’isola: fra le altre varianti vi sono quelle di tipo corso, il sassarese e il gallurese, parlati ri-spettivamente nella città di Sassari con Porto Torres, Sorso e Stintino, e nella zona nord-orientale della Sardegna chiamata appunto Gallura. Aree linguistiche a sé stanti sono inoltre quella quella catalana di Alghero e quella tabarchina. Queste varietà non sarde costituiscono l’oggetto dell’approfondimento di quest’anno, per il quale si rimanda al volume La Sardegna che non parla sardo. 20.3. L’italiano regionale sardo

La varietà di italiano regionale sardo è molto tipica anche dal punto di vista intona-tivo. Appare molto marcata la distinzione tra le vocali e ed o aperte e chiuse, vi è una tendenza all’alterazione delle consonanti occlusive e affricate sorde in posizione in-tervocalica, si verificano costrutti verbali particolari per influsso del sardo, ad esem-pio l’uso del verbo essere in luogo di stare in presenza del gerundio (sono correndo per ‘sto correndo’) o l’uso intransitivo di verbi comunemente transitivi (alzare ‘sali-re’). La convivenza dei due codici linguistici crea fenomeni di interferenza soprattutto fra i giovani. Si tratta ad es. di forme dialettali che vengono spesso modificate dal punto di vista semantico. Il fenomeno coinvolge in particolare quei ragazzi che hanno come prima lingua l’italiano e non padroneggiano la lingua locale, ma ne subiscono l’influsso. Ciò da vita a un gergo composto da termini, per citarne alcuni, come tanal-la ‘tanaglia’ utilizzato per ‘avaro’, spramma ‘spavento’, surra ‘bastonata, botte’, tur-rato ‘ottuso, stupido’, tutti attestati nell’area campidanese.

21. ASPETTI STORICO-CULTURALI 21.1. Profilo di storia linguistica sarda La lingua sarda nasce dunque, al pari delle altre lingue neolatine, dall’evoluzione del latino importato nell’isola dai Romani a partire dal III secolo a.C. Alla crisi dell'impero la Sardegna cadde sotto il controllo dei Vandali per essere poi riconqui-stata dai bizantini, ma l'idioma latino si era ormai diffuso in tutta l’isola e rimase il carattere primario della sua costituzione linguistica.

A fronte di una sostanziale unità dei suoi caratteri costitutivi, verso l'inizio del se-condo millennio d.C. i primi documenti scritti testimoniano il sorgere di differenzia-zioni interne in particolare tra le varianti meridionali e quelle settentrionali.

A tutti i modi, presso gli studiosi della latinità e delle lingue romanze il sardo si è conquistato un suo posto particolare quale caso di lingua che, nonostante la sua evo-luzione, è rimasta molto vicina alle forme del latino originario.

Successivamente, per effetto delle diverse genti che giunsero sull'isola fino ai giorni nostri, la lingua autoctona fu esposta, in misura diversa, all'influenza di diversi idiomi esterni che ne modificarono e arricchirono in modo particolare il lessico.

Nonostante le classi dirigenti isolane abbracciassero di volta in volta la lingua do-minante di turno, dando vita a un sostanziale plurilinguismo, le popolazioni rimasero pervicacemente attaccate alle varietà della loro lingua facendola sopravvivere fino ai nostri giorni. Negli anni Settanta del secolo scorso, di fronte all'evidenza del rischio di abbandono del sardo e della sua estinzione, nacquero movimenti e fermenti popola-ri per la sua tutela e difesa.

Per quanto riguarda gli studi linguistici, tra i precursori si deve annoverare Sigi-smondo Arquer che nel 1550 diede nella sua opera principale Sardiniae brevis histo-ria e descriptio una prima descrizione del sardo. Di capitale importanza per la cono-scenza della lingua sarda è l’opera di Max Leopold Wagner, studioso tedesco nato a Monaco di Baviera nel 1880 e morto a Washington nel 1962. La sua opera più rile-vante è il Dizionario Etimologico Sardo (DES), in tre volumi. 21.2. Strati linguistici Il patrimonio lessicale sardo è costituito da elementi legati alle vicende storiche che hanno coinvolto l’isola sin dai tempi antichi. La formazione della lingua sarda come la conosciamo oggi, si deve fondamentalmente all'elemento latino, come si è detto, sul quale hanno agito apporti come quello catalano, spagnolo, italiano ecc.

Occorre anzitutto accennare a quelle che erano le caratteristiche linguistiche della Sardegna ancor prima della dominazione punica e di quella romana; vi si parlava la lingua oggi convenzionalmente definita paleosardo, della quale non esistono attesta-zioni scritte. I primi popolamenti in Sardegna risalgono al Paleolitico e furono costi-tuti da genti che stabilirono contatti con le altre sponde del Mediterraneo attraverso il

commercio dell'ossidiana. L’età nuragica vide lo sfruttamento dei giacimenti metalli-feri, e questo diede vita a vivaci rapporti con con altre genti. Il collegamento delle popolazioni sarde del tempo con altre esterne all’isola, è utile per capire la derivazio-ne degli elementi lessicali che si riscontrano nel sardo antico. Emerge infatti che la Sardegna era parte integrante di una serie di relazioni che partivano dall’Africa all’Iberia e comprendevano anche Grecia, Asia Minore e Italia. Una situazione che non rendeva, quindi, la Sardegna isolata e chiusa, come può far pensare la sua condi-zione di insularità.

Questo sostrato indigeno si è conservato prevalentemente nel lessico riguardante la denominazione di luoghi, la flora e la fauna. Per quanto concerne i nomi dei luoghi e l’ambiente naturale vi sono forme come mogoro ‘piccola collina’ presente anche come toponimo, che mostra legami col basco e col libico. Molto diffusa nella topo-nomastica sarda è la radice gon- ‘altura’, probabilmente da una voce libica che si ri-trova in nomi di luogo come Gonnos, Gonnesa, Gonifai, Cala Gonone, Arcu de Gon-nazè e altri. Nello specifico della flora si riscontrano voci di area iberica che trovano riscontri anche nel basco: eni ‘tasso’, costiche, costighe ‘acero minore’, golostru, o-lostru ‘agrifoglio’. Al nome basco mata, che ha concordanze iberiche e africane, si ricollega la forma sarda mat(t)a ‘albero, pianta’ dei dialetti campidanese e logudore-se. La forma campidanese sessini per giunco marino trova possibili riscontri nel ber-bero azezzu ‘ginestra’, sezzerth ‘stelo’.

L’unica lingua prelatina parlata in Sardegna di cui abbiamo attestazioni sufficienti è quella punica, come conseguenza di insediamenti di origine fenicia attestati nell'i-sola a partire dal VI secolo a.C., in particolare nell'area meridionale. Elementi lessica-li punici si riscontrano quindi, soprattutto nel Campidanese: si tratta di toponimi e di altri vocaboli non molto numerosi. I nomi di luogo di attestazione certa sono tra gli altri Tharros, Bithia e Othoca nei pressi di Oristano e la forma Magomadas derivante probabilmente da maqom hadas ‘luogo nuovo’. Altri elementi lessicali sono tsippiri ‘rosmarino’, mittsa ‘sorgente’, e tsikkiria ‘aneto’, tutti attestati in campidanese.

Nel 238 a. C. ha inizio la dominazione romana in Sardegna. Nei secoli che seguo-no, il sostrato indigeno si fonde con la lingua latina: è un processo lento che coinvol-ge progressivamente tutta l'isola, persino le zone più interne, le quali una volta assi-milato l’idioma latino, ne manterranno i caratteri più arcaici. Il sardo formatosi dopo la dominazione romana, continua a mutare nei secoli, pertanto molte voci sono cadute in disuso o hanno assunto connotazioni diverse da quelle originarie. Nei testi medie-vali compaiono ad esempio forme del latino antico che, allo stato attuale, permango-no solo in alcune regioni circoscritte.

Permangono invece, nel loro significato originario voci quali il logudorese domo, campidanese domu < DOMUS ‘casa’ e ACINA con i corrispondenti sardi akina, a-ghina, asgina ‘uva’, che mantiene il valore collettivo del latino. Emergono poi altre voci che non hanno avuto continuatori nell’italiano; sono termini che fanno parte del lessico specialistico della pastorizia, tra cui berbeghe < VERVECE ‘pecora adulta’ , laghinza < LACINIA che indica la pecora che non ha ancora figliato, bedusta < VE-TUSTA con il significato di pecora oltre i due anni d'età che ha già figliato diverse volte, lunadica < LUNATICA è invece la pecora sterile.

L’elemento italoromanzo assume un ruolo preponderante con l’avvento dei Pisa-ni e dei Genovesi in Sardegna, e in modo particolare dopo la vittoria delle repubbli-che di Pisa e Genova contro i Saraceni del 1016; tale momento fu per l’isola occasio-ne di instaurare relazioni con il continente italiano, fino ad allora quasi inesistenti. Dopo quell’evento, diversi Pisani e Genovesi si trasferirono in Sardegna; fra di essi sicuramente vi erano diversi operai, il lavoro dei quali è testimoniato dalle costruzioni in stile pisano. Alcune tracce evidenti di questa fase storica, si ritrovano in un patri-monio lessicale che nel complesso risulta variegato. Negli antichi testi legislativi me-dievali, si trovano già molti prestiti dal toscano e dal genovese antico.

Il pisano è attestato ad esempio nel campo dell’abbigliamento come conseguenza della forte presenza mercantile toscana in Sardegna. Vi sono elementi lessicali quali, mustarolu ‘panno’ < mustarolo, presentino ‘tela di lino’ < piacentino, albache, orba-ce, orbaci ‘stoffa rustica di lana sarda’ < albagio. Fra questi, è interessante la presen-za di prestiti nella terminologia dei costumi tradizionali sardi: cogliettu è il gilè di cuoio dell’uomo, che deriva dall’italiano antico coietto; cassiu, can(s)ciu è invece, il corpetto del costume della donna dall’italiano antico casso. Quanto al genovese anti-co, il suo influsso si riscontra soprattutto nell’area sassarese e gallurese, e l’individuazione di prestiti risalenti alla presenza politica ligure nel medioevo è spes-so resa difficoltosa dall’influsso successivo che il genovese esercitò soprattutto nelle aree costiere e nelle città portuali.

Gli influssi idiomatici iberoromanzi in Sardegna, si devono alla lunga occupazio-ne prima catalana, poi spagnola, che iniziò nel 1324 e durò fino al 1714. La lingua ca-talana si irradiò nell’isola, in un primo momento dal centro urbano di Cagliari, ma l’estensione delle voci catalane non si limitò alla zona meridionale, e vi fu una diffu-sione anche nelle regioni del centro, spesso attraverso il lavoro dei notai, che utilizza-rono il catalano per la redazione dei documenti fino al XVIII sec. Tra le innumerevoli voci catalane entrate nel sardo, vi sono quelle che riguardano i mestieri e le arti, che dimostrano un effettivo rinnovamento delle attività artigianali sotto l’influsso iberico. Ad esempio le forme campidanesi ferreri ‘fabbro’ < ferrer, caragolu ‘morsa’ < cara-gol, mancia ‘mantice’ < manxa, tuvera ‘tubo del mantice’ < tobera, clavera, cravera ‘chiodaia’ < clavera, frontissa, fruntissa ‘cerniera, cardine’ < frontissa. forronali, fronabi ‘fucina’ < fornal. I vocaboli di origine spagnola sono altrettanto numerosi, e tra di essi si possono annoverare voci che riguardano la vita sociale, in particolare formule di cortesia e saluti. Tra questi cagliaritano fustetti ‘lei’ < vusted, adiosu < ‘ar-rivederci, addio’ < adiosu.

L’italiano letterario ha influenzato in maniera importante i dialetti sardi, i quali devono affrontare oggi più che mai continui processi di italianizzazione. Ciò appare inevitabile se si considera l’importanza dell’idioma italiano già nei testi antichi e l’evolversi della storia che ha visto l’affermazione di tale lingua come ufficiale. Una componente interessante dell'elemento italiano, è costituita poi dai piemontesismi, che si ritrovano ampiamente nella terminologia relativa ad attività produttive, e sono dovuti anche all’introduzione di innovazioni in campo lavorativo. Si possono citare alcune voci quali listellus ‘travicelli’ < listèl, mesanellu ‘mezzanino’ < mesanel, lobiu ‘ripostiglio’ < lobia, mercia ‘saetta del trapano’ < mecia, ciambrana ‘intelaiatura del-

le finestre’ < ciambrana, lavandínu ‘acquaio, lavandino’ < lavandin, campidanese buttu ‘mozzo della ruota’ < but.

Più in generale, il prestigio dell’italiano ha determinato, nel corso dei secoli, un progressivo avanzamento dell'uso di questo a discapito dei dialetti sardi, i quali, come già accennato, subiscono sempre più fenomeni di italianizzazione; in particolare dopo la seconda guerra mondiale, tali fenomeni, si sono irradiati anche nelle aree più con-servative. A titolo di esempio, si possono annoverare sostantivi tradizionali come sambenadu, interru, ispantu, brulla, tastare, buttega ai quali subentrano oggi fre-quentemente forme derivanti dall'italiano: cognome, funerale, raviglia, ischerzu, as-sazzare, negoziu. 21.3. Usi scritti antichi e recenti

Non esiste una produzione letteraria colta in volgare sardo risalente al Medioevo. L'unico esempio può essere considerato il Libellus Iudicum Turritanorum, una crona-ca delle gesta dei giudici di Torres.

Per il resto la letteratura sarda che circolava in quegli anni in Sardegna doveva es-sere in latino, o toscano, o catalano. La lingua sarda affiancava però il latino nella re-dazione degli atti giuridico-amministrativi. Dopo il sopravvento delle repubbliche marinare di Pisa e Genova, l'invasione aragonese pose fine alle aspirazioni autonomi-stiche. Lo sviluppo «alto» di una lingua letteraria sarda divenne improponibile e le classi dirigenti locali adottarono il catalano e il castigliano quali lingue letterarie.

Il Quattrocento si apre in Sardegna con un fatto d'armi, che segna la fine delle a-spirazioni autonomistiche del regno d’Arborea, schiacciato dalla superiorità bellica della Corona d’Aragona. Dopo oltre cento anni di guerra, infatti, la perdita della so-vranità viene sancita dalla battaglia di Sanluri del 30 giugno 1409. L'esercito catalano quello arborense. Con la sconfitta del regno che aveva quasi completamente unificato il territorio sardo, l'intera isola diventa un feudo aragonese. Il governo catalano diven-ta ancora più stabile dopo il soffocamento della ribellione di Leonardo de Alagon nel 1478. Per la Sardegna comincia il lungo periodo della dominazione iberica che termi-nerà solo all'inizio del XVIII secolo. Dal punto di vista culturale, la classe dirigente si spagnolizza quasi completamente. La lingua sarda viene emarginata dall'ufficialità, ma sopravvive nel popolo. Gli intellettuali sardi sono plurilingui utilizzando di volta in volta il sardo, il castigliano o il catalano.

Nonostante le difficoltà dovute al regime feudale imposto dagli Spagnoli, alle pe-stilenze, alle scorrerie barbaresche, alle difficoltà di comunicazione, esistono tracce di una vita culturale ricca e multiforme. Lo testimonia la presenza di numerosi uomini di cultura che coltivano le lettere, le arti, l'interesse per la storia e la geografia come Si-gismondo Arquer, Giovanni Francesco Fara, Giovanni Arca. Questi uomini di cultura hanno in comune molte cose, tra cui l'interesse e l'uso di diverse lingue per scrivere le loro opere. Lo scrittore della Sardegna usa prevalentemente il latino, il castigliano, il catalano o il sardo (raramente l'italiano), a seconda del pubblico a cui si deve rivolge-re o dell'intento che intende perseguire. Nella Sardegna del Cinquecento spicca co-

munque la figura di un intellettuale destinato a segnare una pietra miliare nella que-stione della lingua sarda: Gerolamo Araolla.

Il secolo XVII si apre in Sardegna con un discreto risveglio culturale: si istituisco-no le Università a Cagliari nel 1626 e a Sassari nel 1632. La situazione dell'isola si fa però sempre più difficile fino a precipitare negli ultimi decenni del secolo in una crisi politica senza precedenti. Il paese soffriva finanziariamente, sulle coste imperversa-vano i pirati mori e la povertà regnava. La cultura comunque non muore, neppure quella che si esprime con l’uso della lingua sarda. Nel plurilinguismo generale tra-monta l'uso del catalano a favore del castigliano che diventa veicolo importante dell'importazione di stili, modelli e abitudini della cultura spagnola nell'isola. Dimi-nuiscono i tentativi di valorizzare il sardo, sebbene il suo utilizzo continui a essere prevalente negli scritti di carattere religioso destinati alle classi popolari. Infatti la let-teratura in lingua sarda è stata per secoli soprattutto una letteratura religiosa, a partire dal medioevo fino ai giorni nostri, con episodi che si collocano su livelli molto diffe-renti quanto a diffusione e qualità. Le prime tracce sono quelle di Antonio Canu che nel Quattrocento scrive Sa vitta et sa Morte, et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu, un poemetto ispirato alla vita dei santi martiri turritani. Nel secolo succes-sivo, Gerolamo Araolla riscrive un poema sulla stessa tematica, con una maggiore at-tenzione alla qualità della lingua. Nei secoli successivi, il genere letterario praticato dal clero sarà quello de Sas preigas, cioè il testo scritto dei sermoni recitati al popolo. Si tratta di un tesoro non ancora indagato a fondo dalla moderna ricerca scientifica. È una tipologia di prosa scritta che dura fino ai primi del Novecento. Per molti secoli l'intellettuale sardo che poteva dedicarsi agli studi era quasi sempre un religioso. An-che la rima edificante era dunque un genere molto frequentato. In ogni caso, la tradi-zione e la devozione popolare ha prodotto nei secoli una vasta raccolta di testi di ar-gomento religioso, dalle laudi o gosos che venivano dedicate ai santi, ai catechismi, alle preghiere, agli statuti di confraternite, alle traduzioni della Bibbia o del Vangelo.

L’Ottocento si apre con il soggiorno a Cagliari della corte reale di Torino, esiliata in Sardegna dall’avanzare di Napoleone verso l’Italia. Dopo la fiammata rivoluziona-ria di qualche anno prima, la situazione si era normalizzata in seguito a una feroce re-pressione.

Il XX secolo per la Sardegna è il momento di massima apertura al mondo esterno e di tumultuosa crescita economica. È il secolo dell’alfabetizzazione totale, della cul-tura diffusa, ma anche dell’emigrazione di massa e del rischio concreto di perdita del-la lingua e dell’identità. Negli anni Ottanta e Novanta cresce la consapevolezza nell’isola che la lingua sarda è una ricchezza da salvaguardare. Al di là della sensibili-tà verso il mondo tradizionale, si afferma la volontà di far entrare la lingua di conti-nuità storica dell’isola anche in ambiti più moderni e attuali.

Esistono numerosi poeti oggi in Sardegna che scrivono e pubblicano in lingua sar-da. Nel Novecento sono stati, tra gli altri, Pietro Mura, Benvenuto Lobina, Antonio Mura e Antonio Mura Ena a sollevare la poesia in sardo dal limbo del manierismo popolare in cui era confinata e ad aprirla alle correnti di rinnovamento europeo. Se-condo Nicola Tanda essi hanno «riplasmato l’immaginario sardo con una scansione lirica tutta interna». Il Novecento è un momento felice anche per il romanzo e la pro-

sa in sardo. Mancano solo la considerazione dei mass media, oggi più attenti alla pro-duzione in italiano forse perché manca la coscienza del carattere plurilingue della let-teratura sarda. 21.4. Aspetti sociolinguistici Il panorama idiomatico della Sardegna è vario, e non solo per le diverse parlate che lo caratterizzano. Multiforme è anche l’uso che si fa delle lingue, in quanto esso si diffe-renzia, come del resto avviene per qualsiasi varietà linguistica, sulla base di fattori di-versi di carattere sociale e culturale, come il sesso, l’età, il titolo di studio dei parlanti o il numero di abitanti dei paesi e delle città. Ancora, esiste una differenza tra coloro che parlano le diverse lingue locali (intendendo come tali oltre al sardo l’algherese, il gallurese, il sassarese e il tabarchino) avendone una competenza attiva, e quelli che hanno solo competenza passiva (comprendendo ma non parlando l’idioma locale). Forte permane il legame dei sardi ma è sempre l’uso dell’italiano a prevalere in ogni contesto, sopratutto in situazioni formali, dove l’uso delle parlate locali è pressoché inesistente. Volendo dare qualche cifra, secondo un sondaggio commissionato dalla Regione, su un campione di cento intervistati, il 68,4% afferma di avere competen-za attiva in una varietà locale, mentre il 29% dichiara una competenza almeno passi-va. Il restante 2,7% non comprende né parla una lingua della Sardegna.

È interessante la differenza fra uomini e donne nel parlare un dialetto sardo o altro idioma regionale. Sono in particolare le persone di sesso maschile che affermano di possedere competenza attiva dei dialetti, le donne lo fanno in percentuale minore e questo si accentua nelle giovani generazioni. Ciò non significa che le donne non siano a favore della salvaguardia dei dialetti, ma le ragioni sono più profonde e collegate sicuramente a momenti storici e sociali della vita isolana, come all’emancipazione e alla modernizzazione e al bisogno che hanno sentito le donne di staccarsi dallo stereo-tipo della donna sarda. Tutto ciò è passato attraverso la scuola e in particolare attra-verso l’apprendimento e l’uso dell’italiano. Inoltre, sono stati gli stessi genitori di quella generazione per la quale parlare il sardo era sinonimo di ignoranza, a insegnare ai propri figli l’italiano e questo fu fatto soprattutto con le figlie femmine.

Intuibile è poi il divario che, vi è fra le persone aventi un diverso titolo di studio: la differenza maggiore è tra coloro che hanno la licenza elementare, per lo più dialet-tofoni, e i laureati, che sono più di rado fra i parlanti attivi le lingue locali.

Costituiscono un altro elemento di differenza i comuni di residenza: quelli al di sotto dei 20.000 abitanti, per esempio, possiedono una percentuale relativamente alta di individui che parlano un dialetto, e questa aumenta nei comuni intorno ai 4.000 a-bitanti. I grandi centri hanno in percentuale meno individui con una competenza atti-va. Il sardo è parlato più nell’interno dell’isola che sulla costa, con percentuali parti-colarmente forti nell’area logudorese.

In generale le parlate locali hanno una discreta vitalità nel contesto familiare, par-ticolarmente fra coniugi ultrasessantacinquenni per le vecchie generazioni, mentre fra i giovani parlano sardo con i nonni (in percentuale più elevata con le nonne). Anche

tra amici è frequente l’utilizzo del sardo, ma esso appare intercalato da quello dell’italiano, che spesso è preponderante.

l’impiego delle parlate regionali decresce fortemente al di fuori di questi ambiti, benché vi sia un desiderio diffuso di incentivarle attraverso l’insegnamento nelle scuole, le rassegne culturali, un utilizzo maggiore nell’ambito istituzionale. Fino ad ora però si è fatto poco di concreto per dare un seguito a queste istanze. Fra quanti si dicono i favorevoli ad estendere la lingua sarda ad usi ufficiali e come mezzo di inse-gnamento nelle scuole, un buon 70% non la insegna affatto ai propri figli che di con-seguenza si dichiarano maggiormente legati all’italiano, loro prima lingua. Si viene così a formare un’altra condizione tipica della realtà linguistica sarda, data da coloro che hanno una competenza solo passiva del sardo o delle altre parlate. Essi hanno sempre sentito in famiglia il dialetto, imparandone i suoni e le parole come si impara con la facilità di un bambino, ma non l’hanno mai messo in pratica e al di fuori di qualche frase spezzata e qualche parola per colorire il discorso, non sono in grado di interagire in questo codice. A ciò si collegano fenomeni linguistici molto diffusi quali il code-switching, ossia il passaggio da una lingua all’altra all’interno della stessa si-tuazione comunicativa, e il code-mixing, dove il passaggio da un codice all’altro av-viene all'interno della medesima frase.

Parlando in termini più generali della situazione linguistica in Sardegna, è oppor-tuno fare riferimento alla nozione di dilalia, dove si è in presenza di un codice alto (l’italiano) e di un codice basso (le varietà sarde o alloglotte), per cui il codice alto non viene utilizzato solamente nella forma scritta e in situazioni formali (come avvie-ne nelle situazioni di diglossia), ma anche in quelle informali e nel parlato, domini che appartengono anche alla variante locale. Quindi la distinzione fra i due codici è netta, ma vi è un’alternanza dei due in quelle circostanze in cui è possibile usarli en-trambi. La tendenza è però quella di prediligere il codice alto.

Molti sardi si dichiarano sostenitori della salvaguardia del patrimonio idiomatico isolano, e di un’estensione delle parlate locali a un dominio più ampio e formale. Da ciò che emerge dalle ricerche sociolinguistiche, molti intervistati vorrebbero come va-rietà sopralocale una di quelle esistenti e non un compromesso fra esse. Tuttavia la Regione Sardegna, ha istituito, nel 2006, in maniera sperimentale, la Limba Sarda Comuna, modellata sulla base del logudorese con elementi appartenenti all'area di transazione tra logudorese e campidanese, privilegiando gli elementi comuni a tutte le parlate. Tale modello è stato perfezionato col nome di Limba Sarda Unificada: Si tratta di una norma di riferimento per l’uso scritto, che si dovrebbe utilizzare per redigere documenti ufficiali. Con Delibera di Giunta Regionale la Limba Sarda Uni-ficada è divenuta ufficiale per gli atti e i documenti emessi dalla Regione Sardegna, benché abbia valore legale solo il testo italiano.

Parte VIII - Aspetti del panorama linguistico europeo

20. LINGUE E DIALETTI 22.1. Distanziazione ed elaborazione I criteri di classificazione tipologica e genealogica delle lingue, dei quali abbiamo parlato, si riferiscono a una considerazione «neutra» degli idiomi dal punto di vista del loro prestigio e del riconoscimento del loro status: per tale motivo gli studiosi par-lano indifferentemente di lingua o di dialetto, ad esempio, senza che ciò implichi una valutazione positiva o negativa delle possibilità di un idioma di proporsi come porta-tore di una specifica cultura o di rilevanti usi sociali.

Le esigenze di definizione dello status di un idioma attengono in particolare a una valutazione standardologica, ossia alla riflessione sulle funzioni sociali della lingua e alla sua capacità di proporsi espressamente come altra rispetto alle lingue circostan-ti. A tale scopo si riconoscono due criteri principali, introdotti dal sociologo e lingui-sta tedesco Heinz Kloss: si parla di lingue

- per distanziazione, quando appaia oggettivo il grado di differenza genea-logica e tipologica rispetto agli idiomi coi quali una parlata si trovi in con-dizioni di contatto o di confronto culturale; - per elaborazione, quando un idioma, più o meno distanziato da quelli circostanti, si definisca lingua in virtù del prestigio conferitogli dall’esistenza di tradizioni culturali autonome, quali la presenza di una let-teratura, di usi formali, l’adozione da parte di uno stato in condizioni di uf-ficialità, ecc.

Nel caso del basco, ad esempio, che come si è visto è un idioma assolutamente privo di parentela genetica con altre lingue note, è evidente l’esistenza di una chiara e forte distanziazione rispetto alle lingue contermini, ossia il francese e lo spagnolo; in altri casi, il criterio di distanziazione è meno netto, ed è la presenza di tratti fonetici, mor-fologici, sintattici e lessicali particolarmente spiccati a fare la differenza tra lingua e dialetto nel caso di parlate delle quali si riconosca una discendenza genetica comune.

Ad esempio, sia il veneto che il sardo discendono dal latino e sono il frutto di una spontanea evoluzione di esso, totalmente autonoma rispetto a quella dell’italiano, ma la distanza del sardo dall’italiano si considera maggiore di quella del veneto dall’italiano per tutta una serie di motivi di ordine linguistico (ad esempio la forma-zione del plurale in -s, la forma dell’articolo, la conservazione del nessi latini BL-, CL-, FL-, GL-, PL-, ecc.): si dice quindi che il sardo è una lingua per distanziazione a se stante, mentre il veneto è un dialetto italiano.

In altri casi, solo i criteri di elaborazione consentono una distinzione netta che non risulta minimamente supportata da valutazioni di tipo strettamente linguistico: la di-stanza tra portoghese e spagnolo, ad esempio, è sicuramente minore di quella che in-tercorre in Italia tra il genovese e l’italiano: ma il portoghese ha elaborato nel tempo una autonoma tradizione letteraria, un prestigio culturale, situazioni di ufficialità e di uso formale che mancano totalmente, oggi come oggi, al genovese. 22.2. Il pregiudizio antidialettale

Da questi esempi risulta chiaramente come i criteri che attengono alla definizione di un idioma come lingua siano tuttaltro che oggettivi, e facilmente collegati a valuta-zioni del tutto estranee alle qualità intrinseche delle diverse parlate.

I termini lingua e dialetto sono fondamentalmente sinonimi per quel che riguarda l’«oggetto» che definiscono, ma implicano importanti sfumature rispetto ai ruoli e al-le attribuzioni che l’oggetto stesso di volta in volta assume. Tanto la lingua che il dia-letto sono dunque sistemi di elementi fonetici, grammaticali e lessicali articolati per la comunicazione orale e scritta: codici condivisi da collettività di persone, che attraver-so di essi riescono a definire e a comunicarsi reciprocamente una serie di concetti, concreti e astratti, corrispondente in maniera più o meno completa all’universo circo-stante. Il dialetto non è quindi, per sua natura, qualcosa di subordinato rispetto alla lingua.

Ha al contrario, almeno in partenza, identiche possibilità espressive, e condivide la capacità della lingua di arricchirsi, aggiornarsi, rinnovarsi e affinarsi per allargare il proprio ruolo nella trasmissione dei concetti e nella loro definizione: anche parole come abulia, ciclotrone o glutammato sono teoricamente trasferibili nel lessico dia-lettale, a livello di prestiti, così come sono pervenute all’italiano da altre lingue o at-traverso un processo di coniazione di neologismi.

Oltre a essere strumenti di comunicazione, lingua e dialetto soddisfano un’altra importante funzione sociale: permettono il riconoscimento tra i membri di una co-munità, i quali, attraverso l’adesione al medesimo codice comunicativo, stabiliscono un rapporto di affinità.

In questo senso, il fattore linguistico ha una funzione determinante nella definizio-ne di un gruppo. Infatti l’idioma non è soltanto un aspetto della cultura di un popolo, ma è anche il veicolo per la trasmissione di tale cultura nel suo insieme: di conse-guenza, il rispetto della diversità linguistica di una comunità (nazionale, regionale, locale, ecc.) rappresenta un elemento fondamentale della valorizzazione e del rispetto del patrimonio culturale di cui tale comunità è portatrice.

La definizione di un idioma come dialetto appare strettamente collegata all’esistenza sullo stesso territorio di un codice linguistico dominante, che si conside-ra dotato di maggior prestigio. Sintetizzando, la distinzione tra lingua e dialetto si po-ne quindi da un punto di vista quasi esclusivamente politico-sociale: mentre il dialet-to è espressione spontanea, non formalizzata, della cultura di una comunità, la lingua risponde alle esigenze di una società organizzata (e in particolare di uno stato), che al

proprio bagaglio di consuetudini giuridiche, di storia comune, di tradizioni, aggiunge il corollario di un sistema di comunicazione istituzionalizzato, fornito di una «nor-ma», accettato dai propri membri al di sopra delle (eventuali) varietà linguistiche spe-cifiche di un luogo o di un gruppo. 22.3. Il concetto di standard Fondamentalmente, quindi, ogni lingua parte dalle condizioni di dialetto, e diventa effettivamente lingua quando abbia il riconoscimento, il supporto di un potere politi-co.

Storicamente, la scelta nell’adozione, tra altri sistemi linguistici presenti sul terri-torio, di quello che è destinato a diventare la lingua «ufficiale» si appoggia, da parte delle istituzioni, sulla concomitanza di determinate situazioni: preesistente diffusione al di là di un ambito strettamente locale, presenza di un prestigio dato da una forte tradizione scritta, uso preferenziale di tale sistema da parte dell’élite che si è fatta ca-rico di organizzare le istituzioni statali.

Così, l’affermazione del dialetto di Parigi (francien) come lingua francese, a di-scapito di altre tradizioni linguistiche pur prestigiose (quale ad esempio il provenza-le), fu dovuta principalmente al fatto che tale dialetto era la «lingua del re», e di con-seguenza la lingua delle istituzioni che venivano a mano a mano estese ai territori che entrarono a fare parte, durante un processo secolare, dello stato francese. Se il fran-cien è oggi il francese per eccellenza lo si deve così al fatto che la corte risiedeva a Parigi, divenuta ben presto la capitale politica e culturale del paese e dunque in grado di esercitare un ascendente linguistico sul resto della nazione per ragioni che esulano dalle proprietà formali della parlata.

Alla stessa maniera, in Inghilterra per tutto il periodo medioinglese (1150-1500) non c’era uno standard che avesse efficacia in tutto il territorio nazionale mentre Chaucer si esprimeva nel dialetto delle East Midlands, gli altri scrittori usavano la lo-ro specifica varietà regionale. Solo a partire dalla seconda metà del Trecento il dialet-to di Londra avrebbe iniziato a prendere il sopravvento sulle altre varianti della lin-gua inglese prestandosi ad assolvere alle funzioni di lingua standard in condizioni af-fini a quelle del francese per il fatto che la città ospitava la corte, le istituzioni, era il luogo di elaborazione della cultura ed anche il maggior centro commerciale del paese: tutte condizioni favorevoli ad un indiscusso primato linguistico.

Analogamente, il dialetto castigliano diventa lingua spagnola grazie al predomi-nio politico della corona di Castiglia durante il processo di reconquista della penisola iberica effettuato dai regni cristiani: ma mentre l’aragonese e il leonese vengono di fatto assorbiti come varietà dialettali, il portoghese e il catalano sopravvivono come lingue autonome in virtù della presenza di centri di potere indipendenti e di una preci-sa volontà di affrancamento culturale, da tali centri condotta nei confronti del predo-minio castigliano.

L’affermazione del fiorentino come lingua italiana fu dovuta, come vedremo più diffusamente, a motivi diversi e concomitanti: innanzitutto il prestigio letterario che

già a partire dal sec. XIV (e dalle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio) ne fece la lingua di cultura di un territorio non ancora unificato politicamente, favorendone la progressiva adozione presso le corti e le cancellerie dei vari stati della penisola; ma anche il ruolo di «ponte» tra le parlate settentrionali e centro-meridionali rappresenta-to dal toscano, che facilitò indubbiamente il suo ruolo di strumento sopradialettale, in grado di soddisfare le esigenze di genti che non disponevano di un sistema comu-nicativo comune.

Alla luce degli esempi citati, la definizione di dialetto sembra proporsi soprattutto in negativo, come strumento di comunicazione non formalizzato, non istituzionalizza-to: essa ha dunque valore soltanto in contrapposizione al concetto di lingua. Infatti, anche la limitatezza geografica dell’area in cui un idioma è parlato, il ristretto numero dei parlanti, la stessa assenza di tradizioni letterarie non sono di per sé sufficienti a definire un idioma come dialetto.

Senza un riconoscimento istituzionale (o quanto meno, senza un’esigenza in tal senso fortemente avvertita dalla popolazione interessata), che ne consenta un largo uso pubblico, scolastico, ufficiale, una varietà dialettale potrà anche essere dotata di una propria norma, ossia di modelli standardizzati accettati dai parlanti, ma la sua posizione sarà sempre intrinsecamente debole.

In generale, si dice così che un idioma, per assumere realmente la funzione di lin-gua, debba possedere una varietà neutra, non caratterizzata né dal punto di vista area-le né da quello sociale, al quale si riserva il termine di lingua standard. Tale defini-zione è di natura extralinguistica e si riferisce al suo ruolo o funzione all’interno della comunità linguistica: si tratta cioè di una definizione sociale. Per standard intendiamo così una lingua media corrente presa a modello per la comunicazione tra tutti i parlan-ti di regioni o gruppi sociali diversi. 22.4. Lingue ufficiali

Ciò che distingue la lingua dal dialetto è quindi, fondamentalmente, un diverso ruolo sociale che la storia, le istituzioni, le necessità pratiche hanno imposto. Il ruolo del dialetto tende a limitarsi e a decrescere costantemente, e la sua debolezza è data dal minore prestigio rispetto alla lingua: fattori diversi come la scolarizzazione, la frui-zione dei mezzi di comunicazione di massa, i rapporti con il mondo della burocrazia, le migrazioni interne, le esigenze di comunicazione all’esterno di un territorio circo-scritto, spingono sempre più verso l’uso della lingua, e mettono in crisi, oppure limi-tano ulteriormente, gli ambiti d’uso del dialetto, che non risulta di fatto «concorren-ziale» rispetto alla lingua.

Come si vede, il rapporto tra lingua e dialetto non configura, almeno oggi, una si-tuazione di bilinguismo bensì di diglossia, ossia di uso alternativo, a seconda delle circostanze e degli ambienti, di strumenti di comunicazione che hanno diverso presti-gio e diverso ruolo sociale: si parla esclusivamente dialetto in alcune situazioni, si usa esclusivamente la lingua in altre circostanze, si alternano i due codici a seconda degli interlocutori.

Situazioni di bilinguismo, in Italia, si hanno soltanto dove una lingua minoritaria sia stata parificata, negli usi pubblici e istituzionali, alla lingua ufficiale: ossia, come vedremo più in dettaglio, in Alto Adige (dove il tedesco è lingua co-ufficiale accanto all’italiano), in Valle d'Aosta e nelle province di Gorizia e Trieste. 22.5. Il plurilinguismo nell’Unione Europea Tutte le differenziazioni e le categorizzazioni fin qui sviluppate ci riconducono al te-ma del plurilinguismo quale condizione tipica e generale delle comunità linguistiche. Se ci riferiamo a un contesto più ampio e generale, il plurilinguismo è di fatto, e si avvia a diventare sempre di più, la condizione comune ai cittadini dell’Unione Euro-pea: in questo contesto, non solo si configurano un po’ ovunque situazioni di plurilin-guismo con diglossia, date dal permanere di realtà dialettali e minoritarie, ma anche situazioni di plurilinguismo relative all’utilizzo di più lingue ufficiali in seno agli or-ganismi stessi dell’Unione e alle relazioni tra i paesi membri.

Quando nacque nel 1957, col nome di Mercato Comune Europeo, l’Unione era foirmata da sei soli stati, Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussembur-go, e disponeva di quattro lingue ufficiali, ossia italiano, francese, tedesco e neerlan-dese.

Via via che la comunità si estendeva a nuovi paesi, anche il numero delle lingue ufficiali cresceva (si aggiungevano l’inglese e il danese dal 1972 e nel 1986 il greco, lo spagnolo e il portoghese); il processo di costruzione dell’unità europea ha cono-sciuto con l’inizio del 1995 un ulteriore ampliamento, con l’adesione di tre nuovi stati (Austria, Finlandia e Svezia) e l’incremento a undici lingue ufficiali (alle nove prece-denti si sono aggiunti il finlandese e lo svedese), creando già allora le premesse di ben 110 combinazioni interlinguistiche nel caso di scambi a livello ufficiali tra le delega-zioni dei paesi membri.

Dal 2004 le lingue ufficiali dell’Unione Europea sono italiano, francese, tedesco, neerlandese, danese, inglese, greco, spagnolo, portoghese, finnico, svedese, estone, lettone, lituano, maltese, polacco, ceco, slovacco, sloveno e ungherese, alle quali si sono aggiunte nel 2007 il romeno e il bulgaro. In realtà le istituzioni europee funzio-nano con un numero ben più ridotto di idiomi: nel 1995 il Parlamento di Strasburgo ha introdotto infatti la distinzione tra le lingue ufficiali e le lingue di lavoro, ridotte a cinque (inglese, tedesco, francese, spagnolo, italiano), col prevalere dell’inglese.

Ciò non significa che l’inglese sia destinato ad affermarsi come lingua comune eu-ropea: per quanto molto diffuso all’estero, l’inglese è la lingua materna di una per-centuale non maggioritaria della popolazione europea (gli abitanti di Gran Bretagna e Irlanda), e il peso economico di alcuni stati continentali (soprattutto Germania e Francia) sembra bilanciare finora il prestigio culturale e intercontinentale dell’inglese. Accanto ai tre idiomi principali, si impone inoltre lo spagnolo (altra lingua di grande diffusione mondiale), e anche il polacco, in rappresentanza della componente slava, vede accrescere il proprio prestigio dopo i recenti allargamenti verso est.

23. PROFILI LINGUISTICI

23.1. Lo spagnolo Lo spagnolo, chiamato anche castigliano (secondo la denominazione storica che fa riferimento all’area d’origine) è la lingua neolatina più diffusa al mondo e uno dei grandi idiomi internazionali di comunicazione e cultura, parlato come lingua materna e ufficiale da centinaia di milioni di persone in tutta l’America Latina (a esclusione di Brasile, Guyana e Suriname), diffuso ampiamente negli Stati Uniti e in diversi paesi africani (Marocco, Guinea Equatoriale, Sahara Occidentale) ed asiatici (Filippine). In una forma arcaica è parlato inoltre nelle comunità degli Ebrei sefarditi.

Idioma materno per il 72,8% della popolazione, è la lingua ufficiale dello stato spagnolo in base all’articolo 3 della costituzione (1978), secondo il quale «tutti gli Spagnoli hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di utilizzarlo». Lo stesso articolo prevede inoltre la coufficialità per alcune altre lingue parlate in Spagna in relazione agli statuti d’autonomia delle regioni in cui esse sono praticate: quest’ultimo provve-dimento trova la sua logica spiegazione nelle vicende storiche recenti di un paese u-scito solo nel 1975 dal limbo di una dittatura che fu particolarmente oppressiva pro-prio nei confronti delle minoranze linguistiche.

In Spagna del resto, le forze centrifughe e gli autonomismi costituiscono da sem-pre una tradizione storica, politica e culturale legata all’antica divisione nei vari regni e al processo di Reconquista culminato nel 1492, durante il quale i sovrani di Casti-glia e di Aragona dovettero mostrarsi rispettosi delle istituzioni feudali, comunali e regionali (Fueros) per ottenere consensi e appoggi nella lotta contro i Mori. Anche durante la fase imperiale (XVI-XVII sec.) un certo rispetto delle autonomie favorì il permanere dei particolarismi regionali, mentre il mito della Hispanidad andava af-fermandosi all’esterno, in Europa come oltreoceano.

L’assolutismo borbonico prima (XVIII sec.) e poi i governi liberali o conservatori affermatisi nel corso dell’Ottocento dopo la resistenza alle truppe napoleoniche, ten-tarono invano di frenare le spinte regionaliste e autonomiste. La repubblica del 1931 avviò forme concrete di decentramento quale risposta alle tendenze ormai francamen-te separatiste dei Baschi, dei Catalani e in misura minore dei Galeghi, riconoscendo la realtà della pluralità linguistica e culturale del paese. Il franchismo però soffocò nel sangue questi esperimenti. Dopo la morte del dittatore Franco il problema delle mi-noranze linguistiche venne affrontato fin dal 1978 con un programma di energiche riforme costituzionali e amministrative.

Le altre lingue parlate in Spagna sono il galego, il basco e il catalano. La Galizia è una regione occidentale della Spagna, a nord del Portogallo, caratte-

rizzata da una scarsa densità di popolazione e dall’assenza di grandi centri urbani. La lingua galega è di fatto una varietà nell’ambito della superiore unità linguistica gale-go-portoghese, che si spiega con il processo storico della Reconquista: a mano a ma-

no che avanzavano verso sud, i principi cristiani imponevano la loro lingua alle popo-lazioni incontrate, secondo un processo analogo a quello verificatosi durante l’espansione della Castiglia.

Le Province Basche e la Navarra costituiscono la parte spagnola di quella che, insieme ad alcune zone francesi viene definita Euskadi («Patria Basca») nell’idioma tradizionalmente parlato dai suoi abitanti. L’enigma rappresentato dal basco sta nella sua assoluta diversità da ogni altra lingua parlata nel mondo: per i suoi caratteri e le sue peculiarità sintattiche e lessicali, l’euskara è paragonabile soltanto (da un punto di vista strutturale e tipologico, non genetico) ad alcuni dialetti caucasici e a qualche i-dioma amerindioOggi il basco è parlato in Spagna da circa 600000 persone accanto allo spagnolo, col quale vive in regime di coufficialità.

L’area linguistica catalana comprende, oltre alla città di Alghero in Sardegna al Rossiglione in Francia e al principato indipendente di Andorra nei Pirenei (ove il catalano è l’unica lingua ufficiale) tre territori dello stato spagnolo: la Generalitat di Catalogna con capitale Barcellona, la Comunità Valenciana con capitale Valencia, e le isole Baleari, con capitale Palma de Mallorca. La forza del catalano, parlato oggi da circa 8.000.000 di persone, risiede nel suo prestigio di lingua letteraria con antiche e solide tradizioni e nella pervicace resistenza dei Catalani all’assimilazione linguisti-ca e culturale messa in atto dai passati governi spagnoli. Oggi soprattutto la peculiari-tà catalana è non solo tutelata, ma dotata di mezzi e strumenti che le garantiscono una vivacità inusuale nel contesto delle comunità minoritarie europee.

23.2. Il francese In base alla costituzione vigente, il francese è l’unica lingua ufficiale della Repubbli-ca. Lingua neolatina basata sulle antiche parlate dell’Île-de-France, fissata nella sua forma moderna a partire dal XVII secolo, il francese è diffuso a livello ufficiale anche in una parte del Belgio e della Svizzera, in Lussemburgo, in Valle d’Aosta come lin-gua amministrativa accanto all’italiano e in una serie di paesi extraeuropei che hanno avuto (Algeria, Marocco, Tunisia, Madagascar, paesi dell’Africa Equatoriale, Québec ecc.) o tuttora hanno (i Dipartimenti e Territori d’Oltremare) rapporti di dipendenza dalla Francia.

La tradizione di accentramento amministrativo che caratterizza le vicende stori-che dello stato francese è andata di pari passo con il soffocamento più o meno delibe-rato delle identità regionali: la lotta contro le autonomie locali e contro gli idiomi e le culture minoritarie ha quindi tradizioni antiche in un paese nel quale la «lingua del re» fu ritenuta, fin dal Rinascimento, uno degli elementi di coesione e di unità dello stato.

Tra l’editto di Villiers-Cotterêts (1539) che estendeva l’uso obbligatorio del fran-cese a tutti gli atti pubblici e il progetto di anéantir les patois («distruggere i dialetti») in nome della lotta all’ignoranza e alla superstizione caldeggiato dal rivoluzionario Henri Grégoire (1750-1831), vi è quindi una continuità storica che ha costituito, fino a tempi recentissimi, il presupposto ideologico degli atteggiamenti talvolta scoperta-

mente vessatori adottati nei confronti delle minoranze linguistiche dai governi france-si tra Otto e Novecento.

Tra le lingue minoritarie parlate in Francia vi è il brettone, varietà celtica che non discende dall’idioma degli antichi Galli, ma che fu importato in Bretagna (la penisola nord-occidentale della Francia) a partire dalla metà del V secolo da gruppi provenien-ti dalla Gran Bretagna invasa dagli Angli e dai Sassoni.

La regione di lingua fiamminga in territorio francese è ormai ridotta alla zona di di Dunkerque nel dipartimento del Nord lungo il confine col Belgio, dove tale idioma è ancora parlato da circa 20.000 persone. In parte della Lorena e soprattutto nell’Alsazia, regioni collocate al confine tra la Francia e la Germania circa un milione di persone parla invece dialetti tedeschi di tipo alamannico. Questi territori a lungo contesi tra la Francia e la Germania hanno sempre avuto come lingua ufficiale quella dello stato che riusciva a impadronirsi del territorio nel corso del secolare confronto franco-tedesco: occupata per la prima volta dalla Francia dopo il Trattato di Westfalia del 1648, l’Alsazia tornò alla Germania nel 1871, poi di nuovo alla Francia nel 1918, per essere occupata dai nazisti nel 1940 e restituita definitivamente alla Francia nel 1945.

Il territorio basco sotto sovranità francese è esteso sulle antiche province della Soule, della Bassa Navarra e del Labourd, oggi comprese nel dipartimento delle Pyrenées-Atlantiques, con centri principali in Biarritz lungo la costa e Bayonne nell’immediato retroterra. Nelle regioni storiche del Rossiglione e della Cerdanya, corrispondenti all’attuale dipartimento dei Pirenei Orientali circa 120.000 persone parlano invece un dialetto catalano.

I dialetti di tipo occitano sono parlati nelle attuali regioni amministrative del Limousin, dell’Alvernia, dell’Aquitania, della Linguadoca, della Provenza-Alpi-Costa Azzurra e del Midi-Pyrénées, corrispondenti alla porzione meridionale del pae-se: questi dialetti nel loro insieme costituiscono, nel contesto delle lingue neolatine, un gruppo a sé stante differenziato rispetto al francese. Se durante il medioevo si co-stituì una varietà letteraria nella quale si espresse il movimento poetico dei trovatori, alla fine del XIII sec. questa unità, patrimonio di una minoranza colta, entrò in grave crisi. Solo nel XIX sec., nel quadro del Romanticismo, si verificò una «rinascita» di una delle varietà occitane, il provenzale, grazie soprattutto all’attività della scuola del Felibrige e del poeta Frédéric Mistral, premio Nobel per la letteratura nel 1904.

Lungo il confine con l’Italia, a Mentone e Roccabruna e nella valle del Roia si parlano tradizionalmente dialetti di netta impronta ligure; un dialetto ligure arcaico si parla anche all’estremità meridionale della Corsica, a Bonifacio, in seguito alla colo-nizzazione genovese della località avvenuta nel XII sec.

Nel resto della Corsica, ceduta da Genova alla Francia nel 1768, si parlano dia-letti affini al toscano, che fu la tradizionale lingua di cultura dell’isola almeno fino a metà Ottocento, quando venne progressivamente soppiantato dal francese. Proprio in seguito all’abbandono del toscano cominciò a prendere vigore il movimento culturale favorevole alla valorizzazione dei dialetti corsi: con la sempre più forte pressione del francese, infatti, la rivendicazione della dignità di una «lingua corsa» divenne il modo per affermare una coscienza nazionale isolana.

23.3. L’inglese

L’inglese è una lingua di ceppo germanico occidentale. Essa fu fortemente influenza-ta al momento del suo insediamento in Gran Bretagna (in seguito all’invasione degli Angli e dei Sassoni) dal latino e in minore misura dai dialetti celtici, parlati in prece-denza, e successivamente arricchita da un importante apporto lessicale francese risa-lente in particolare all’epoca normanna. L’espansione della potenza britannica ne ha fatto a partire dal XVII sec. una lingua di grande circolazione, e soprattutto dal XIX uno dei principali strumenti di comunicazione internazionale in campo commercia-le, diplomatico e scientifico.

A sua volta il prestigio legato alla potenza americana ha contribuito nel XX sec. a consolidarne il ruolo di idioma universalmente noto e praticato. L’inglese è lingua uf-ficiale in Irlanda, negli Stati Uniti, in Canada, Australia, Sudafrica e in gran parte de-gli stati che furono in passato dipendenze della corona britannica (membri oggi del Commonwealth), o che furono politicamente collegati agli Stati Uniti.

Formalmente l’inglese, che è considerato lingua materna dal 94% dei sudditi bri-tannici, non dispone nel Regno Unito di uno statuto preciso, anche perché il paese non è dotato storicamente di norme costituzionali. Il carattere di lingua ufficiale dell’inglese si desume dalla consuetudine e dalle disposizioni che lo rendono implici-to, come il recente British National Act (1981), in base al quale per accedere alla cit-tadinanza britannica è necessario dimostrare una conoscenza sufficiente di una delle lingue parlate nel Regno Unito, ossia appunto l’inglese, ma teoricamente anche il gal-lese o il gaelico scozzese.

Se nei secoli scorsi il mantenimento di consuetudini anche giuridiche diverse ave-va consentito la conservazione delle singole identità regionali, il precoce affermarsi della rivoluzione industriale, con le sue esigenze di immigrazione, scolarizzazione e omologazione, colloca tra Otto e Novecento il periodo di maggiore pressione sulle comunità linguistiche minoritarie.

La lotta per il riconoscimento della specificità culturale dei paesi celtici della Gran Bretagna è cresciuta così in rapporto a quella per la conquista di forme significative di autonomia, che sono state parzialmente concesse, dopo un lungo dibattito istituzio-nale, a Scozia, Galles e Irlanda del Nord nel quadro di un programma di ridistribuzio-ne (Devolution) delle prerogative istituzionali tra governo centrale e amministrazioni regionali.

Il gaelico (gàidhlig), dopo essere stato lingua ufficiale degli antichi regni scoz-zesi e avere espresso una significativa letteratura, è da tempo in profonda crisi, e limi-tato ormai ad alcune zone delle Highlands settentrionali e delle isole Ebridi. Combat-tuto fin dal XVII secolo dalla riforma protestante, fu ulteriormente indebolito nel Set-tecento in seguito a vere e proprie campagne di conversione religiosa della popola-zione gaelica, rimasta cattolica dopo la riforma anglicana, che ne favorirono di fatto anche l’assimilazione linguistica. Il decremento numerico dei locutori continua, e se

all’inizio del XX secolo le persone di lingua gaelica erano ancora 230.000, attualmen-te sono ridotte a circa 70.000 individui.

Quella del gallese è a sua volta la storia di una continua resistenza ai tentativi di assimilazione, iniziati già alla fine del XIII sec. e culminati con l’Atto di Unione (XVI sec.), nel quale si dichiarava esplicitamente la volontà di estirpare la pratica del-la lingua locale del Galles in quanto elemento di differenziazione nazionale. Una vera e propria rinascita del movimento nazionalista si ebbe nel XIX sec. al tempo della ri-voluzione industriale. Tuttavia l’uso vivo del gallese continua a essere in regresso, secondo un processo avviatosi in particolare a partire dai primi del Novecento, ed è limitato a poco più di 500.000 persone in maggioranza bilingui.

Un’altra lingua celtica, estintasi all’inizio dell’Ottocento, si parlava nella contea inglese della Cornovaglia, ove viene mantenuta nell’uso da gruppi di appassionati e di seguaci del movimento regionalista. Uguialmente estinto è ormai il manx, un dia-letto celtico parlato sull’Isola di Man.

Quanto all’Irlanda del Nord, i complessi problemi di questa regione non sono legati alla presenza di rivendicazioni linguistiche, ma di carattere religioso (per il con-flitto tra cattolici e protestanti), e nazionalistico, per l’aspirazione della minoranza cattolica di riunirsi alla Repubblica d’Irlanda dove la loro confessione è maggiorita-ria. Nell’Irlanda del Nord si è ormai consolidato da secoli l’uso dell’inglese, che ha ormai emarginato anche nella Repubblica indipendente d’Irlanda l’uso dell’antica lingua celtica irlandese, oggi relegata a pochi distretti rurali anche se considerata, per motivi di carattere politico, la prima lingua ufficiale del paese, come tale utilizzata in tutti i contesti pubblici accanto all’inglese che è di fatto, però, l’idioma parlato dalla stragrande maggioranza della popolazione.

23.4. Il tedesco Il 91,1% della popolazione della Repubblica Federale di Germania ha come idioma materno il tedesco, che nella sua varietà letteraria (Hochsprache) elaborata ai tempi della Riforma protestante, ha funzioni di lingua ufficiale. Va sottolineato inoltre che il restante 9% della popolazione tedesca è costituito da immigrati recenti.

Il tedesco è lingua ufficiale anche in Austria, e minoranze di lingua tedesca, va-riamente tutelate, sono presenti in seno all’Unione Europea in Italia (Alto Adige), Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, mentre gruppi di dialetto germanico vedono variamente riconosciuta la propria speci-ficità in Francia (Alsazia e Lorena) e ancora in Italia (gruppi walser, «Cimbri» ecc.); in Svizzera il tedesco è la principale delle quattro lingue ufficiali; altre minoranze te-desche sono presenti in diversi paesi dell’Europa orientale, particolarmente in Roma-nia, Ucraina e Russia.

Una caratteristica del panorama linguistico tedesco è data dalla notevole vitalità dei dialetti (peraltro poco differenziati tra loro): sia di quelli più strettamente impa-rentati alla lingua letteraria, di cui costituiscono la base (francico, bavarese, alaman-nico), sia di quelli appartenenti al gruppo basso-tedesco o settentrionale (sassone,

brandeburghese, mecleburghese), che se ne distanziano maggiormente e che digrada-no nelle varietà neerlandesi dei Paesi Bassi e delle Fiandre.

Tutto considerato comunque, la Germania è un paese insolitamente omogeneo dal punto di vista linguistico e culturale. Il processo di unificazione nazionale avviatosi nel corso dell’Ottocento sotto l’egemonia prussiana avvenne del resto in un clima di acceso nazionalismo e ciò spiega come, fin da quell’epoca, il problema delle mino-ranze venisse affrontato con un atteggiamento negativo, soprattutto durante il cancel-lierato di Bismarck, quando la repressione culturale nei confronti dei principali gruppi linguistici minoritari si appoggiò anche all’astio nei confronti della religione cattolica, da questi gruppi professata. Dopo la prima guerra mondiale, la Germania si trovò co-stretta a riconoscere, in base agli accordi internazionali, i diritti delle minoranze lin-guistiche interne; col nazismo, l’atteggiamento nei loro confronti fu al contrario parti-colarmente vessatorio, e mentre Hitler metteva in atto il suo atroce piano di sterminio della più consistente minoranza religiosa, quella ebraica, si verificarono anche perse-cuzioni nei confronti delle minoranze linguistiche.

Nella Germania del secondo dopoguerra, divisa tra due stati appartenenti a blocchi politico-militari contrapposti, l’atteggiamento nei confronti degli altri gruppi minori-tari migliorò notevolmente.

I dialetti frisoni attualmente parlati in Germania si suddividono in due gruppi ben differenziati anche dal punto di vista geografico. Circa 10.000 persone parlano dialetti frisoni settentrionali lungo le coste dello Schleswig-Holstein e sulle isole adiacenti; nella Bassa Sassonia, intorno a Oldenburg si parlano invece i dialetti frisoni orientali, praticati ormai da pochissime persone (circa 2.000).

La frontiera tra la Germania e la Danimarca fu sempre oggetto di controversie e tensioni, culminate verso la metà dell’Ottocento nelle cosiddette guerre dello Schle-swig-Holstein. Al termine della Prima guerra mondiale, la parte dello Schleswig in cui la popolazione era mista, fu interessata (1920) a un referendum che portò alla scissione dell’antico ducato in due territori: la parte settentrionale, a maggioranza da-nese, chiese e ottenne di tornare sotto l’amministrazione di Copenaghen, mentre la parte meridionale, a maggioranza tedesca, rimase compresa nella nuova Germania. In territorio tedesco, rimasero tuttavia nuclei consistenti di popolazione di lingua dane-se, che ammontano attualmente a circa 30-40.000 unità.

Un’altra minoranza linguistica presente in Germania è costituita dai Sorabi, un gruppo di lingua slava e di religione cattolica stanziato nella regione della Lusazia tra il nord-est della Sassonia e il Brandeburgo sud-orientale. I dialetti sorabi costitui-scono nel loro insieme una lingua ben differenziata nell’ambito degli idiomi di ceppo slavo, caratterizzata da tratti fonetici e morfologici arcaici rispetto al polacco e al ce-co, le lingue geograficamente e culturalmente più vicine.

Parte X – Il panorama linguistico storico italiano

24. IL PANORAMA GEOLINGUISTICO ITALIANO 24.1. Il repertorio linguistico italiano: considerazioni generali Gli studiosi definiscono Romània il complesso del mondo neolatino, ossia i territori nei quali si parlano o si parlavano idiomi che rappresentano evoluzioni della lingua latina. Fanno parte di essa, quindi, anche la Romània perduta, ossia l’insieme delle aree, come ad esempio il nord Africa, in cui il latino fu completamente soppiantato dalle lingue di popoli sopravvenuti successivamente, e la Romània nuova, cioè l’insieme delle aree esterne colonizzate da popoli di lingua neolatina che vi hanno in-trodotto i loro idiomi, come in pratica tutta l’America Meridionale di lingua spagnola o portoghese.

Una classificazione basata su criteri puramente linguistici permette di distinguere, in base alle affinità riscontrabili tra i vari gruppi dialettali, un’area iberoromanza (al-la quale appartengono il portoghese col galego e il castigliano con i dialetti collegati, quali l’asturiano e l’aragonese), galloromanza (catalano, dialetti occitanici, dialetti franco-provenzali, francese e dialetti collegati), balcanoromanza (romeno con il moldavo e dialetti aromuni, e il dalmatico, idioma oggi estinto parlato un tempo lun-go la costa orientale dell'Adriatico), e infine un’area italoromanza, comprendente le parlate di tipo toscano, i dialetti italiani centrali e meridionali, i dialetti settentrionali e alcuni idiomi coordinati, quali il sardo e i dialetti ladini.

Nella realtà, nessuna distinzione di carattere linguistico è mai netta e assoluta: il passaggio da un sistema dialettale a un altro avviene in maniera progressiva, e vi sono parlate per le quali l’attribuzione a un sistema piuttosto che a un altro diventa assai difficile. Ad esempio l’appartenenza del sardo e delle parlate ladine al gruppo italo-romanzo è legata più alla scelta dell’italiano letterario come lingua di riferimento cul-turale che non alla sostanza dell’effettiva parentela con gli altri sistemi del gruppo. 24.2. Le aree dialettali Se individuare gli elementi di una superiore unità italoromanza non è agevole, relati-vamente più facile è arrivare a una classificazione soddisfacente, che raggruppi le parlate italiane in base alle specificità fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali.

Anche in questo caso, per quanto non esistano ad esempio un solo dialetto emilia-no, abruzzese o sardo, è possibile individuare, in alcune parlate, una serie di elementi comuni che consentono il loro raggruppamento in un sistema di dialetti definibili co-me emiliani, abruzzesi o sardi: questi sistemi regionali possono a loro volta condivi-

dere con altri, nel loro insieme, una serie di caratteristiche che consentono di ricono-scere parentele soprarregionali più o meno strette.

E’ possibile insomma definire un gruppo dialettale quando, al di là degli elementi specifici di ciascuna parlata, nelle varietà linguistiche di un’area determinata si ri-scontra una serie di fenomeni comuni; ma è anche possibile che una parlata locale partecipi per certi fenomeni ad un gruppo dialettale, e per altri si avvicini a un’area differente. Quando non sembrano prevalere gli elementi comuni a un’area piuttosto che a un’altra si hanno vere e proprie parlate di transizione, la cui attribuzione a un sistema può diventare problematica.

La visualizzazione sulle carte geografiche delle tipologie linguistiche avviene me-diante la fissazione di isoglosse, linee che toccano i punti estremi all’interno dei quali si verifica un determinato fenomeno: anche se assai difficilmente più isoglosse diver-se coincideranno perfettamente, la delimitazione più o meno esatta di un’area dialet-tale diventa possibile quando una serie di tali linee contribuisca a delimitare in manie-ra significativa un territorio. All’interno dei gruppi maggiori, le varietà dialettali pre-sentano una serie di esiti e di fenomeni di natura sintattica, morfologica, fonetica e lessicale, che li accomunano al di là delle divergenze esistenti per altri aspetti.

24.3. Le lingue minoritarie In Italia, oltre ai dialetti tradizionalmente considerati come tali in rapporto all’italiano, si parlano diverse varietà alloglotte, ossia prive di un collegamento im-mediato delle loro strutture fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali con la lin-gua ufficiale. In alcuni casi la distanza interlinguistica è un fatto oggettivo e ricono-scibile, come nel caso di varietà di tipo germanico, slavo, albanese ecc. parlate in di-verse aree del paese; in altri, si constata una maggiore affinità di alcune parlate con lingue neolatine diverse dall’italiano, come nel caso del provenzale o del francopro-venzale parlati in Piemonte e Valle d’Aosta; in altri casi ancora, come per il sardo, il friulano e il ladino, a un sistema di dialetti si riconosce autonomia di lingua rispetto all’italiano in base alla specificità dei suoi tratti costitutivi.

25. ASPETTI DELLA STORIA E DELLA REALTÀ LINGUISTICA ITALIANA 25.1. L’affermazione della lingua comune Il processo che porterà all’affermazione del toscano come lingua nazionale inizia già nel XIV sec., quando le opere di grandi autori come Dante, Petrarca e Boccaccio as-sicurano a tale idioma un prestigio letterario che nessun altro volgare italiano, pur do-tato di consistenti tradizioni letterarie, era stato in grado di raggiungere. Col De vul-gari eloquentia (1303), Dante si dimostra in realtà preoccupato di individuare un lin-guaggio «illustre» comune, che vada al di là delle esigenze municipali: per Dante, il «volgare illustre» italiano è da individuare nell’uso di quei poeti «eccellenti» che in ogni regione, nello sforzo di allontanarsi dalla parlata locale, tendono idealmente a un modello comune.

Tuttavia, proprio la diffusione della Commedia e delle altre opere di Dante avrà una funzione determinante nell’espansione di un tipo linguistico municipale, il fioren-tino. La preminenza del latino, con i suoi valori spirituali di lingua universale, non verrà comunque messa in discussione, e conoscerà anzi, con l’Umanesimo, un signi-ficativo rilancio, anche se il prestigio del toscano andava diffondendosi anche fuori dalla regione d’origine: è nel Quattrocento che si pongono le premesse per un supe-ramento della condizione di subordine del volgare rispetto al latino, e per volgare si intende ormai, essenzialmente, il tipo toscano.

Da allora il dibattito verterà, soprattutto a partire dal Cinquecento, sulla creazione di una norma, ossia su quale tipo di lingua toscana adottare: il modello dei grandi scrittori del Trecento (dotato di notevole prestigio ma inevitabilmente sentito come arcaico), oppure l’uso vivo del fiorentino cinquecentesco (come veniva propugnato ad esempio dal Machiavelli o da Benedetto Varchi), o ancora una lingua a base toscana ma aperta al concorso di tutti i volgari italiani, come propugnavano Gian Giorgio Trissino e Baldassar Castiglione. La prima soluzione era quella più seguita dagli scrittori di diverse regioni, maggiormente desiderosi di liberarsi dal retaggio delle tradizioni linguistiche locali. Non è un caso che il più deciso sostenitore della lingua trecentesca, Pietro Bembo, autore di quelle Prose della volgar lingua (1525) che rap-presentano il vero e proprio manifesto della nuova letteratura, sia veneto e non tosca-no. Nel 1582 nasce poi a Firenze l’Accademia della Crusca, con lo scopo precipuo di elaborare una norma linguistica comune anche attraverso un vocabolario normativo.

A partire dal Settecento la questione della lingua riprenderà vigore, in nome in-nanzitutto di una maggiore apertura alle cultura europea e con la critica alla tradizione fiorentina. Col pieno Ottocento, le nuove esigenze di una cultura nazionale in via di formazione fanno progressivamente della questione della lingua il nodo centrale di un più ampio dibattito, incentrato questa volta su temi di carattere sociale e pedagogico, e non più soltanto sulle discussioni di ambienti ristretti.

La situazione linguistica italiana al momento dell’unità (1861) era caratterizzata dall’assoluto prevalere dell’uso dei dialetti, cui faceva riscontro un tasso di analfabe-tismo del 78 %. Secondo Tullio De Mauro, l’italiano era parlato correntemente solo

dal 2,5 % della popolazione totale (600.000 persone su 25 milioni di abitanti), tra le quali vanno però annoverati i 400.000 toscani e i 70.000 romani di allora, ossia per-sone che avevano della lingua una conoscenza naturale, e la usavano in pratica come un dialetto.

Occorreva, quindi, non soltanto attuare una scelta definitiva sul tipo di italiano da divulgare tra le masse, ma anche trovare gli strumenti adatti per tale divulgazione: Alessandro Manzoni, con la redazione definitiva dei Promessi Sposi (1840) aveva contrapposto un tipo di lingua basato sull’uso vivo della borghesia fiorentina, indub-biamente più adeguato alle esigenze della realtà contemporanea. Con la sua relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), il Manzoni ebbe il merito di spostare definitivamente il dibattito dalle preoccupazioni dei letterati alla necessità civile di conseguire un modello di lingua accessibile al popolo, ma le sue proposte per la diffusione della lingua non risultarono particolarmente efficaci.

Fu la storia politica e sociale del paese a determinare l’espansione dell’italiano: nel corso del Novecento in particolare, mentre la lingua si diffondeva attraverso l’azione della scuola e dall’amministrazione, l’industrializzazione del paese provocò impo-nenti fenomeni di migrazione interna (da sud verso nord, dalla campagna alla città), imponendo l’esigenza di superare lo stadio della dialettofonia e di acquisire uno strumento comunicativo comune a membri di classi sociali diverse e a persone prove-nienti dalle più varie aree geografiche; ancora, la maggiore diffusione dell’istruzione, il servizio militare, il più frequente contatto con la burocrazia, la pubblicità, e poi soprattutto, negli ultimi decenni, la grande diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, hanno contribuito e tuttora contribuiscono in maniera decisiva all’espansione della lingua e al suo costante rinnovamento. 25.2. L’interferenza lingua-dialetto e gli italiani regionali Importa comunque ribadire l’importanza del dato dialettale nello storia linguistica ita-liana: la tenace presenza dei dialetti ha condizionato attraverso i secoli non soltanto l’espansione della lingua, ma anche lo sviluppo della tradizione letteraria comune, e la stessa storia sociale del nostro paese passa attraverso l’ineludibile e costante rela-zione di incontro e scontro fra le tradizioni linguistiche locali e la tensione a creare uno strumento di comunicazione soprarregionale, al quale si arriverà effettivamente soltanto dopo l’unificazione politica.

Consuetudini radicate, esigenze di riconoscimento collettivo a livello regionale, difficoltà di espansione di un modello comune su un territorio politicamente fraziona-to ritarderanno quindi fino alla metà dell’Ottocento e oltre la realizzazione dell’unità culturale italiana: in molte regioni il dialetto aveva pieno diritto di cittadinanza nelle sedi del potere, nell’istruzione ecclesiastica e laica, nella conversazione colta oltre che, naturalmente, negli usi scritti letterari e in qualche caso in quelli documentari. Ben lungi dall’essere considerato patrimonio esclusivo della «plebe», a livello parlato il dialetto soddisfaceva tutte le esigenze comunicative di una comunità, a qualsiasi li-vello sociale, tranne quella di favorire gli scambi (di merci o d’idee) su un orizzonte

più ampio: quando tale esigenza divenne realmente prioritaria, il cammino della lin-gua conobbe finalmente una brusca, per quanto problematica, accelerazione.

Cionondimeno la lingua era presente, nelle varie regioni, da un’epoca assai ante-riore all’unificazione politica del paese: il dualismo lingua-dialetto è fin dal medioevo un tratto costante della storia comune, e il bilinguismo e la diglossia caratterizzano da sempre, con varie sfumature, la realtà sociale delle nostre regioni.

Una conseguenza diretta di questo fatto è l’interscambio che esiste tra lingua e dialetti ai più vari livelli fonetico, morfologico, sintattico e lessicale: come il dialetto influenza notevolmente la lingua parlata nelle varie regioni, così l’italiano è varia-mente presente nelle diverse parlate.

L’apporto dei dialetti alla lingua fu consistente fin dalle origini, ed è uno degli elementi che giustificano, in qualche modo, il fatto che il toscano sia stato sentito e accettato ad un certo punto come patrimonio linguistico comune di genti diversissime per tradizioni, cultura, condizioni economiche. Così, lo studio dei prestiti dei diversi dialetti alla lingua italiana risulta utile per capire tutta una serie di fenomeni non sol-tanto linguistici, ma anche storici e sociali: la maggiore o minore presenza di parole di una determinata regione nel lessico comune italiano, ad esempio, può significare una diversa partecipazione alla vita economica e culturale del paese, un diverso svi-luppo delle attività mercantili, industriali o burocratiche; la presenza di termini di ori-gine dialettale specifici di un certo ambito semantico, provenienti da una particolare regione, può aiutare a comprendere l’importanza di alcune attività economiche in un determinato contesto locale. Ciò aiuta a comprendere anche come alcune voci dialet-tali, più che diffondersi a livello nazionale, siano entrate nella varietà di italiano par-lata nelle singole regioni o in più regioni (geosinonimi).

Oltre che in campo lessicale, l’influsso dei dialetti sull’italiano si fa sentire anche a livello di fonetica, morfologia e sintassi: in linea di massima, anche nelle persone che fanno un uso molto corretto della lingua nazionale sono spesso riconoscibili infles-sioni dialettali che riconducono immediatamente all’origine geografica del parlante.

Al di là del sussistere dei singoli accenti regionali (alcuni dei quali molto marca-ti), e dell’aspetto lessicale, tuttavia, le varietà di italiano sono meno numerose delle varietà dialettali che ne costituiscono in certo qual modo il sostrato: si può dire infatti che nell’italiano parlato si è prodotto attraverso il tempo un certo livellamento a carat-tere soprarregionale, favorito in larga parte dal prestigio del modello linguistico dei centri maggiori: Milano al nord, Firenze e Roma al centro, Napoli al sud, non senza che in alcune regioni si notino, peraltro, tendenze particolari.

Riassumendo, il confine tra lingua e dialetto si dimostra ancora una volta ben più labile di quanto definizioni accreditate e opinioni correnti lascino spesso immaginare. Vedremo adesso come, nella storia letteraria e nei processi che segnano la progressiva affermazione del toscano come idioma comune, la vicenda linguistica del nostro pae-se si riveli estremamente ricca e complessa, proprio in ragione di questa costante in-terrelazione.

25.3. Il panorama contemporaneo

All’espansione della lingua corrisponde inevitabilmente il regresso dell’uso vivo dei dialetti, ai quali l’italiano tende sempre più a sostituirsi come strumento di comunica-zione privilegiato: con la crescente diffusione della lingua nazionale, la valutazione complessiva del dialetto diventa sempre più negativa, e alle consuetudini linguistiche tradizionali comincia ad opporsi un atteggiamento di rifiuto, che, associandosi ai vec-chi pregiudizi nei confronti del dialetto, ne favorisce la crisi e il progressivo abban-dono da parte di strati sempre più ampi di popolazione.

Infatti, a partire da un più ampio diffondersi della lingua nazionale, l’uso vivo, spontaneo del dialetto è entrato progressivamente in crisi, e nel secondo dopoguerra, in particolare col boom economico degli anni Sessanta, l’uso di parlare dialetto vie-ne associato a un’idea di arretratezza economica e sociale. E’ così che comincia a in-terrompersi la trasmissione orale del dialetto dai genitori ai figli, anche se la crisi pro-fonda della dialettofonia diventa apprezzabile soprattutto a partire dagli anni Settan-ta: se nella prima metà degli anni Cinquanta il 64 % degli italiani parlava sempre dia-letto, anche con gli sconosciuti, l’indagine Doxa del 1974 rivelò che tale percentuale era scesa al 28,9, calata fino al 13,1 % del 1989; inversamente, le persone che parlano sempre italiano, anche in famiglia, sono salite progressivamente dal 19 % dei primi anni ’50 al 41,8 % del 1989.

La fedeltà alla dialettofonia appare piuttosto legata, oggi, a fattori diversi e non sempre individuabili, come consuetudini di riconoscimento collettivo o la volontà diffusa di mantenere una specificità regionale della quale il dialetto rappresenta un e-lemento costitutivo. Vi è una crisi innegabile del dialetto, quindi, ma vi sono anche segnali di ripresa, che un po’ paradossalmente capovolgono situazioni fino a ieri con-solidate: se prima era l’espressione italiana ad essere sentita come non spontanea, le-gata a una scelta o a una necessità di apprendimento, adesso si può addirittura preferi-re l’uso del dialetto, non in nome di una sua funzionalità rispetto alle esigenze della società contemporanea (abbiamo già detto che il dialetto non è di fatto concorrenziale rispetto alla lingua), bensì per ostentarlo come simbolo di appartenenza, come alter-nativa a forme più o meno surrettizie di omologazione culturale.

Su questo sfondo si colloca anche l’uso politico che viene fatto, talvolta, della di-versità dialettale: l’equivoco di fondo, in queste tendenze, sta soprattutto nell’associare alla nostalgia per le parlate locali, in quanto simboli di coesione, pro-grammi economici che implicano un ulteriore allontanamento della società da quello che è l’unico vero terreno di coltura per l’espressione dialettale spontanea, ossia un ambiente ancorato a valori preindustriali.

25.4. Immigrazione e problemi linguistici

Accanto ai segnali di crisi e di vitalità che accompagnano il percorso storico e cultu-rale dei patrimoni linguistici tradizionali va sottolineato che il panorama linguistico italiano si sta avviando verso significative trasformazioni, date ad esempio dalla

maggiore diffusione delle lingue straniere di prestigio internazionale (a partire dall’inglese), ma anche dall’insorgere di nuove tipologie linguistiche dell’uso quoti-diano, che si affiancano alla lingua ufficiale nelle sue diverse varietà, ai dialetti italia-ni e alle varietà minoritarie di impianto storico: si tratta in particolare delle lingue degli immigrati recenti, per lo più provenienti dall’Europa Orientale, dall’Africa, dall’America Latina e da alcune parti del continente asiatico.

I temi posti da queste nuove componenti sono in gran parte diversi da quelli che riguardano il patrimonio linguistico che a vario titolo si può definire «tradizionale»: a differenza delle minoranze linguistiche storiche, ad esempio, i nuovi venuti sono per lo più dispersi sul territorio, per quanto non manchino casi di radicamento di deter-minate comunità in specifici ambiti regionali: mentre gli Albanesi, i Filippini, gli A-rabofoni, i Francofoni e gli Anglofoni di provenienza africana, ad esempio, sono pre-senti un po’ ovunque, molti Slavi tendono a radicarsi nell’area veneta, e in Liguria prevale la componente latinoamericana, con una forte provenienza dall’Ecuador.

Abbiamo dunque in certi gruppi di stranieri dotati di una discreta coesione che si rafforza anche in ragione del dato numerico, ma coloro che parlano una stessa lingua possono configurare una vera e propria «comunità» in una determinata realtà regiona-le o urbana, e trovarsi più isolati, a livello individuale o familiare, in altri contesti: può succedere dunque che in alcune città o regioni le persone di lingua spagnola ad esempio tendano a raggrupparsi e a mantenere l’uso del loro idioma, e che in altre siano portate piuttosto ad abbandonarlo per aderire in maniera esclusiva all’uso dell’italiano.

Vi sono poi realtà nelle quali l’uso dell’idioma originario è più forte per motivi di ordine religioso (l’uso dell’arabo come lingua sacra ne suppone la conoscenza da parte dei fedeli al di là della prassi comunicativa) o sociale (le comunità cinesi sono in genere molto chiuse e tendono a conservare più di altre le proprie tradizioni).

In tutti questi casi si pongono problemi differenti a seconda che si ragioni in un’ottica prevalente di integrazione o di rispetto delle diversità e delle peculiarità culturali: da un lato l’apprendimento dell’italiano è non soltanto un’esigenza comu-nicativa primaria, ma anche uno strumento che favorisce la piena condivisione dei diritti e dei doveri di cittadinanza; ma d’altro canto l’apporto culturale – e di conse-guenza linguistico – dei nuovi venuti è al tempo stesso una fonte di arricchimento per la società italiana e una componente del vissuto individuale di ciascun immigrato che merita rispetto. E’ necessario quindi tenere conto delle propensioni e delle scelte individuali e collettive, garantendo ad esempio, se ne esiste l’esigenza, il manteni-mento e la trasmissione della lingua originaria (soprattutto se svolge una funzione comunitaria), senza dimenticare tuttavia l’importanza della partecipazione dei nuovi venuti alla vita sociale e culturale del paese.

Sotto questo punto di vista sono la scuola e l’università a trovarsi in prima linea sul fronte di un equilibrato rapporto tra integrazione e rispetto, tenendo conto della complessità di situazioni che si propongono in un panorama linguistico sempre più articolato e sempre più orientato verso il plurilinguismo e la pluriglossia.

Consigli per letture e approfondimenti (non obbligatori) G. Beccaria (a cura), Dizionario di linguistica, Torino, UTET 2005 (ultima ed.) G. Berruto, Prima lezione di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza 2004 T. De Mauro, Linguistica elementare, Roma-Bari, Laterza 2003 G. Graffi, S. Scalise, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla Linguistica, Bolo-gna, Il Mulino 2002


Recommended