Gli italiani in guerra 1940-43Appunti per una ricerca
di Nicola Gallerano
Oggetto di questa mia relazione è il modo in cui la guerra venne vissuta — tra la popolazione civile — dalla gente comune, dall’italiano medio, né fascista convinto, né antifascista consapevole. È un territorio infido, per esaminare il quale ho a disposizione fonti, per la verità ricchissime, altrettanto infide: rapporti di polizia, relazioni di informatori della polizia politica, lettere passate al vaglio della censura. Non mi propongo di tracciare i lineamenti di una storia dell’opinione pubblica — categoria peraltro sfuggente e impropria — durante la guerra; ma di esaminare piuttosto alcune forme di resistenza culturale e non necessariamente o solo implicitamente politica, rilevate e attivate dall’impatto della guerra (e al tempo stesso di individuare la continuità di alcuni stereotipi costruiti e diffusi dalla propaganda fascista). Si tratta di un terreno vergine o quasi, per af
frontare il quale mi sono servito di alcuni spunti ricavati dal recente lavoro di Luisa Passerini sulla Torino operaia e da quello di Loris Rizzi sulla censura di guerra1. Da questi studi ho tratto in particolare la sottolineatura del carattere ambiguo della resistenza culturale, che è il presupposto necessario ma non sufficiente di comportamenti oppositivi (anche se, in condizioni di dittatura e di repressione accentuate dallo stato di guerra, la resistenza culturale presenta evidenti valenze politiche).
Parecchi anni fa mi era capitato di affrontare questi stessi problemi da un’angolatura diversa: a parte alcuni peccati di economicismo, sono tuttora convinto che fosse giusto prestare un’attenzione particolare a elementi e fenomeni di natura per così dire strutturale2. Qui li darò invece per scontati, salvo alcuni generici accenni: non tenterò neppure di
Nel raccogliere la documentazione che è servita per la stesura di questa relazione, sono stato aiutato dalla dottoressa Maria Galloro, che vivamente ringrazio.1 Cfr. Luisa Passerini, Torino operaia e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1984; Loris Rizzi, Lo sguardo dei potere. La censura militare in Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Rizzoli, 1984. Hanno utilizzato parte, della documentazione da me consultata, fornendone una lettura puntuale ma da un punto di vista diverso da quello adottato in queste note: Alberto Aquarone, Lo spirito pubblico in Italia alla vigilia della seconda guerra mondiale, in “Nord e Sud”, 1964, n. 49, pp. 117-125; Simona Colarizi, L ’Italia antifascista dal 1922 al 1940, Roma-Bari, Laterza, 1976; Piero Melograni, Rapporti segreti della polizia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1979. Non ho potuto utilizzare, per questo lavoro, il recente Simona Colarizi, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, Torino, Utet, 1984. Sulle forme di dissenso politico dal fascismo in ambiente popolare sono anche da vedere Gianpasquale Santomassimo, Antifascismo popolare, in “Italia contemporanea”, 1980, n. 140, pp. 39-69, che utilizza una ricca documentazione sul periodo di guerra, e Luciano Casali, E se fosse dissenso di massa? Elementi per una analisi della “conflittualità politica" durante il fascismo, in “Italia contemporanea”, 1981, n. 144, pp. 101-120.2 Nicola Gallerano, U fronte interno attraverso i rapporti delle autorità (1942-1943), in “Il movimento di liberazione in Italia”, 1972, n. 109, pp. 5-32. Cfr. pure Ap. Vv., Crisi di regime e crisi sociale, in Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1974.
“Italia contemporanea”, settembre 1985, n. 160.
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definire l’intreccio tra aspetti economici e mentalità.
Il carattere provvisorio di queste note è accentuato dalla mancata ricostruzione dei circuiti comunicativi tra l’“alto” e il “basso”, tra gli stereotipi della propaganda fascista e il conflitto o la rielaborazione che attivano presso i soggetti sociali: solo una ricostruzione attenta di questi percorsi potrebbe riscattare la documentazione qui allineata da rischi di impressionismo. Del resto, le stesse relazioni degli informatori dell’Ovra, se opportunamente interrogate e incrociate con le altre fonti disponibili, possono fornire utili risposte a problemi di questa natura, riferite come sono — in parecchi casi — ad ambienti sociali differenziati. Un parziale correttivo a queste carenze è costituito dall’orizzonte urbano — anzi, quasi esclusivamente gran- de-urbano — che ho scelto di privilegiare. Un’ultima premessa. La documentazione che ho raccolto è molto ricca e tocca un arco vastissimo di problemi. Dovendo scegliere, ho preferito concentrarmi su due soli fra questi: il problema dei bombardamenti, con il quale cerco di esemplificare quello più generale dell’impatto della guerra sulla popolazione civile; e il rapporto o, meglio, la rottura del rapporto tra Mussolini e le masse, nel quale riassumo quello più generale del distacco (nel senso che verrà definito più avanti) dal fascismo.
I bombardamenti
La novità più rilevante della seconda guerra mondiale rispetto alla prima per quanto ri
guarda la vita delle popolazioni civili è rappresentata — come è noto — dall’impiego su scala mai prima raggiunta dei bombarda- menti aerei. Sperimentati “con successo” nel corso della guerra d’Etiopia e poi in quella di Spagna, i bombardamenti, anche quando sono concepiti solo come strumento di distruzione di impianti industriali e del potenziale produttivo del nemico, coinvolgono ampiamente la popolazione civile.
In Italia, le vittime dei bombardamenti non raggiunsero certo il numero spaventoso di 6/700.000 come in Germania: sono state calcolate complessivamente in circa 64.000, un numero pressoché identico a quello del Regno Unito (60.000). La scansione nel tempo di queste perdite rivela anche il progressivo rovesciamento delle sorti della guerra: nei primi due anni, le vittime furono 40.000 (vale a dire i 2/3 del totale) nel Regno Unito contro le 4.000 in Germania; in Italia raggiunsero le 21.000 (poco meno di 1/3 del totale) all’8 settembre 1943I 3.
La percezione di questa tremenda novità della guerra moderna è immediata da parte della popolazione: già nel settembre 1939, rapporti di fiduciari fascisti raccolgono i timori diffusi circa l’impiego dell’arma aerea; tre anni dopo, non è difficile incontrare giudizi come il seguente, tratto dalla lettera di una madre al figlio soldato: “che triste guerra è questa, è solo più una distruzione di case di vecchi di bambini di tutto è solo più un macello, non una guerra, fosse fulminato il primo che ci inventò l’areoplano, sarebbe stato meglio, eppure si parla di civiltà...”4. Secondo un modulo diffuso ed elaborato specialmente tra i ceti medi, la disumanità
3 Giorgio Bonacina, Obiettivo Italia. I bombardamenti aerei delle città italiane dal 1940 al 1945, Milano, Mursia, 1970 e dello stesso, Comando bombardieri. Storia dei bombardamenti aerei nella seconda guerra mondiale, Milano, Longanesi, 1983.4 Lettera censurata proveniente da S. Giglio, torinese, 21 aprile 1943, in Archivio centrale dello Stato (ACS), Ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, 1920-1945, ctg. A5G (seconda guerra mondiale), 12 (revisione corrispondenza), b. 43, fase. Torino (d’ora in avanti, A5G, seguito dalla b. e dal fase.).
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inaudita di una guerra che coinvolge popolazioni inermi è ascritta al progresso tecnologico: un prolungamento e un allargamento di quella rottura epocale nella coscienza collettiva, individuata da Paul Fussell a partire dalla prima guerra mondiale, che definisce il paradosso della condizione moderna, e, distrutta ormai la speranza nel progresso, innesca aspettative mitiche e regressive. È anche la radice, questo atteggiamento, di fenomeni che attendono ancora di essere studiati sistematicamente: la diffusione di pratiche propiziatorie, di superstizioni, di profezie connesse all’andamento e alla fine della guerra e la stessa intensificazione del fervore religioso, che le fonti di polizia concordemente segnalano5. Su questo sfondo prendono rilievo le reazioni popolari ai bombarda- menti.
Un preludio in tono minore ma per molti versi significativo è quello che il paese visse subito dopo l’ingresso nel conflitto. Le primissime incursioni aeree inglesi e francesi del giugno 1940, poco più che dimostrative a Roma e Milano, dove vennero lanciati manifestini antifascisti, mietono le prime vittime a Genova e Torino; e provocano — informano le spie dell’Ovra — reazioni identiche tra la popolazione dei grandi centri urbani. Scene di panico, non disgiunte tuttavia dalla curiosità e dall’emozione per gli elementi di spettacolarità connessi ai bombardamenti; stupore e risentimeno per l’inefficienza della difesa contraerea; per la mancanza o l’inadeguatezza dei ricoveri; per le speculazioni connesse al fenomeno dello sfollamento. La novità può persino fornire l’occasione di spon
tanee e istintive manifestazioni di antifascismo: “approfittando della fitta notte” segnala un rapporto riferito a un quartiere romano di ceto medio, il quartiere Trieste, parecchie persone hanno “pronunciato, forse per reazione, parole oltraggiose per il Duce e il fascismo”6.
Sono reazioni che anticipano quelle dei mesi e degli anni successivi, anche se vanno inquadrate, in questa primissima fase, nell’aspettativa, come si segnala da Milano, di una risoluzione della guerra “nel breve volgere dei giorni”7. La realtà avrebbe smentito queste previsioni incaute, peraltro assecondate dalla stampa fascista. L’intensificazione dei bombardamenti, l’applicazione anche all’Italia della strategia àeWarea bombing provocheranno alcuni dei fenomeni di maggiore rilevanza sociale dell’intero periodo bellico. Lo sfollamento, che ha, tra i suoi effetti, quello di modificare sensibilmente il rapporto città/campagna8; lo sconvolgimento del sistema dei trasporti urbani ed extraurbani; l’applicazione del coprifuoco: al di là dei notevoli riflessi sul terreno economico e sociale, ne deriverà, specialmente per gli abitanti delle grandi città, una sensibile alterazione delle condizioni esistenziali, di cui l’aspetto più significativo saranno la riduzione del tempo e dello spazio, la divisione e l’isolamento del territorio, la contrazione del tempo extralavorativo9.
Gli studi di psicologia sociale che Arthur Marwick ha utilizzato per analizzare le reazioni dei cittadini britannici sottoposti ai bombardamenti hanno messo in luce comportamenti differenziati, le cui variabili sono
5 Una prima sistemazione di questo ricchissimo materiale in L. Rizzi, Lo sguardo del potere, cit.6 Relazione (d’ora in avanti R.) da Roma, 14 giugno 1940, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Divisione polizia politica, ctg. P. 11, b. 210 (d’ora in avanti P. Poi., seguito dalla ctg e dalla b.).7 Cfr. R. da Milano, 18 giugno 1940, in P. Poi., ctg. P. 11, b. 210.8 Cfr. Alessandro Portelli, Assolutamente niente. L ’esperienza degli sfollati a Terni, in L ’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di Nicola Gallerano, Milano, Angeli, 1985, pp. 135-144.9 Su questi temi ho utilizzato il testo di una trasmissione per Radiotre di Giovanni De Luna dal titolo, Quotidianità dì una guerra, I puntata, Vivere con le bombe, andata in onda nel novembre 1984.
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le caratteristiche psicologiche dei soggetti e il tempo. Tra i soggetti più facilmente impressionabili, la paura e il terrore aumentavano con il trascorrere del tempo, a dispetto della sempre maggiore efficacia delle misure di protezione. Le persone invece di carattere più estroverso mostravano, all’inizio, segni di grande esaltazione ed eccitazione, si diffondevano a descrivere le loro avventure e i modi in cui erano riusciti a sfuggire al pericolo. Con il trascorrere del tempo, a questa reazione istintiva subentrava viceversa una preoccupazione prevalente per le perdite materiali subite e il miglior uso degli strumenti burocratici in grado di assicurare il risarcimento: un segno inequivocabile della rivincita della vita sulla distruzione e sulla morte10.
Non sono disponibili, per l’Italia, studi analoghi, anche se molti indizi sembrano confermare e, come è stato scritto, “una sorta di attrazione/repulsione per la spettacolarità dell’evento”11 e la riaffermazione delle esigenze di vita e di ricostruzione attraverso la catastrofe. Ma ciò non toglie che l’evento venisse vissuto appunto come una catastrofe.
Ha osservato Paul Fussell che una delle differenze fondamentali della seconda rispetto alla prima guerra mondiale è la distanza dei combattenti dal territorio nazionale. L’uso massiccio dei bombardamenti ha tuttavia proprio l’effetto di provocare, per le popolazioni, una “paradossale vicinanza della violenza e del disastro alla sicurezza, al buon senso e all’amore”12. La violenza e l’angoscia invadono così la dimensione quotidiana e domestica avvici
nando, nei periodi di bombardamenti più intensi e continuativi, la condizione dei civili a quella dei combattenti e persino accentuando, per contrasto, l’insopportabilità della morte. Le lettere passate al vaglio della censura ce ne rendono eloquente testimonianza.
La nota dominante è il conflitto drammatico che i testimoni colgono, appunto, tra lo scorrere abitudinario della vita di tutti i giorni e la comparsa improvvisa della morte, che può trasformare, come in questa lettera da Palermo, la festa in lutto: “Molti ci hanno perduto la vita, in una casa c’era proprio una festa di nozze, là soltanto c’erano 60 persone, la sposa in vestito di nozze e velo come tutti gli altri sono morti tutti, questo è destino?”13.
Lo sgomento e il terrore che ne risultano inducono spesso a sopravvalutare l’entità dei danni e il numero delle vittime, come in questa lettera da Torino: “la città di Torino è passata attraverso un inferno di cui ogni descrizione non renderebbe che una pallida idea della realtà. Abbiamo vissuto delle notti di vero terrore ascoltando per delle interminabili ore, con gli occhi dilatati dal terrore, il boato delle bombe che innumerevoli apparecchi susseguentisi a ondate ininterrotte sganciavano su tutti i punti della città illuminati a giorno dagli incendi provocati da migliaia di spezzoni incendiari. Le vittime non si contano...”14.
Né mancano riflessi sull’immaginario onirico: “Io tutte le notti mi sogno distruzioni ed incendi, anche Enzo questa notte ha fatto un sogno simile. Si è sognato che vedeva
10 Cfr. Arthur Marwick, L ’impact de la deuxième guerre mondiale sur les Britanniques, in “Revue de la deuxième guerre mondiale”, 1973, n. 90, pp. 53-69. Dello stesso è da vedere, per una trattazione più distesa, The Home Front. The British and the Second World War, London, Thames and Hudson, 1976. A Marwick e ai suoi studi sulla guerra — cfr. in particolare War and social Change in the Twentieth Century. A comparative Study o f Britain, France, Germany, Russia and United States, London, 1974 — è largamente dedicato il recente, Valeria Camporesi, Arthur Marwick, storico del mutamento, in “Rivista di storia contemporanea”, 1984, n. 4, pp. 606-620.11 Giovanni De Luna, Quotidianità di una guerra, cit.12 Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 79-86.13 L. da Palermo, 24 ottobre 1941, in A5G, b. 38, fase. Palermo.14 L. da Torino, 23 dicembre 1942, ivi, b. 43, fase. Torino.
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giungere delle carrozze tirate da cavalli senza testa e dentro nelle carrozze delle persone mutilate, la maggioranza senza testa”15.
C’è tuttavia una differenza fondamentale tra l’esperienza di questo tipo di catastrofe e quello di origine naturale, come ad esempio i teremoti: attivati dal deliberato intervento umano, le distruzioni e i lutti provocati dai bombardamenti individuano modalità e chiamano in causa responsabilità definibili e circoscrivibili. C’è una testimonianza per molti versi straordinaria, raccolta da una spia dell’Ovra su un mezzo pubblico, che insiste su questa differenza. Chi parla è un ferroviere in pensione che porta ancora i segni di una ferita alla mano, ricordo del terremoto di Avezzano: ‘“ Rivenisse un buon terremoto; tanto quello piglia buoni e cattivi, non è come questa guerra che piglia soltanto i poveri e lascia star benone i ricchi e chi se ne frega; difatti quando c’è un allarme io che sto all’ultimo piano, non mi muovo che se mi deve toccare, mi sorprenderebbe da per tutto’. Ed alcune donne risposero: ‘Avete ragione che vale andare nel ricovero? per morire sotto le macerie?”’16.
L’accenno, consueto, alla fatalità, al destino è qui strettamente intrecciato alla deprecazione delle ingiustizie sociali connesse allo stato di guerra: uno stereotipo largamente diffuso negli ambienti popolari ma non assimilabile a una chiara presa di coscienza politica antifascista, come ha osservato Rizzi; è infatti spesso utilizzato da individui che continuano a dichiararsi fascisti17.
E tuttavia anche l’esperienza dei bombardamenti, come quella dello sfollamento, rivelano l’inefficienza, la mancata protezione, le evidenti sperequazioni sociali che le isti
tuzioni pubbliche fasciste consentono. Le testimonianze al riguardo sono innumerevoli. I ricoveri — si dice — sono largamente insufficienti (ne possono usufruire soprattutto i quartieri o le abitazioni dei ceti elevati) e pericolosi: cantine riadattate alla meglio, “trappole”; i proprietari di case non hanno eseguito i lavori necessari e sfuggono alle sanzioni previste grazie alla corruzione, ampiamente documentata e denunciata dalle stesse spie fasciste; inefficienza, corruzione e favoritismi caratterizzano ormai agli occhi di tutti le strutture militari e civili e quella grande struttura assistenziale che era diventato il Pnf.
Le deprecazioni e il malcontento generici verso le autorità civili e militari non mancano per la verità neppure negli altri paesi coinvolti nel conflitto: in Gran Bretagna, soprattutto nei primi mesi di guerra, e nella stessa Germania, dove, secondo alcuni studiosi, segnalano la bancarotta della ideologia nazista della Volksgemeinschaft e della Schicksals- gemeinschaft1*. La specificità della situazione italiana consiste però nella assoluta inadeguatezza delle attrezzature di difesa antiaerea sia da terra, sia dal cielo (in contrasto con le iperboli sulla supremazia dell’aeronautica italiana, P“arma fascista” per eccellenza) e più in generale dal fallimento, sempre più evidente quanto più ci si inoltra nella guerra, dell’apparato amministrativo preposto al “fronte interno”19. Ed è esattamente su questo terreno che matura il lento proccesso di distacco dal fascismo. Per quanto meritorio sia un recente tentativo di dare il giusto rilievo alla penetrazione presso ampie masse dell’ideologia fascista, risultano assai discutibili le conclusioni che proprio con riferimento agli anni di guerra ne vengono tratte, con la
15 L. da Milano, 2 dicembre 1942, ivi, b. 32, fase. Bolzano.16 R. da Roma, 11 febbraio 1943, in P. Pol., ctg. Q 178/71, b. 239.17 L. Rizzi, Lo sguardo del potere, cit., p. 131.18 Per la Gran Bretagna vedi A. Marwick, The Home Front, cit. e War and social Change, cit.; per la Germania, I. Kershaw, Popular Opinion and political Dissent in the Third Reich. Bavaria 1933-1943, Oxford, 1983, pp. 279 sgg.19 N. Gallerano, Il fronte interno, cit.
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negazione dell’esistenza di una crisi di legittimità del fascismo20. Se per gli anni trenta è possibile parlare di “elementi di consenso allo stato fascista” innescati dalla politica sociale e assistenziale del regime, sono proprio questi elementi a entrare in crisi negli anni di guerra, come confermano ad abundantiam le fonti da me esaminate21. Né sembra possibile negare un contenuto ideologico a questa crisi: se non si può non convenire sulla debolezza dell’antifascismo organizzato22 e la scarsa egemonia da esso esercitata sulle forme di dissenso che qui si cerca di documentare, è pur vero che esiste una diffusa consapevolezza del nesso tra la guerra e il regime che ha scelto di farla. L’impatto della guerra, in ogni caso, non dovrebbe essere valutato solo nei termini di un evento che provoca la crisi del regime dall’esterno grazie alla schiacciante superiorità degli eserciti alleati ma anche tenendo conto delle dinamiche interne che attiva. Tra queste, la nota dominante è rappresentata dalla sfiducia generalizzata nei confronti degli uomini e degli istituti del regime, anche se, nella maggior parte dei casi, essa resta contenuta nei confini dell’ingiuria e dell’invettiva piuttosto che esplicitata sul terreno dei comportamenti.
Si può dire anzi qualcosa di più. Paul Fus- sell ha colto con grande acutezza, facendolo risalire all’impatto dalla grande guerra, la creazione, nella coscienza collettiva, di un “permanente abito mentale dicotomizzan- te”23. Lo schema binario, rafforzato dal ventennio pressoché ininterrotto di guerre che separano la prima dalla seconda guerra mondiale (la guerra dei trent’anni del XX secolo, come è stata felicemente definita) e inasprito
dall’impatto sconvolgente di quest’ultima, è qualcosa di più profondo delle stesse specifiche dicotomie che attiva sul terreno sociale, politico, militare, nel senso che le sorregge ma non è a esse riducibile. E tuttavia, proprio sul terreno primario dove ha origine l’abito mentale dicotomizzante, il terreno della guerra, l’Italia costituisce una piuttosto sorprendente eccezione. La popolazione civile, infatti, non nega l’alterità, l’opposizione noi/loro, ma, in un consistente numero di casi, la trasferisce dal nemico dichiarato (gli eserciti alleati) verso altri “nemici” (i tedeschi, in primo luogo) o addirittura verso nemici interni. È questo appunto il caso dei bombardamenti, rispetto ai quali la popolazione civile rivela una straordinaria equanimità verso i responsabili per così dire meccanici delle distruzioni e dei lutti e una sempre più accentuata messa in causa dei responsabili ultimi, i tedeschi, i fascisti, Mussolini. Non mancano, certamente, nelle lettere del periodo, le accuse contro gli assassini inglesi o i gangsters americani, secondo gli stereotipi della propaganda fascista, ma sono ampiamente bilanciati, specialmente a partire dalla fine del 1941 — da quando cioè i bombardamenti si faranno più distruttivi — da reazioni di segno assai diverso, come segnalano preoccupate le spie fasciste.
Nelle lettere, accanto agli stereotipi della propaganda affiorano le critiche alle autorità italiane, come in questa proveniente dalla provincia di Foggia: “Come avrai appreso dai bollettini di guerra, anche la mia provincia è sotto i colpi dell’odiato nemico, il quale può, indisturbato, sorvolare tutte le nostre Terre e colpirle dove vuole. Giunge qui la eco
20 Pier Giorgio Zunino, L ’ideologia del fascismo. Miti credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985.21 La frase fra virgolette è di Gianpasquale Santomassimo, Classi subalterne e organizzazione de! consenso, in Guido Quazza, Enzo Collotti, Massimo Legnani, Marco Palla, Gianpasquale Santomassimo, Storiografia e fascismo, Milano, Angeli, 1985.22 Cfr. ad esempio, Giorgio Amendola, Fascismo e movimento operaio, Roma, Editori Riuniti, 1975.23 P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, cit., p. 97.
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dei fuggiaschi e degli sfollati, terrorizzati dai bombardamenti, con le tracce del dolore e dello spavento, e col grido di imprecazione contro chi, dopo aver attrezzato Foggia militarmente, ha lasciato centomila cittadini senza un rifugio, e senza che nel momento del pericolo sia stato sparato un solo colpo di cannone, o si sia elevato un solo apparecchio a loro difesa!...”24.
Dopo l’incursione aerea su Milano del 14 febbraio 1943 — una delle più disastrose — è questa la descrizione fornita da un informatore: “Il panico è, si può dire, pari al malcontento. Chi nel pomeriggio di ieri si trovava a passare per piazzale Cadorna o per il piazzale della Ferrovia di Stato e via Galileo, notava nei treni elettrici folle innumerevoli, densissime, oberate di valige, di pacchi, di coperte, con bimbi e donne in grande quantità. Per giungere ad un treno era un travaglio sovrumano, lo stesso per conquistare un posticino, aggrappati ai vagoni magari all’esterno. Calche innumerevoli, carichi sei volte superiori a quelli [di] cui sono capaci i treni, pugni, insulti, lotte, in cui prima o poi si finisce col colpire con gli insulti il Capo o il Governo che ci ha condotto a tale estremo. Pianti di neonati e pietà dopo qualche tempo di folle [sic]; ma non mancano i moltissimi mormoratori.
Ieri ad esempio, in un vagone delle Ferrovie dello Stato, un energico vecchio, dopo tanto per occupare un posto e contestazioni infinite, finì col dire: Ora gridate, come quegli imbecilli che ci hanno condotto alla rovina, Viva il Duce!
Che lo sdegno sia attivo lo ho visto anche per le vie di Milano ove le scritte di ‘morte al Duce’ talvolta compaiono restando incancellate. Così in via Borromeo, in via Morigi, ed
altrove per cui mi è occorso di passare. Si sente che questo martirio cui è soggetta la popolazione della metropoli lombarda è troppo grave per la sopportabilità sua, dopo tanti sacrifici.
Ho visto, alla stazione di Tradate, due vecchietti scesi con una valigiona che reggevano a fatica e con una coperta, e costoro, sedutisi sulla valigia nell’interno della stazione, finirono col mettersi a piangere dicendo: Eccoci a Tradate, ma ora dove andiamo, chi ci darà ricetto, che cosa mangeremo per sfamarci? E spettacoli di miseria del genere sono infiniti, tanta gente si mette in treno per allontanarsi in qualche modo. Poi si vedrà quando si sarà sopra luogo, ma, intanto, non vi è nessuno che possa offrire perché tutto saturo nelle campagne.
Ora il tutto viene fatto risalire al Capo che ci ha condotto a tale situazione. I giudizi contro i nostri nemici sono improntati ad equità, si dice: ebbene, noi abbiamo chiesto l’onore di andare a massacrarli coi tedeschi e di partecipare alle incursioni su Londra e ora ne paghiamo il fio. È giusto che ciò sia”25.
“Generalmente — scrive un altro informatore, sempre da Milano — la gente non bestemmia gli aviatori nemici, che attaccano, ma il Fascismo, che viene ritenuto l’unico responsabile di questa situazione. E la frase, che maggiormente si può udire pronunziare, da persone di ogni ceto e condizione, è la seguente: ‘Ma perché non vanno a Roma? Invece di bombardare noi, perché non buttano il loro carico sul Palazzo Venezia e sul Quirinale?’ ed altre espressioni del medesimo genere, spesso violentissime ed ingiuriose per il Capo del Governo, che i tutori dell’ordine e particolarmente i militi, ascoltano senza fiatare, forse per tema che abbiano da succedere delle esplosioni di ira collettiva”26.
24 L. da S. Menaio (Fg), 5 giugno 1943, in A5G, b. 35, f. Foggia.25 R. da Milano, 18 febbraio 1943, in P. Pol., ctg. Q 178/49, b. 238.26 R. da Milano, 3 dicembre 1943, ivi.
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L’intreccio tra il municipalismo antiromano e l’odio contro i massimi responsabili della guerra viene confermato quando, il 19 luglio del 1943, anche a Roma viene colpita e le fonti fiduciarie segnalano il “sentimento mostruoso” di soddisfazione da tutto il resto del paese. Al contrario, a Roma, dopo il bombardamento, si rilevano “imprecazioni ed insulti pronunciati ad alta voce, senza più alcun ritegno, senza timore delle eventuali conseguenze [...] diretti per la maggior parte non già contro gli anglosassoni, ma contro Mussolini e Hitler [...]; l’atmosfera psicologica sembrava pregna di elementi prerivoluzionari di carattere sovversivo”27.
Un piazzale Loreto che viene di lontano
Questa sorta di crescendo non individua — sarebbe un’interpretazione sbagliata — un processo lineare dal malcontento generico a una chiara coscienza politica antifascista, anche se episodi del genere di quelli qui illustrati si intensificano quanto più ci si avvicina al 25 luglio. Le manifestazioni di dissenso andrebbero in realtà studiate su scala locale e socialmente qualificate: l’episodio romano appena ricordato, ad esempio, si svolge nel quartiere di San Lorenzo, un quartiere popolare di radicata tradizione antifascista28. Per restare viceversa sul terreno di analisi che ho scelto di privilegiare, l’attivazione di stereotipi come quello del municipalismo antiromano è ambivalente: segnala certo la “politicizzazione” delle forme di resistenza culturale in un regime dittatoriale ma non ne riscatta la natura “semplificatoria e discriminatoria” (“l’uso indiretto del pregiudizio” di cui parla
Luisa Passerini)29. Le stesse invettive e imprecazioni contro i simboli e le persone che incarnano il potere possono svolgere una funzione consolatoria o di puro e semplice sfogo o essere comunque neutralizzate rispetto a esiti espliciti di contrapposizione, grazie al loro stesso carattere episodico. E tuttavia queste e altre manifestazioni di dissenso individuano alcuni dei percorsi attraverso i quali si mette a fuoco, nella coscienza collettiva, il nesso tra la guerra e il fascismo e si attivano forme di dissociazione dall’una e dall’altro.
Uno di questi percorsi mi pare utile seguire; ed è quello del conflitto che si accende attorno alla figura di Mussolini. È stato scritto che, soprattutto nell’imminenza della guerra, gli italiani non si sentono più fascisti ma mussoliniani; e benché un’opinione del genere mostri una dipendenza forse eccessiva dalle fonti della polizia politica, sembra difficile dubitare che nell’imminenza e poi durante la guerra si venga accentuando, nella coscienza collettiva, la dissociazione, perfino la contrapposizione, tra Mussolini e il regime preso nel suo complesso e, soprattutto, i gerarchi del fascismo, ormai indiscriminatamente accusati di ruberie, camorre, imboscamenti, e indicati come responsabili della impreparazione bellica e della mancata tutela della popolazione civile30.
Anche l’operazione di dissociare Mussolini dal regime — una tendenza che attraversa tutta la storia del fascismo, mettendo in luce i connotati arcaico-folclorici del culto del Capo, e cui lo stesso Mussolini non aveva mancato di dare un suo convinto contributo — ha ovviamente una valenza ambigua. Essa segnala la crucialità, nei regimi autoritari,
27 R. da Roma, 20 luglio 1943, ivi, ctg. 178/71, b. 239.28 Cfr. Lidia Piccioni, S. Lorenzo. Un quartiere romano durante il fascismo, Roma, 1985.29 L. Passerini, Torino operaia e fascismo, cit., pp. 242-243.30 Cfr. P. Melograni, Rapporti segreti cit. La sottolineatura della separazione se non della contrapposizione tra Mussolini e il regime e della incrinatura dello stesso mito di Mussolini è anche in L. Rizzi, Lo sguardo del potere, cit., pp. 123-129.
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del rapporto personale tra il dittatore e le masse; e al tempo stesso legittima, una volta ribadita la fiducia nel duce, Pesplicitazione del dissenso nei confronti delle istituzioni, degli uomini, delle pratiche di governo del regime. È, per così dire, l’ultima spiaggia del consenso, attraverso cui passano atteggiamenti e comportamenti in varia misura trasgressivi. E tuttavia è proprio in rapporto all’ingresso in guerra prima e nel corso della guerra poi che è possibile verificare l’incrinatura e infine la rottura del rapporto dittato- re/masse, il crollo del mito del duce. È noto — lo hanno sottolineato tutti gli studiosi che di questo problema si sono occupati, a partire da Renzo de Felice — come dopo il 1936 si assista a un declino della popolarità del dittatore. Ma si tratta di un declino che è stato misurato entro un’ottica tutta politica, vorrei dire angustamente politica, la stessa che ha consentito, per gli anni precedenti, di parlare in termini altrettanto generici e inafferrabili di consenso.
La radicalità di questa rottura può invece essere meglio apprezzata se si sceglie un altro piano di analisi, che è peraltro al centro del rapporto dittatore/masse ed è ricco di valenze simboliche. Una simile rottura ha risvolti che non è eccessivo definire drammatici per la psicologia collettiva. Abbandonare e rifiutare il duce vuol dire infatti, per la gran massa degli italiani, combattere contro una parte di sé, contro, per l’appunto, la parte “fascista” o almeno responsabile di un’accettazione passiva del fascismo. Di questa scissione, un esempio particolarmente calzante — sia
pure in chiave ironica — è contenuto nel seguente brano, tratto dal rapporto di una spia dell’ottobre 1942 e riferito a Milano: “Da tempo, alla mattina, si notano sui muri della periferia, scritte contro il duce, ecc. I fascisti avrebbero scritto sotto queste frasi, la seguente: ‘Vigliacchi, venite di giorno a scrivere, se avete il coraggio’. Di rimando la mattina dopo si sarebbe notato scritto la seguente frase: ‘Di giorno non possiamo, perché siamo fascisti!’31.
Componente essenziale, costitutiva del mussolinismo era un’immagine di potenza fisica, di giovinezza, di salute: un’immagine che lo stesso dittatore si compiaceva di ostentare e che i propagandisti del regime si applicavano a confermare con prove “scientifiche”32. Gli ammiratori del duce era a questo aspetto, non a caso, che si richiamavano quando volevano convincersi che si poteva ancora avere fiducia nell’abilità diplomatica e manovriera del dittatore o, nell’ultimissima fase del regime, che tutto non era ancora perduto. In occasione della visita a Torino del maggio 1939, un informatore, riferendo delle accoglienze della cittadinanza, parla di “sorpresa compiaciuta per la prestanza fisica, per il senso di vigoria, per il volto pieno e abbronzato ecc.”33. Ancora nel febbraio 1943, in una lettera censurata si può leggere: “il duce ha un aspetto sano e fiorente, colorito il volto, e vigoroso il corpo”34.
Attaccare viceversa il corpo del duce significava distruggere simbolicamente il potere che esso — è la parola — incarnava. A partire dal 1939 — quando si fanno preoccupanti
31 R. da Milano, 25 ottobre 1942, in P. Pol., ctg. Q 178/49, b. 238. Il fatto che con ogni probabilità l’episodio qui riferito non sia realmente accaduto (Luigi Ganapini mi ha informato che se ne trovano echi in altre città italiane) non ne diminuisce il significato: storie — o “barzellette” — del genere confermano la consapevolezza diffusa dello scarto paradossale tra apparenza e realtà (tutti sono nominalmente fascisti) ed esprimono, insieme, un’autoironica impotenza.32 Sull’utilità di scavare in questa direzione, offre notevoli spunti Domenico Starnone, La tiroide di Mussolini, in “Il Manifesto-La talpa”, 9 maggio 1985, che cita, tra gli altri, un saggio di Enrico Ferri del 1929.33 R. da Torino, 17 maggio 1939, in P. Pol., ctg. Q 92, b. 226.34 L. da Piacenza, 14 febbraio 1943, in A5G, b. 32, f. Bolzano.
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gli indizi di una guerra imminente e di un possibile intervento italiano — si assiste al diffondersi di voci insistenti sulle vere o presunte malattie di Mussolini o addirittura sulla sua morte. È un coro talmente imponente che lo stesso Mussolini aprirà il discorso del 23 settembre con una maldestra, grottesca- mente narcisistica smentita (e subito dopo le squadre fasciste entreranno in azione per punire con l’uso consueto di olio e manganello i cosiddetti “mormoratori”). Dice dunque Mussolini, che parla ai gerarchi bolognesi: “Passandovi davanti poco fa ho notato che mi avete guardato attentamente ma senza eccessiva curiosità! Voi avete visto che i miei occhi sono ancora bene aperti, che la mia salute è ottima, come del resto affermano anche gli specialisti. Se voi poteste vedermi quando cavalco per un’ora la mattina, o quando per due ore del pomeriggio giuoco al tennis, che vi assicuro che non è affatto un giuoco per signorine ma un esercizio violento che richiede sforzi muscolari notevoli — ricevereste di ciò la migliore conferma. (Voci: non c’è bisogno.) Questo vi dico perché secondo talune voci cretine, diffuse particolarmente da certa stampa gallica, due marescialli, dieci generali e non so più quanti e quali ufficiali mi avrebbero fatto oggetto dei loro spari. Ciò sarebbe confermato da un mio presunto viaggio aereo a Zurigo per consultare un certo professor Funk, mai sentito nominare.
Come notate anche la mia parola non si intoppa e quello che fino a ieri, a detta di tutti, era il timbro inimitabile della mia voce, non si è modificato. Il mio corpo è libero in ogni suo movimento”35.
Per apprezzare la smentita di Mussolini, occorre precisare che le voci più ricorrenti seguivano due versioni diverse, entrambe riferite alla sua salute fisica ed entrambe nate in occasione delle manovre militari dell’agosto 1939. La prima voce — che Mussolini volutamente ignora — parlava di una paralisi che aveva colpito il duce; e se ne trovava conferma nel fatto che, secondo le parole di un informatore, “al ricevimento delle donne albanesi [avvenuto il 26 agosto, n.d.r.] il duce portava il berretto calcato sull’orecchio sinistro per nascondere l’occhio sinistro che gli sarebbe rimasto offeso in seguito alla recente paralisi”36. L’altra, più “politica” per così dire e rimbalzata anche sulla stampa francese, parlava invece di un attentato, dal quale Mussolini sarebbe uscito ferito o addirittura morto, ad opera, a seconda delle versioni, di un tenente, del generale Baistroc- chi, del maresciallo Caviglia, o del maresciallo Badoglio (e quest’ultima era quasi una prefigurazione del 25 luglio). Non è difficile interpretare il coro di queste voci come un’evidente proiezione del desiderio di scongiurare l’ingresso in guerra dell’Italia, colpendo simbolicamente la figura del duce e la sua suprema funzione di arbitro delle deci-
35 Cito dalla copia dattiloscritta allegata alle r. dell’Ispettore generale di P.S. di Bologna, 30 settembre 1939, in P. Pol., ctg. Q 69, b. 224. Il testo del discorso, di cui circolano in Italia copie numerosissime, puntualmente segnalate e riprodotte nelle relazioni poliziesche, è difforme da quello, ripreso da “Il popolo d’Italia” , 24 settembre 1939, contenuto in B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, v. XIX, Firenze, 1959, p. 311. Tra l’altro, viene interamente omessa la parte iniziale, che è per l’appunto quella qui riportata. Numerosi sono i testi stenografati e diffusi da alcuni di coloro che li avevano ascoltati di persona, di norma gerarchi minori del fascismo, che vengono fatti circolare nel paese e utilizzati per decifrare, attraverso la parola “autentica” del duce, le intenzioni del dittatore, specie per quanto riguarda L’ingresso in guerra dell’Italia. Una diffusione che è certamente tollerata se non esplicitamente incoraggiata, per ribadire la passiva dipendenza del paese dalle decisioni del dittatore e saggiare le reazioni popolari: nel maggio del 1939 Mussolini aveva annunciato che non sarebbe più tornato sulle questioni internazionali e che sarebbe stato lo stesso popolo italiano a parlare (e in realtà fino al discorso del 23 settembre i brevi e insignificanti interventi di Mussolini ometteranno ogni riferimento alla guerra imminente). La manovra (se di questo si trattava) si rivelerà un boomerang e sancirà il fallimento della strategia mussoliniana di controllo dell’ “opinione pubblica”.36 R. da Roma, 11 settembre 1939, in P. Pol., ctg. Q67, b. 239.
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sioni al riguardo. A questa ovvia conclusione arrivava del resto un informatore da Firenze, che scriveva: “qualcuno commentando queste voci ha spiegato che il duce è morto moralmente, nel senso che non vi è più fiducia nel suo acume politico”37.
Nonostante l’olio e il manganello, le voci, i giudizi, le ingiurie contro il duce che si accumulano negli anni di guerra — quando non raggiungono il livello della contrapposizione politica esplicita — insistono fino alla fine sul terreno somatico o psichico.
Si rinnovano a più riprese le voci sulla paralisi progressiva e sugli attentati; in occasione dei suoi discorsi, i commenti, raccolti dagli informatori, si compendiano in giudizi come i seguenti: “un uomo in decadimento” (giugno 1941); “è vecchio” (febbraio 1942); “è un uomo finito” (agosto 1942).
Dopo il discorso del 2 dicembre 1942 — un discorso che aveva diffuso panico e angoscia per i suoi espliciti inviti a sfollare il più rapidamente possibile dalle città investite dai bombardamenti — le reazioni sono particolarmente numerose e varie. Un effetto di non riconoscimento, in primo luogo: “la voce udita alla radio non è quella del duce”; sensazione precisata con osservazioni per così dire tecniche: “minore tono vitale nelle espressioni fonetiche, la lunghezza inconsueta delle pause” . Alcuni ascoltatori si soffermano invece a commentare il colpo di tosse che aveva preceduto il discorso e ne deducono la malcerta salute del dittatore: alcuni confessano di aver interpretato quel segnale come il preludio all’annuncio del ritiro di Mussolini dal potere. A Milano soprattut
to, Mussolini è ormai “il 47”, il morto che parla: un epiteto poi diffusissimo, anche altrove, per il resto della guerra.
Nel giugno 1943 si registrano poi voci numerose sulla “pazzia” di Mussolini, con una coda ironica subito dopo il 25 luglio. L’uso dell’autoambulanza per l’arresto del duce a Villa Savoia viene interpretato alla lettera: il duce è impazzito e l’ambulanza è servita per ricoverarlo in clinica38.
Dal mito alla dissociazione al rifiuto all’odio e al disprezzo: è questa la parabola — per la verità non così lineare e scontata — che segnala la radicale trasformazione subita dalla figura di Mussolini. L’epilogo di piazzale Loreto è dunque ampiamente preparato negli anni di guerra: esso non va letto, tuttavia, come pura manifestazione di ferocia popolare. Ciò che collega la natura simbolica delle voci e delle ingiurie nei confronti del corpo di Mussolini alle violenze contro il suo cadavere è il comune carattere rituale, che attinge a pratiche profondamente sedimentate nella mentalità popolare e rivela il sostrato arcaico-folklorico, ancora troppo scarsamente indagato, dei comportamenti “politici” di larga parte della società italiana39.
Conclusioni
Può sembrare bizzarro o una semplice civetteria utilizzare come fonti storiche quelle che le classificazioni poliziesche definiscono “voci false e tendenziose”: ma credo sia risultato chiaro che è proprio la loro falsità a
37 R. da Firenze, 19 settembre 1939, ivi, b. 225.38 Tutte le citazioni sono tratte da relazioni di informatori dell’Ovra, in P. Pol., ctgg. Q 69 e Q 67, bb. 224 e 225.39 Scrive L. Passerini, Torino operaia e fascismo, cit., p. 273, commentando un documentario televisivo di Damiano Damiani su piazzale Loreto: “alcune donne avevano messo in mano al cadavere di Mussolini ortaggi e pane nero- (tipica inversione di posizioni: infliggere ciò che avevano dovuto subire); qualcuno aveva tentato di mettergli in bocca un topo morto (l’animale per eccellenza simbolo del ‘basso’ e segno di spregio); altri sparavano al ‘Duce’ morto. Tutti eventi comprensibili solo in un’ottica di rovesciamento anche simbolico, non semplicemente indici di una forte carica emotiva ma della sua espressione attraverso la ripresa di forme di violenza rituali” .
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essere significativa, tanto più in clima di guerra e in periodo di dittatura. Esse rivelano aspirazioni, desideri, aspettative e segnalano in modo perfino più radicale di fonti più “oggettive” processi psicologici collettivi di grande importanza che non hanno ancora sollecitato l’attenzione degli storici. Per restare sul terreno della storia delle mentalità, accanto alle voci, la documentazione disponibile conferma il progressivo isolamento dei fascisti, il forte sentimento antitedesco, il rovesciamento ironico o grottesco di figure e slogan fascisti: un riso che è sempre più espressione di resistenza culturale e sempre meno di complice ammiccamento, per riprendere le parole di Luisa Passerini40.
Ricavare conclusioni di carattere generale sulla natura della crisi che investe la società italiana nel corso della guerra o sugli esiti di questa crisi sulla scorta dei materiali qui utilizzati sarebbe ovviamente azzardato, oltre che improprio: altre fonti e un diverso punto di vista sarebbero necessari. E tuttavia un contributo indiretto può venire anche da questo tipo di documentazione, che segnala una società civile vivacissima a paragone di quelle degli altri paesi europei coinvolti nella guerra, che alla guerra reagisce in modo differenziato: emergono egoismi e grandi solidarietà, lutti e gioia di vivere, apoliticità e capacità di prendere partito, difesa gelosa delle proprie tradizioni e delle proprie chiusure ma anche aperture verso il nuovo e speranze di cambiamento.
Con riferimento più ravvicinato alle forme di dissenso che qui sono state descritte, occorre inoltre osservare che passare il ponte tra mentalità e comportamenti, in particolare comportamenti in senso pieno politici, non è facile e soprattutto non è scontato. Solo una minoranza, come sappiamo, sarà in grado di compiere per intero il percorso. La
consapevolezza del nesso guerra/fascismo, il desiderio di uscire dalla prima e liberarsi dal secondo, per quanto generalizzati, non sono ancora sufficienti a configurare una opposizione attiva e diretta nei confronti dell’una e dell’altro.
Una società civile vivacissima, abbiamo detto. Ma per così dire invertebrata, priva cioè — e non poteva essere altrimenti dopo vent’anni di dittatura — di strumenti associativi e organizzativi, salvo quelli recentemente attivati in ambiente operaio.
Arthur Marwick, esaminando il caso inglese, ha osservato che l’impatto della guerra in Gran Bretagna ha avuto, tra gli altri, l’effetto di mettere alla prova le istituzioni esistenti (una prova in larga misura superata, grazie alla distribuzione egualitaria dei costi della guerra da esse assicurato) e di imporre nel dopoguerra, proprio sulla base di quella esperienza, l’allargamento delle funzioni sociali e assistenziali dello Stato (il servizio sanitario nazionale, ad esempio).
Questo in Italia non è avvenuto, e non solo perché la guerra è stata perduta. La crisi di identità nazionale provocata dal suo andamento e dalla sconfitta — un tema su cui getta molta luce il confronto tra prima e seconda guerra mondiale che molte testimonianze dell’epoca svolgono — è certo innegabile ma è innescata proprio dal fallimento clamoroso — e soprattutto generalmente avvertito — delle istituzioni pubbliche fasciste, che smentiscono in modo assoluto il principio di universalità nelle loro prestazioni. Lo abbiamo visto per i bombardamenti; ma il discosrso può essere allargato all’intero sistema, in riferimento ai bisogni essenziali della popolazione. Quando i soldati inglesi entreranno a Roma nel giugno del 1944, ad esempio, si presenteranno ai loro occhi gli effetti della distribuzione ineguale delle risorse disponibi
40 Cfr. l’intervento di L. Passerini nei dibattito a più voci Culture popolari negli anni del fascismo, con una premessa di D. Gagliani, in “Italia contemporanea”, 1984, n. 157, pp. 63-90.
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li. Scrive un soldato alla famiglia: “Girando per Roma ho notato le donne vestite con abiti bellissimi che ci squadrano con aria insolente come solo le donne italiane sanno fare, ho visti i negozi pieni di roba che espongono quegli abiti, i negozi con generi alimentari di lusso di cui i nostri a casa hanno dovuto fare a meno per anni, i bei palazzi non toccati dalla guerra e ho pensato a te e alla mamma che dovete fare la fila
Il vuoto istituzionale, lo sfascio che si renderà poi evidente l’8 settembre viene dunque da lontano. L’effetto di “azzeramento” delle strutture istituzionali e del ritorno, come è stato scritto, quasi allo stato di natura; la sensazione insieme di essere abbandonati a se
stessi e di sperimentare inedite forme di libertà che ci recano le testimonianze di quella breve fase41 42, per quanto avvertite come reali, sono tuttavia illusorie ed effimere e rapidamente contrastate da un recupero degli apparati amministrativi (alleati, tedeschi, italiani) nel segno del contenimento del disordine. E le domande non univoche che da questa società civile invertebrata provengono — richieste di protezione e insieme forme avanzate di protagonismo sociale — incontreranno nel dopoguerra le strutture accoglienti — e surrogatorie — dei partiti di massa ma non risposte alte sul terreno della riforma e del rinnovamento delle istituzioni economico-sociali.
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41 Brano di lettera censurata in “Appreciation and Censorship Report”, 1-15 luglio 1944, n. 48, in National Archives Washington, Allied Commission for Italy, 10.000/136/560.42 Cfr. Claudio Pavone, Fu lo sfascio, ma si riaprì il campo del possibile. Come maturarono scelte e identità, in “Il Manifesto”, 8 settembre 1983 e A. Portelli, Assolutamente niente, cit.