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GLI SPETTACOLI AL TEA TRO DELLE AR TI

Date post: 16-Oct-2021
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----- 124 -------------------------------------------- LE ARTI note, con la semplice ricostituzione dell'accom- pagnamento al cembalo e col ripristino dei co- lori, in troppo piccola misura segnati nelle par- titure , questo non può dirsi della musica operi- stica, e qui il trascrittore se mbra aver buon giuoco. Ma io, che pure ho scritto tante pagine - e le ritengo essenzialmente fondate - contro l'ope- ra in musica, non oso dire neppure a me stesso : si, taglino pure col coltellaccio e con l'accetta e la cucinino come meglio piace, tanto, è car- naccia. Ed eccomi, guardate, trasformato in di- fensore dell'opera, sia pure a proposito di un esemplare . di quell'opera buffa nella quale ho sempre ravvisato la parte più viva del nostro teatro musicale, dal 1640 in poi. Certo, p er la rievocazione integrale delle opere antiche sono di ostacolo la tecnica, oggi inimitabile, e l'enorme costo della scenografia, cosÌ come e ra praticata nel 600. E una diffi- coltà altrettanto grande proviene dalla neces- sità di ripristinare l'uso degli strumenti anti- chi; ma ci si può avvicinare a questo ideale. Mi si accenna che la mu sica è arte d'inter- pretazione: che, perciò, bisogna adattare agli artisti d'oggi, soprattutto questa musica ope- ri stica; e che l' ep oca dei grandi virtuosi canori è irrimediabilmente finita . L'argomento è soltanto in apparenza consi- st ente, mi sembra; e questa difficoltà tutt'altro che grave o fatale. Forse che non ci accontentiamo di ascoltare i pezzi di Paganini suonati da virtuosi che non sono altrettanti Paganini? Forse che non ne godiamo? Ma possiamo dire proprio che uno solo di quest i virtuosi, per grandi .che possano esserci sembrati, ci abbia dato mai brividi, sen- sazioni, rapimenti cosÌ sottili, profondi, alluci- nanti, magici, demoniaci come quelli che i con- temporanei del grande violinista-fantasma ci fanno rivivere solo per vaghi accenni, dicendosi tutti, sino ai più grandi come Enrico Heine, incapaci di descriverli? Eppure, il fascino di quei pezzi rimane intero e attraverso l'esecuzione di questi virtuosi pos- siamo rievocare, per noi, quell'e stasi e quegli abissi, tra faustiani e mefistofelici, anche se non possiamo pienamente riviverli. Ma, talora , rievocare non è meglio che rivivere? E poi, proprio oggi che abbiamo un governo che può tutto ciò che vuole, che sa conseguire in breve tempo risultati che avrebbero, prima d'ora, dato da fare ad intere generazioni, pro- prio oggi dobbiamo fermarci di fronte a questa difficoltà della mancanza di virtuosi? Ma ba- sterà, come un tempo, sceglierle, le belle voci, perfezionarle a lungo, tenerle - e per anni - lontane dalla ribalta e dalle sale di concerto - largire a questi arti sti una vita comoda, ma disciplinata, farne dei musicisti colti, affinarli anche nella loro umanità - che la musica tende troppo spesso a respingere in una zona di puro istinto - ed avre mo di nuovo dei virtuosi degni di diffondere per il mondo le nostre antiche opere. Troppo si è scritto, sull'esempio degli stra- nieri, incapaci di comprenderlo a fondo, contro il virtuosismo italiano. Ma la vera tradizione italiana, rimasta intatta da maestro a scolaro al di fuori delle pubbliche scuole, è invece che proprio nei momenti nei quali l'artista si pro- digava nei virtuosismi, proprio allora egli dava la piena misura del suo valore ed era capace di commuovere, al più alto grado, gli animi degli spettatori e di suscitare i sentimenti più diversi: di ira, di amore, di sdegno, di eroismo. Quanto ai rifacimenti, mi pare evidente che non bisogna andare troppo oltre certi limiti e che, in essi, la prudenza e l'esperienza dello storico possano, anzi debbano, allearsi alla sen- sibilità del musicista, diciamo pure all'orecchio, per far piacere al relatore; e che, reciprocamente, quest'orecchio vada di sciplinato ed allenato dal- l'esperienza dello storico. In questo modo, sol- tanto, sarà possibile fare opera utile e degna di volgarizzazione; e veramente costruttiva: come dev'essere ambizione suprema di tutti, in que- sti no stri tempi fascisti. GLI SPETTACOLI AL TEA TRO DELLE AR TI LA MUSICA. - Il breve ciclo degli spet- tacoli mu sicali, che si sono tenuti nell'ultima decade di novembre al Teatro delle Arti, per iniziativa della Confederazione dei Profe ssioni- sti e Artisti, rientra nell'àmbito di quelle ma- nifestazioni « da camera », che sembravano qua si « superate»; per il loro carattere di eccezion a- lità e di riserbo, e che invece si stanno sempre più consolidando in un assetto di « stabilità ». In un'epoca di grandi spettacoli «di massa», di va- ste manife stazioni «corali », con la partecipazione di imponenti schiere di esecutori e di folle enor- mi di spettatori, il fenomeno può sembrare al- quanto strano, se lo si consideri superficiaI- ©Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo -Bollettino d'Arte
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----- 124 -------------------------------------------- LE ARTI

note, con la semplice ricostituzione dell'accom­pagnamento al cembalo e col ripristino dei co­lori, in troppo piccola misura segnati nelle par­titure, questo non può dirsi della musica operi­stica, e qui il trascrittore sembra aver buon giuoco.

Ma io, che pure ho scritto tante pagine - e le ritengo essenzialmente fondate - contro l'ope­ra in musica, non oso dire neppure a me stesso : si, taglino pure col coltellaccio e con l'accetta e la cucinino come meglio piace, tanto, è car­naccia. Ed eccomi, guardate, trasformato in di­fensore dell'opera, sia pure a proposito di un esemplare . di quell'opera buffa nella quale ho sempre ravvisato la parte più viva del nostro teatro musicale, dal 1640 in poi.

Certo, p er la rievocazione integrale delle opere antiche sono di ostacolo la tecnica, oggi inimitabile, e l'enorme costo della scenografia, cosÌ come era praticata nel 600. E una diffi­coltà altrettanto grande proviene dalla neces­sità di ripristinare l'uso degli strumenti anti­chi; ma ci si può avvicinare a questo ideale.

Mi si accenna che la musica è arte d'inter­pretazione: che, perciò, bisogna adattare agli artisti d'oggi, soprattutto questa musica ope­ristica; e che l'epoca dei grandi virtuosi canori è irrimediabilmente finita .

L'argomento è soltanto in apparenza consi­stente, mi sembra; e questa difficoltà tutt'altro che grave o fatale.

Forse che non ci accontentiamo di ascoltare i pezzi di Paganini suonati da virtuosi che non sono altrettanti Paganini? Forse che non ne godiamo? Ma possiamo dire proprio che uno solo di questi virtuosi, per grandi .che possano esserci sembrati, ci abbia dato mai brividi, sen­sazioni, rapimenti cosÌ sottili, profondi, alluci­nanti, magici, demoniaci come quelli che i con­temporanei del grande violinista-fantasma ci fanno rivivere solo per vaghi accenni, dicendosi tutti, sino ai più grandi come Enrico Heine, incapaci di descriverli?

Eppure, il fascino di quei pezzi rimane intero

e attraverso l'esecuzione di questi virtuosi pos­siamo rievocare, per noi, quell'estasi e quegli abissi, tra faustiani e mefistofelici, anche se non possiamo pienamente riviverli. Ma, talora, rievocare non è meglio che rivivere?

E poi, proprio oggi che abbiamo un governo che può tutto ciò che vuole, che sa conseguire in breve tempo risultati che avrebbero, prima d'ora, dato da fare ad intere generazioni, pro­prio oggi dobbiamo fermarci di fronte a questa difficoltà della mancanza di virtuosi? Ma ba­sterà, come un tempo, sceglierle, le belle voci, perfezionarle a lungo, tenerle - e per anni -lontane dalla ribalta e dalle sale di concerto - largire a questi artisti una vita comoda, ma disciplinata, farne dei musicisti colti, affinarli anche nella loro umanità - che la musica tende troppo spesso a respingere in una zona di puro istinto - ed avremo di nuovo dei virtuosi degni di diffondere per il mondo le nostre antiche opere.

Troppo si è scritto, sull'esempio degli stra­nieri, incapaci di comprenderlo a fondo, contro il virtuosismo italiano. Ma la vera tradizione italiana, rimasta intatta da maestro a scolaro al di fuori delle pubbliche scuole, è invece che proprio nei momenti nei quali l'artista si pro­digava nei virtuosismi, proprio allora egli dava la piena misura del suo valore ed era capace di commuovere, al più alto grado, gli animi degli spettatori e di suscitare i sentimenti più diversi: di ira, di amore, di sdegno, di eroismo.

Quanto ai rifacimenti, mi pare evidente che non bisogna andare troppo oltre certi limiti e che, in essi, la prudenza e l'esperienza dello storico possano, anzi debbano, allearsi alla sen­sibilità del musicista, diciamo pure all'orecchio, per far piacere al relatore; e che, reciprocamente, quest'orecchio vada disciplinato ed allenato dal­l'esperienza dello storico. In questo modo, sol­tanto, sarà possibile fare opera utile e degna di volgarizzazione; e veramente costruttiva: come dev'essere ambizione suprema di tutti, in que­sti nostri t empi fascisti.

GLI SPETTACOLI AL TEA TRO DELLE AR TI

LA MUSICA. - Il breve ciclo degli spet­tacoli musicali, che si sono tenuti nell'ultima decade di novembre al Teatro delle Arti, per iniziativa della Confederazione dei Professioni­sti e Artisti, rientra nell'àmbito di quelle ma­nifestazioni « da camera », che sembravano quasi « superate»; per il loro carattere di eccezion a-

lità e di riserbo, e che invece si stanno sempre più consolidando in un assetto di « stabilità ». In un'epoca di grandi spettacoli «di massa», di va­ste manifestazioni « corali », con la partecipazione di imponenti schiere di esecutori e di folle enor­mi di spettatori, il fenomeno può sembrare al­quanto strano, se lo si consideri superficiaI-

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mente. Ma questi spettacoli intimi e raccolti, eseguiti nel breve spazio di una sala dai posti limitati, costituiscono forse il naturale contrap­peso degli avvenimenti teatrali dilatati smisu­ratamente oltre i loro confini originarii; essi stanno comunque ad indicare una tendenza del gusto; la loro fortuna crescente è un segno della loro vitalità; è bene dunque che vadano perdendo quell'aspetto eccezionale di una volta, troppo raffinato ed esclusivista, per entrare, or­ganizzati in stagione come tutti gli altri spet­tacoli, nella normalità della vita teatrale.

Osservando il fatto da un lato più propria­mente pratico, bisogna aggiungere che, solo col dare a tali spettacoli un loro teatro e una loro stagione, avremo la possibilità di udire o di riudire opere che altrimenti non potrebbero essere eseguite, se non in teatri che, per la loro diversa destinazione, ne falserebbero, come pur­troppo non di rado ne hanno falsato, il carat­tere, l'epoca, le origini, in una parola lo stile. Ciò vale soprattutto per la musica del passato, composta per piccoli palcoscenici per piccoli complessi orchestrali, che troppe volte abbiamo sentito invano vagire nelle sale dei grandi teatri d'opera; o che, per un preteso adattamento al­l'acustica di queste sale, troppe volte abbiamo inteso fare una « voce grossa », che non era la loro. Un teatro stabile da camera - e si capi­sce che occorre interpretare in senso lato l'espres­sione l( da camera » e non in quello storicamente rigoroso che si riferisce ad un certo tipo di mu­sica e ad una certa pratica musicale -, evite­rebbe in tal modo le inutili trascrizioni di tanta musica antica, che non si sa come far risusci­tare, riducendo il lavoro di revisione alla sola realizzazione» di ciò che manca o che, per la diversità dei mezzi di esecuzione di oggi da quelli di ieri, specialmente degli strumenti, deve necessariamente essere sostituito.

Un esempio di tali trascrizioni, che a noi sembrano esemplari, prima ancora che da un punto di vista strettamente musicologico, ossia « letterale», da quello della riviviscenza com­plessiva dell'opera d'arte, è la trascrizione del Ballo delle ingrate di Claudio Monteverdi, che appunto al Teatro delle Arti ha trovato il suo ambiente più appropriato. Chissà come si sa­rebbe comportato il trascrittore, Roberto Lupi, se lo stesso lavoro gli fosse stato commesso per un teatro di più vaste proporzioni? E chissà quale diverso effetto farebbe la trascrizione del Lupi, mettiamo, al Teatro Reale dell'Opera? In fatto di trascrizioni di lavori monteverdiani, ricordiamo un' esecuzione al Metropolitan di New York del Combattimento di Tancredi e

Clorinda, della quale il meno che si possa dire è che sembrava enormemente sfocata. Nel Ballo delle ingrate, invece, la risonanza della declama­zione, l'espansione del canto, la sonorità e il colore dell'orchestra, tutto suscita l'impressione di un'armonia antica, ma non spenta, non inac­cessibile, che abbia valicato i secoli, giungendo fino a noi intatta nel suo equilibrio.

Il trascritto re si è limitato a sostituire con gli archi, il clavicembalo e l''lrpa le « cinque viole da brazzo, clavicembalo et chitarone», che del Ballo costituivano l'orchestra originaria; ha aggiunto alcuni fiati nella parte propria­mente danzata, che anche in origine era accom­pagnata con un'orcbestra più numerosa (<< col suono di una gran quantità di stromenti»); ha infine fatto uso, non impropriamente, dello stile imitato, arricchendo le parti strumentali di qual­che contrappunto e fioritura, tutte le volte che se ne presentasse l'occasione. L'oratione monte­verdiana ha goduto pertanto del suo naturale risalto, senza che i cantanti dovessero forzarne il limpido fluire con i soliti lenocinì espressivi (e questo torna altresÌ a loro merito), e la dolo­rosa pagina del « Pianto dell'Ingl'at'l», che con­clude l'opera e in cui si condensa e si concreta in immagini melodiche più precise il vago strug­gimento del declamato, ha dimostrato ancora una volta il potere emotivo di quella patetica vocalità, propria di Monteverdi, che si so stanzia del senso e del suono della parola pur nella sua grande purezza musicale.

Susanna Danco, Amalia Pini, Rina Corsi e Alfredo Colella sono i cantanti che hanno in­telligentemente e, staremmo per dire, umilmen­te piegato le loro voci, adusate a tutt'altro stile teatrale, alla pac'lta declamazione monteverdia­na. Direttore d'orchestra era lo stesso maestro Lupi.

Un altra opera che difficilmente avrebbe po­tuto allestirsi in un grande teatro, per la sua esile struttura, è La cambiale di matrimonio di Rossini, del più giovane Ro~sini ,teatrale che si conosca, essendo stata composta quando il pe­sarese aveva appena diciotto anni. Una curio­sità, più che altro; uD. interessante documento, alla cui stesura non avrà mancato di collabo­rare il padre del compositore, cornista esperto. Della perizia paterna si ha un'eco facilmente indovinabile nella sinfonia dell'opera, laddove i corni spandono la loro voce bonaria, abilmente modulata, sul discorso piuttosto gracilino degli archi, che pure, tuttavia, prende qua e là un piglio mo:z.artiano. Ma sul palcoscenico la solita farsa convenzionale s'anima talora di un'estro­sa ironia, che fa presentire il grande Rossini

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trasfiguratore inimitabile del comico. Il trapasso dal dato di fatto buffo in se stesso alla defor­mazione caricaturale si avverte soprattutto nei concertati e nelle scene d'insieme: l'isolamento e la messa in evidenza delle frasi più illustra­tive, la ripetizione insistente delle parole più ri­dicole, il martellamento ritmico sulle sillabe delle parole sgretolate, in una parola quel gioco ine­briante di disintegrazione e ricostituzione, a scopi principalmente musicali del discorso ver­bale, quel caratteristico palleggiamento grotte­sco, divertito, sfrenato di un monosillabo fra un personaggio e l'altro (di quanti « sÌ», di quanti « no » incredibilmente sproporzionati è fatta la comicità rossiniana ?), annunciano già le frene­tiche astrazioni dei concertati e delle scene d'in­sieme del Barbiere e dell' Italiana in Algeri.

Affidata alle abili mani ed al tocco leggero di Fernando Previtali, il quale ha anche ac­compagnato al cembalo i recitativi, arricchendo gli accordi, come insegna la pratica del tempo, di una delicata fioritura d'arpeggi e abbelli­~enti, la Cambiale di matrimonio ha avuto buoni interpreti in Antonio Gronen Cubischi, Mario Gubiani, Aldo Noni, Emilio Renzi, Fer­nando Valentini e Angeli~a Tuccari. Non sono mancate le opportune iniziative individuali, e nemmeno l'equilibrio e la fusione complessivi.

Insieme a questi ritorni ed evocazioni d'un passato più o meno lontano, il Teatro delle Arti ha avuto cura di mettere il pubblico a contatto con le espressioni più significative del nostro tempo: alcune delle quali nuovissime, altre di quel confuso, polemico, spregiudicato periodo fra la guerra mondiale e il dopoguerra, ma cosi pieno di fermenti, cosi ricco di correnti, come soltanto oggi è dato di constatare. Risentire - e per molti soltanto sentire - la Storia del soldato di Stravinski, che di quel periodo porta i segni incancellabili, è stato, oltre tutto, di gran giovamento critico. Oggi avvertiamo più di ieri quanto bene e quanto male abbia fatto l'orchestra corrosiva della Storia del soldato, con i suoi strumenti concertanti, scoperti; sovver­titrice dell'ordine costituito della grande orche­stra romantica, antitesi della pletorica orchestra wagneriana e straussiana. Il ritorno al timbro puro, la rivalutazione enfatica degli strumenti più trascurati, per non dire meno nobili, un gusto quasi giazzistico dell'improvvisazione, nel senso di lasciare che ogni strumento esaurisca tutte le sue possibilità tecniche ed espressive: questo il bene, questa la lezione impartita ai musicisti contemporanei. Ma quanti di costoro hanno creduto di promuoversi banditori d'un verbo nuovo, unicamente per il fatto di aver

adottato un « mezzo ", il più delle volte , senza giustificazione artistica.

N on è del resto in forza degli atteggiamenti polemici che la Storia del soldato riafferma la sua 'importanza e il suo significato. Il vivo di questa commedia ora raccontata da un « let­tore» ora recitata dagli attori ora soltanto mi­mata e danzata, che la musica, la quale non bisogna dimenticare che è una musica « di sce­na», segue e accompagna nei momenti decisivi, il vivo della Storia del soldato è proprio nei punti in cui cessa il voluto, il rivoluzionaria ad ogni costo, e nella tormentata dialettica or­chestrale si trasfonde il tormento del misero soldato che ha venduto l'anima al diavolo e brancola nel buio della dannazione. L'anima del soldato: il suo violino. Quali sinistre vibra­zioni scuotono lo st~umento, quali gemiti lanci­nanti escono dalle sue corde martoriate. Nella forma quasi cadenzale del solo violinistico sem-

. bra che Stravinski abbia voluto far rivivere lo spirito (( diabolico» di Niccolò Paganini.

Non è a dire tutte le difficoltà che comporta l'esecuzione della Storia del soldato. Fondere in­sieme la recitazione dei personaggi con l'orche­stra è impresa tutt'altro che semplice, tenuto conto dei due piani pressochè autonomi sui quali .si svolge il lavoro. È stato gran merito di Fernando Previtali (e del regista Enrico Ful- . chignoni) trovare il giusto punto d'integrazione fra la scena e l'orchestra, per tacere di tutto lo smalto di cui ha cosparso la piccola massa degli strumenti concertanti. Sul palcoscenico l'attore Michele Riccardini, il Soldato, è stato il più bravo di tutti, per il giusto tono conferito alla recitazione, fra ingenuo e trasognato. Gli altri interpreti erano Renato Chiantoni e Gio­vanni Brinati.

Anche El retablo de Maese Pedro di De Falla appartiene al dopoguerra e anche esso segna un punto di partenza, ma un punto di partenza circoscritto all'arte del compositore spagnolo, che con El retablo abbandona il popolaresco ti­pico delle opere precedenti, per entrare in un mondo espressivo più vasto e complesso . Non che la Spagna sia esclusa dal Retablo; al con­trario l'anima spagnola ne costituisce il suh­strato. Ma non è una Spagna pittoresca e con­venzionale quella del Retablo. Qualcosa di lon­tanissimo nel tempo, di antico, di leggendario e religioso « pesa » sulla musica di questo la­voro per marionette. El retablo è un'idealizza­zione, estremamente arroventata, dell'opera dei pupi, con tutto quanto la fantasia popolare annette di favoloso, di nobile, di generoso al teatro dei burattini. Per convinceI'si di tanto

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impegno hasta rammentare il clima teso, in­fervorato e aspro che si genera dall'orchestra durante la rappresentazione marionettistica; e, ancora più, la cantilena, quasi in modi chiesa­stici, del cantastorie che presenta ]e varie scene. L'episodio de] Don Chisciotte, da cui è tratto El retablo, si proietta cosÌ nel mondo immagi­nario della tradizione spr gnola, mentre l'inter­vento dell' « ingenioso cahallero della Mancia» che dinanzi allo spettacolo del rapimento di Melisenda fa piazza pulita di tutti i hurattini, riflette un che di nostalgico per le lontane im­prese della Cavalleria.

Il maestro Giuseppe Morelli, un giovane di vivace temperamento direttoriale, ha condotto al successo pieno e convincente il lavoro di De Falla. Gli ottimi interpreti erano Rina Corsi, che ha stupendamente personificato il canta­storie, Antonio Gronen Cuhiski e Fernando Delle Fornaci.

Il quadro degli spettacoli al Teatro delle Arti comprende ancora un halletto del compo­sitore ungherese Alessandro Veress, dal titolo Il piffero miracoloso, e il halletto La camera dei disegni di Alfredo Casella. Il Piffero è una hreve pagina fra popolaresca e aristocratica, creata nell'atmosfera della moderna musica ma­giara, che ha in Bela Bartok e Zoltan Kodaly i suoi caposcuola (il Veress è allievo di en­trambi). La Camera dei disegni costituisce una hrillante e ahilissima versione orchestrale degli Undici pezzi infantili per pianoforte, nove dei quali sono stati semplicemente strumentati, mentre un altro, l'Omaggio a Clementi, ha inspi­rato la composizione della scena finale del hal­letto; un ultimo, poi, il Canone sui tasti neri, è stato soppresso e sostituito con uno dei Nove pezzi per pianoforte. Inoltre Casella ha compo­sto per l'occasione una sinfonia,- dal ritmo, co­me s'immagina, marciante, e nove minuscoli intermezzi che collegono i quadri del halletto l'uno all'altro.

Casella stesso ha diretto il suo lavoro, che ha avuto un' interprete eccezionale nella figlia del Maestro. Direttore del Piffero miracoloso era Fernando Previtali.

L UICI COLACI CCHI.

LE SCENE. - Il puhhlico ha accolto con una rara e felice concordia queste scene, che, per gradi diversi e con diverse riuscite, rappresen­tavano tuttavia una vivace scossa al gusto cor­rente del teatro. E se di tutte non si potrehhe dire un' egual hene, resta da sottolineare che in tutte vi era volontà di togliere alla parte visiva

dello spettacolo ogn~ falsificazione naturalistica. Certo, al Ballo delle ingrate di Monteverdi l'aura, che Titina Rota aveva cercato di restituire, di teatro di corte settecentesco, creava, col pic­cante di una Venere in paniers, una diversione visiva un po" frivola alla suhlime commozione di quella musica, senza che ci guadagnasse in esattezza neppure la rievocazione storica; e per il halletto di Verèss, le scene e i costumi di Pekari si trovavano sul limite molto incerto che separa il popolaresco raffinato dal raffinato popolaresco, e comunque non vi si rivelava mai la ricerca di valori figurativi essenziali. Ma due spettacoli si sono isolati nettamente, per la sce­nografia, dagli altri: e sono stati, la Storia del soldato di Strawinsky e la Camera dei disegni di Casella. Di quest'ultimo le scene e i figurini erano dovuti ad Orfeo Tamburi, uno fra i gio­vani della cosiddetta scuola romana, che per la duttilità del pennello come per la precauzione tonale, semhrava assai adatto a intuire la ne­cessità di una intesa cromatica fra scene e per­sonaggi, fra gesti di attori e indicazioni spaziali. Già nella grande decorazione che aveva dipinto nel giardino d'inverno della Mostra del Mine­rale, quel che si apprezzava, in una cosÌ larga e affrettata stesura, era lo scenografico nel senso migliore, i fondali teneri e macchiati, nei quali l'indicazione oggettiva era minima e dava per cosÌ dire un hreve avvio, un istantaneo sugge­rimento d'amhiente per ordinare appena le ap­pezzature cromatiche. Nelle scene per il hal­letto di Casella, la veloce sùccessione dei qua­dri, il riferimento, per la trama stessa del hal­letto, a disegni, esigeva dallo scenografo che si limitasse a calare dei fondali, contro ai quali gesticolavano le vivaci coreografie di Millos. Ma quanto questi fondali erano appropriati, e come spesso felici; quanto in essi discendeva da un gusto pittorico, e quanto si allontanavano dal mestiere scenografico. Che poi suggerissero, oltre al nome dell'autore, altri ricordi di pit­tura contemporanea (Dufy, Rousseau), questo non diminuiva affatto la freschezza di getto con la quale Tamhuri aveva schizzato la Trinità dei Monti, o l'amhiente della palestra (fig. l), o an­cora quella pagina di libellule da specula e di fiori da erhario, o il caffè-concerto con le seggio­le, viennesi. E fra i costumi, notevoli eran quelli dei lottatori (col ciclista che pedalava nel fon­do) e la maglia dell'ultimo danzatore con ap­pena delle hrevi virgole a segnare un'anatomia, resa, pur sul corpo vivo e con una maglia ade­rente, e proprio per la lattea liquescenza della maglia, una prensile e morhida macchia di co­lore che si disponeva fluida entro il fondale.

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