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I giovani nel mercato del lavoro I giovani nel...

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1 I giovani nel mercato del lavoro I giovani nel mercato del lavoro I giovani nel mercato del lavoro I giovani nel mercato del lavoro che cambia: il punto di vista degli studenti che cambia: il punto di vista degli studenti che cambia: il punto di vista degli studenti che cambia: il punto di vista degli studenti ATTI DEL SEMINARIO del 28 maggio 2009, Facoltà di Economia, Università di Roma Tre Indice Prefazione (di Fadda S., Tridico P.) p.2 Flexicurity: il mercato del lavoro flessibile (di Barbuto D., La Rosa G.M., Corsi A., Lippa M., D’Angeli F.) p. 5 Lavoro atipico: nuovi lavori, transizione Università-Lavoro, Legge Biagi. (di Andretta V., Pandolfi V., Paparazzo C.) p.32 I Centri per l’Impiego nel Lazio (di Lavagnini M.) p. 46 L’occupazione femminile: pari opportunità e politiche di conciliazione (di D’Angelo F., Palmieri M.) p. 58 Assetti contrattuali e dinamiche macroeconomiche: dal Protocollo del 1993 all’Accordo interconfederale del 2009 (di Rufini G.) p.74
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I giovani nel mercato del lavoro I giovani nel mercato del lavoro I giovani nel mercato del lavoro I giovani nel mercato del lavoro

che cambia: il punto di vista degli studentiche cambia: il punto di vista degli studentiche cambia: il punto di vista degli studentiche cambia: il punto di vista degli studenti

ATTI DEL SEMINARIO

del 28 maggio 2009, Facoltà di Economia, Università di Roma Tre

Indice

Prefazione (di Fadda S., Tridico P.) p.2

Flexicurity: il mercato del lavoro flessibile (di Barbuto D., La Rosa G.M., Corsi A., Lippa M.,

D’Angeli F.) p. 5

Lavoro atipico: nuovi lavori, transizione Università-Lavoro, Legge Biagi. (di Andretta V.,

Pandolfi V., Paparazzo C.) p.32

I Centri per l’Impiego nel Lazio (di Lavagnini M.) p. 46

L’occupazione femminile: pari opportunità e politiche di conciliazione (di D’Angelo F.,

Palmieri M.) p. 58 Assetti contrattuali e dinamiche macroeconomiche: dal Protocollo del 1993 all’Accordo interconfederale del 2009 (di Rufini G.) p.74

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Prefazione

Il seminario di cui presentiamo gli atti è stato un seminario particolare. Esso maturò a conclusione del corso di Economia del Lavoro svolto nell’ambito del corso di Laurea Magistrale in “Mercato del Lavoro, Relazioni Industriali e Sistemi di Welfare” presso la Facoltà di Economia “Federico Caffè”. Il seminario fu presieduto dall’Onorevole Giacomo Troja, Presidente del CREL – Regione Lazio. Tale corso è solito concludersi con la redazione, da parte degli studenti, di alcuni saggi (o “tesine”) relativi a vari aspetti empirici della problematica del mercato del lavoro, selezionati dagli stessi studenti nell’ambito di una rosa presentata dal docente. Ciascuna di queste “tesine” viene quindi esposta e discussa in forma seminariale tra i frequentanti il corso. Nello scorso anno gli studenti ( o meglio, alcuni di essi) si mostrarono così motivati e così accurati nella ricerca dei materiali e nell’approfondimento dei temi che venne l’idea di organizzare un seminario complessivo in cui fossero gli stessi studenti come relatori a prospettare le problematiche dal loro punto di vista e gli studiosi, nonché le parti sociali, ad ascoltare e a confrontarsi con essi, anziché il contrario. In realtà sono proprio i giovani i più interessati al profondo cambiamento di carattere legislativo, strutturale e sociale che il mercato del lavoro italiano ha conosciuto nell’ultimo decennio. Tale cambiamento prende le mosse dai primi anni novanta, quando l’Italia unitamente alla stipula del trattato di Maastricht assume l’obbiettivo di entrare fin da subito nell’Unione Economica e Monetaria (UEM). Questo voleva dire innanzitutto rispettare i criteri di Maastricht; primi fra tutti la riduzione del tasso di inflazione e il risanamento dei conti pubblici. L’accordo del Luglio 1993 aveva esplicitamente come scopo la riduzione della spirale inflazionista attraverso la moderazione salariale e altri interventi miranti ad aumentare gli investimenti innovativi e la produttività.

La politica di moderazione salariale e di riduzione dell’inflazione ebbe successo, ma tuttavia, neanche dopo l’avvio dell’UEM, l’Unione Europea, e l’Italia in particolare, sembrano aver risolto i problemi della bassa crescita e della bassa produttività. Il vecchio continente perde competitività nei confronti dei principali partner internazionali e l’Italia perde competitività nei confronti della media dell’UE. Si pensò dunque che il problema potesse risolversi attraverso la “flessibilizzazione” del mercato del lavoro. In questa direzione andavano il “pacchetto Treu” del 1997 e la successiva legge 30 del 2003 che introduceva innovazioni radicali nelle forme contrattuali e nel mercato del lavoro in generale. Queste riforme nascevano nell’ambito della Strategia Europea dell’Occupazione del 1997 sfociata poi nella più complessa Strategia di Lisbona del marzo del 2000 che stabiliva, a livello comunitario, le linee guida e gli obiettivi per una riforma del mercato del lavoro al fine di fare dell’Europa, entro il 2010: “… the most competitive and most dynamic knowledge-based economy in the world, capable of sustainable economic growth, with more and better jobs and greater social cohesion, and respect for the environment”.

Tuttavia, sia l’evidenza empirica, sia la maggior parte della letteratura economica in materia, dai classici ai keynesiani, dai neokeynesiani agli economisti istituzionalisti, eccezion fatta per la letteratura strettamente neoclassica all’interno della quale esistono tuttavia numerose eccezioni quali Solow, Modigliani e altri, dimostrano che non c’è una relazione positiva tra maggiore flessibilità di per sé e crescita dell’occupazione e della produttività. Ciononostante, l’agenda politica

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del mercato del lavoro si è orientata ormai da tempo verso l’introduzione, nel mercato del lavoro, di maggiori strumenti di flessibilità. A fronte di questo, più recentemente nell’UE, si è sviluppato un modello chiamato flexicurity che tende a combinare elementi di flessibilità con elementi di sicurezza sociale.

Da una parte, infatti, la globalizzazione e i progressi tecnologici esigono un maggior adeguamento del mondo del lavoro ed un suo più veloce aggiustamento al cambiamento, cui le imprese sono chiamate a contribuire con una maggiore capacità di assorbimento delle nuove competenze dei lavoratori e uno sforzo maggiore in termini di innovazione tecnologica e di modelli organizzativi più efficaci. Dall’altra parte i lavoratori devono essere tutelati davanti alle discontinuità occupazionali, alle maggiori pressioni salariali e ai crescenti costi sociali indotti dalla crescente concorrenza internazionale e dai vertiginosi cambiamenti strutturali.

I cinque saggi presentati al seminario e raccolti in questo volume cercano di esplorare queste problematiche dal punto di vista di chi si appresta ad entrare nel mercato del lavoro. I giovani, e non c’è da sorprendersi, sono i primi ad essere colpiti dagli effetti della riforma ed i primi a percepire la flessibilità introdotta come forma di precarietà. Questo è quello che emerge dal primo saggio sulla “flexicurity” che confronta i livelli di flessibilità e sicurezza introdotti in Italia con quelli di altri paesi Europei. Il successivo articolo si concentra particolarmente sul lavoro atipico introdotto dopo la Legge 30 del 2003, avanzando una critica sulle lacune che questa Legge tuttora si porta dietro: la mancanza di protezione sociale e di sicurezze nel lavoro atipico. Il terzo saggio esamina un argomento di estremo interesse all’interno della nuova architettura sociale e legislativa del mercato del lavoro: i Centri per l’Impiego. L’articolo analizza funzioni e caratteristiche dei CPI esaminando in particolare quelli della provincia di Roma, e riscontra la scarsa incidenza dei Centri nel mercato del lavoro rispetto alla possibilità di favorire il matching tra domanda e offerta di lavoro e di allocare, formare e selezionare personale. Il quarto saggio esplora un altro aspetto problematico del mercato del lavoro italiano: l’occupazione femminile e le pari opportunità. Il lavoro sostiene che oltre ai livelli scarsi dei tassi di occupazione femminile, in Italia si riscontra una forte mancanza di politiche familiari atte a conciliare l’aspirazione al lavoro delle donne con l’inclinazione e il sostegno verso la famiglia e i figli. Infine, l’ultimo articolo esplora un argomento molto recente: la riforma degli assetti contrattuali introdotta con il protocollo del Gennaio 2009 e ratificato, con la clamorosa assenza della CGIL, nell’Aprile 2009 dal Governo, dalle Associazioni datoriali e da CISL, UIL e UGL. Il lavoro mette criticamente in relazione gli assetti contrattuali con le dinamiche macroeconomiche della produttività, tentando un confronto anche con il Protocollo del luglio 1993, e cercando di trarne utili suggerimenti di politica economica.

Tutto questo mette in evidenza un mercato del lavoro segmentato, caratterizzato da performance scarse, e tassi di occupazione molto bassi rispetto agli altri paesi europei. In effetti, in Italia, rispetto ad altri paesi del nord Europa, si osserva come parallelamente all’introduzione della flessibilità, non sia stato riformato il sistema di ammortizzatori sociali, che rimane troppo complesso, pieno di deroghe e disorganizzato. In sostanza, sembra si possa affermare che in Italia, il recepimento del modello flexicurity debba significare l’incremento di protezione, tutele e diritti sociali per occupati e disoccupati. Il sistema di sicurezza sociale italiano è fortemente obsoleto rispetto ai cambiamenti intervenuti nell’ultimo decennio dal punto di vista contrattuale e dal punto di vista strutturale. Per questo è necessario adeguare gli ammortizzatori sociali e le tutele esistenti alle nuove forme di lavoro e alla crescente flessibilità introdotta, al fine di evitare, come spesso è accaduto negli ultimi anni, che rapporti di lavoro flessibili si configurino come precari e diventino fonte di disagio sociale e mancanza di reddito. La riforma degli ammortizzatori sociali appare inoltre tanto più necessaria in un periodo di recessione economica come quella attuale poiché avrebbe la doppia funzione di tutelare i lavoratori garantendo comunque loro un potere di acquisto e sostenere la domanda aggregata che altrimenti crollerebbe ulteriormente.

Infine, non bisogna trascurare il fatto che a livello teorico sembra crescere un consenso tra gli studiosi, volto a considerare il lavoro non come un qualsiasi altro fattore produttivo, e conseguentemente il mercato del lavoro non come un qualsiasi altro mercato. Il lavoro è prima di

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tutto una espressione personale e una aspirazione umana, oltre che un “fattore produttivo”, che risente del contesto economico, dell’ambiente sociale, e di altri fattori extra-economici. D’altro canto, il mercato del lavoro è un’istituzione sociale, intrisa di regole, rapporti di fiducia, reputazione, e istituzioni che vanno ben oltre le leggi che regolerebbero le funzioni di domanda e offerta di lavoro. La consapevolezza di ciò deve spingere policy maker e analisti a orientare le scelte concernenti gli interventi nel mercato del lavoro verso forme di copertura sociale e garanzie che non lascino i lavoratori senza reddito e senza tutele durante il i processi di turnover e di aggiustamento strutturale. Si ringrazia il Dipartimento di Economia, dell’Università di Roma Tre, per aver finanziato la pubblicazione di questo volume. (Sebastiano Fadda e Pasquale Tridico)

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Flexicurity: il mercato del lavoro flessibile Domenico Barbuto, Giovanni Marco La Rosa, Alberto Corsi, Marianna Lippa, Francesca D’Angeli

Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Economia “Federico Caffè” Introduzione I primi passi verso un modello di politica economica di flexicurity sono stati mossi nel campo della filosofia, con l’introduzione da parte del sociologo danese Esping- Andersen del concetto di “decommodification” (demercificazione) nello studio dei modelli di welfare. La decommodification, attribuisce al welfare un certo grado di liberazione dei cittadini dalle logiche strette del mercato, specialmente del mercato del lavoro, ma non solo. Per Esping-Andersen, il welfare tanto più è universalistico-istituzionale, tanto più riesce a emancipare un singolo individuo dalla tradizionale costrizione al lavoro, o a consentire a un lavoratore di scegliere fino a che punto desideri lavorare, o perseguire attività alternative a cui l'individuo conferisce priorità1. Questa “filosofia di pensiero” si è con il tempo trasformata in una strategia di politica economica per accrescere nello stesso tempo e di proposito da un lato, la flessibilità dei mercati del lavoro, l’organizzazione del lavoro, le relazioni industriali e, dall’altro lato, la sicurezza di trovare un buon lavoro e di avere un’adeguata protezione del reddito in tutte le diverse fasi della vita. L’espressione flexicurity nasce dalla contrazione verbale tra flexibility e security per indicare un modello di mercato del lavoro nel quale ad una notevole flessibilità in materia di assunzioni e licenziamenti si accompagna un’altrettanto estesa sicurezza per coloro che si trovano ad essere disoccupati, grazie alla presenza di generosi ammortizzatori sociali e ad un ben funzionante sistema di formazione che facilita le transizioni da un impiego all’altro. Accompagnamento al disoccupato, veloce reinserimento occupazionale, forte protezione sociale, ruolo attivo del sindacato e del mondo imprenditoriale, sono questi gli elementi essenziali di successo del mercato del lavoro flessibile e sicuro. Implicita nell’idea di flexicurity è, quindi, una visione di policy che tende a ridurre l’enfasi sulla sicurezza del posto di lavoro, job protection, e a spostare l’attenzione sul concetto di occupabilità, employment protection. Scopo di tale lavoro è fornire, anche con alcune evidenze empiriche, uno spunto di riflessione sull’efficacia di un mercato del lavoro flessibile e sicuro capace di integrare costantemente i lavoratori esclusi con adeguate politiche del lavoro attive. Con un efficace modello flexicurity le economie nazionali ne potrebbero beneficiare e le imprese godrebbero di benefici in termini di produttività, con ricadute positive sullo stesso mercato del lavoro.

1. I lavori europei Nel 1997 nel Libro Verde sulla “Partnership per una nuova organizzazione del lavoro”, della Commissione europea, si sottolinea l’importanza sia della flessibilità che della sicurezza, per ammodernare e rendere più competitiva l’organizzazione del lavoro. Nasce quindi l’esigenza di creare un equilibrio effettivo e duraturo tra flessibilità e sicurezza, difatti nell’Agenda Sociale Europea tale equilibrio viene richiamato costantemente2. Gli svariati lavori europei producono, tra il 1997 e 2000, due importanti accordi, l’Accordo Quadro Europeo sul lavoro part time (1997) e l’Accordo Quadro Europeo su lavoro a tempo determinato (1999), si riferiscono entrambi alla flessibilità dell’orario di lavoro ed alla sicurezza per i lavoratori. Tali Accordi sono poi stati recepiti in due direttive.

1 Cfr P.Borioni Welfare Scandinavo, Welfare Italiano, Carocci, Roma 2005

2 Comunicazione Commissione del 28 Giugno 2000.

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La Strategia di Lisbona, rivisitata per la crescita e l’occupazione, promuove una risposta attiva ai cambiamenti della globalizzazione. L’obiettivo fissato dal Consiglio di Lisbona del 2000 era di fare dell’Europa in dieci anni “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro ed una maggiore coesione sociale”. Per raggiungere gli obiettivi di Lisbona relativi a posti di lavoro più numerosi e migliori servono nuove forme di flessibilità e di sicurezza. I singoli hanno sempre più bisogno di sicurezza dell’occupazione piuttosto che di sicurezza del posto di lavoro, poiché sono sempre meno coloro che hanno lo stesso impiego per tutta la vita. In questo contesto gli Stati membri sono chiamati a promuovere un clima di fiducia nel quale tutti gli attori interessati accettino la responsabilità del cambiamento. Le strategie di flexicurity, osserva la Commissione europea, possono contribuire a modernizzare i mercati del lavoro europei per meglio affrontare le sfide e le opportunità della globalizzazione. Esse comprendono nel contempo soluzioni contrattuali flessibili e affidabili, politiche attive del mercato del lavoro, strategie globali di apprendimento permanente e sistemi moderni di protezione sociale atti a garantire un adeguato sostegno dei redditi durante periodi di disoccupazione. Il modello flessibile attribuisce infatti una forte ruolo alle politiche attive del lavoro ed al lifelong learning3, fornendo un’eguale opportunità per tutti, nel rispetto delle pari opportunità. Successivamente, nel corso degli anni, si susseguono diversi lavori, nel 2003 si produce un Report coordinato da Wim Kok4. Nel Rapporto si sottolinea che per incrementare occupazione e produttività, sono necessari quattro tipi di azione:

• aumentare la flessibilità di lavoratori e imprese • attrarre più persone nel mercato del lavoro • investire con più convinzione nel capitale umano • assicurare l’attivazione di riforme attraverso una migliore governance

Comuni strategie le ritroviamo anche nelle Linee Guida per l’Occupazione 2005-2008, esse sottolineano la necessità di promuovere la flessibilità combinata con la sicurezza sociale e la riduzione della segmentazione del mercato del lavoro, avendo anche riguardo al ruolo delle parti sociali. Ad oggi abbiamo diversi documenti importanti quali il Libro Verde del 2006 sulla modernizzazione del diritto del lavoro5, la comunicazione della Commissione verso principi comuni di flexsicurity del 20076, la risoluzione del Parlamento europeo del 2007 sulla modernizzazione del diritto del lavoro. A tale riguardo è importante notare che a margine dei menzionati lavori affiorarono delle divergenze tra Parlamento europeo e Commissione, le visioni opposte non erano però sull’impianto della flexsicurity7, bensì sull’adozione delle politiche da adottare da parte degli Stati membri. Il Parlamento sottolinea la necessità di adottare politiche che impediscano lo sfruttamento dei lavoratori mediante l'accumulo sempre maggiore di contratti atipici che non prevedono diritti uguali a quelli dei contratti a tempo pieno e chiede che le politiche comunitarie dell'occupazione si

3 Cfr paragrafo 2 4 Report of the Employment Taskforce, coordinato da Wim Kok: “Jobs, Jobs, Jobs. Creating more employment in Europe”, del novembre 2003. 5 Libro Verde “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”, presentato dalla Commissione europea il 22 novembre 2006. 6 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, “Verso principi comuni di flexsicurity: posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza”, del 27 giugno 2007. 7 Come inizialmente riportato da parte della stampa nazionale.

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attengano al modello classico del contratto di lavoro a tempo indeterminato che forma la base dei sistemi di sicurezza sociale negli Stati membri. La Commissione, nel Libro Verde, come nel Rapporto alle Comunità Europee del 20078, afferma invece che il contratto standard a tempo indeterminato è superato, aumenta la segmentazione del mercato del lavoro e accentua la separazione tra lavoratori "integrati" e lavoratori "esclusi", per cui deve essere considerato come un ostacolo alla crescita dell'occupazione e al miglioramento del dinamismo economico. Il Libro Verde aggiunge, inoltre, che la corretta gestione dell’innovazione e del cambiamento implica che i mercati del lavoro prendano in considerazione tre aspetti principali: la flessibilità, la sicurezza nell’occupazione e la segmentazione. Sulla scorta di tali aspetti la Commissione europea delinea quatto percorsi comuni per gli Stati membri:

• affrontare la segmentazione contrattuale • sviluppare la flexsicurity all’interno dell’impresa e offrire la sicurezza nella transizione (per

i Paesi che hanno bassi tassi di occupazione) • affrontare le carenze di competenze e opportunità tra la manodopera (per i Paesi che

investono poco in lifelong learning) • migliorare le opportunità per coloro che ricevono prestazioni sociali e i lavoratori sommersi

(per i Paesi che hanno affrontato riforme strutturali, si trovano davanti a grossi esuberi da parte delle aziende con difficoltà, delle amministrazioni che erogano i servizi sociali con scarsa capacità di politiche attive).

2. Flessibilità e Sicurezza Una delle definizioni più citate ed utili di flexicurity, e maggiormente densa di indicazioni di policy, la concepisce come “una strategia che tenta, in maniera sincronica e deliberata, di aumentare, da un lato, la flessibilità dell’assetto del mercato del lavoro, della sua organizzazione e delle relazioni industriali e lavorative; dall’altro di accrescere la sicurezza, sia sociale che di occupabilità, soprattutto dei gruppi più deboli, interni o esterni al mercato del lavoro”9. In base a tale definizione, alla quale si riferiscono i suggerimenti contenuti nei documenti comunitari, la flexicurity non andrebbe quindi intesa, in termini riduttivi, come una semplice protezione sociale per una forza lavoro flessibile; al contrario, gli aggettivi “sincronico” e “deliberato” invitano a porre l’accento sul carattere di simultaneità e coordinamento di tali politiche e su come queste vadano perseguite in maniera integrata e bilanciata. L’elemento di novità si trova nella combinazione di misure politiche introdotte, appunto, simultaneamente; conseguire congiuntamente gli obiettivi in termini di flessibilità e di sicurezza piuttosto che tentare di raggiungerli separatamente, in base al concetto secondo il quale la sicurezza non è rappresentata dalla stabilità del posto di lavoro, quanto dalla sicurezza dell’occupazione e della sicurezza durante le fasi di transizione. I lavoratori si devono sentire più sicuri e considerare la globalizzazione ed i cambiamenti del mercato del lavoro come un’opportunità (il concetto è ripreso dalla risoluzione del Parlamento europeo del 2007 sulla modernizzazione del diritto del lavoro, riportato nel paragrafo successivo). Nell’aprile 2007 la Commissione e gli Stati membri hanno raggiunto il consenso sulle quattro componenti del tema in oggetto:

• la flexicurity è un insieme di negoziazioni contrattuali flessibili e rigide allo stesso tempo;

8 “Flexicurity Pathways. Turning hurdles into stepping stones”, Rapporto della Commissione delle Comunità Europee. Direzione Generale per l’Occupazione, gli Affari Sociali e le Pari opportunità della Commissione europea, del 15 giugno 2007. 9 Wilthagen, Tros 2004.

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• la flexicurity è costituita da politiche attive per l'occupazione, che consentano ai lavoratori di relazionarsi con il cambiamento e di trovare una rapida ricollocazione professionale;

• la flexicurity è un sistema di apprendimento durante tutto l'arco della vita, tale da garantire adattabilità ed occupabilità per tutti i soggetti;

• la flexicurity implica anche moderni sistemi di protezione sociale a supporto del reddito e a tutela delle condizioni di lavoro e di vita.

I successi registrati in Danimarca, Spagna, Finlandia, Austria e nei Paesi Bassi dimostrano che la flessibilità e la sicurezza sono compatibili tra loro e che si rafforzano reciprocamente. Essi dimostrano anche che non esiste un modello unico valido per tutti; la flexicurity è un approccio che può contribuire a superare le resistenze politiche e sociali nei confronti delle riforme. 2.1 Diverse forme di flessibilità Flessibilità esterna Una delle più importanti caratteristiche del mercato del lavoro flessibile è la facilità con cui i lavoratori possono essere assunti o licenziati e vi è una grande diffusione di contratti a tempo determinato. Flessibilità interna E’ definite come il grado di possibilità di modificare la quantità di lavoro impiegata dell’impresa senza l’obbligo di far ricorso a modifiche formali del rapporto di lavoro (assunzioni e licenziamenti), ma tramite variazioni dell’orario lavorativo, straordinari e part-time. Flessibilità funzionale E’ l’attitudine delle imprese di spostare i lavoratori da una mansione ad un’ altra o di modificare i contenuti del lavoro dei dipendenti. Questa presuppone che ci sia da parte del lavoratore polivalenza professionale e coinvolgimento nei fini aziendali. Flessibilità salariale E’ la possibilità per l’impresa di variare le componenti dirette ed indirette della struttura retributiva in relazione all’andamento della produttività. Questo strumento viene invocato per accrescere la domanda di lavoro nelle aree depresse, dove il livello di competitività delle imprese risente di una produttività mediamente inferiore rispetto alle aree più sviluppate. In questa visione il salario funge da prezzo riequilibratore fornendo anche con alcune evidenze empiriche del mercato ad un più alto livello di occupazione.

Flessibilità esterna funzionale Consiste nella possibilità per l’impresa di commissionare alcune mansioni a lavoratori esterni senza dover ricorrere a contratti di impiego, ma esclusivamente attraverso contratti commerciali (outsourcing di alcune mansioni, utilizzo della somministrazione a tempo indeterminato). 2.2 Le dimensioni della sicurezza E’ possibile distinguere quattro dimensioni del concetto di sicurezza: Sicurezza del posto di lavoro (job security) E’ è la sicurezza di mantenere uno specifico impiego presso un definito datore di lavoro, attraverso la tutela legislativa di protezione dell’occupazione; Sicurezza dell’occupazione(employment security)

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E’ la sicurezza di rimanere occupati, non obbligatoriamente presso lo stesso datore di lavoro. L’occupabilità viene rafforzata attraverso la formazione continua e permanente e attraverso il sistema delle politiche attive del lavoro in caso di disoccupazione; Sicurezza del reddito (income security o social security) E’ la protezione del reddito, attraverso ammortizzatori sociali nel caso di cessazione del rapporto di lavoro o sistemi universali di reddito minimo garantito o di ammortizzatori sociali specifici per gli incapienti; Combination security E’ la sicurezza dovuta alla possibilità di conciliare l’attività lavorativa con altre responsabilità e diversi doveri sociali o privati (ad esempio formazione, assistenza ai figli o agli anziani).

3. Il mercato del lavoro danese Ultimi studi pubblicati hanno portato a conclusioni pressoché identiche e indicano che il mercato del lavoro danese è estremamente flessibile10. La World Bank nel 2004 introduce un indice sulla flessibilità delle nazioni, riguardante la regolamentazione del mercato del lavoro. La tabella mostra le classifiche inerenti ad alcune caratteristiche fondamentali dello stesso Indice della regolamentazione dell’occupazione

Dalla tabella si evince che la regolamentazione del mercato del lavoro danese è ai vertici delle classifiche che riguardano la flessibilità sul licenziamento, sulle assunzioni e sulla regolamentazione delle condizioni di lavoro. La colonna a destra, che riguarda la regolamentazione del lavoro, è il risultato medio tra i precedenti indici rappresentando la Danimarca come lo Stato più flessibile in

10 Anche in ambito europeo si ritiene che la Danimarca abbia un mercato del lavoro oltre che flessibile altamente sicuro, per una trattazione più esaustiva si rinvia ai successivi paragrafi.

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Europa. Nel mondo invece, solamente gli USA e Singapore hanno una regolamentazione più flessibile del mercato del lavoro. In Danimarca la politica del lavoro è un campo di intervento economico indipendente, che riguarda l’occupazione e la promozione della forza lavoro. Viene sempre più coordinata con le politiche di sviluppo locale a livello centrale e regionale. Le valutazioni svolte dimostrano che le riforme della politica del lavoro sono state un fattore cruciale dei successi economici più recenti. In particolare con le riforme degli anni 1990 si è passati a politiche del lavoro più attive, l’attenzione è stata rivolta al miglioramento delle qualifiche dei disoccupati per dare loro gli strumenti necessari a cogliere nuove opportunità, rafforzando al contempo il loro diritto di percepire sussidi di disoccupazione assieme all’obbligo di rendersi disponibili per eventuali lavori. Inoltre, l’attivazione è diventata non solo un diritto, ma un vero e proprio dovere di tutti i disoccupati. Alcuni ricercatori hanno definito questo sviluppo come il passaggio dal “welfare al workfare”11. Con il passare degli anni sono state introdotte una serie di riforme, tutte volte a garantire un mercato del lavoro flessibile, associate a generosi sussidi di disoccupazione e il diritto-dovere di partecipare alle misure di attivazione. Sono state formulate e applicate normative che impongono obblighi più stringenti per i disoccupati, regole più severe in merito alla disponibilità ad accettare un lavoro e sanzioni per il rifiuto di partecipare a questi programmi e sussidi di disoccupazione e sociali più elevate. Tutte queste misure hanno lo scopo di permettere alla Danimarca di cogliere le sfide della globalizzazione e dei cambiamenti demografici attraverso il potenziamento delle qualifiche di coloro che già lavorano e una più forte motivazione a partecipare alle misure di attivazione per i disoccupati. Il potenziale disincentivo derivante da elevati sussidi di disoccupazione che sostituiscono il mancato reddito è compensato dall’obbligo imposto al disoccupato di ricercare attivamente un altro posto di lavoro e di partecipare a programmi di attivazione obbligatori a tempo pieno ad intervalli più o meno regolari; anche il ripetuto rifiuto per nuove occupazioni porta all’eliminazione del sussidio. Difatti il nascere di una “moral hazard” del lavoratore viene soppressa con opportuni vincoli restringenti; l’attivazione punta quindi a fornire più qualifiche e a motivare il disoccupato. Le riforme del mercato del lavoro hanno migliorato l’adattabilità della forza lavoro e la sua capacità di reagire ai cambiamenti, hanno ridotto il periodo medio di disoccupazione ed eliminato il fenomeno della disoccupazione giovanile. Ciò ha permesso di ridurre considerevolmente la disoccupazione strutturale ed è stato un fattore decisivo della continua crescita economica del paese.

11I programmi di attivazione possono includere orientamento generale e professionale, aiuto nella ricerca di un lavoro, piani d’azione individuali per la ricerca di un lavoro, formazione professionale privata e pubblica, istruzione, programmi di congedo, rotazione del lavoro e job-sharing di lavori a tempo pieno.

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Tasso di occupazione.

Proporzione di occupati nella popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni, valori

percentuali.

Fonte: Eurostat. 2008 Il tasso di occupazione danese al 78,1% risulta essere il secondo maggiore dopo la Svizzera che registra un particolare aumento dell’occupazione con un tasso di 79,5%. In media, l’Europa (UE a 25) registra un tasso del 66,3% e la Danimarca è ben sopra la media. In generale i Paesi del nord Europa, caratterizzati da mercati alquanto flessibili, presentano tutti tassi al di sopra della media. L’Italia, con un tasso del 58,7% è il penultimo Paese dopo la Turchia (che si attesta al 45,9%). Si precisa che la Strategia di Lisbona prevede il raggiungimento del 70% entro il 2010 per tutti i Paesi membri; obiettivi difficilmente raggiungibili dall’Italia. Tasso di disoccupazione.

Fonte: Eurostat. 2008

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Il più alto tasso di disoccupazione è registrato dalla Spagna 11,3% tuttavia il Paese ha da sempre registrato un’alta inabilità del mercato del lavoro che comporta anche ampie oscillazioni degli indicatori. La disoccupazione nella maggior parte dei Paesi è al di sotto della media UE, che si attesta al 7,1%. La Danimarca registra un tasso del 3,3%, un dato molto basso e secondo solo alla Norvegia (2,5%). Così come per il tasso di occupazione anche il tasso di disoccupazione nei Paesi scandinavi risulta essere estremamente basso. L’Italia con un tasso del 6,8% è in linea con la media europea, ciò tuttavia, può non essere del tutto confortante visto l’aumento della flessibilità ma non della sicurezza, in seguito all’introduzione, nel corso degli ultimi anni, di una molteplicità di contratti atipici che ha inciso positivamente sul tasso di disoccupazione. Spesa pubblica per le politiche del lavoro, valori percentuali al PIL.

Fonte: OCSE. 2007

La Spesa per le politiche del lavoro è nettamente maggiore nei Paesi del nord Europa. In testa compare la Danimarca con una spesa in percentuale al PIL del 4,2%: nello specifico si spende il 1,7% in politiche attive e 2,5% in politiche passive. La spesa in politiche del lavoro risulta un buon indicatore per la valutazione dell’efficienza del mercato del lavoro (trascuriamo in questa trattazione i benefici derivanti da un’elevata spesa in termini di uguaglianza e distribuzione del reddito). L’Italia con un tasso di 1,3% risulta abbondantemente sotto la media UE: le politiche attive sono 0,6% e quelle passive 0,7% sul PIL. La Danimarca con una popolazione di soli 5,4 milioni di abitanti è un esempio di eccellenza nell’attuazione di tutti i parametri della strategia di Lisbona. Si tratta di un Paese caratterizzato da tassi di occupazione estremamente elevati (77,4% nel 2006)12, con una disoccupazione molto contenuta, un elevato turnover (un quarto dei lavoratori è stato con lo stesso datore di lavoro per meno di un anno), un’elevata partecipazione all’apprendimento permanente

12 Risulta essere il valore massimo raggiunto.

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(29,2). Il bilancio pubblico è in avanzo, così come la bilancia dei pagamenti. La disoccupazione di lungo periodo è in calo. Le esportazioni sono in aumento, così come la domanda interna13. Gran parte di questi risultati si devono alla maggiore libertà di iniziativa concessa agli imprenditori che a loro volta producono di più, innovano, con un alto rischio d’impresa14. Il successo danese dipende dalla costruzione di una rete di soggetti forte sul territorio che, attraverso strumenti di accompagnamento al lavoro, inserimento e reinserimento lavorativo, guidano i soggetti verso l’occupazione. L’esperienza di flexicurity ha trovato origine nel cosiddetto “accordo di settembre” del 1899 che si fondava e si fonda tutt’ora sulla simmetria e l’equilibrio del cosiddetto “golden triangle” (triangolo d’oro), composto dallo Stato, dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro15. Esso prevede un’alta flessibilità delle tipologie contrattuali, affiancate da un forte e generoso sistema di sicurezza sociale e da una copertura del reddito mancante tra i più elevati in Europa, ma soprattutto, da politiche attive particolarmente intensive rivolte soprattutto all’apprendimento permanente (lifelong learnig). The Golden Triangle

Come si può notare dalla figura sopra, le frecce che uniscono gli angoli del triangolo illustrano i flussi di persone. Le due frecce che collegano il mercato del lavoro flessibile e il sistema di sicurezza sociale riflettono il fatto che molti lavoratori sono colpiti dalla disoccupazione. Ogni anno circa mezzo milione di lavoratori danesi, pari a quasi il 20% della forza lavoro, rimane senza lavoro. La gran parte di loro trova velocemente un nuovo impiego, mentre una piccola parte rimane disoccupata per un periodo più lungo. Coloro che faticano a trovare una nuova occupazione sono assistititi con politiche attive, come programmi di istruzione e formazione appositamente pensati per aiutarli a rientrare velocemente sul mercato del lavoro. Un altro importante obiettivo della

13 Tutti i trend sono relativi al periodo pre-crisi registrata in Europa.

14 La tesi è sostenuta da Bruno Amoroso a margine del convegno svoltosi presso la Facoltà di Economia, Università di Roma Tre, 2006; alla domanda se sia possibile generare un’aumento dell’occupazzione coniugato con un crescita economica di lungo periodo, senza incorrere nei costi economici e sociali che hanno connotato l’affermarsi della flessibilità (Contini, Trivellato) si trova risposta positiva con il contributo di Tronti (Economia&Lavoro).

15 L’accordo dell’1899 arriva dopo un ampio sciopero generale. Si stabilirono i diritti per l’imprenditore nel gestire la propria azienda includendo la possibilità di assunzioni e di licenziamenti, mentre al lavoratore sono state riconosciute le tutele sindacali garantite dalle associazioni di categoria, in tema di negoziazioni sull’orario e sulle condizioni di lavoro.

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politica attiva per il mercato del lavoro (ALMP) è di far sì che coloro che ricevono i sussidi di disoccupazione non trovino conveniente continuare a farlo, nonostante le generose indennità. L’elevato grado di flessibilità esistente sul mercato del lavoro danese è indirettamente favorito da un rilevante numero di servizi socio-assistenziali, come un ampio programma di istruzione e formazione professionale, servizi di assistenza all’infanzia, assistenza sanitaria, ecc., perlopiù finanziati dal gettito fiscale16. Dal 1970 in poi con la costituzione del servizio pubblico per l’impiego, lo Stato si è accollato gran parte del rischio legato all’occupazione; alla fine degli anni Ottanta, a questo quadro si sono aggiunte ulteriori politiche attive volte a motivare i disoccupati a cercare ed accettare un’occupazione come anche a migliorare le loro qualifiche. La flexicurtity venne introdotta dai socialdemocratici negli anni Novanta come una formula tesa a rinnovare quel welfare-state che era stato inteso fino ad allora come un garante a tempo indeterminato dalla emarginazione sociale. In quegli anni la disoccupazione raggiunse livelli tali da richiedere degli interventi che portarono i socialdemocratici a modificare il welfare introducendo dei limiti di tempo ai sussidi di disoccupazione (4 anni) e a creare una politica attiva del mercato del lavoro che puntasse alla formazione dei lavoratori per poterli reinserire in altri settori. Da quel momento si passò dal modello di uno stato assistenziale-indennizzante, che interviene quando l’esclusione sociale è avvenuta, a quello di uno stato che investe in ogni individuo per garantire che rimanga legato al mercato del lavoro attraverso una formazione continua. Definiamo questo secondo modello come quello di uno stato concorrenziale che deve investire in un’economia del futuro e in una forza lavoro17; il welfare si trasforma così da un costo economico ad un investimento sociale; ciò richiede di formare una forza lavoro in grado di concorrere sul piano internazionale, di rendere attivi tutti coloro che sono in età lavorativa con degli incentivi e delle motivazioni e in caso di rifiuto costringerli con delle sanzioni economiche. Lo sviluppo delle competenze è stato stimolato da un sistema di rotazione del lavoro che ha consentito ai lavoratori di formarsi mentre dei disoccupati li sostituivano temporaneamente. Questi elementi presi assieme costituiscono il cosiddetto “triangolo d’oro” , un sistema generoso di sicurezza e previdenza sociale, ampie politiche attive del mercato del lavoro basato su una cooperazione attiva tra le parti sociali. Il Sindacato Unitario danese (Confederazione Lo) che raccoglie l’85% dei lavoratori, gioca all’interno del sistema un ruolo fondamentale amministrando, fra gli altri istituti sociali, l'indennità di disoccupazione. In Danimarca la precarietà del lavoro non esiste e la mobilità, che in Italia viene vissuta con angoscia dalla maggior parte dei lavoratori, non spaventa, perché l'accesso a un altro impiego è garantito, soprattutto grazie al ruolo del sindacato nella gestione del sistema di orientamento e formazione. Per questo si può quasi dire che in Danimarca la disoccupazione di lunga durata non esista: la metà dei disoccupati trova un posto di lavoro in meno di un anno. Il mercato del lavoro danese è caratterizzato da un elevato grado di mobilità. In media il 25-35% dei lavoratori danesi cambiano lavoro ogni anno, pari a circa 800.000 unità. La durata media di un lavoro è di otto anni, tra le più basse fra i paesi OCSE. La ricerca mostra che la mobilità è presente sia nei lavori non qualificati che in quelli più qualificati. Una panoramica globale del mercato danese del lavoro indica che a prescindere dal tipo di lavoratore, il comparto industriale o le dimensioni dell’impresa, la mobilità complessiva rimane elevata. Il grado limitato di protezione previsto dalla legislazione nazionale è una delle spiegazioni dell’intensa mobilità presente in Danimarca (vedi figura sotto). Le evidenze empiriche dimostrano che una ridotta tutela del lavoro riduce l’uscita e l’entrata nello stato di disoccupazione. Sebbene le normative di tutela del lavoro proteggano i lavori esistenti e impediscano la perdita di posti di lavoro, esse contengono anche incentivi alla creazione di nuovi posti. La legislazione di tutela del lavoro danese non è molto estesa

16 In Danimarca la tassazione generale è alquanto elevata ma con servizi efficienti e un efficace welfare state universalistico si garantisce al cittadino un livello di benessere che compensa ampiamente l’elevata tassazione. 17 Ove Kaj Pedersen, già direttore del Centro Business and Politics della Business School di Copenaghen.

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e questo consente alle imprese di adattare continuamente le loro politiche di assunzioni alle necessità del mercato. Tutto ciò fa sì che la sicurezza del lavoro in Danimarca sia piuttosto bassa. Indice di tutela del lavoro in alcuni paesi OCSE, 2003

Fonte: OECD

Il basso livello di sicurezza del posto di lavoro è sostanzialmente compensato da un elevato grado di sicurezza del mercato del lavoro nel suo complesso. Infatti ogni anno scompaiono circa 260.000 posti di lavoro, ma ne viene creato un numero equivalente, assicurando così un alto livello di sicurezza del mercato del lavoro. In base ad uno studio condotto dall’European Opinion Group, i lavoratori danesi hanno un’elevata percezione di sicurezza del proprio lavoro nonostante un basso livello di tutela. Un secondo studio dell’Eurofound riferisce che i danesi sono anche molto soddisfatti del proprio lavoro. Figura: Sicurezza del lavoro Figura: Soddisfazione Scala da 1 a 10, da bassa ad alta sicurezza del lavoro Percentuale di occupati soddisfatti del proprio lavoro

Fonti: European Opinion Research Group EEIG (2001); European Foundation for the Improvement of Living and Working conditions (2006).

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Tutto ciò potrebbe apparire come un paradosso, dato che le imprese danesi possono licenziare i propri lavoratori abbastanza facilmente e per di più con limitati costi extra. Tuttavia gli osservatori indicano la tradizione della contrattazione collettiva e la presenza di rappresentanti sindacali in tutte le imprese come fattori significativi che contribuiscono alla sicurezza dell’occupazione in Danimarca. 3.1 Il sistema Ghent L’attuale struttura politica e amministrativa, creata dalla riforma del mercato del lavoro avviata nel 1994, ha comunque fornito la struttura di base per la politica attiva del mercato del lavoro e per la promozione dello sviluppo economico a livello regionale. La principale caratteristica amministrativa seguita alla riforma del 1994 è stata l’istituzione di 14 Consigli del Mercato del Lavoro che sostituiscono le vecchie commissioni del mercato del lavoro. Ogni consiglio funziona come un forum in cui mettere in atto la pianificazione strategica regionale in modo flessibile, così da poter adattare le politiche generali, dettate dal Ministero, alla specifica situazione locale. A livello nazionale, il Parlamento danese delibera gli stanziamenti per le attività relative al mercato del lavoro, mentre il Ministero del Lavoro e dell’Occupazione disegna la politica del mercato del lavoro e crea le leggi inerenti con la consulenza del Consiglio Nazionale del Mercato del Lavoro in questioni quali la pianificazione delle iniziative per il mercato del lavoro e la definizione della struttura per le misure da applicare a livello regionale. L’Autorità Nazionale per il Mercato del Lavoro (NLMA), la principale istituzione esecutiva del Ministero del Lavoro e dell’Occupazione, gestisce i fondi ed elabora i budget per l’attuazione delle politiche. Determina inoltre i target a livello statale e i risultati da raggiungere a livello regionale, previa consultazione con il Consiglio Nazionale del Mercato del Lavoro. Dei Consigli del Mercato del Lavoro, nazionale e regionali, fanno parte politici eletti ufficialmente, rappresentanti delle parti sociali e autorità delle contee e delle amministrazioni comunali. La composizione del Consiglio regionale del mercato del lavoro consta di rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori, dell’amministrazione comunale locale, di gruppi di minoranza ed altri; in totale si compone di 23 membri, compreso il presidente e il vicepresidente. Essi sono responsabili della definizione delle iniziative della politica del mercato del lavoro a livello regionale, nell’ambito dei limiti economici stabiliti dalla NMLA e dal Ministero del Lavoro e dell’Occupazione. In questo contesto la consultazione tripartita tra decision-maker nazionali e regionali, rappresentanti delle parti sociali e politici delle amministrazioni locali costituisce un elemento cruciale nello sviluppo e nel coordinamento degli obiettivi politici. Attuale struttura dei principali organismi danesi in ambito occupazionale, The Public Employment Service, Storstrøm Region, Danimarca: Livello nazionale - Ministero del Lavoro e dell’Occupazione - Consiglio nazionale del mercato del lavoro - Direttorato per l’assicurazione contro la disoccupazione - Autorità nazionale del mercato del lavoro Livello regionale (14 regioni) - Fondi per l’assicurazione contro la disoccupazione - Sedi regionali del Servizio Pubblico per l’Impiego (14) - Consiglio regionale del mercato del lavoro (14) Livello locale - Amministrazioni comunali - Operatori privati

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- Uffici locali del Servizio Pubblico per l’Impiego In ambito nazionale, il Servizio Pubblico per l’Impiego (PES) è il ramo esecutivo che mette in atto le linee guida politiche indicate dall’Autorità Nazionale per il Mercato del Lavoro e dai Consigli regionali del Mercato del Lavoro. Dal punto di vista amministrativo, il PES dipende dalla NLMA. I 14 direttori regionali sono nominati Ministero dell’Occupazione ed hanno la responsabilità legale ultima di assicurare l’implementazione delle decisioni prese dai Consigli regionali del Mercato del Lavoro. La funzione principale del PES è quella di fornire servizi al pubblico e assicurare ad aziende e istituzioni la forza lavoro di cui hanno bisogno. Altre funzioni operative sono la formazione professionale per le persone in cerca di un’occupazione e una vasta gamma di misure come la formazione nel settore pubblico e in quello privato, per il reinserimento nel mercato del lavoro. Nel 2002 il PES ha creato un sito internet per l’occupazione, il “Jobnet.dk”, nel quale sono tutti obbligati a inserire il proprio curriculum in un formato standard entro 30 giorni dall’inizio della disoccupazione. Nel sito, a disposizione di datori di lavoro e persone in cerca di un’occupazione, viene inserito circa il 30% di tutte le offerte di lavoro. Questa e altre innovazioni tecnologiche (strumenti di registrazione e sistemi di comunicazione in rete) sono già diventate parte integrante delle attività del PES e ci si aspetta che contribuiscano ad incrementare la cooperazione con altri attori per rispondere alle esigenze del mercato del lavoro. Un fattore significativo nella percezione di sicurezza che esiste fra i lavoratori danesi è il vasto sistema di sussidi, che consiste di sussidi di disoccupazione veri e propri (UI) accompagnati da un sistema di welfare finanziato dallo stato. Secondo gli esperti, l’offerta di questi sussidi è una delle ragioni significative che spiegano la disponibilità dei sindacati ad accettare la facilità di licenziamento in Danimarca. La vasta maggioranza dei disoccupati iscritti ad un fondo UI ricevono come assicurazione sulla disoccupazione sussidi pari al 90% del loro ultimo reddito dal primo giorno di disoccupazione fino ad un massimo di quattro anni, compresi i periodi di attivazione.

Tasso di compensazione del reddito di alcuni Paesi europei. OCSE. 2005. Danimarca 90%

Svezia 80%

Paesi Bassi 75%

Norvegia 70%

Germania 65%

Austria 62%

Belgio 62%

Nella pratica però questo periodo è di norma più breve, dato che esiste un limite massimo intrinseco alla somma che può essere erogata. Per i gruppi a basso reddito, questo e altri sussidi legati al reddito, combinati con gli effetti di un’imposta sul reddito relativamente alta, portano a tassi di sostituzione dello stipendio netto molto alti; individui a basso reddito percepiscono sussidi pari al 90% dell’ultima retribuzione, più cresce il reddito meno cresce il sussidio fino ad un minimo del 70%. I sussidi UI si basano su piani volontari gestiti dai 36 fondi UI approvati dallo stato, cui aderiscono circa 2,1 milioni di membri, pari al 77% della forza lavoro. I fondi sono indipendenti dal Ministero del Lavoro e possono formulare strategie autonome che riflettono le politiche dei sindacati che essi rappresentano. Anche se i fondi UI sono organizzazioni misto pubblico-privato le partecipazioni statali sono elevate, la quota pubblica varia a seconda dell’andamento economico del Paese, in periodi di crisi la quota pubblica raggiunge anche l’80% chiaramente per salvaguardare i redditi dei lavoratori disoccupati, in periodi di crescita la quota può scendere fino al 50%. Per ricevere i sussidi di disoccupazione i membri dei fondi UI devono aver lavorato per un minimo di 52 settimane a tempo pieno durante i precedenti 3 anni o aver pagato le proprie quote di adesione al fondo. Il Servizio Occupazione del Ministero del Lavoro (PES) si occupa dei programmi di

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attivazione dei disoccupati, se un disoccupato vuole continuare a ricevere i sussidi ha l’obbligo di conseguire ulteriori qualifiche tramite i programmi di attivazione. La procedura rispecchia il principio secondo cui i diritti devono essere accompagnati da doveri, oltre alla convinzione che precoci misure di attivazione sono più efficienti di un sistema di sussidi passivi per ritornare sul mercato del lavoro. Se una persona disoccupata non è in grado di trovare un lavoro dopo quattro anni, perde il diritto ai sussidi di disoccupazione e deve fare richiesta di assistenza ai servizi sociali del proprio comune di residenza. La responsabilità politica, amministrativa e finanziaria di queste persone passa quindi dal PES ai servizi del comune. I comuni hanno responsabilità finanziarie e amministrative per altre categorie di beneficiari, compresi i disoccupati non assicurati, i giovani disoccupati senza qualifiche professionali, persone che ricevono indennità varie o persone con altri problemi sociali o personali.

Requisiti di occupazione per ottenere l’indennità e durata dell’indennità.

Velfærdskommissionen- Analyserapport. 2005

Requisiti in mesi Fruizione in mesi Indice in ragione del

rapporto requisiti/fruizione Danimarca 12 48 0,25 Finlandia 10 23 0,43 Francia 4 7-42 0,1-0,57 Germania 12 6-32 0,38-2 Paesi Bassi 6 6 1 Giappone 6 3-12 0,5-2 Svezia 6 10 0,6 USA 6 6 1 Austria 12 4,6-12 1-2,6 Italia 12 8-12 1- 0,67

Fonte: Moduli.it (2009)

Le persone che ricevono i sussidi di disoccupazione dalle amministrazioni locali si dividono in due categorie. Il primo gruppo consiste di disoccupati non assicurati considerati abili al lavoro. Sono formalmente iscritti agli uffici locali del PES (Servizi Pubblici per l’Impiego) e devono rispettare più o meno le stesse regole delle persone disoccupate assicurate. La seconda categoria consiste di persone con limitati legami con il mercato del lavoro e che pertanto necessitano di un particolare sostegno prima di poter essere integrati nel mercato del lavoro. Questa categoria comprende coloro che ricevono pensioni di invalidità o altre indennità di lungo periodo.

3.2 Assicurazione contro la disoccupazione e Previdenza Sociale Se si pone che l’esperienza "continentale" e quella scandinava divergono sia sul terreno del welfare che su quello delle relazioni industriali, esse condividono però un peculiare modo con cui i due ambiti si intersecano, attraverso l’amministrazione sindacale dell’assicurazione contro la disoccupazione, finanziato pubblicamente: il sistema Ghent configura un programma volontario di adesione alimentato finanziariamente dallo stato e solo in minima parte dagli associati ed è, come visto, gestito tramite fondi dalle organizzazioni sindacali. La collaborazione a tre fra sindacati, organizzazioni industriali e lo stato è una caratteristica del modello danese. Questa costellazione ha contribuito alla costituzione di un mercato del lavoro flessibile basato sull’accordo piuttosto che sulla regolamentazione, fintantoché le parti sociali sono in grado di concordare condizioni di lavoro e di retribuzione e risolvere i problemi in maniera responsabile, lo stato non interferisce. Come abbiamo detto in precedenza, per poter beneficiare dell’indennità occorre esser stato iscritto ad un fondo per almeno 12 mesi ed aver lavorato non meno di 52 settimane nell’arco di tre anni. Inoltre, la persona assicurata deve essere registrata presso i servizi di collocamento, a testimonianza del proprio impegno nella ricerca attiva di un impiego. L’importo dell’assegno è correlato all’ultimo

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reddito da lavoro percepito. Un disoccupato danese percepisce in media un assegno di 525 corone al giorno (70 euro circa) o 2.625 (quasi 400 euro) alla settimana, sino a poter raggiungere il 90% dell’ultima retribuzione (comunque non superiore a 440 euro settimanali). Fino al 1996, l’indennità di disoccupazione danese poteva essere percepita per un periodo massimo di 7 anni. Dal 1996 questo periodo è stato ridotto a 4 anni ed è stata elevata l’età minima richiesta (da 17 a 19 anni). I contributi individuali possono ammontare anche al 20%. Tutto il resto è finanziato dalla fiscalità generale. In aggiunta all’assicurazione contro la disoccupazione, i lavoratori scandinavi godono di ulteriori e robuste forme di assicurazione collettiva, conseguite contrattualmente, in caso di malattia, vecchiaia e assicurazioni- vita. Coloro che decidono di prendere la tessera sindacale vengono automaticamente iscritti ad uno dei fondi assicurativi contro la disoccupazione. La normale quota sindacale contempla già il versamento contributivo, la cui entità rimane piuttosto contenuta. Non è invece automatico il contrario, poiché è possibile iscriversi ad un fondo senza prendere alcuna tessera sindacale. In questo caso il versamento sarà inferiore alla quota sindacale complessiva nell’ordine medio di un terzo. Negli ultimi anni sembrerebbe cresciuta la quota di quanti chiedono l’iscrizione a un fondo senza prendere la tessera del sindacato. I sindacati sono riuniti in confederazioni nazionali, a loro volta affiliate ad un numero più piccolo di organizzazioni centrali. La Confederazione dei Sindacati (LO) è l’organizzazione di lavoratori con il più alto numero di iscritti sia nel settore privato che in quello pubblico. Più di 1,3 milioni di lavoratori appartengono ad uno dei sindacati affiliati all’LO. Anche la Confederazione degli Industriali (DA) è una grossa organizzazione, che rappresenta 13 associazioni di datori di lavoro. Vi sono iscritte più di 29.000 imprese private danesi dei settori manifatturiero, trasporti, servizi e costruzioni. Per fornire alcuni esempi concreti, possiamo osservare la tabella, la quale enumera alcune tipologie di attivazione adottate frequentemente in Danimarca. L’addestramento al lavoro comporta periodi anche lunghi di pratica formativa, e riguarda non a caso più i disoccupati assicurati nelle casse di disoccupazione (che devono passare da un lavoro ad un altro) di quelli assistiti dal segmento universalistico dei sussidi. In quest’ultimo caso, infatti, spesso gli assistiti sono perlopiù giovani e donne, cioè inoccupati con scarsa presenza pregressa nel mercato del lavoro, oppure soggetti con altre problematiche di salute o di carattere sociale, oppure soggetti che hanno speso i quattro anni di permanenza nel sistema delle indennità assicurative, e che quindi hanno una relazione ormai remota con il mondo del lavoro. Questi ultimi individui hanno allora, come mostra la tabella, maggiore bisogno di corsi di reintroduzione al lavoro, che li preparino anche mentalmente a valorizzare il loro potenziale, oppure alla realtà che troveranno entrando- rientrando nel settore da essi prescelto. Nessuno dei senza lavoro assicurati è impegnato in queste tipologie di attivazione. Ma la maggior parte delle risorse e delle persone è impegnata come si vede nella formazione vera e propria, che può variare da corsi lunghi e impegnativi di professionalizzazione a un ritorno sui banchi della formazione superiore e/o universitaria.

Attivazione in Danimarca per tipologia di sussidio e di attivazione, valori percentuali. Sussidio universalistico Indennità assicurativa Addestramento al lavoro 8,5 33,2 -settore pubblico 1,2 7,1 -settore privato 7,3 26,1 Corsi introduttivi al lavoro 27,7 0 -settore pubblico 20,5 0 -settore privato 7,2 0 Altri lavori sussidiati 0 8 Istruzione 30,5 56,9 Altro 33,2 1,7 Totale 100 100 Persone attivate 36082 40150 Fonte: Direzione Nazionale LO 2007

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4. Il mercato del lavoro italiano In Italia il un sistema produttivo è poco dinamico e prevalentemente attratto da una flessibilità rivolta essenzialmente alla riduzione del costo del lavoro, il sistema di welfare caratterizzato da politiche del lavoro e ammortizzatori sociali inadeguati non fornisce la sicurezza necessaria e complementare ad una flessibilità che dovrebbe essere intesa a favorire il permanere del sistema produttivo alla frontiera qualitativa della divisione internazionale del lavoro. Se in Danimarca questo modello, seppure combinato con altre politiche economiche e dentro un contesto sociale e culturale favorevole, ha prodotto significativi miglioramenti ( nel 1993 la disoccupazione superava il 10%, ora è scesa al 2,3% senza incicidere significativamente su inflazione, bilancio pubblico e bilancia dei pagamenti del lavoro), in Italia i percorsi concretamente seguiti dal sistema produttivo, dal mercato del lavoro e delle istituzioni del welfare possono essere letti come un’applicazione così parziale e asimmetrica di quel modello da risultare contraddittori rispetto alla sua filosofia. La normativa che regola il mercato del lavoro italiano ha accentuato molto gli elementi di flessibilità, specialmente quella di tipo esterno, cioè la facilità di assumere e licenziare ma come dimostrano le statistiche europee in base all’indicatore dell’Ocse sul grado di protezione legislativa dell’occupazione l’Italia è tra quelli con una protezione più bassa. Agli ultimi posti anche per la spesa per le politiche del lavoro e la formazione continua degli adulti. Si tratta di elementi coerenti ad un sistema produttivo dove prevalgono i settori maturi che richiedono una manodopera che non sia particolarmente qualificata ma molto flessibile e a basso costo per poter competere sui prezzi anziché sulla qualità dei prodotti. Alcune differenze fondamentali. 2007. Danimarca Italia Tasso di occupazione 77,1% (18,2% part time) 58,7% (7,8 part time) Tasso di disoccupazione 2,3% 6,6% Prelievo fiscale/Pil 51,2% 40,8% Spesa prestaz. soc./Pil 30,1% 26,4% Spesa pol. del lavoro/Pil 4,1% 1,3%

Tassi di occupazione: evoluzione nel tempo, 2000- 2007.

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Danimarca 76.3 76,2 75,9 75,1 75,7 75,9 77,4 77,1 Italia 53.7 54,8 55,5 56,1 57,6 57,6 58,4 58,7 Fonti: Eurostat, OCSE, ISFOL, Istat Dal 1996 ad oggi, in Italia l’occupazione è cresciuta costantemente, la disoccupazione si è invece quasi dimezzata passando da più dell’11% a poco più del 6%. Il dato straordinario è che l’occupazione è aumentata anche nei periodi di bassa crescita o addirittura di recessione. Il tasso di occupazione rimane tuttavia lontano dall’obiettivo europeo (strategia di Lisbona) del 70%, ma registra l’incremento di otto punti percentuali passando dal 51 al 58%. Sembrerebbe che tali numeri possano denotare un piccolo miracolo del mercato del lavoro, difatti un mercato del lavoro così dinamico,che genera così tanti posti di lavoro avrebbe dovuto accrescere la qualità della vita, creare benessere ed accrescere la ricchezza del Paese, ma ciò non è stato. Il PIL pro capite che nel 1995 era ancora sopra la media europea (ventimila euro annui contro i diciassettemila

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dell’Europa a quindici) è progressivamente sceso sotto la media. Oggi il reddito pro capite italiano è di 25.500 euro contro i 27.500 dei partner europei. Il vero problema dell’economia italiana è quindi la mancanza di crescita, dal 2001 ad oggi siamo cresciuti sempre un punto in meno della media europea, diversamente a quanto accadeva negli anni Ottanta quando gli economisti studiavano la c.d. “crescita senza lavoro” con tassi vicini al 2-3%, ma che non generava nuovi posti di lavoro, oggi il problema è inverso con crescita dell’occupazione anticiclica. Occupati per posizione professionale, carattere dell'occupazione e tipologia

di orario in Italia. 2007 Posizione professionale, Incidenza % carattere dell’occupazione e tipologia di orario

Valori assoluti (migliaia di unità

Variazioni su 2006 Assolute (migliaia % di unità)

Incidenza % 2006 2007

Totale 23222 234 1,0 100 100 a tempo pieno 20059 124 0,6 86,7 86,4 a tempo parziale 3163 109 3,6 13,3 13,6 Dipendenti 17167 252 1,5 73,6 73,9 A tempo indeterminato 14898 206 1,4 63,9 64,2 a tempo pieno 12979 101 0,8 56 55,9 a tempo parziale 1919 104 5,7 7,9 8,3 A tempo determinato 2269 47 2,1 9,7 9,8 a tempo pieno 1776 19 1,1 7,6 7,6 a tempo parziale 502 28 5,8 2,1 2,2 Indipendenti 6055 -19 -0,3 26,4 26,1 a tempo pieno 5313 4 0,1 23,1 22,9 a tempo parziale 742 -23 -3 3,3 3,2 Fonte ISTAT 2009

4.1 Le nuove forme contrattuali: dal Pacchetto Treu alla Legge 30/

2003 Per quanto riguarda il lavoro a tempo determinato, a partire dagli anni Settanta si è operato un progressivo ampliamento delle ipotesi in cui è consentito il ricorso a questa specie di contratto. Tale processo è giunto a conclusione nel 2001 con l’emanazione di una disciplina legislativa ( Legge 368 del 2001) che ammette le assunzioni a tempo determinato per ragioni oggettive, al di fuori di ipotesi legali prestabilite ed entro i limiti quantitativi che i contratti collettivi possono eventualmente introdurre. Un’altra tappa di rilievo nella graduale liberalizzazione del ricorso a forme di lavoro flessibile è rappresentata dall’emanazione, nel 1997, della disciplina legislativa del lavoro temporaneo (o interinale), Pacchetto Treu ( Legge 196/1997), che si poneva come eccezionale o quanto meno derogatoria rispetto al generare divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro. Anche in questo caso il legislatore aveva perseguito l’obiettivo di introdurre forme di flessibilità controllata e negoziata mediante l’intervento della contrattazione collettiva, alla quale era attribuito il potere di determinare ipotesi di ricorso a questa figura di lavoro temporaneo ulteriori rispetto a quelle legalmente previste. In seguito, nel 2003, venne introdotta la Legge 30/2003, la quale introduce una serie di novità la cui portata è paragonabile allo Statuto dei lavoratori. Diversamente da quest’ultimo, però, l’intento del legislatore parte dal presupposto secondo cui la flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro è il mezzo migliore, nella attuale congiuntura economica, per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro e inoltre che la rigidità del sistema crea spesso alti tassi di disoccupazione. La vastità della riforma è evidenziata dallo stesso numero degli articoli del Decreto, ben 86, e dagli istituti introdotti ex novo o modificati. Come si nota proprio dalla ampiezza degli istituti trattati, è agevole osservare che la Legge 30 ha introdotto o modificato numerosi contratti di lavoro: dalla somministrazione

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all’apprendistato, al contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente, o al lavoro accessorio e al lavoro occasionale, nonché il contratto a progetto, ha disciplinato le agenzie di somministrazione di lavoro abrogando l’istituto del lavoro temporaneo o interinale, ha introdotto procedure di certificazione e la Borsa continua nazionale del lavoro, ossia un luogo di incontro fra domanda e offerta di lavoro. Di seguito, analizziamo le principali tipologie di contratti introdotte dalla legge: Contratto di lavoro intermittente o a chiamata E’ il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore per lo svolgimento di una prestazione di lavoro “ su chiamata”. Tale contratto può essere concluso qualora si presenti la necessità di utilizzare un lavoratore per prestazioni a carattere discontinuo. Contratto a progetto (Co.Co.Pro) Ha sostituito il cosiddetto contratto di collaborazione coordinata e continuativa (Co.Co.Co). Tale contratto deve avere determinati requisiti:

• la presenza di un progetto o un programma; • l’autonomia del collaboratore in funzione del risultato; • il coordinamento con il committente; • la durata deve essere determinata e determinabile; • assenza di un vincolo di subordinazione. • Contratto occasionale e accessorio

Si indica un’attività lavorativa sporadica svolta da soggetti a rischio di esclusione sociale o non ancora nel mercato del lavoro o prossimi all’uscita. Tali soggetti comunicano la loro disponibilità ai Servizi Per l’Impiego provinciali o agli operatori, pubblici e privati, accreditati dalla Regione. Questa tipologia contrattuale comprende attività varie, ma il dato distintivo è costituito dalla modalità di stipula, che dovrebbe avvenire non dalle parti contraenti ma con l’acquisto presso agenzie autorizzate di voucher o buoni equivalenti ad un certo ammontare di prestazioni, la cui corrispondente cifra viene pagata al lavoratore dopo la prestazione. Contratto di lavoro ripartito, o job sharing E’ una tipologia di contratto di lavoro con il quale due lavoratori si impegnano ad adempiere solidalmente ad un’unica e identica obbligazione lavorativa. Contratto di inserimento E’ un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro. La finalità del legislatore è quella di agevolare la difficile collocazione di soggetti disoccupati o inoccupati come ad esempio giovani tra i 18 e 29 anni, disoccupati ultracinquantenni, persone con grave handicap. Staff leasing Dà la possibilità alle aziende, tramite le agenzie di lavoro interinale, di chiedere manodopera professionale, a termine o a tempo indeterminato, per coprire determinati servizi o attività. Il lavoratore dipende tuttavia dall’agenzia, quindi per l’azienda che ne ha richiesto il servizio non scatterà mai l’obbligo di assunzione. Somministrazione di lavoro (ex rapporto di lavoro interinale)

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E’ una fattispecie complessa di rapporto di lavoro che prevede il coinvolgimento di tre soggetti: il somministratore: un’ Agenzia per il lavoro autorizzata dal Ministero del Lavoro che stipula un contratto con il lavoratore; l’utilizzatore: un’azienda pubblica o privata che necessita di tale figura professionale; il lavoratore. Tra questi tre soggetti vengono stipulati due diversi contratti:

1. il contratto di somministrazione di lavoro concluso tra somministratore e utilizzatore; 2. contratto di lavoro concluso tra somministratore e lavoratore.

In ogni caso, il rapporto lavorativo instaurato è tra il lavoratore e l’Agenzia per il lavoro, che per legge dovrà retribuire il lavoratore in maniera adeguata alla tipologia di contratto dell’azienda utilizzatrice. Secondo coloro che ritengono inadeguata la riforma Biagi, rispetto allo Statuto dei lavoratori, la norma riduce drasticamente diritti e tutele e le possibilità di intervento della magistratura nelle questioni contrattuali (si pensi alla certificazione dei contratti di lavoro o alla limitazione della riqualificazione del contratto nell’ambito della parasubordinazione, quale co.co.co. o co.co.pro), altre volte sembra ampliare in maniera massiccia la posizione tutoria dei Sindacati comparativamente più rappresentativi per derogare in peius alcuni istituti, in generale si assiste alla proliferazione di nuove figure lavorative che, nelle intenzioni del legislatore, meglio si adattano alle esigenze del mercato del lavoro globalizzato. Secondo i sostenitori della riforma, di contro, la legge Biagi aumentando la flessibilità in ingresso nel mondo del lavoro, produce di fatto un aumento del tasso di occupazione e sostituisce uno strumento, ritenuto dagli stessi obsoleto, come quello della concertazione tra le parti sociali. Alla prevista flessibilità non ha fatto seguito una riforma perpendicolare sugli ammortizzatori sociali, tramutando di fatto una situazione di lavoro flessibile in una situazione precaria, e soprattutto un contesto economico nel quale è facile e rapido il ricollocamento nel mondo del lavoro. La situazione è differente da altri Paesi come gli USA dove ad un mercato del lavoro flessibile si accompagna dal dopoguerra una facilità a trovare un nuovo impiego in tempi rapidi per tutte le fasce di età che compongono la forza-lavoro. Dovendo le aziende versare minori contributi, i lavoratori precari hanno un accantonamento pensionistico inferiore ai loro colleghi con contratti tipici. Questa situazione, combinata al progressivo invecchiamento dei componenti del nostro paese, ha fatto emergere un dibattito sull’opportunità di integrare le pensioni statali (gestite dall’Inps) con un fondo pensione privato (il cui rischio ricade totalmente sul sottoscrittore). L’elevato numero di forme contrattuali previste ha, in molti casi, disorientato le società (soprattutto quelle medio - piccole), spingendole a sfruttare solo una piccola percentuale dell’ampio ventaglio di soluzioni messo a disposizione. Forme come il lavoro condiviso, il lavoro a chiamata o lo staff leasing sono concretamente poco o per nulla usate. Nel mercato del lavoro, le retribuzioni e i livelli di qualifica non sono proporzionate al livello di istruzione crescente delle ultime generazioni. Esiste inoltre una forte differenza di salario, a parità di mansioni, tra operai, quadri e impiegati di concetto, fra i differenti contratti nazionali.. Alcuni dati pongono in discussione l’ipotesi del libero mercato efficiente e della capacità del mercato del lavoro di assumere la migliore configurazione possibile nell’interesse economico delle parti, in assenza di vincoli legislativi. Il lavoro precario inoltre crea delle situazioni economiche complicate per i dipendenti con in contratti “atipici” che in quanto precari, non sono in grado di poter fornire garanzie reali di un salario nel lungo periodo, lasciandoli in evidente difficoltà nel momento in cui sono costretti, anche in età avanzata, a richiedere agli istituti di credito mutui, finanziamenti e crediti al consumo. Il precariato, inoltre, pone il dipendente in una situazione di debolezza, nella quale, sottoposto al rischio di perdere il lavoro, più difficilmente potrà rivendicare i suoi diritti (sicurezza compresa) ed un salario migliore.

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Occupazione per singola voce contrattuale e raggruppamenti principali Singole voci contrattuali Totale Giovani(15-29

anni) Mezzogiorno Donne

Lavoro a tempo indeterminato

63,02 53,08 58,25 63,77

Lavoro a tempo determinato 4,75 6,89 5,99 7,01

Contratto formazione lavoro (Cfl)

0,59 2,41 0,70 0,70

Apprendistato 1,53 8,43 1,55 1,75 Contratto d’inserimento 0,80 2,61 0,89 1,07 Lavoro interinale o a somministrazione

0,65 1,55 0,60 0,68

Job sharing o lavoro ripartito Stima

non significativa fenomeno Estremamente raro

Lavoro intermittente o a chiamata

0,70 0,57 1,41 1,22

Collaborazioni coordinate e continuative

1,66 2,70 1,91 2,07

Collaborazione occasionale 1,59 1,34 1,25 2,50

Lavoro a progetto 2,47 4,36 2,28 3,18

Altre forme contrattuali 21,92 15,91 24,45 15,89 Totale 100,00 100,00 100,00 100,00 Totale (valori assoluti) 22.618512 3.985.864 6.442.057 8.971.256 Fonte Isfol Plus 2006

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Da tali dati, pur considerando il peso relativo dei contratti con palesi finalità di inserimento, induce a credere che la scelta di fare assunzioni temporanee non sia strettamente legata a reali esigenze di flessibilità dovute al ciclo economico o al tipo di produzione quanto, piuttosto, sia dovuta alla tendenza di ridurre il costo del lavoro e il costo-opportunità legato alla possibilità di licenziare. Centri per l’impiego I Centri per l’Impiego sono strutture pubbliche attualmente gestite dalle Amministrazioni Provinciali, che realizzano un sistema integrato di servizi diretti ai cittadini ed alle imprese. Nei Centri per l’Impiego sono garantiti:

• servizi relativi alla intermediazione tra domanda e offerta di lavoro (pubblicazioni offerte di lavoro; preselezioni di lavoratori richieste dalle imprese; offerte a avviamento tramite graduatoria a seguito di avvisi pubblici);

• servizi di informazione-orientamento e di orientamento-consulenza e sostegno individuale a favore di chi cerca attivamente lavoro o ricerca opportunità formative o di auto impiego - creazione di impresa;

• servizi a favore dei minori in obbligo formativo e degli apprendisti; • servizi di sostegno alle quote deboli del mercato del lavoro e dei disabili; • servizi amministrativi e di consulenza per le aziende (trattamento comunicazioni aziendali

relative all’inizio, trasformazione, cessazione dei rapporti di lavoro; requisiti di accesso ai diversi contratti di lavoro);

• servizi amministrativi per i lavoratori occupati e non (iscrizioni e aggiornamento iscrizioni lavoratori, certificazioni, ecc.).

I servizi assicurati dai Centri per l’Impiego sono gratuiti. I Centri per l’Impiego si rivolgono ai datori di lavoro, ai non occupati che cercano lavoro, agli occupati che desiderano cambiare lavoro, ai gruppi sociali più svantaggiati o per cui sono previste particolari protezioni o incentivazioni per sostenere il loro inserimento occupazionale.

4.2 Ammortizzatori sociali Tra i principali troviamo la cassa integrazione guadagni (CIGS e CIGO), i contratti di solidarietà, l’indennità di disoccupazione e l’indennità di mobilità. A questo sistema si accompagnano misure speciali, messe in atto attraverso deroghe alla normativa vigente, in favore di lavoratori che appartengono a settori non tutelati dalle misure sopra descritte o che non possono più utilizzarle per vincoli legislativi. Alla medesima area tematica afferiscono anche misure speciali destinate a soggetti disoccupati o inoccupati che beneficiano di sostegno al reddito (ad esempio i lavoratori socialmente utili). Per i soggetti percettori di ammortizzatori sociali, disoccupati o inoccupati beneficiari di forme di sostengo al reddito il Ministero mette in atto, in sinergia con le Regioni, progetti e programmi di incentivazione al reinserimento o inserimento lavorativo. Cassa integrazione guadagni ordinaria (CIGO) L’intervento ordinario della CIG ha la funzione di sostegno del reddito dei lavoratori nelle situazioni di mera contrazione dell’attività produttiva di natura congiunturale ( eccezionale impossibilità o difficoltà di esercizio dell’attività produttiva nel breve periodo), nell’ambito del settore industriale: si tratta delle sospensioni del lavoro e delle riduzioni dell’orario del lavoro: dovute ad eventi transitori non imputabili né al datore di lavoro né ai lavoratori; determinate da situazioni temporanee di mercato ( cause integrabili). L’intervento ordinario era originariamente previsto solo per gli operai, ma in seguito è stato esteso agli impiegati e ai quadri intermedi. L’ammontare del trattamento corrisposto ai lavoratori è pari all’80% della retribuzione che sarebbe loro spettata per le ore non lavorate. La legge impone una procedura di informazione e

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consultazione sindacale con le rappresentanze sindacali aziendali, da svolgersi di norma in via preventiva, rispetto alla riduzione o sospensione dell’attività produttiva. Successivamente alla procedura di informazione e consultazione sindacale, vi è la fase del procedimento amministrativo di concessione dell’integrazione salariale, che si sviluppa presso la sede provinciale dell’INPS. La durata massima dell’integrazione ordinaria è di tre mesi continuativi. Tuttavia, in casi eccezionali può essere prorogata trimestralmente fino ad un massimo complessivo di un anno.

Fonte INPS, valori espressi in ore, 2009

Fonte INPS, valori espressi in ore, 2009

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Cassa integrazione straordinaria (CIGS) Intervento straordinario della CIG è stato istituito per le imprese del settore industriale, ed attraverso la sospensione dei rapporti di lavoro è rivolto ad assicurare la continuità del reddito e dell’occupazione dei lavoratori temporaneamente allontanati dal processo produttivo, nonché, attraverso la limitazione dei licenziamenti, a consentire all’impresa di conservare il patrimonio di professionalità in essa maturato. L’intervento straordinario è destinato a fronteggiare situazioni di tipo strutturale, e cioè di durevole seppure non necessariamente definitiva eccedenza di personale. Le cause integrabili in presenza delle quali può essere concessa l’integrazione straordinaria sono costituite dalle ipotesi di: ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale e di crisi aziendale che presenti particolare rilevanza sociale. Inoltre l’intervento straordinario è previsto per le imprese assoggettate ad una procedura concorsuale. L’intervento straordinario della CIG può essere concesso solo alle imprese che nel semestre antecedente la data di presentazione della richiesta abbiano occupato mediamente più di 15 dipendenti, tenuto conto anche degli apprendisti e dei giovani assunti con contratto di formazione e lavoro. L’integrazione salariale straordinaria spetta ad operai, impiegati e quadri intermedi che abbiano un’anzianità di servizio presso l’azienda di almeno 90 giorni e che siano sospesi dal lavoro. La misura dell’integrazione è pari all’80% della retribuzione che sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate. Passando a considerare le procedure per la concessione del trattamento va detto che l’impresa è tenuta ad esperire in via preventiva la procedura di consultazione sindacale; l’impresa successivamente, dovrà presentare la richiesta di ammissione all’intervento ( al Ministro nelle ipotesi di crisi aziendale o alla Direzione Provinciale del Lavoro negli altri casi) in cui si attesti l’avvenuta consultazione sindacale, corredata dal programma di risanamento che essa intende attuare. Quanto alla durata dell’intervento, nell’ipotesi di: ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale, la durata del programma, nonché quella del trattamento di integrazione salariale, non può essere superiore a due anni. Nel corso dell’attuazione del programma, tuttavia, l’impresa può richiederne una modificazione, ed in tal caso il Ministro del Lavoro può autorizzare fino a due proroghe ciascuna del periodo di 12 mesi, qualora il programma stesso presenti una particolare complessità. Nelle crisi aziendali la durata massima del programma e del trattamento è di 12 mesi e non sono consentite proroghe. Indennità di disoccupazione In caso di cessazione del rapporto di lavoro per scadenza del termine, per licenziamento e per alcuni casi di dimissioni, al lavoratore spetta un sostegno economico: l'indennità di disoccupazione ordinaria. Per richiederla occorre presentare la domanda di disoccupazione all'Inps, anche tramite entro 68 giorni dal licenziamento. Il diritto decorre dall’8° giorno dal licenziamento se la domanda è stata presentata entro i primi 7 giorni; dal 5° giorno successivo alla presentazione della domanda negli altri casi. Possono presentare la domanda i lavoratori con almeno due anni di assicurazione per la disoccupazione involontaria con una anzianità contributiva di almeno 52 settimane lavorative nel biennio precedente la data di cessazione del rapporto di lavoro che hanno versato almeno un contributo settimanale nell’anno precedente a quello per il quale si chiede l’indennità e hanno lavorato almeno 78 giornate nell’anno precedente a quello nel quale è erogato il contributo Al disoccupato viene corrisposta l’indennità per un periodo di 180 giorni. Dal 1° gennaio 2008 l’indennità passa a 8 mesi che diventano 12 per i lavoratori che hanno superato i 50 anni. Ai lavoratori che sono stati sospesi, spetta invece il contributo per un massimo di 65 giorni.

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L’indennità è pari al 40% della retribuzione media percepita nei 3 mesi precedenti l'inizio della disoccupazione. L'indennità è soggetta al limite di un importo massimo mensile lordo di € 858,58 elevato a € 1.031,93 per i lavoratori che possono far valere una retribuzione lorda mensile superiore a € 1.857,48. Dal 1° gennaio 2008 la percentuale passa al 60% della retribuzione per i primi sei mesi e al 50% per il settimo mese e al 40% per i mesi successivi. L’indennità cessa quando:

• si sono percepite tutte le giornate di indennità • si inizia un nuovo lavoro • si va in pensione • si viene cancellati dalle liste di disoccupazione.

Conclusioni

Nel corso degli ultimi anni la flexsicurity è divenuta uno degli obiettivi principali dell’Unione europea in materia di occupazione e sviluppo economico. Nel rapporto 2006 sull’Occupazione gli Stati membri sono stati classificati sulla base di cinque modelli di flexsicurity systems e l’Italia è stata inserita nel gruppo dei Paesi dell’Est, con un livello di sicurezza sociale molto basso se non totalmente assente, un livello di flessibilità medio-alto ed un livello di tassazione medio-basso.

Nel nostro Paese la flexsicurity presuppone quindi cambiamenti di grande rilevanza. Non ci potrà essere, infatti, flexsicurity senza una riforma profonda degli ammortizzatori sociali che introduca anche un sistema efficace di sussidi e controllo sull’erogazione degli stessi.

Non ci potrà essere una elevata mobilità senza un apprendimento permanente di qualità. Attualmente l’Italia ha un sistema di ammortizzatori sociali poco ordinato e del tutto

disorganizzato, è rivolto prevalentemente al settore industriale, risulta essere poco virtuoso perché non aiuta i disoccupati a trovare lavoro, non è efficace perché non concorre al reinserimento dei lavoratori qualificati sul mercato, non è funzionale non rispondendo alle esigenze delle imprese, infine, non è efficiente perché al suo interno prevalgono proroghe, eccezioni e complessità normative.

In linea con quanto considerato in questo lavoro appare, in conclusione, utile interrogarsi sull’adattabilità in Italia di un modello di flexsicurity ispirato all’esperienza danese.

Innanzitutto si riscontrano problemi circa la segmentazione del mercato, in questo caso risulta difficile assimilare il modello di flexsicurity dato che, prerequisito essenziale di tale modello è proprio l’assenza di ogni forma di segmentazione.

La situazione delle finanze pubbliche italiane non sembrerebbe al momento consentire l’ingente allocazione di risorse aggiuntive agli attuali schemi di ammortizzatori sociali e politiche attive che sarebbe necessaria per realizzare un coerente ed esteso modello di flexsicurity, anziché un mero intervento compensatorio verso i lavoratori più svantaggiati.

In secondo luogo, tutta la serie di peculiarità del sistema socio-economico (e politico) italiano rende alquanto improbabile la replicabilità dei successi registrati dal modello danese. Tra esse spiccano: la carenza di fiducia reciproca fra parti sociali e autorità politiche, che rimane cruciale per il successo del modello sociale scandinavo; la forte disomogeneità territoriale tra Nord e Sud che impedisce un equo ed efficiente sviluppo del welfare locale; elevata presenza di economia sommersa che indubbiamente elimina risorse che servirebbero da input per un inizio di riforme; il tipo di specializzazione produttiva, bassa, causata sia da uno scarso investimento in nuove tecnologie (R&S) da parte degli imprenditori che genera una bassa domanda di lavoro specializzato.

Schematizzando le problematiche italiane: • Mercato segmentato • Finanza pubblica ed economia sommersa • Dialogo parti sociali • Disomogeneità territoriale • Specializzazione produttiva

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In altri termini, esclusi i problemi di finanziamento delle politiche del lavoro, l’applicabilità del

modello di flexsicurity non può essere valutata indipendentemente dal contesto produttivo del Paese e dal ruolo che potrebbero svolgere, nel prevenire esiti perversi, misure complementari riguardanti molti ambiti, quali ad esempio la politica industriale e l’accumulazione del capitale umano.

Il processo di adattamento ad un modello virtuoso presente in diversi contesti appare molto complesso e per nulla scontato nel suo esito positivo, piuttosto che inseguire irraggiungibili modelli nazionali, l’attenzione dovrebbe rivolgersi nel breve periodo alla riduzione dei fattori che stanno generando l’acuirsi delle segmentazioni sul mercato del lavoro. Estendere alle nuove forme di lavoratori livelli di contribuzione, retribuzione e tutele più elevati, in modo da attenuare il grave fenomeno di segmentazione, la segmentazione va d’altronde intesa sia come mera presenza di forme contrattuali con differenti tutele sia, come disparità di retribuzioni e prospettive.

La persistenza negli status svantaggiati sembra avvenire soprattutto a discapito delle fasce di lavoratori più deboli, le donne, i meridionali, i giovani e gli immigrati; sembra quindi necessario un raccordo tra politiche attive e passive riorganizzando i Centri per l’Impiego dotandoli di risorse umane capaci di formare ed orientare i disoccupati nel mercato del lavoro.

Nel complesso una serie di riforme e di provvedimenti in questa direzione, con un maggiore equilibrio tra gli eccessi di flessibilità tecnologico-produttiva con gli eccessi di rigidità nel mercato dei beni sfruttando le dinamiche di flessibilità per investire in settori produttivi avanzati, porterebbe a meno rendite di posizione, maggiore concorrenza, più produttività, maggiore domanda di consumo e maggiore equità sociale, sarebbe un input da considerare in modo serio per tentare di contribuire alla crescita del Paese ed al futuro delle prossime generazioni. Bibliografia Amoroso B., Luci e ombre del modello danese, Convegno Università Roma Tre, 2006. Amoroso, Rapporto della Scandinavia, Laterza, Bari, 1980. Andersen S.K., Mailand M., The Danish Flexicurity Mode, The Role of the Collective Bargaining System, Employment Relations Research Centre, Department of Sociology University of Copenhagen, 2005. Boeri T., Garibaldi P., Un nuovo contratto per tutti, per avere più lavoro, salari più alti e meno discriminazione. Chiarelettere, Padova, 2008. Borioni P., Welfare Scandinavo, welfare italiano: il modello sociale europeo,Carocci, Roma, 2005. Bronzini G., Come evitare la segmentazione del mercato del lavoro: la filosofia europea della flexicurity e i contratti a termine, in newsletter n. 10 del sito http://www.europeanrights.eu, e su Rivista critica di diritto del lavoro. Commissione Europea, Comunicazione, verso principi comuni di flexicurity: posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza, 2007. Commissione delle Comunità Europee, Rapporto, Flexicurity Pathways. Turning hurdles into stepping stones, Rapporto della. Direzione Generale per l’Occupazione, gli Affari Sociali e le Pari opportunità della Commissione europea, 2007.

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Lavoro atipico: nuovi lavori, transizione Università-Lavoro, Legge Biagi Valeria Andretta, Valeria Pandolfi, Claudia Paparazzo

Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Economia “Federico Caffè”

1. Introduzione L’obiettivo di questo studio è quello di esaminare l’attuale situazione del mercato del lavoro italiano, attraverso l’analisi dei cambiamenti economici, giuridici e sociali intercorsi nel paese a partire dagli anni ’80. Il quesito che si solleva è relativo all’efficacia delle numerose tipologie di lavoro cosiddette atipiche, ovvero alla rispondenza degli obiettivi di occupabilità e flessibilizzazione raggiunti con l’immissione di tali tipologie, con quelli che originariamente ne avevano determinato l’introduzione nel contesto italiano. Particolare attenzione è stata rivolta al ventaglio di possibilità lavorative che si aprono ai giovani laureati, partendo dalla considerazione che tra i vari fini perseguiti dalle riforme che hanno interessato il mercato del lavoro, vi era proprio quello di migliorare i tassi di attività di questa fascia di popolazione. La spinta verso una ricerca di questo tipo è stata motivata dalla curiosità di indagare le ragioni per le quali riforme che avevano come obiettivo l’eliminazione delle rigidità del nostro mercato lavorativo siano poi sfociate, troppo spesso, nell’eliminazione di consolidate protezioni e tutele per i lavoratori. Al fine di comprendere perché con il passare del tempo con sempre maggiore frequenza si senta evocare il temine di precarietà più che quello di flessibilità, abbiamo concentrato la nostra attenzione sulle effettive prospettive di inserimento nel mercato del lavoro a seguito del perseguimento di un titolo di laurea, e sulla condizione occupazionale a seconda delle facoltà scelte. Inoltre abbiamo verificato l’effettiva coerenza tra titolo conseguito e lavoro svolto, ma soprattutto ciò che ha colpito la nostra attenzione è stato l’esame dei tassi di conversione tra lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato( molto spesso troppo bassi). 2. Evoluzione del Mercato del Lavoro in Italia Nel 1945, all’indomani della seconda guerra mondiale, si può dire che l’economia italiana avesse appena avviato il processo di industrializzazione. Non mancavano anche allora produzioni industriali avanzate e diversificate ma queste erano prevalentemente concentrate nel cosiddetto “triangolo industriale” mentre le altre regioni, salvo rare eccezioni locali, restavano essenzialmente agricole. Il paese si ritrovava in questa situazione a fronteggiare due questioni: da un lato si rendeva necessario ristrutturare e sviluppare l’apparato industriale e dall’altro bisognava fronteggiare gli alti livelli di disoccupazione. Durante il periodo del miracolo economico ( ‘55-‘63 ) si da il via alla riorganizzazione economica a livello di infrastrutture che determina la nascita di realtà industriali, prevalentemente di stato, con le quali si introducono in Italia nuove tecniche di management e nuovi criteri di produttività. Lo sviluppo veloce della produzione unito al flusso cospicuo di emigrazione verso Svizzera, Francia e Germania, contribuisce a risolvere almeno temporaneamente il problema della disoccupazione. Negli anni ’60 il flusso migratorio verso i paesi europei comincia a declinare facendo riemergere le medesime problematiche. Al tempo stesso, le lotte sindacali già iniziate nel ’59 nel nord Italia riprendono e toccano il culmine nell’autunno caldo del 1969. Si affrontano i temi dell’organizzazione del lavoro realizzando sia significativi miglioramenti degli ambienti lavorativi che della condizione in cui questo è svolto. Si apre una riflessione, a seguito di iniziative sindacali, sulle lavorazioni a ritmo vincolato e sui limiti del taylorismo.

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Si realizzano anche soluzioni innovative, sia pure in isole sperimentali ed inizia a prendere piede un tentativo di automazione integrale dei lavori a catena. Tutta questa fase in termini molto generali è caratterizzata da una diminuzione del lavoro agricolo e da una crescita del lavoro industriale che si associa a processi di urbanizzazione e di trasformazione della struttura e delle relazioni familiari. Negli anni ’70 l’economia mondiale affronta due crisi del petrolio ( 1973-1979 ) che portano ad un periodo di stagnazione economica e forte inflazione ( la stagflazione ) che incide negativamente anche sulla disoccupazione; come risposta a questo periodo buio inizia il grande processo di ridefinizione dei rapporti tra capitale e lavoro in Europa e negli Usa, attraverso le grandi ristrutturazioni degli anni ’80 e ’90. Infatti l’ Ottobre 1980 rappresenta l’avvio simbolico ( ma non solo ) di un’altra stagione, che potremmo definire “autunno freddo” e contemporaneamente, la certificazione di un mutamento di scenario profondo e rapido, di una drastica transizione dal preindustriale con i suoi vecchi valori, al postindustriale, con i suoi nuovi problemi fra i quali, un diverso ruolo dell’azienda e delle sue risorse umane ( rivalutazione del capitale umano) dovuto al fenomeno della globalizzazione. La globalizzazione ha impresso un dinamismo senza precedenti al sistema economico, sia internazionale che nazionale, ma la riduzione delle barriere doganali, la libera circolazione di beni e servizi, la liberalizzazione dei mercati finanziari e la delocalizzazione dei processi produttivi, hanno posto le economie nazionali in una situazione di competitività esasperata. Le imprese, i sistemi commerciali, gli operatori economici non possono più affidarsi ai confini protettivi del proprio Stato perché globalizzazione in primo luogo significa piena liberalizzazione economica a cui tutti i paesi devono gradualmente adeguarsi. Nel mercato mondiale sopravvivono soltanto coloro che riescono a reggere il confronto con gli altri soggetti economici, perché la dinamica della globalizzazione, così come oggi si manifesta, non garantisce a tutti le stesse condizioni di partenza. Anche in Italia nel corso degli ultimi vent’anni in risposta alle problematiche legate all’occupazione ed ai bassi tassi d’attività della componente giovanile, femminile e dell’area del mezzogiorno, il governo ha iniziato ad introdurre una serie di trasformazioni nel mercato del lavoro. L’obiettivo era quello di flessibilizzare il mercato del lavoro e di migliorare l’utilizzo e la circolazione delle risorse all’interno del sistema economico. Dal punto di vista macroeconomico si riteneva infatti che una flessibilità maggiore nel mercato avrebbe permesso una crescita dei tassi di attività. A questo fine si sono progressivamente semplificate le condizioni per il ricorso da parte delle imprese a forme di lavoro atipico ( tempo determinato, part-time, lavoro temporaneo tramite agenzia, contratti a causa mista, ecc.). Troviamo una crescente importanza di nuove figure contrattuali che si affiancano a quelle più tradizionali ( a tempo indeterminato e orario pieno ). Le politiche del lavoro adottate in Italia dagli anni ’90 in poi sono state incentrate sull’introduzione di queste nuove tipologie, che sono andate ad accrescere la quota dei cosiddetti “atipici”. Un rapporto di lavoro “atipico in senso stretto” si ha quando il tipo di contratto utilizzato è intrinsecamente diverso da quello standard ( regolare, dipendente, a tempo pieno e durata indeterminata ); mentre definiamo come “parzialmente atipico” un rapporto di lavoro regolato da un contratto molto vicino a quello standard, ma tuttavia caratterizzato da aspetti atipici nella prestazione lavorativa ( luogo di lavoro, durata, ecc..). Il caso più importante tra i rapporti di lavoro parzialmente atipici è il part-time a tempo indeterminato che, diversamente da quanto è avvenuto negli altri paesi europei, è stato introdotto in Italia con la legge n.463 del 1984 e ha cominciato ad avere rilievo solo nell’ultimo decennio.

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3. Il lavoro temporaneo in Europa La quantificazione del fenomeno del lavoro atipico dipende ovviamente dalla definizione che si sceglie per lo stesso. L’Eurostat opta per una basata su un’ osservazione diretta e definisce come temporanei quegli impieghi che hanno una durata contrattualmente determinata ( una data o il completamento di un incarico assegnato ), restringendo l’analisi alla sola occupazione dipendente. Sulla base di tale definizione, gli occupati temporanei in Italia ( pari a poco più di 2 milioni nel 2005 ) pesavano sul totale dei dipendenti per il 12,3 %; la quota sui dipendenti risultava così ad un livello più che doppio di quello registrato ad inizio degli anni novanta. Il lavoro temporaneo in Europa Incidenza % sul totale occupati dipendenti (15-64) Fonte Eurostat Come emerge dal grafico di cui sopra, il nostro paese è quello che tra il 1990 ed il 2005 ha registrato l’incremento più marcato dei lavori temporanei sull’occupazione dipendente. In termini di livelli, però, l’Italia presenta ancora, in questo periodo, misurazioni in relazione al lavoro a termine ( come definito da Eurostat ) non molto diverse, pur lievemente più basse, rispetto a quelle della media dell’area euro. Francia e Germania si attestano sempre nel 2005, rispettivamente, al 14,3 % e 13,3 %. La Spagna, costituisce un caso degno di nota: nel 2005 un lavoratore dipendente su tre aveva un contratto temporaneo. L’elevata presenza del lavoro temporaneo è il risultato di scelte precise di policy: per recuperare sul gap di sviluppo con la media europea, l’economia spagnola ha puntato soprattutto sulla crescita dell’occupazione, utilizzando forme contrattuali a termine e liberalizzando il mercato del lavoro. 4. Caratteristiche del lavoratore atipico Effettuando delle elaborazioni sulla base dei microdati ottenuti dalle rilevazioni sulle forze lavoro compiute dall’Istat si rende possibile l’individuazione delle caratteristiche generali di questa tipologia di lavoratori. Si osserva innanzitutto come l’impiego a termine interessi principalmente le donne e i giovani. Tra gli occupati con meno di 30 anni, quasi un lavoratore su quattro ( il 24,8 % ) è un dipendente a tempo determinato; all’aumentare dell’età la diffusione di questo tipo di contratti si riduce. Nel corso del 2007, però, l’occupazione a termine è cresciuta soprattutto per le persone di età più avanzata( con almeno 35 anni ), mentre per i più giovani è rimasta stabile.

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1990 1995 2000 2001 2002 2003 2004 2005

Area euro

Spagna

Germania

Francia

Italia

UK

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Per quanto riguarda, invece, la diffusione di tale fattispecie all’interno dei diversi settori, il ricorso a lavoratori a termine si verifica più frequentemente nell’agricoltura e nell’industria alberghiera e nella ristorazione. Una motivazione è ravvisabile nel fatto che in questi campi si fa ampio ricorso ai lavoratori stagionali. Altri settori in cui i dipendenti a termine risultano particolarmente diffusi sono l’istruzione, sanità e servizi sociali, così come i servizi alle persone, nei quali l’impiego a termine, è spesso utilizzato per occupare posti vacanti ( mediante gli incarichi a termine, usati nella scuola o nella sanità ) o per sostituire personale assente: in questi settori, peraltro, l’occupazione femminile incide più che in altri, e quindi risultano frequenti sostituzioni di lavoratrici in maternità. Facendo riferimento alla diffusione del lavoro a termine a seconda delle ripartizioni geografiche, tali tipologie di lavoro risultano ampiamente diffuse soprattutto nel Mezzogiorno: questo riflette la peculiare struttura produttiva dell’area, dove pesano di più, rispetto a quanto accade nel Centro-Nord, quei settori in cui il ricorso al lavoro a termine si verifica con una maggior frequenza( agricoltura, turismo, scuola ). Si viene a delineare così l’immagine di un lavoratore temporaneo con caratteristiche specifiche: donna, giovane, residente al centro-sud. Esaminando la diffusione del lavoro temporaneo per titoli di studio si osserva come sia più elevata tra gli occupati aventi titoli elevati: oltre il 15 % degli occupati aventi una laurea o titoli post-laurea risulta essere temporaneo; queste forme contrattuali sembrano interessare meno i lavoratori caratterizzati da bassi livelli di istruzione. 5. I Rapporti di lavoro Nell’ordinamento italiano il rapporto di lavoro è il rapporto che ha origine dal contratto di lavoro ed è caratterizzato da molteplici situazioni giuridiche, di cui due obbligazioni principali: l’obbligazione in capo al datore di lavoro della retribuzione e l’obbligazione in capo al lavoratore della prestazione lavorativa. L’esigenza di tutelare la persona occupata ad eseguire un lavoro è avvertita con particolare intensità quando il lavoro promesso deve essere prestato alle dipendenze e nell’interesse e altrui e, cioè, nel caso del lavoro subordinato. Ai sensi dell’art. 2094 del Codice Civile è il lavoratore che opera “alle dipendenze o sotto la direzione dell’ imprenditore”. Tale definizione parte dal presupposto che vi sia un' assoggettamento del prestatore di lavoro nei confronti del datore di lavoro, assoggettamento identificabile nella possibilità da parte del datore di lavoro di poter determinare modalità e tempi di esecuzione dell'oggetto dell'obbligazione sorta dal contratto stipulato dalle parti. Criteri per l’identificazione di tale fattispecie sono : la continuità della prestazione, che presuppone la natura dell'oggetto come attività e non risultato; l'obbligo di un determinato orario di lavoro più o meno flessibile, ma comunque determinato; una retribuzione anch'essa fissa e determinata, con l'assenza di rischio per il lavoratore. Accanto a questa tipologia di rapporto giuridico vi sono anche altre situazioni tutelate dall’ordinamento. Tra queste troviamo in particolare i contratti di lavoro parasubordinato. Nel diritto italiano, questi ultimi indicano un tipo di lavoro che presenta caratteristiche intermedie tra quelle del lavoro subordinato e quelle del lavoro autonomo. Di sicura rilevanza sul piano processuale, hanno sempre maggiori implicazioni anche sostanziali, soprattutto in seguito all’entrata in vigore del d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276, recante attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30 (c.d. legge Biagi). Rappresentano una forma di collaborazione svolta in maniera continuativa, collegata con la struttura organizzativa del datore di lavoro. Sono considerati lavoratori parasubordinati: i lavoratori a progetto ed i collaboratori occasionali. 1 Il lavoratore autonomo è “colui che si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”.

1

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Per i lavoratori parasubordinati è stata pensata l’iscrizione alla Gestione Separata Inps, la quale prevede che i lavoratori parasubordinati abbiano diritto ad alcune prestazioni erogate dall’Inps. Di conseguenza possiamo notare come l’attività lavorativa possa costituire oggetto di obbligazioni derivanti da contratti diversi da quello di lavoro subordinato, destinati a realizzare differenti assetti di interessi. Accanto al contratto di lavoro autonomo le esigenze poste dalle modificazioni delle strutture e dei metodi di produzione hanno, da tempo, determinato il ricorso a nuove tipologie contrattuali che implicano modalità di svolgimento simili, all’apparenza, a quelle proprie del rapporto di lavoro subordinato. 6. Norme in materia di promozione dell’ occupazione I mutamenti sociali ed economici, che ad un primo stadio hanno inciso sulle caratteristiche di durata del contratto di lavoro limitando l’instaurazione di rapporti a tempo indeterminato, in un secondo momento sono stati volti a modificare anche l’altra tipica caratteristica del rapporto di lavoro subordinato ovvero la continuatività . Il fine che si è voluto perseguire è stato “quello di apprestare nuovi modelli di disciplina del rapporto di lavoro in grado, da un lato, di soddisfare le esigenze delle imprese di costante e tempestivo adeguamento delle risorse del proprio organico all’irregolare andamento della domanda di beni e servizi proveniente dal mercato e, d’altro lato, di fornire opportunità di lavoro che, contribuiscono a realizzare gli obiettivi di incremento dell’occupazione ritenuti essenziali..”(Diritto del Lavoro-Persiani, Proia Cedam2008). Le principali riforme a modifica delle tipologie contrattuali preesistenti sono state introdotte da tre normative. La prima è rappresentata dalla legge 196/97 ribattezzata Pacchetto Treu, che contiene disposizioni atte a disciplinare determinati istituti (apprendistato, tirocini, lavoro interinale) disposizioni sulla produzione legislativa futura e disposizioni di rinvio della contrattazione sociale. In seguito nel 2001 con il d.lgs 6 settembre 2001, n.368 è stata elaborata la normativa dei contratti a tempo determinato, la quale rappresenta attualmente l’intervento di maggior rilievo nell’ambito dei processi di modernizzazione del mercato del lavoro italiano. La nuova disciplina ha come prerogativa la revisione totale l’istituto, attraverso l’abrogazione della normativa del 1962 e il ridisegno sostanziale delle modalità di accesso e di utilizzo del contratto a tempo determinato, con l’obiettivo di favorirne il ricorso in linea con quanto avviene con gli altri paesi europei. Infine di fondamentale importanza è risultata essere la disciplina introdotta con la legge 30 del 14febbraio 2003 detta Legge Biagi, paragonabile per le novità in essa inserite allo Statuto dei Lavoratori. Quest’ultima ha introdotto e modificato: dalla somministrazione all’apprendistato, al contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente o al lavoro accessorio e al lavoro occasionale, nonché il contratto a progetto. Inoltre ha disciplinato le agenzie di somministrazione di Lavoro abrogando l’istituto del lavoro interinale, ha introdotto procedure di certificazione e la Borsa continua nazionale del lavoro, ossia un luogo di incontro tra domanda e offerta di lavoro.

7. Tipologie lavorative atipiche Prima di introdurre le tipologie lavorative atipiche (subordinate e parasubordinate) può risultare utile delineare le caratteristiche del contratto di lavoro standard. Il contratto a tempo indeterminato si ha quando non è fissata a priori la durata, e riguarda la generalità dei contratti di lavoro (contratti tipici). Per il lavoratore, l'assunzione a tempo indeterminato è il contratto che offre maggiori garanzie. L'azienda, infatti, è obbligata ad assicurare (tramite l'INAIL) il dipendente, che viene così tutelato in caso di possibili danni a sé e a terzi mentre svolge la propria prestazione, versa le imposte sul reddito al posto del dipendente (la legge prevede infatti che l'azienda sia il "sostituto d'imposta" del lavoratore), e paga inoltre i contributi per la pensione all'INPS.

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Al dipendente spettano poi un certo numero di giorni di ferie pagate dall'azienda, la tredicesima (ovvero uno stipendio oltre a quello dei dodici mesi) e, per le donne, i permessi per la maternità corrispondenti a un minimo di cinque mesi con la garanzia di non perdere l'impiego. Nessun lavoratore può poi essere licenziato "in tronco" se non per giusta causa (se commette un furto, ecc.) oppure per giustificato motivo (crisi dell'azienda o chiusura della stessa). Il contratto di assunzione può prevedere, con atto scritto, un periodo di prova di durata variabile a seconda del livello e dell'inquadramento (si va da un minimo di 15 giorni per gli operai a periodi di sei mesi per quadri e dirigenti). Durante questo periodo, sia il lavoratore che l'azienda possono interrompere il rapporto senza preavviso, ovvero da un giorno all'altro, per qualunque motivo. Anche dopo il periodo di prova, il lavoratore può dare le dimissioni quando lo desidera. E' tenuto però a dare all'azienda un tempo di preavviso (variabile a seconda del livello e dell'anzianità) prima di poter lasciare definitivamente la società. L'impresa è quindi tenuta a pagare al proprio dipendente il "trattamento di fine rapporto" (la cosiddetta liquidazione), che sarà maggiore quanto più lungo è stato il rapporto di lavoro. 7.1. Contratti di lavoro subordinato - Contratto a tempo determinato: In particolari situazioni le aziende sono autorizzate ad assumere dipendenti a tempo determinato: ciò significa che, terminato il periodo indicato dal contratto, il lavoratore terminerà la sua prestazione e non riceverà ulteriore retribuzione. L'assunzione del lavoratore con contratto a termine è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. L’atto scritto deve riportare il termine, La legge non fissa limiti massimi di durata del contratto di lavoro. La normativa consente la proroga del contratto solo quando la durata iniziale sia “inferiore a tre anni” e vi sia il “consenso del lavoratore”. La proroga è permessa una sola volta sulla base di “ragioni oggettive” e a condizione che la durata complessiva del rapporto a termine non sia superiore a 36 mesi. La norma è stata parzialmente modificata dalla Legge 247/2007 che ha introdotto la possibilità di proroga unica oltre tale periodo a condizione che la stipula avvenga presso la Direzione Provinciale del Lavoro, con l’assistenza di un rappresentante delle organizzazioni sindacali. -Contratto di inserimento: La legge Biagi pone termine all'esperienza del contratto di formazione e lavoro (cfl) nel settore privato, che cessa di esistere e viene sostituito con "il contratto di inserimento". Questo nuovo contratto ha la funzione di inserire o reinserire il lavoratore nel mercato del lavoro mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali a un determinato contesto lavorativo. Il contratto di formazione e lavoro, rimane, invece, applicabile nelle pubbliche amministrazioni. Il progetto consiste in un piano personalizzato che prevede il raggiungimento di un obiettivo di medio-lungo periodo e comunque la fissazione di orientamenti lavorativi, linee guida e regole di condotta per agevolare il lavoratore ad entrare nel vivo dell’attività produttiva. -Somministrazione di lavoro La somministrazione di manodopera permette ad un soggetto (utilizzatore) di rivolgersi ad un altro soggetto appositamente autorizzato (somministratore), per utilizzare il lavoro di personale non assunto direttamente, ma dipendente del somministratore. Nella somministrazione occorre distinguere due contratti diversi: un contratto di somministrazione, stipulato tra l'utilizzatore e il somministratore, di natura commerciale; un contratto di lavoro subordinato stipulato tra il somministratore e il lavoratore. II rapporto di lavoro interinale finora regolato dalla legge 196/97 è stato sostituito dalla somministrazione di lavoro.

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Le differenze tra i due contratti sono rilevanti. Soprattutto per due ragioni. La prima: si sono rese possibili due tipi di somministrazione, a tempo determinato e a tempo indeterminato. La seconda: sono state modificate le causali per le quali è ammesso ricorrere alla somministrazione a tempo determinato: esse non sono più quelle fissate dalla contrattazione collettiva per far fronte a situazioni di natura eccezionale e temporanea, ma possono dipendere da ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive anche legate all'ordinaria attività dell'impresa. -Apprendistato L'apprendistato è un contratto di lavoro a causa mista ovvero prevede che, in aggiunta al rapporto di lavoro vero e proprio, l'azienda si impegni a fornire al giovane apprendista la formazione necessaria per diventare un lavoratore qualificato. Con l'innalzamento a 18 anni dell'obbligo formativo i minorenni possono scegliere di adempiere a questo obbligo facendosi assumere come apprendisti. La riforma ha individuato tre diverse tipologie di apprendistato a cui corrispondono differenti finalità di tipo formativo: - Apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione - Apprendistato professionalizzante per il conseguimento di una qualificazione - Apprendistato per ottenere un diploma di istruzione secondaria o universitario -Part-time Il contratto di lavoro a tempo parziale si differenzia da quello a tempo pieno solo per il minor numero di ore di lavoro: diritti e doveri del lavoratore sono perciò gli stessi dei colleghi che lavorano full time.Il contratto può essere sia a tempo determinato che indeterminato e deve indicare per iscritto il numero e la distribuzione delle ore di lavoro: ogni modifica in tal senso potrà essere effettuata dall'azienda solo con il consenso del lavoratore. Il rapporto “a tempo” instaurato da questa fattispecie contrattuale può essere di tre tipi:misto, quello in cui si lavora per tutti i giorni della settimana, ma per un minor numero di ore rispetto ai lavoratori a tempo pieno (ad esempio 4 ore di lavoro per 5 giorni). Orizzontale, quello in cui si presta la propria attività a orario intero solo per alcuni giorni della settimana o del mese, mentre in altri giorni non si lavora (ad esempio 8 ore al giorno per tre giorni alla settimana). Verticale, quello in cui si il lavoro viene svolto solo in determinati periodi prestabiliti dell'anno (ad esempio solo nei mesi di giugno, luglio e agosto) a tempo pieno o parziale. Questa forma di part-time permette all'azienda che abbia necessità di lavoro solo stagionale di assumere comunque a tempo indeterminato. - Lavoro ripartito (job-sharing) è un rapporto di lavoro speciale, mediante il quale due lavoratori assumono in solido l'adempimento di un'unica e identica obbligazione lavorativa. La solidarietà riguarda le modalità temporali di esecuzione della prestazione nel senso che i lavoratori possono gestire autonomamente e discrezionalmente la ripartizione dell'attività lavorativa ed effettuare sostituzioni fra loro. Entrambi sono direttamente e personalmente responsabili dell'adempimento dell'obbligazione. Questa forma contrattuale ha l'obiettivo di conciliare i tempi di lavoro e di vita, attraverso nuove opportunità di bilanciamento tra le esigenze di flessibilità delle imprese e le esigenze dei lavoratori. -Contratto di lavoro intermittente Il contratto di lavoro intermittente (o a chiamata) è un contratto di lavoro mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione del datore di lavoro per svolgere prestazioni di carattere discontinuo. Questo contratto costituisce una novità per l'ordinamento italiano ed è previsto in due forme: con o senza obbligo di corrispondere una indennità di disponibilità, a seconda che il lavoratore scelga di essere o meno vincolato alla chiamata.

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L'obiettivo del contratto intermittente è la regolarizzazione della prassi del cosiddetto lavoro a fattura, usato per le richieste di attività lavorativa non occasionale. Rappresenta anche un'ulteriore possibilità di inserimento o reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro. 7.2. Contratti di lavoro Parasubordinato -Lavoro a progetto Le collaborazioni coordinate e continuative sono diventate con la riforma Biagi lavoro a progetto. Il lavoro a progetto è quello riconducibile a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso.In cui per progetto s'intende un'attività collegata ad un risultato a cui il collaboratore partecipa direttamente con la sua prestazione. Il progetto deve contenere l'indicazione del risultato che si prefigge il committente ed il termine entro cui deve essere raggiunto. E per programma s'intende un tipo di attività che non deve necessariamente giungere ad un risultato finale. -Lavoro occasionale È il rapporto di lavoro a progetto con il carattere dell’occasionalità (una durata complessiva non superiore a trenta giorni ) nel corso dell’anno solare con uno stesso committente e che sia compensato con un corrispettivo non superiore a 5 mila euro. Non è richiesta l’iscrizione in un Albo professionale né l’apertura di una partita Iva, in quanto il corrispettivo versato dal datore di lavoro è soggetto ad una ritenuta d’acconto pari al 20% dell’importo. Il lavoro occasionale accessorio. Si tratta di prestazioni di natura occasionale svolte da persone non ancora entrate nel mercato del lavoro o in procinto di uscirne, e ancora da soggetti a rischio di esclusione sociale. La legge Biagi si propone così di far emergere il sommerso che accompagna alcune attività lavorative, favorendo anche l’inserimento di fasce deboli del mercato del lavoro. A tale rapporto non si applica la disciplina del lavoro a progetto. -Collocamento Il sistema previsto dalla L.264 del 1949 ( inalterato fino agli anni 80 ) era inefficace perché aveva una prospettiva statica così il legislatore ha previsto una radicale riforma del collocamento. In un primo momento è stato abolito l’obbligo di richiesta numerica, successivamente anche l’obbligo di richiesta preventiva, sostituito dall’obbligo della comunicazione dell’avvenuta assunzione. Inoltre viene generalizzata la possibilità di assunzione diretta. Già per effetto di tali riforme, la funzione del collocamento non è più quella di garantire l’equa distribuzione delle occasioni di lavoro ma quella di raccogliere le informazioni necessarie per predisporre adeguate politiche di occupazione e favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. 8. Limiti e critiche alle riforme A seguito delle riforme sulla flessibilità abbiamo assistito a dei cambiamenti a livello normativo che però non sono stati accompagnati da una adeguata politica di Flexi-security in grado di offrire ai lavoratori idonee tutele. In questo senso si può affermare che il limite fondamentale di tali riforme sia stato quello di non prevedere per le tipologie di lavoro atipiche le stesse coperture e le stesse protezioni sociali fornite dai contratti standard. All’allentamento delle garanzie del rapporto di lavoro non ha fatto riscontro l’incremento di strumenti di sostegno per i soggetti che di questi ultimi sono i diretti beneficiari, come per esempio gli ammortizzatori sociali e la previdenza. Le problematiche relative al concetto di flessibilità emergono con maggiore evidenza, quando il lavoratore oltre ad essere occupato temporaneamente è anche subordinato (e\o parasubordinato), dal momento che, contrariamente, un’ autonomo usufruisce quantomeno di forme di sostegno parziale al reddito in caso di interruzione del rapporto di lavoro.

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Tali limiti sono facilmente verificabili se si prende in esame la situazione generale di un lavoratore a progetto che potremmo definire standard. Quest’ultimo non ha diritto al sussidio di disoccupazione, non riceve il TFR e versa un’aliquota contributiva alla previdenza obbligatoria significativamente minore (cresciuta gradualmente dal 10% del 1996 al 19% nel 2006, e poi prevista in ulteriore aumento fino al 26% nel 2010, dopo gli incrementi stabiliti dalle ultime due Leggi Finanziarie, contro il 33% dei dipendenti). Oltre alle problematiche relative alla mancata attuazione delle riforme sugli strumenti di flexi-security, sono sorte in seconda analisi anche quelle legate all’utilizzo improprio di tali tipologie di lavoro flessibili. Molto spesso infatti si ricorre al lavoro parasubordinato in imprese di servizi, istituti di vigilanza e sicurezza, in imprese di cooperative e pulizie unicamente al fine di evitare un’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore. Inoltre va sottolineato come molto spesso la flessibilità celi degli obiettivi monetari da parte del datore di lavoro, che vanno al di là di qualsiasi logica organizzativa, tecnologica o funzionale alla produzione. La motivazione può essere ravvisata nella volontà di operare un risparmio sui costi di lavoro non dovendo sottostare, con il ricorso alle fattispecie atipiche, alle rigidità relative alla tutela retributiva e legale. Riconducendo tale analisi nuovamente al caso dei lavoratori a progetto si può evidenziare un dato significativo. Di fatto, e molto spesso, tali lavoratori svolgono la loro prestazione sotto il vincolo della subordinazione, e soprattutto senza che la loro assunzione sia giustificata dalla realizzazione di un dato progetto o dall’ obiettivo fondamentale di una loro successiva transizione verso forme di lavoro a tempo indeterminato. Ciò dimostra come troppo di frequente tali collaborazioni vengano adoperate come scappatoie all’applicazione di contratti standard che implicherebbero l’attuazione della disciplina del contratto di lavoro subordinato(tra cui il licenziamento,l’orario di lavoro, i sussidi di disoccupazione, la malattia, l’esercizio delle libertà e delle attività sindacali ecc..), consentendo per contro il pagamento di retribuzioni molto più basse. In generale, quindi, le critiche che è possibile muovere a queste riforme sono da un lato riferibili agli scarsi livelli di copertura che offrono e dall’altro alla loro parziale estendibilità a tutti i settori. Non di meno va sottolineato che sia l’imprenditore che l’impresa non sono adeguatamente responsabilizzati reciprocamente e non viene imposto loro alcun vincolo a ricorrere a programmi di reinserimento una volta che venga interrotto il rapporto di lavoro. 9. Lavoro e Laureati Queste fattispecie contrattuali sono state introdotte allo scopo di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani. Ma alla luce delle attuali riforme è necessario interrogarsi su quali siano oggi le effettive prospettive per i neo laureati di trovare occupazione. E’ dunque necessario effettuare un’analisi che mostri le differenti prospettive lavorative a uno e a tre anni dal conseguimento del titolo. A tal fine, risulta di particolare rilievo la ricerca “Università-Lavoro” svolta dall’Istat nel 2008 in riferimento al periodo 2004-2005, la quale effettuando un confronto tra le due tipologie di laurea( a ciclo unico e triennale), rende più chiari i processi di avvicinamento al mercato del lavoro. La lettura dei tassi di occupazione effettuata per entrambe le tipologie di laurea può contribuire a chiarire il quadro delle prospettive di accesso al mondo del lavoro che si aprono ai giovani laureati che si affacciano sul mercato dopo il conseguimento del titolo.

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9.1 Occupazione a un anno dal titolo. Fonte: ISTAT Come si può evincere dai grafici, il 59,9% dei laureati in corsi lunghi ( quanti hanno conseguito una laurea tradizionale del vecchio ordinamento 4-6anni o una laurea specialistica a ciclo unico del nuovo ordinamento 5-6anni) è occupato ad un anno dal conseguimento del titolo, a fronte di un 52,2% di coloro che hanno concluso un corso triennale. In prima battuta, si delinea, un miglior inserimento occupazionale per i laureati in corsi lunghi e tassi di disoccupazione più contenuti per gli studenti delle triennali. Nonostante i più elevati livelli di occupazione i laureati in corsi lunghi presentano anche i livelli di disoccupazione più consistenti: in cerca di lavoro risulta essere il 21,3% di essi contro un appena 9,4% di laureti triennali. La motivazione di questa disparità di dati può essere giustificata da una tendenza da parte dei laureati in corsi brevi al proseguimento della propria formazione, che si manifesta nell’iscrizione a corsi di laurea specialistica e ad una conseguente posticipazione dell’ingresso nel mercato del lavoro. Tuttavia questa spiegazione seppur attendibile, non può essere estesa a tutti gli ambiti disciplinari. Oltre alla distinzione tra cicli di corso, appare necessario studiare le differenti condizioni occupazionali in relazione alle diverse facoltà scelte. Dall’ analisi emerge un alto livello di occupazione ad un anno dalla laurea per coloro che hanno concluso un corso triennale nelle professioni sanitarie: quasi l’85% dei laureati è impiegato e lo è, in particolare, nel settore medico già prima di conseguire il titolo. Diametralmente opposta risulta la situazione per i neo laureati dei gruppi giuridico, geo-biologico, psicologico e letterario i quali incontrano più ostacoli per trovare un’ occupazione: i tassi di occupazione variano tra il 11,8% del geo-biologico, al 20% del letterario. Una spiegazione è rintracciabile nel grande afflusso di iscritti a questi corsi, al tipo di formazione che essi garantiscono (non specificamente settoriale) e alla parziale saturazione dell’offerta di lavoro per queste figure professionali.

59.9%21.3%

21.8%

Lauree lunghe

lavora

non cerca

lavoro

non

lavora

Lauree triennali

52.2%38.4%

9.4%lavora

non

cerca

lavoro

non

lavora

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9.2 Occupazione a tre anni dal titolo. Fonte: ISTAT Nel 2007 , a circa tre anni dal conseguimento del titolo il 73.3 % dei laureati in corsi lunghi svolge un’attività lavorativa, il 14,1% è in cerca di occupazione mentre il 12,6% pur non lavorando dichiara di non essere alla ricerca del lavoro. La quota di occupati tra i laureati nei corsi triennali è sostanzialmente simile a quella dei laureati in corsi lunghi ( 73,1%). Viceversa, è più contenuta la quota dei giovani in cerca di lavoro ( 12,2%).

10. Laureati e tipologie di contratto. Fonte: ISTAT Lauree in corsi lunghi Anno 2004-2007 Lauree in corsi brevi Anno 2004-2007

73.1% 73.3%

12.2% 14.1%

14.7% 12.6%

48.5% 56.2%

0

20

40

60

80

100

120

Lauree triennali Lauree triennali lauree lunghe lauree lunghe

Lavoro continuativo iniziato dopo il titolo Non cercano lavoro

18.8%

12%

3.7%

4.4%

10.9%8.9%

0.5%

41%

lavoratori autonomi

lavoro a progetto

prestatori d'opera occasionale

contratti di formazione e lavoro

dipendenti con c.c.n.l.a termine

9.4%

13.6%

3.8%

7.8%

11.4%11.1%

0.7%

42.4%

lavoratori autonomi

lavoro a progetto

prestatori d'opera occasionali

contratti di formazione e lavoro

dipendenti con c.c.n.l. a termine

lavoratori con altro tipo di

contratto a termine

lavoratori senza contratto

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Dall’analisi grafica emerge che il tipo di lavoro che i giovani laureati trovano è influenzato dalla crescente presenza nel mercato del lavoro di forme contrattuali atipiche. Se si considerano soltanto i giovani che lavorano dopo il conseguimento del titolo,tra il 2004 e il 2007 circa il 41% dei laureati in corsi lunghi e il 42,4% dei laureati in corsi triennali lavorano con contratti a tempo indeterminato mentre la restante quota risulta impiegata in attività lavorative a termine o parasubordinate. 11. Persistenza dei contratti atipici “Esiste una tendenza dei lavoratori che hanno contratti di lavoro a tempo non indeterminato a persistere nel tempo in questo tipo di forma contrattuale”. (Dell’Arringa, 2008) Attraverso l’analisi svolta sui dati Istat e relativi al periodo 2004-2006 è possibile delineare quale sia stata la tendenza, nel tempo, per i lavoratori con contratti a termine o di collaborazione a permanere nella medesima tipologia contrattuale. I dati raccolti, illustrano la frequenza con la quale un lavoratore con un contratto di lavoro atipico o con un contratto di collaborazione ha avuto una riconferma della medesima condizione. In particolare, i lavoratori a termine lo sono nel 61 % dei casi anche l’anno successivo e lo stesso dicasi per le collaborazioni continuative, per le quali i lavoratori confermano la medesima tipologia contrattuale nel 65 % dei casi. Gli occasionali tendono a cambiare tipo di contratto con maggiore frequenza, ma nel complesso resta scarsa la transizione verso i contratti a tempo indeterminato. L’incidenza di questi bassi tassi di conversione è aumentata fra il 2005 e il 2006. In particolare, il 58 % dei lavoratori con contratto a termine nel 2004 aveva ancora un contratto a termini nel 2005. Tra il 2005 e il 2006 questa percentuale è salita al 61% . Si noti come l’aumento di questa percentuale sia una buona notizia, visto che fra il 2005 e il 2006 ad esso corrisponde simmetricamente una flessione di quanti passano dal contratto a termine alla disoccupazione. La trasformazione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato è avvenuta nel 29 % dei casi, percentuale che scende al 12 % nel caso dei collaboratori. Inoltre nel 2006 la percentuale di lavoratori a termine che sono diventati autonomi è stata pari al 2,5%, rispetto al 29 % che si sono trasformati in dipendenti permanenti . E’ bene notare come il rapporto, di oltre uno a dieci, sia decisamente più elevato del rapporto fra autonomi e dipendenti (quasi uno a quattro). Lo stesso non può dirsi per le collaborazioni, che tendono a trasformarsi con maggiore frequenza in rapporti di lavoro autonomi a tutti gli effetti. Queste evidenze mostrano il sostanziale fallimento della logica che ha motivato l’introduzione dei contratti di lavoro atipico. Infatti tali fattispecie erano state pensate come forme transitorie, che avrebbero dovuto consentire un più agile passaggio dalla situazione di disoccupazione o inattività a contratti di lavoro stabili o standard, invece quasi la metà delle nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato è avvenuta per personale precedentemente inattivo o disoccupato e non per coloro in possesso di un contratto atipico.

12. Coerenza tra titolo conseguito e lavoro svolto Un’importante spunto d’analisi può essere fornito dalla valutazione sulla coerenza tra il titolo posseduto dal lavoratore e quello richiesto dal mercato per essere impiegato. Generalmente si riscontra una certa aderenza di base tra le due grandezze, pertanto più elevati saranno i livelli di istruzione e maggiori saranno le possibilità per l’individuo di trovare occupazione. Questa coerenza tenderà ad aumentare, in particolare, man mano che il lavoratore accrescerà il suo grado di formazione. E’ possibile verificare tale tendenza prendendo in esame i dati Istat (riferiti ai laureati nel 2004 che nel 2007 svolgono un lavoro per il quale è richiesta la laurea) i quali mostrano una maggior conformità tra mansione svolta e titolo acquisito per i laureati in corsi lunghi 69% dei casi, rispetto al 59% per i laureati in corsi triennali.

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Va tuttavia sottolineato come la situazione occupazionale possa variare a seconda delle facoltà scelte di conseguenza si delinea l’importanza di una scelta oculata del proprio curriculum di studi, inteso anche come strumento per entrare nel mondo del lavoro e delle professioni. 13. Il lavoro flessibile è una scelta? “Se consideriamo i lavoratori parasubordinati( ovvero i co.co.co.,collaboratori coordinati e continuativi), i lavoratori autonomi etero diretti, le partite Iva, ecc., il mercato del lavoro in Italia si presenta come quello più flessibile d’Europa e, in tema di tassi di mobilità, non ha nulla da invidiare a quello statunitense.” (Andrea Fumagalli, Derive, Approdi, Italia-2002). La problematica più grave che a tale dato si associa, è relativa al fatto che per oltre il 90% degli occupati questa situazione è subita(in quanto tali soggetti non hanno trovato un lavoro a tempo indeterminato) e non scelta, mentre solo per un ristretto insieme di lavoratori (meno di 200mila persone) l’essere occupati a termine rappresenta una manifestazione di volontà. In particolare i lavoratori a termine volontari sono, più frequentemente o molto giovani o molto anziani. Tra i più giovani il motivo del ricorso a tali tipologie di contratto si può riscontrare nella predilezione verso forme di impiego più flessibili, e quindi per certi versi meno vincolanti, che consentano di svolgere in parallelo due attività: lavoro e studio. Per i secondi possono rappresentare un passaggio graduale all’inattività. Non si osservano invece differenze rilevanti con gli occupati a termine involontari, circa la distribuzione per genere. Il lavoro a termine volontario appare relativamente più diffuso al Nord, ed in particolare nel Nord Est, e nei settori del commercio, dei servizi sociali e alle persone, e soprattutto nel turismo (Alberghi e ristoranti), un settore nel quale evidentemente non è solo la domanda a preferire forme di lavoro stagionale, ma è anche l’offerta a prediligerle(ad esempio, da parte di quei giovani che decidono di finanziarsi gli studi lavorando qualche mese in estate). 14. Flessibilità o precariato? Risulta evidente come i lavoratori flessibili abbiano una probabilità maggiore di cadere in una situazione di disoccupazione. Nel 2006 risultava disoccupato soltanto l’1,3% di coloro che avevano un contratto a tempo indeterminato l’anno prima, mentre tale percentuale sale al 5,8% per i contratti a termine, al 6 % per le collaborazioni continuative e al 7,7% per gli occasionali. Sebbene, con l’ introduzione di queste nuove tipologie di lavoro,almeno ad un stadio iniziale l’aumento del tourn-over abbia favorito la crescita dell’occupazione (anche n termini di unità standard), in realtà la produttività grezza è diminuita poiché è cresciuto il numero di lavoratori ma non la quantità prodotta. Per spiegare una situazione tale ci si rifà proprio al concetto di flessibilità: le imprese, al fine di mantenere una certa competitività, si sono servite di fasce di lavoro a basso costo quindi meno qualificate, e ciò ha causato un crollo della produttività del lavoro. Ciò ha interessato soprattutto settori maturi e PMI (più presenti nel sistema economico) comportando un calo della produttività media. Parallelamente, l’espansione del lavoro flessibile, socialmente meno protetto e meno retribuito, ha comportato in molti casi l’attribuzione di scarse protezioni e redditi bassi. Per queste ragioni, negli ultimi dieci anni, al concetto flessibilità si è gradualmente associato il termine di precariato. 15. Conclusioni Gli obiettivi del sistema di rapporti di lavoro fin qui delineato sarebbe quello di facilitare l’inserimento o il reinserimento, sul mercato della forza lavoro. Attraverso tale modello, infatti, i lavoratori posizionati nei segmenti marginali del mercato del lavoro vi resterebbero per un lasso temporale limitato, e verrebbe facilitato l’incontro tra domanda e offerta. Inoltre in virtù del fatto che le tipologie contrattuali atipiche in genere prevedono contratti di lavoro con retribuzioni più

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contenute, diminuirebbe la probabilità di restare senza occupazione essendo minore l’incidenza dei costi legati ai salari dei dipendenti. In tal senso due sarebbero quindi le funzioni dei contratti flessibili: da un lato quello di agevolare una rapida transizione dalla disoccupazione all’occupazione; dall’altro, quello di generare una sorta di “memoria dati”, utile anche per fronteggiare le fasi congiunturali avverse, riducendo il rischio di disoccupazione per il lavoratore. Tuttavia, esiste il rischio che si inneschino fenomeni di “opportunismo contrattuale”, ovvero che questi contratti non solo affianchino, ma sostituiscano i più tradizionali rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Per una parte della forza lavoro, ciò potrebbe significare una carriera lavorativa frammentata e scarsamente retribuita, nonché una pensione inferiore al minimo sociale. Da rilevazioni statistiche emerge, inoltre, che avere un lavoro precario e di conseguenza precarie disponibilità economiche, riduce significativamente la probabilità che una donna decida di avere figli. Per tutte queste ragioni attualmente è assai sentita l’esigenza di potenziare le forme di protezione dei disoccupati, riformando il sistema dei sussidi di disoccupazione, in Italia ancora troppo carenti. Bibliografia Fumagalli Andrea, Derive, Approdi. Italia - Aprile 2002. Perone Giancarlo - Dell'Olio Matteo - Galantino Luisa -Hernandez Salvatore - Vallebona Antonio, “Il contratto di lavoro a tempo determinato nel d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368”, Giappicheòlli editore, 2008. Persiani Mattia e Proia Giampiero, “Diritto del lavoro”, CEDAM 2008. SITOGRAFIA: SITI ufficiali: Istat; Eurostat http://web.econ.unito.it/pacelli/pubblicazioni/rie.pdf www.portalecnel.it www.ilsole24ore.com www.ildiariodellavoro.it http://www.isper.org/ISPER/1_La_nostra_storia_81_90.htm www.lavoro.gov.it http://oiga.orange021.com/allegati/DocNaz/LibroBianco.pdf

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I Centri per l’Impiego nel Lazio Martina Lavagnini,

Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Economia “Federico Caffè”

Capitolo 1. I Servizi per l’Impiego in Italia

1.1) Il cambio di paradigma: il collocamento da funzione pubblica a servizio pubblico

Agli inizi del novecento18 le attività di gestione del mercato del lavoro potevano essere svolte da soggetti privati con fini di lucro, da enti statali, da associazioni di lavoratori e da istituti di beneficenza. Con l’instaurazione dell’ordinamento corporativo si affermò il divieto di mediazione privata ed il collocamento, tramite la legge n°563 del 03 aprile 1926 divenne Funzione Pubblica. In seguito, con la legge n°739 del 02 giugno 1939, si delegò l’esercizio del collocamento alle associazioni sindacali. Soppresso l’ordinamento corporativo, con la legge n°264 del 20 aprile 1949 si affermò la funzione pubblica del collocamento con gestione esclusiva allo Stato, vietando agli altri soggetti l’esercizio della mediazione. La legge prevedeva, per chi aspirasse al lavoro alle dipendenze altrui, l’obbligo di iscriversi alle “liste di collocamento” e tramite queste si procedeva alle chiamate per ordine numerico. Le liste erano divise per settori produttivi e per categorie professionali (con le eccezioni riguardanti le categorie particolari) e a queste dovevano far riferimento le aziende in cerca di personale. Nella pratica questo sistema ha impresso una scarsa dinamicità al mercato del lavoro, così dagli anni ’80 si cominciarono ad operare delle misure correttive di questa caratteristica. Con la legge n°863 del 19 dicembre 1984 si introdussero i contratti di formazione lavoro e le liste per il lavoro a tempo parziale. Con la legge n°56 del 28 febbraio 1987 si istituirono le sezioni circoscrizionali per le liste e le agenzie regionali per l’impiego, e inoltre la possibilità di stipulare contratti a termine e contratti di apprendistato. La legge n°407 del 29 dicembre 1990 introdusse la chiamata diretta su nominativo per cassintegrati e disoccupati iscritti alle liste da più di 24 mesi; in seguito, con la legge n°223 del 23 luglio 1991 si decretò la non eccezionalità della chiamata nominativa e la chiamata numerica è rimasta valida solo per quanto riguardava il Collocamento Obbligatorio delle categorie svantaggiate. Particolarmente decisiva per il cambiamento è stata la legge n°196 del 24 giugno 1997 (“pacchetto Treu”) che ha stabilito la liceità del lavoro interinale gestito da Agenzie private autorizzate alla fornitura di lavoro temporaneo alle aziende. Il Collocamento iniziò così ad essere considerato non più come una Funzione Pubblica ma come un Servizio Pubblico e quindi il sistema sembrava essere pronto a rimuovere il divieto di mediazione privata per il collocamento. Il Decreto Legislativo n°469/97 e la legge 30 del 2003 (Biagi) hanno infatti sancito la trasformazione definitiva del collocamento in un sistema integrato pubblico/privato, tramite la sostituzione degli Uffici di Collocamento con i Centri per l’impiego e l’introduzione di soggetti privati autorizzati alla mediazione del lavoro. Proprio il Centro per l’Impiego, nuovo referente pubblico del collocamento, vuole essere il frutto di una nuova logica basata sul servizio mirato e sul risultato, in un contesto che si augura di imprimere maggiore dinamicità ed efficienza al mercato del lavoro.

18 I servizi privati per l’impiego, Giampiero Falasca, Giuffrè Editore, Milano, 2006.

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Il sistema di collocamento pubblico costruito dal legislatore nel 1949 era pensato per dare attuazione al diritto al lavoro riconosciuto dall’art.4 della Costituzione e per questo poteva essere soddisfatto solo dallo Stato. Nella nuova prospettiva emersa con il DL 469/1997 ci si pone una finalità diversa da quella di garantire a ciascuno un posto di lavoro: il nuovo obiettivo del collocamento è quello di assicurare un servizio efficiente che generi per ogni lavoratore in cerca di occupazione le condizioni di collocarsi autonomamente sul mercato del lavoro tramite un continuo aggiornamento delle proprie competenze e una ricerca attiva del lavoro. Il diritto costituzionale al lavoro inizia ad essere inteso come diritto ad un efficiente sistema di servizi per l’impiego, ossia un diritto sociale, la cui inadempienza può legittimare il disoccupato cui non siano stati forniti servizi conformi agli standard di qualità a richiedere il risarcimento del danno. Anche la carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea riconosce il diritto di accesso di ogni individuo ad un servizio di collocamento gratuito ed efficiente. La trasformazione iniziata dal Decreto Legge n° 469/1997 si è realizzata, nel coso degli anni ’90, sulla base di quattro fondamentali linee guida:

1) il principio di sussidiarietà, per cui i compiti di gestione delle procedure pubbliche tra domanda ed offerta di lavoro sono trasferiti dallo Stato alle Regioni e poi alle Provincie con l’istituzione di Centri per l’Impiego.

2) integrazione delle politiche del lavoro, della formazione e sociali attraverso la programmazione, progettazione, erogazione e valutazione dei servizi per l’impiego.

3) riconoscimento a soggetti privati della possibilità di erogare servizi per l’impiego 4) sostituzione delle liste di collocamento con l’elenco anagrafico

La legge n°59 del 15 marzo 1997 (Bassanini) ha previsto il "conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed Enti locali per la riforma della Pubblica Amministrazione e la semplificazione amministrativa". Le funzioni di gestione attiva del mercato del lavoro vengono delegate dallo Stato alle Regioni, da queste alle Province e ad altri Enti locali, in base al principio di sussidiarietà, con il fine prioritario di rendere più aderenti alle realtà locali e flessibili i servizi. Allo Stato è assegnato un ruolo generale di indirizzo, promozione, coordinamento e vigilanza, alle Regioni spetta il ruolo di legislazione, di organizzazione amministrativa, di programmazione, di valutazione e di controllo dei servizi per l'impiego, mentre le Province hanno quello di erogazione dei servizi sul territorio e di raccordo con gli altri Enti locali. L'obiettivo è l'integrazione tra servizi per l'impiego, politiche attive del lavoro e politiche formative, tramite il riconoscimento di nuove ampie competenze a Regioni, Province ed Enti locali.

1.2) I Centri per l’Impiego

I Centri per l’Impiego sono i poli locali di riferimento della sfera pubblica del servizio di collocamento, sono presenti in tutto il territorio nazionale e si coordinano a livello provinciale agendo secondo gli indirizzi definiti dalla Regione. A parità di funzioni ed obiettivi, ogni Centro per l’Impiego ha la libertà di decidere modalità operative differenti in base alle caratteristiche e ai bisogni del territorio coperto, secondo l’idea che una gestione efficace ed efficiente del mercato del lavoro debba considerare le esigenze specifiche di ogni realtà locale. Per questo obiettivo di conoscenza del territorio locale si vuole inoltre promuove la comunicazione e l'interazione tra soggetti istituzionali presenti. Si rivolgono ai Centri per l’Impiego le persone in cerca di un’occupazione, oppure che vogliano cambiare attività o seguire un percorso formativo o di orientamento, e le aziende in cerca di personale. Il disoccupato che si rivolge al centro deve essere immediatamente disponibile allo svolgimento di un'attività lavorativa e recettivo agli stimoli proposti, ed è vincolato a tale condizione il diritto di

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usufruire dei servizi e delle agevolazioni previste, poiché pone l'accento sul ruolo propositivo dei centri per l'impiego come centri di ricerca attiva del lavoro.

1.2.1) I servizi erogati dai CPI

Servizi erogati dai CPI

Accoglienza e Informazione

Indirizzo al

Tirocinio

Indirizzo alla

Formazione

Autoconsultazione

Orientamento(Consulenti)

Preselezione

Collocamento Mirato

Laboratori di Ricerca Attiva

del Lavoro

I Centri per l’Impiego svolgono i servizi di:

� Accoglienza e Informazione al nuovo fruitore dei servizi del centro (cittadino o impresa) si mostrano quali servizi sono attivi in quel centro e quali sono specificamente adattabili al suo profilo.

� Autoconsultazione i centri per l’impiego prevedono l’esistenza di spazi di libera consultazione di materiale cartaceo o informatico riguardante la ricerca del lavoro.

� Orientamento il personale specializzato del centro è disponibile ad analizzare singolarmente i casi personali dei lavoratori. L’operatore del centro progetta insieme al fruitore del servizio un percorso di rivalutazione professionale e di inserimento o re-inserimento lavorativo (Piano di Azione Individuale e Patto di Servizio).

� Indirizzo alla Formazione dopo l’analisi del profilo del lavoratore, il CPI propone delle formazioni (esterne alla struttura del CPI) che il cittadino è tenuto ad accettare, salvo valide ed adeguate ragioni, per adempiere al contenuto del Patto di Servizio tra il cittadino e il CPI (non rispettando il quale il cittadino rischia di perdere lo status di disoccupato).

� Indirizzo al Tirocinio come l’indirizzo alla formazione, nell’ottica di aumentare o aggiornare le competenze del lavoratore al fine di renderlo più occupabile, il CPI, analizzato il profilo del lavoratore, lo mette in contatto con aziende che propongano delle esperienze di tirocinio che possano migliorare le competenze del candidato, con o senza possibilità di assunzione da parte della stessa azienda.

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� Preselezione analisi delle candidature e dei profili di lavoratori in base alle esigenze espresse dalle aziende locali, scrematura delle compatibilità ed organizzazione di incontri tra i lavoratori selezionati e le aziende.

� Collocamento Mirato La legge n° 68/99 innova l’idea di collocamento obbligatorio introducendo la definizione di “collocamento mirato” definendolo come l’erogazione di "quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto di lavoro adatto attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive".

� Consulenza alle imprese il CPI, ottimo conoscitore del mercato del lavoro locale, è in grado di fornire, tramite i suoi esperti, assistenza a chi abbia l’intenzione di insediare una nuova azienda sul territorio, innovare un’azienda esistente, aggiornarsi circa i finanziamenti agevolati esistenti.

� Laboratori di ricerca attiva del lavoro esperti di comunicazione danno consigli ai lavoratori su come valorizzare il proprio curriculum e gestire un colloquio. La logica di questi nuovi centri di servizi e l’obiettivo a cui puntano è che alla validità del servizio offerto dal CPI il cittadino contrapponga una vivacità di recezione degli stimoli proposti, accettando di aggiornare le sue competenze tramite formazione o tirocini, e, parallelamente, alla buona qualità del servizio di preselezione del CPI l’azienda corrisponda una effettiva assunzione delle persone proposte e un rinnovo della richiesta di fruizione dei servizi del CPI locale.

1.2.2) Gli utenti dei CPI

1.2.3) Il cittadino

Utenti dei CPI

DID Dichiarazione di Immediata Disponibilità al Lavoro

PAI Piano di Azione Individualepredisposizione percorso individuale monitorato

Patto di ServizioIl CPI propone e indirizza verso:

colloqui di lavoro, corsi di formazione, tirocini…

Il cittadino reagisce attivamente

pena la perdita dello status di disoccupato

Elenco Anagrafico , Scheda Professionale

Giovani

Donne

over 50

Disabili

Extracomunitari

Altro

Tipologia Utenza CPI Velletri

Dati tratti da

Agenzia regionale Lazio Lavoro

I CPI del Lazio dicembre 2008

Il primo passo del cittadino in cerca di lavoro che si vuole rendere fruitore dei servizi dei centri per l’impiego è la sottoscrizione della DID (Dichiarazione di Immediata Disponibilità al Lavoro).

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Il centro per l’impiego cataloga il lavoratore tramite due strumenti: l’Elenco Anagrafico, contenente dati circa la residenza, il domicilio, il nucleo famigliare, il titolo di studio, lo stato occupazionale e l'eventuale appartenenza a categorie protette, e la Scheda Professionale, che presenta informazioni relative alle esperienze formative e professionali del candidato. Il lavoratore e il centro stipulano il Patto di Azione Individuale, per cui, a seguito di uno studio del profilo e delle necessità individuali, il lavoratore e il centro segnano un percorso di miglioramento della collocabilità del soggetto che quest’ultimo non ha motivo di non seguire, e che il centro si impegna a promuovere. In accordo con la nuova concezione di disoccupazione “attiva” il cittadino è monitorato nella sua reattività rispetto agli accordi presi con il centro. Nel grafico in figura è preso ad esempio il CPI di Velletri per quanto riguarda la tipologia di utenza: si nota una larga presenza di donne e giovani.

1.2.4) L’azienda

AziendaUtente del CPI

Profilo di Sintesi dell’Azienda (o Profilo di Vacancy)

• N lavoratori richiesti per lavoro/tirocinio

• caratteristiche e qualifiche professionali del lavoratore ricercato• dettagli sulle condizioni di lavoro proposte (retribuzione,

luogo di lavoro, durata e tipo del contratto, ..)

Progetto ALA

Archivio Aziende, Preselezione,Comunicazioni Obbligatorie, Patto con l’Impresa, Consulenza alle Imprese.

(Accompagnamento al Lavoro in Azienda)Analisi della domanda da parte delle aziende per indirizzare

le scelte formative dell’offerta dei cittadini verso l’obiettivo di

una sovrapposizione delle necessità e competenze

piccole

medie

grandi

Dati tratti da Agenzia

regionale Lazio Lavoro

I CPI del Lazio

dicembre 2008

L’azienda che si presenta come fruitrice dei servizi del centro per l’impiego viene accolta e catalogata stilando un Profilo di Sintesi dell’Azienda o Profilo di Vacancy che mostra il tipo di settore e attività in cui si inserisce l’azienda e le sue necessità in quanto a numero di lavoratori ricercati, profilo professionale di cui si ha bisogno, caratteristiche del posto di lavoro o tirocinio proposto (tipo di contratto, durata, luogo di lavoro, retribuzione). Tra l’Azienda e il Centro si stipula il Patto con l’Impresa, che prevede gli impegni dell’una e dell’altra parte, affinché ci possa essere una effettiva e fruttuosa collaborazione.

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Tutti i dati delle aziende vengono conservati nell’Archivio Aziende del centro e per esse si opera la preselezione dei candidati, attraverso la scrematura dei profili più idonei, che sono poi proposti alle imprese, tramite sollecitazione e organizzazione di colloqui, anche al centro stesso. L’impresa non ha alcun obbligo di assunzione, ma si immagina che un lavoro di analisi e preselezione adeguato possa veicolare un effettivo nascere di rapporti lavorativi. Alcuni progetti a questo riguardo si cimentano in obiettivi anche più importanti e incisivi, ad esempio il progetto ALA (Accompagnamento al Lavoro in Azienda) si propone prima di analizzare la domanda espressa dalle aziende per poi, in base alle osservazioni fatte, decidere come indirizzare le scelte formative di chi cerca lavoro. L’obiettivo della sovrapposizione delle necessità e delle competenze di aziende e lavoratori del territorio coperto dal centro rientra nell’ottica di conoscenza del territorio del CPI. Il grafico a torta mostra che nel Lazio la maggior parte delle imprese che si servono dei CPI sono di piccole dimensioni.

1.2.5) Programmi specifici per utenza specifica

A seconda della qualità dell’utenza dei CPI locali si evidenziano le diverse categorie che mostrano specifici bisogni, ed è per questo che i CPI hanno elaborato dei progetti specificamente mirati verso le necessità di specifici gruppi. I CSI ad esempio, Centri Servizi Immigrazione, sono sportelli aperti per lo sviluppo e la promozione dei diritti di cittadinanza della popolazione immigrata. Gli Sportelli Donna sono dedicati ai servizi per le cittadine con l’obiettivo di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro di persone adulte, il reingresso di persone che hanno passato lunghi periodi fuori dal mercato del lavoro, la formazione di persone inoccupate, favorire l’imprenditoria femminile. Il progetto SOUL ha come utente i laureati e le aziende che necessitano di questi profili e coordina informazioni raccolte dalle università partecipanti e dagli altri enti coinvolti, incoraggiando possibilità di incontri e colloqui personali. Il programma Match è dedicato alle persone diversamente abili. Nella nuova ottica di collocamento mirato, pur restando l’obbligo per le aziende di assunzione di lavoratori diversamente abili in numero proporzionale alla dimensione dell’impresa, è stata introdotta la possibilità di richiesta nominativa, accompagnata dall’assistenza da parte del CPI per decidere di concerto tra l’azienda, il centro e il lavoratore, un percorso ragionato di assolvimento dell’obbligo, per cui vengano effettivamente valorizzate le competenze del lavoratore e apportato un guadagno per l’azienda. Lo sportello Eures si dedica alla mobilità internazionale dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea.

1.2.6) La Borsa Continua Nazionale del Lavoro19

La rete dei servizi per il lavoro è una risorsa informatica che collega i sistemi informativi di tutti gli attori coinvolti nella gestione del mercato del lavoro. I vantaggi che questo sistema vuole ottenere sono una veloce connessione delle informazioni, una cooperazione facilitata, un monitoraggio costante sull’operato di ogni ente e sull’andamento della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro, inoltre l’erogazione on-line di servizi ai cittadini e alle imprese. E’ stato definito dal Ministero del Lavoro un sistema standard che deve essere alla base di tutte le banche dati affinché possano dialogare istantaneamente, a livello regionale possono esserci delle

19 http://www.borsalavoro.it/

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differenze su aspetti non fondamentali (Decreto Interministeriale 30 ottobre 2007 “Standard tecnici della Borsa Continua Nazionale del Lavoro”), ogni regione ha quindi un suo SIL Regionale. I nodi informativi regionali hanno inoltre il compito di realizzare l’integrazione delle risorse pubbliche e private del loro territorio per metterle in condizione di partecipare alla rete. I tre requisiti fondamentali sono: esaustività, adeguatezza e tempestività. La Borsa Continua Nazionale del Lavoro è un sito internet liberamente accessibile che mette in collegamento tutti i soggetti, sia pubblici che privati, coinvolti nel mercato del lavoro, con l’obiettivo di realizzare una piena e libera collaborazione. L’accesso degli utenti è diretto sia per la recezione che per l’immissione di dati. La Borsa Continua è uno strumento volto ad aumentare efficienza e trasparenza degli scambi che avvengono nel mercato del lavoro. La “Disciplina del Servizio Informatico delle Comunicazioni Obbligatorie” pone l’obbligo per tutti i soggetti pubblici e privati del sistema di conferire i dati relativi alla domanda e offerta di lavoro alla Borsa Continua Nazionale del Lavoro.

Capitolo 2. I Centri per l’Impiego nel Lazio

2.1.1) Diffusione e distribuzione nel territorio

Nel Lazio sono presenti 32 Centri per l’Impiego (senza contare i distaccamenti), distribuiti in tutto il territorio, la metà dei quali si trova nella città di Roma. Nella sede di Cinecittà, in via Rolando Vignali, è presente non solo il CPI locale, ma anche l’Ufficio Coordinamento Centri per l’Impiego e l’Ufficio Politiche Attive del Lavoro di livello provinciale.

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Province Centri per l’impiego nel Lazio

Frosinone 4 (Anagni, Frosinone, Cassino, Sora)

Latina 7 (Latina, Formia, Fondi, Cisterna, Aprilia, Sezze, Terracina)

Rieti 2 (Rieti, Poggiomirteto)

Roma 16 (Albano, Civitavecchia, Colleferro, Frascati, Monterotondo, Morlupo, Palestrina, Pomezia, Roma 1 Cinecittà, Tiburtino, Torre Angela, Guidonia, Primavalle, Dragoncello, Tivoli, Velletri)

Viterbo 3 (Civita Castellana, Viterbo, Tarquinia)

Totale 32

2.1.3) Servizi attivati, anni 2007 e 2008

Degli strumenti che i CPI hanno a loro diposizione non tutti sono effettivamente utilizzati dai centri. Queste differenze di incidenza degli strumenti potrebbero essere dovute alla differente idoneità a servire i bisogni locali, ma potrebbero anche essere segno di un ritardo nell’attuazione dell’assetto definitivo del centro, soprattutto nel momento in cui riguardano delle parti fondamentali del nuovo sistema di funzionamento del collocamento pubblico. La tabella, realizzata con dati reperiti da un testo prodotto dall’Agenzia Regionale Lazio Lavoro, mostra una situazione di realizzazione intermedia dei centri laziali, almeno fino in data dicembre 2008. Alcuni strumenti basilari, come patti e piani individuali non sono utilizzati che dalla metà o meno dei centri, la scheda anagrafico-professionale è utilizzata dalla maggior parte dei centri e l’archivio aziende da quasi tutti. Alcune figure di utilizzo destinato a specifiche categorie sorgono da necessità specifiche del luogo, come il mediatore culturale per zone con alta incidenza di lavoratori immigrati, quindi non ci si aspetta che si introduca ovunque.

2112

Mediatore

Culturale

230Archivio Aziende

825Scheda

Anagrafico-

Professionale

1812Patto tra CPI e

Impresa

1614Bilancio delle

Competenze

Servizi dei CPI Erogato Utilizzato

Non erogato Non utilizzato

Patto di Servizio 16 15

PAI Piano di

Azione

Individuale

10 21

Consulente alle

Imprese 25 7

da Agenzia Regionale Lazio Lavoro I CPI del Lazio dicembre 2008

In secondo luogo c’è da considerare la tempestività con cui questi strumenti vengono adoperati e, di nuovo dallo stesso studio dell’Agenzia Regionale Lazio Lavoro si apprende che, per quanto

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riguarda ad esempio il Piano di Azione Individuale solo in 7 casi il CPI lo produce nell’arco di un mese.

da Agenzia Regionale Lazio Lavoro I CPI del Lazio dicembre 2008

3Da 4 a 6 mesi

5Non risponde

13Oltre 6 mesi

Tempo che intercorre tra la DID e il PAI

CPI Lazio

1 mese 7

Da 1 a 3 mesi 4

Tempi di realizzazione del PAI nei CPI del Lazio

Nella provincia di Roma, dove si trova la metà dei centri per l’impiego laziali, il coordinamento provinciale ci ha fornito dei dati relativi alle attività degli anni 2007 e 2008, che abbiamo inserito e confrontato nelle tabelle seguenti.

Preselezione Anno 2007 Anno 2008

N° domande pervenute dalle

Aziende ai CPI

2126 1848

N° posti disponibili presso

tali Aziende

10791 8810

N° candidati idonei

individuati dal CPI tra le autocandidature

44604 40934

N° matching mancati 132 102

da Coordinamento Centri per l’Impiego della Provincia di Roma

I centri per l’impiego della provincia di Roma hanno operato delle preselezioni di personale nel 2007 per meno di undicimila posti vacanti presso le aziende e meno di novemila nell’anno seguente. Sono stati selezionati un numero di candidati idonei maggiore rispetto al numero di posti vacanti in entrambi gli anni, sono stati realizzati la maggior parte degli incontri, purtroppo sono rimasti dei residui di posti non assegnati in entrambi gli anni nell’ordine delle cento unità. Le aziende che si rivolgono al centro per l’impiego non sono obbligate a scegliere i profili che gli vengono presentati a seguito della preselezione, quindi il maggiore o minor successo della proposta del centro può dare una misura della sua effettiva capacità di analisi, in un contesto di concorrenza con gli operatori privati, e ugualmente significativa può essere la fedeltà o meno dell’azienda nel servirsi anno dopo anno dell’operato del centro per l’impiego, stanti le altre possibilità costituite dagli operatori privati.

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Preselezione per Tirocini

Anno 2007 Anno 2008

N° domande pervenute dalle

Aziende ai CPI

174 160

N° posti disponibili presso

tali Aziende

324 351

N° candidati idonei

individuati dal CPI tra le

autocandidature

1605 4100

N° matching mancati 1 0

da Coordinamento Centri per l’Impiego della Provincia di Roma

Un analogo processo di preselezione viene operato per le richieste di tirocinanti da parte delle aziende. Qui si nota la particolare assenza di matching mancati, ma anche la minor numerosità delle richieste di tirocinanti rispetto alle richieste di lavoratori (è possibile che le aziende prediligano altri organismi di mediazione per la ricerca di tirocinanti stante, anche in questo campo, una concorrenza tra gli operatori).

2.1.5) L’incidenza dei CPI nell’attivazione di nuove relazioni di lavoro nel Lazio

Iniziativa del CPI

N°°°° Rapporti di lavoro attivati

Anno 2007 Anno 2008

Preselezione Subordinato 1310 806

Autonomo 109 181

Totale 1419 987 (-432)

da Coordinamento Centri per l’Impiego della Provincia di Roma

Attività dei CPI nella creazione di nuovi posti di Lavoro

Incidenza dei CPI nella creazione di nuovi posti di Lavoro

N°°°° nuovi posti di

lavoro attivati incremento di occupati dal 2007 al 2008

Percentuale di posti attivati tramite i CPI della provincia di Roma nel 2008

RM 16000 6,1%

A seguito delle iniziative dei CPI della provincia di Roma sono stati attivati negli ultimi anni rapporti di lavoro autonomo e subordinato nell’ordine dei mille posti di lavoro, che, rapportati al

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contestuale incremento di occupati nella stessa zona, ci mostrano che l’incidenza che l’operato dei centri per l’impiego ha fin ora avuto è stata quella di veicolare il 6,1% dei nuovi posti di lavoro.

2.1.4) La condivisione delle informazioni tra i CPI laziali

Il CPI condivide informazioni con

Si No

Borsa Continua

Nazionale del Lavoro

(www.borsal

avoro.it)

Nodo provinciale

7 25

Nodo

regionale

5 27

centro 7 25

Altri CPI 21 11

INPS 14 18

INAIL 10 23

Consulenti del Lavoro 8 25

Università 2 27

Organizzazioni sindacali 7 22

da Agenzia Regionale Lazio Lavoro I CPI del Lazio dicembre 2008

La logica dei nuovi centri per l’impiego prevede una forte connessione tra centri di raccolta delle informazioni che nel Lazio ancora non è completa. La Borsa Continua Nazionale del Lavoro è parzialmente attiva, soprattutto tra singoli CPI, mentre a livelli più ampi territorialmente corrisponde un collegamento minore del singolo centro. Parzialmente collegati i CPI con l’INPS e l’INAIL, scarsa la connessione con Consulenti del Lavoro, Università e Organizzazioni Sindacali.

Conclusione

Il cambiamenti attraverso cui è passato il Collocamento italiano negli ultimi decenni sono radicali e presumibilmente non ancora completati per quella che è stata l’idea di dinamismo ed efficienza di questo strumento fondamentale per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tale nuovo sistema ha immaginato un cittadino dinamico che non abbia timore ad innovare la sua professionalità, a cambiare eventualmente attività, a tollerare periodi di non occupazione. Una logica, la “flexy”, che a livello europeo è stata concepita contestualmente alla “security”, cioè l’instaurazione di un contesto di ammortizzatori sociali che permettano di gestire questo nuovo approccio al lavoro senza ansia da parte del lavoratore. L’integrazione delle funzioni e delle informazioni sono aspetti fondamentali di questo sistema che mira ad essere rapido nell’individuare domanda e offerta di competenze nel mercato del lavoro. A livello locale il centro per l’impiego è stato immaginato come un luogo ricco di risposte diverse per bisogni diversi. Si è cercato di aggiornare le competenze delle persone che vi lavoravano nonché di introdurre delle figure professionali nuove e nuovi strumenti. Questa grande trasformazione di competenze, di organismi e di strumenti ha trasformato per il cittadino il diritto da rivendicare: non più il posto di lavoro ma l’occupabilità, da vivere in un contesto di protezione sociale.

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Bibliografia

Agenzia Regionale Lazio Lavoro, I Centri per l’Impiego del Lazio cosa come quando, dicembre 2008. Fadda S., Per una integrazione tra Politiche del Lavoro e Politiche di Sviluppo, Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Economia, 2008. Falasca G., I servizi privati per l’Impiego, Giuffrè Editore, Milano, 2006. Tridico P., Flessibilità, Sicurezza e Ammortizzatori Sociali in Italia, Working Paper n. 107, Dipartimento di Economia, Università Roma Tre, 2009.

Interviste dirette presso i responsabili CPI della provincia di Roma.

Sitografia

http://agenzialavoro.sirio.regione.lazio.it http://www.borsalavoro.it/ http://www.informaservizi.it http://www.isfol.it http://www.istat.it http://www.jobsoul.it http://www.lavoro.gov.it http://www.provincia.roma.it

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L’occupazione femminile: pari opportunità e politiche di conciliazione Francesca D’Angelo, Mara Palmieri

Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Economia “Federico Caffè”

1. Introduzione

Nel presente lavoro si è svolta un’analisi comparata sulla situazione occupazionale del genere femminile in Italia, rispetto ai maggiori Paesi Europei. Dopo aver messo in evidenza il risultato negativo, relativo al mancato raggiungimento degli standard stabiliti dalla Commissione europea, si è descritta, dettagliatamente, la realtà italiana. In primo luogo, si è parlato delle differenze di genere, anche in relazione alla distribuzione geografica; sono state esaminate le motivazioni che hanno causato l’attuale condizione delle donne, nel mercato del lavoro, sulla base di un confronto diretto con due specifici modelli di Welfare, appartenenti alla Gran Bretagna e alla Francia. E' stata posta l'attenzione sulla permanenza, nel nostro Paese, di un modello culturale eccessivamente tradizionalista, come una delle cause principali della discriminazione di genere; quest'ultimo aspetto è stato analizzato anche attraverso una descrizione della situazione regionale. Il problema è stato affrontato ulteriormente, evidenziando la palese inefficacia delle politiche di incentivazione e conciliazione, introdotte sulla base del Trattato di Amsterdam del 1997. In Italia i primi provvedimenti legislativi in merito, si sono avuti con la Legge 53 del 2000, che ha previsto i c.d. congedi parentali e gli interventi relativi all’introduzione di elementi di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, nonché l’offerta di servizi di cura, soprattutto per l’infanzia, e con la legge Finanziaria del 2006, la quale ha previsto sgravi fiscali per le imprese del Mezzogiorno che assumono forza lavoro femminile. In Italia, come mostra l'analisi effettuata, l’introduzione di queste politiche non ha comportato gli effetti sperati, a causa delle basse indennità previste, per la fruizione dei congedi parentali, ma anche per la scarsa copertura dei servizi per l’infanzia rispetto alla reale richiesta. Appare piuttosto chiaro, ancora, lo scarso utilizzo, da parte delle aziende, della tipologia di contratto part-time, strumento che, come dimostra l'esperienza di altri Paesi Europei, risulta essere molto utile per un corretto bilanciamento tra lavoro e carichi familiari. Il presente lavoro dimostra, inoltre, che nonostante le donne siano in possesso di una percentuale maggiore di titoli elevati e pertanto, in media, più preparate degli uomini, esse ricoprano professioni prettamente femminili, le quali precludono loro l’accesso a posizioni di rilievo; questo aspetto, si evince anche analizzando i dati riguardanti la tipologia di studi intrapresi dalla componente femminile, la quale si riversa, infatti, in settori prevalentemente umanistici. Questa situazione provoca delle conseguenze inevitabili per ciò che concerne l'aspetto salariale, poiché si riscontra un forte scarto retributivo tra uomini e donne; questo accade sia, perché le professioni a cui hanno più facilmente accesso, comportano una retribuzione minore, ma anche per il persistere di un tipo di discriminazione soggettiva, basata, unicamente sulle differenze culturali e di genere. L'esame prosegue con un’analisi di due differenti modelli di Welfare, in riferimento a Regno Unito e Francia, ponendo l’attenzione sulle politiche sociali adottate; infine sono state riportate le più importanti proposte di riforma che hanno alimentato il dibattito in Italia, negli ultimi anni, e le relative critiche che ancora oggi ne impediscono l’ applicazione. 2. L’occupazione femminile in Italia

Nel contesto europeo, l’Italia emerge per una situazione particolarmente grave, in termini di partecipazione al mercato del lavoro, della componente femminile: nel 2007, infatti, si è registrato un tasso di occupazione delle donne pari al 46,7%. Questo è un dato piuttosto allarmante, come

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risulta chiaro, dal confronto con gli altri Paesi dell’Unione Europea, soprattutto tenendo presente, l’obiettivo fissato dalla Strategia di Lisbona, del raggiungimento del 60% di occupazione femminile, entro il 2010. Tabella 1- Tassi di occupazione femminile nei paesi UE

Anni

Paese

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

Danimarca

71.6

72.0

71.7

70.5

71.6

71.9

73.4

73.2

Svezia 70.9 72.3 72.2 71.5 70.5 70.4 70.7 71.8

Paesi Bassi 63.5 65.2 66.2 66.0 65.8 66.4 67.7 69.6

Finlandia 64.2 65.4 66.2 65.7 65.6 66.5 67.3 68.5

Gran Bretagna 64.7 65.0 65.2 65.3 65.6 65.8 65.8 65.5

Austria 59.6 60.7 61.3 61.6 60.7 62.0 63.5 64.4

Germania 58.1 58.7 58.9 58.9 59.2 60.6 62.2 64.0

Portogallo 60.5 61.3 61.4 61.4 61.7 61.7 62.0 61.9

Irlanda 53,9 54.9 55.4 55.7 56.5 58.3 59.3 60.6

Francia 55.2 56.0 56.7 58.2 58.2 58.5 58.8 60.0

Lussemburgo 50.1 50.9 51.6 50.9 51.9 53.7 54.6 56.1

Belgio 51.5 51.0 51.4 51.8 52.6 53.8 54.0 55.3

Spagna 41.3 43.1 44.4 46.3 48.3 51.2 53.2 54.7

Grecia 41.7 41.5 42.9 44.3 45.2 46.1 47.4 47.9

Italia 39.6 41.1 42.0 42.7 45.2 45.3 46.3 46.7

UE (15 Paesi) 54.1 55.0 55.6 56.2 57.0 57.8 58.8 59.7

Fonte: Eurostat 2007

3. Il problema della conciliazione

L’Italia presenta una situazione peculiare, poiché, si differenzia non solo dai Paesi nordici, come la Danimarca, che hanno scelto un diverso modello di Welfare, ma anche dagli Stati dell’area mediterranea, i quali hanno adottato politiche più simili rispetto al contesto culturale italiano. In primo luogo, ciò che si deve evidenziare, è la correlazione negativa, ormai consolidata, che esiste tra occupazione e carichi familiari; ossia, al crescere delle responsabilità familiari, che riguardano la vita domestica e la cura dei figli, diminuisce il tasso di occupazione femminile. Questo aspetto, si evince dall’analisi dei dati relativi ai diversi tassi di partecipazione, tra donne con figli e senza prole, considerazione che, peraltro, interessa anche i Paesi che risultano essere nel complesso più virtuosi20.

20 I dati Isfol Plus mettono in evidenza, che nel 2006 una donna su nove è uscita dal mercato del lavoro in seguito alla maternità. Due donne su tre motivano tale scelta con esigenze di cura e di assistenza dei figli (scelte volontarie o dettate da valutazioni costi/opportunità). L’aspetto da sottolineare, è, che nel resto d’Europa (quanto meno nei Paesi più evoluti e sviluppati) questo fenomeno non si verifica; in Italia, invece, i tassi di occupazione femminile più elevati riguardano le “persone isolate” ovvero le donne single o divorziate senza figli, che nelle classi centrali hanno tassi di occupazione non troppo distanti da quelli maschili.

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Grafico 1- Tasso di occupazione delle donne nei maggiori Paesi Europei per numero di figli

Fonte: Isfol Plus 2007 Quindi, una delle principali cause, di questo fenomeno, risiede nella difficoltà di conciliazione tra il lavoro retribuito e le responsabilità familiari, caratteristica molto rilevante, nella realtà italiana. Nel nostro Paese, infatti, si nota la preminenza di un modello culturale eccessivamente tradizionalista, che attribuisce quasi esclusivamente alla donna, la gestione del lavoro domestico e, più in generale, delle responsabilità derivanti, dalla creazione di una famiglia21. Ciò, può essere colto anche attraverso una disaggregazione dei dati, a livello regionale, che mostra come il persistere di tale stereotipo, produca un gap significativo, tra Nord e Sud della Penisola. Tabella 2- Tasso di occupazione 15-64 anni per sesso e ripartizione geografica

Ripartizioni

geografiche

Maschi Femmine Totale

Nord 75,8 56,3

66,1

Nord-ovest 75,0 56,0

65,6

Nord-est 76,8 56,8

66,9

Centro 71,9 50,5

61,1

Mezzogiorno 61,1 30,6

45,7

Fonte: Istat 2006

21 La diseguale distribuzione di genere, nel lavoro familiare, è un fenomeno che coinvolge tutti i Paesi europei, ma è preponderante, negli Stati del sud Europa. Nonostante un leggero miglioramento, avvenuto negli ultimi anni, il tempo quotidiano della componente maschile, investito in questo tipo di attività, è nettamente inferiore, rispetto alle donne.

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Come si evince, è soprattutto il Mezzogiorno, ad influire negativamente nella media nazionale; è utile sottolineare, però che, pur considerando il solo dato dell’area più virtuosa, in questo caso il Nord, non si raggiungerebbe comunque, l’obiettivo intermedio, fissato dall’Agenda di Lisbona, pari al 57%, previsto per il 2005. Disaggregando ulteriormente i dati, per classi di età, si capisce come, siano le fasce d’età estreme a ridurre il tasso medio di occupazione.

Grafico 2- Tassi di occupazione per età e genere

Fonte: Istat 2005

3.1. Le politiche di incentivazione e di conciliazione

Questa situazione, scaturisce, infatti, anche dalla mancanza di adeguate politiche di incentivazione e di conciliazione; con quest’ultime si intende l’offerta di orari flessibili o ridotti, come ad esempio il part-time e l’erogazione di servizi per l’infanzia e, più in generale, per tutti i familiari a carico (anziani e disabili). Le politiche di incentivazione, si basano prevalentemente, su trasferimenti diretti alle famiglie, nell’ipotesi che sostituiscano le cure che potrebbero essere erogate da una struttura esterna, sia essa pubblica o privata; ma riguardano anche politiche indirizzate direttamente alle imprese, le quali prevedono particolari incentivi alle aziende che assumono personale di sesso femminile. E’ stato il Trattato di Amsterdam, nel 1997, a promuovere la predisposizione di uno specifico ruolo, per la conciliazione nell’ambito delle politiche sociali; infatti si è preso atto di una condizione di oggettiva inaccessibilità, al mercato del lavoro, per le donne che si trovano a dover conciliare tra le diverse esigenze. Sostanzialmente, a livello europeo, si è cercato di intervenire su aspetti specifici, che riguardano la disponibilità dei servizi di cura, come gli asili nido e le scuole per l’infanzia, con orari c.d. friendly, che ne facilitano, cioè, la fruizione; infine, servizi di trasporto frequenti, con orari

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che rispettino le diverse necessità. Sono proprio questi aspetti, molto spesso a porre le donne, in una condizione molto spiacevole, di scelta tra lavoro e famiglia. 4. I provvedimenti legislativi in Italia Nonostante il dibattito in tema, si sia sviluppato ormai da alcuni anni, in Italia le politiche di conciliazione sono state elaborate in tempi piuttosto recenti. L’unica misura di incentivazione in senso stretto, è contenuta nella Finanziaria 2006, e consiste in una diminuzione degli oneri fiscali per le imprese del Mezzogiorno che assumono donne. Per quanto concerne, invece, le politiche di conciliazione, i provvedimenti in merito, si trovano nella Legge 53 del 2000, la quale ha introdotto i congedi parentali e ha previsto interventi relativi all’introduzione di elementi di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, nonché l’offerta di servizi di cura, soprattutto per l’infanzia. 4.1. I congedi parentali e i servizi pubblici per l’infanzia In riferimento ai congedi parentali, a distanza ormai di alcuni anni dall’entrata in vigore della normativa, i dati disponibili dimostrano, sia, lo scarso utilizzo di questo strumento legislativo, ma anche il persistere della tradizionale divisione dei ruoli. La prima ragione risiede sicuramente nella bassa indennità prevista, pari al 30% dell’ultima retribuzione, che non è assolutamente in grado di compensare la riduzione del reddito, che l’individuo subisce. In questo modo, le donne propendono per l’abbandono del lavoro e gli uomini sono indotti a non usufruire di tale possibilità. Inoltre si deve sottolineare che, in Italia l’erogazione dei servizi di cura per l’infanzia è molto carente, e anche quando è presente, risulta qualitativamente inadeguata: la copertura è pari al 6% , dato che risente della forte diversità geografica, a livello regionale.

Tabella 3- Tasso di copertura e orario di apertura dei servizi pubblici per l’infanzia (0-2 anni)

Paese Copertura (%) Ore di apertura

(al giorno)

Italia 6,0 9,0

Austria 10,0 7,0

Belgio 30,0 9,0

Danimarca 55,0 10,5

Finlandia 23,0 10,0

Francia 39,0 10,0

Germania 9,0 10,0

Grecia 3,0 9,0

Irlanda 2,0 9,0

Lussemburgo 3,0 9,0

Paesi Bassi 2,0 10,0

Portogallo 12,0 7,0

Spagna 5,0 5,0

Svezia 40,0 11,0

Regno Unito 2,0 8,0

Fonte: Istat 2006

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Le strutture sono sicuramente in misura minore rispetto alla domanda e quelle esistenti non soddisfano le necessità di una madre lavoratrice: la presenza di orari piuttosto rigidi e un rapporto tra qualità del servizio e relativo costo, si rivelano spesso condizioni proibitive per le famiglie. Si devono considerare, per di più, barriere di tipo culturale, che impediscono alle donne di scegliere serenamente, l’affidamento dei figli a strutture esterne.

5. L’occupazione part-time Oltretutto, le donne hanno dovuto adeguarsi ad un modello occupazionale prettamente maschile, caratterizzato da un orario che occupa l’intera giornata; sebbene siano state introdotte alcune modifiche normative, che incentivano le imprese al ricorso ad un tipo di occupazione part-time, in Italia la domanda risulta alquanto bassa. Soltanto il 26,4% lavora a tempo parziale, rispetto a valori molto più elevati, riscontrabili nei Paesi del nord Europa22. Grafico 3 - Confronto occupati part-time per sesso femminile tra l’Italia e la media UE.

Fonte: Eurostat

6. La segregazione professionale

Molte ricerche mettono il luce, altresì, come la discriminazione, colpisca, anche se in misura minore, le donne con un titolo di studio molto elevato: a questo proposito è interessante notare, come nel 2006, esse abbiano ottenuto il 58,9% delle lauree universitarie nell’Unione Europea; questo dato, però, non si riflette nell’assetto del mercato del lavoro. Il primo aspetto da tener presente riguarda la segregazione professionale, rimasta invariata nel corso degli anni: le donne hanno una probabilità maggiore di svolgere professioni, più femminilizzate, che impediscono loro, molto spesso, di accedere a posizioni di rilievo. Basti pensare, che esiste un divario, nel momento stesso in cui si sceglie la tipologia di studi da affrontare.

22 Si deve notare che, vi è una differenza notevole, anche alla base di tale scelta: in Stati come l’ Olanda e la Danimarca, ad esempio, le donne ritengono che la motivazione principale, nell’optare per un contratto part-time, risieda nella loro libera scelta, mentre per le donne italiane, rimane, nella maggioranza dei casi, una costrizione dovuta alle difficoltà di conciliazione, tra lavoro e vita privata.

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Tabella 4- Studenti immatricolati per tipologia dei corsi e genere Gruppi Uomini Donne

Scientifico 75.4 24.6

Chimico- farmaceutico 37.8 62.2

Geo-biologico 38.7 61.3

Medico 36.3 63.7

Ingegneria 81.6 18.4

Architettura 51.7 48.3

Agrario 56.9 43.1

Economico-statistico 51.7 48.3

Politico-sociale 38.7 61.3

Giuridico 41,3 58,7

Letterario 34,1 65,9

Linguistico 18,2 81,8

Insegnamento 10,3 89,7

Psicologico 21,1 78,9

Educazione fisica 68,7 31,3

Difesa e sicurezza 83,5 16,5

Totale 44,2 55,8

Fonte: Miur 2006

Questa situazione si riflette, anche nella struttura del mercato del lavoro: le donne si concentrano in professioni che rientrano nell’ ambito dell’insegnamento, in quello psicologico e linguistico, a scapito di impieghi che richiedono una forte preparazione scientifica. Allo stesso tempo, il persistere di un modello antropologico basato su una marcata differenza fra i sessi, impedisce alle donne, la possibilità di accedere a cariche più elevate; questo fenomeno, identificato con l’ormai nota espressione “soffitto di cristallo

23”, è facilmente osservabile, dall’analisi dei dati relativi alla

distribuzione del genere femminile rispetto alla professione. Tabella 5- Distribuzione delle donne rispetto alla professione - (in migliaia) Legislatori,dirigenti,imprenditori 286

Professioni intellettuali 1.010

Professioni tecniche intermedie 2.333

Professioni esecutive - amministrative 1.444

Professioni vendita servizi 1.942

Artigiani, operai, agricoltori 673

Conduttori di impianti e macchine 364

Professioni non qualificate 993 Forze armate 4

Totale 9049

Fonte: Istat 2006

23 Gli effetti di tale segregazione verticale, sono osservabili in tutte le professioni; in particolare vi è una scarsa presenza di donne in posizioni apicali, in quei settori fondamentali, quali l’economia, la politica, ecc.

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Tabella 6- Donne occupate dipendenti per posizione e settore di attività economica dal 1996 al 2006 – in migliaia 1996 1998 2000 2002 2004 2006

Agricoltura 142 133 124 136 134 155

Industria 1.307 1.331 1.336 1.345 1.347 1.314

Industria in senso stretto 1.259 1.281 1.278 1.277 1.271 1.241

Costruzioni 48 49 58 68 76 74

Servizi 4.105 4.300 4.705 5.123 5.351 5.727

Totale DIPENDENTI 5.554 5.763 6.166 6.604 6.832 7.198

Fonte: Istat 2006 Tabella 7- Donne occupate indipendenti per posizione e settore di attività economica dal 1996 al 2006 – in migliaia 1996 1998 2000 2002 2004 2006

Agricoltura 239 219 190 176 173 145

Industria 226 225 232 235 224 201

Industria in senso stretto 204 206 204 208 193 177

Costruzioni 21 29 28 27 31 24

Servizi 1.304 1.401 1.458 1.505 1.554 1504

Totale INDIPENDENTI 1. 849 1.55 1.881 1.917 1.951 1.851

Fonte: Istat 2006 7. La discriminazione salariale Una delle principali conseguenze, si trova nel costante scarto di retribuzione (17,4% nella media UE), nonostante siano mediamente più qualificate; in particolare il differenziale salariale, è dovuto, sia alla composizione dell’occupazione femminile, la quale si concentra in professioni che hanno una retribuzione minore, ma anche ad un trattamento fortemente discriminatorio, a parità di posto di lavoro occupato. In Italia, lo scarto retributivo, oscilla tra il 7% e il 15%24; il Paese, quindi, si trova al di sotto della media Europea, ma, si deve tenere conto che molte donne, in presenza di un’offerta 24 Il valore cambia a seconda del metodo di calcolo utilizzato.

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di retribuzione più bassa rispetto al proprio salario di riserva, decidono, direttamente, di uscire dal mercato del lavoro. Considerando, pertanto, i tassi di disoccupazione e inattività, è evidente che, il divario tra uomini e donne, sia molto più elevato di quanto possa apparire, considerando unicamente lo scarto retributivo.

8. Confronto tra il tasso di disoccupazione e il tasso di inattività

Nel 2007, il tasso di disoccupazione delle donne, è rimasto sempre piuttosto elevato (8,1%) rispetto al 5,1% degli uomini; più interessante è l’andamento del tasso di inattività25: a prescindere dalle motivazioni, le donne rappresentano circa il doppio degli inattivi, rispetto alla componente maschile. La caratteristica italiana riguarda proprio quest’ultimo aspetto: mentre, si è osservato in quasi tutti i Paesi Europei che, al diminuire del tasso di disoccupazione, si è ridotto anche il tasso di inattività, in Italia è avvenuto l’opposto ed in maniera rilevante , appunto, per il sesso femminile.

Grafico 4- Tasso di disoccupazione per genere

Fonte: Eurostat 2007

Grafico 5- Tasso di inattività per genere

Fonte: Eurostat 2007

25 Comprende tutti gli individui fuori dal mercato del lavoro, includendo anche coloro che non cercano una occupazione.

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Il tasso di inattività della componente femminile, è più elevato sia rispetto agli uomini, sia alla media UE relativa alle sole donne.

Grafico 6- Confronto fra i tassi di inattività UE e Italia per genere femminile

Fonte: Eurostat 2007 9. Analisi di due modelli europei: il Regno Unito e la Francia Di seguito vengono riportate le strategie attuate, in tema di politiche fiscali e redditi familiari, nei due Paesi sopraindicati. 9.1. Il Regno Unito

Nel Regno Unito i Tax Credits, rappresentano la principale forma di intervento volta a sostenere, il costo dei servizi di cura delle famiglie e dei lavoratori. Il Children Tax Credit e il Working Tax

Credit sono stati introdotti nell’Aprile del 2003, nel quadro di un ampio processo di riforma del Welfare, operata dal Governo Laburista a partire dal ’97, per affrontare i problemi legati alla disoccupazione ed al disagio sociale, riconciliando il lavoro, facendo però attenzione che il regime d’aiuto non inficiasse la convenienza a lavorare. Il Child Tax Credit supporta le famiglie con bambini, indipendentemente dal fatto che i genitori lavorino. E’ importante sottolineare che tra gli obiettivi del governo inglese a sostegno delle famiglie con bambini vi era anche quello di intervenire sul problema della povertà infantile.

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Tabella 8- Child Tax Credit per i diversi livelli di reddito Child Tax Credit (£) Reddito lordo annuale congiunto (£)

Un bambino Due bambini Tre bambini

Senza lavoro 2.390 4.240 6.090

5.000 2.390 4.240 6.090

8.00 2.390 4.240 6.090

10.000 2.390 4.240 6.090

15.000 2.205 4.055 5.900

20.000 545 2.205 4.050

25.000 545 545 545

30.000 545 545 545

35.000 545 545 545

40.000 545 545 545

45.000 545 545 545

50.000 545 545 545

55.000 210 210 210

60.000 - - -

Fonte: Cnel 2008

Possono richiedere il Children Tax Credit tutte le famiglie con un bambino (da 1 a 16 anni) o di un giovane (generalmente in formazione) di non oltre i 20 anni di età; esso costituisce un’ indennità per chi generalmente si occupa in via principale del bambino, normalmente la madre, ma può essere anche una persona diversa dal genitore, purché dimostri di occuparsi realmente del bambino. L’ammontare dell’indennità corrisposta viene conteggiato tenendo in considerazione diversi parametri: il numero dei bambini o giovani a carico, l’eventuale presenza di un disabile e il reddito. Possono far richiesta del Children Tax Credit, le famiglie con reddito massimo pari a 58.178 sterline, che può arrivare a 66.350 sterline, in presenza di un bambino al di sotto di un anno di età, per effetto di un ulteriore elemento detto “Baby element”. Il pagamento dell’indennità viene eseguito tramite istituzioni, che effettuano pagamenti diretti; si può inoltre scegliere tra un indennizzo settimanale o mensile. Esso è decrescente, all’aumentare del reddito e si compone di due elementi: una componente famiglia, erogata a ciascuna famiglia con almeno un bambino e che può arrivare fino a 1.845 sterline ( valore indicato per l’anno 2007/2008); una parte, invece, per ciascun bambino della famiglia, che può arrivare fino a 1.845 sterline. Il Child Tax Credit è corrisposto indipendentemente dal fatto che il genitore lavori o meno, esso si somma, infatti, al Child Benefit che costituisce un’altra forma di finanziamento rivolta ai genitori, che, se a loro volta, sono lavoratori, possono ricevere il contributo del Working Tax Credit. Esso costituisce un esempio più articolato di intervento: sostituisce il precedente Working Family Tax Credit, ed estende per la prima volta i benefici del Tax Credit anche ai lavoratori senza figli. Rappresenta un intervento, volto a sostenere i bassi salari , poiché, contiene due extra benefit collegati alla disabilità (per la presenza in famiglia di una persona disabile o disabilità del lavoratore stesso) e alla responsabilità di uno o più bambini o giovani per cui si sostengono spese di cura. Possono far richiesta del Working Tax Credit, i lavoratori che hanno almeno 25 anni di età e che lavorano per almeno 30 ore settimanali; l’ammontare dell’indennità dipende da fattori relativi al

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reddito , alle ore lavorative , alla presenza e al numero di figli , di un disabile e all’entità delle spese per i servizi relativi ala cura. Viene preso in considerazione il reddito familiare, mentre per i single e per le persone permanentemente separate, ci si riferisce alle condizioni personali. Vi è un reddito massimo per accedere alla misura pari a 58.178 sterline annue; bisogna tenere presente che, anche in questo caso, l’indennità decresce all’aumentare del reddito familiare. Il pagamento del Working Tax Element è fatto direttamente al lavoratore i busta paga o presso un conto bancario; i genitori che lavorano e rientrano nelle condizioni di accesso previste dalla misura, ne possono far richiesta, se sostengono spese di cura purché i partners della coppia, lavorino almeno 16 ore settimanali ( non è richiesto che il secondo partner lavori quando esso sia invalido o vi sia presenza di un disabile).

Tabella 9- Esempi di calcolo delle indennità per l’anno 2007-2008. WORKING TAX CREDIT - ELEMENT IMPORTO MAX DOVUTO-ANNUALITA’

Elemento base pagato a ciascun avente diritto a ricevere la working tax credit

£ 1.730

Elemento secondo adulto

£ 1.700

Elemento “genitore solo”

£ 1.700

Elemento pagabile con 30 ore di lavoro settimanale ( uno o più figli)

£ 705

Elemento disabile

£ 2.310

Elemento disabilità grave

£ 980

Elemento per i lavoratori over 50 che ritornano al lavoro dopo un periodo di indennità

£ 1.185 (in caso di lavoro dalle 16 alle 29 ore per settimana) £ 1.700 (lavoro per 30 ore a settimana)

Childcare elment, per il quale si possono ricevere fino all’80 % dei costi eleggibili per i servizi di cura riconosciuti.

£ 175 costi massimi eleggibili per settimana per un bambino £ 300 costi massimi eleggibili a settimana per due o più bambini

Fonte: Cnel 2008

Il Children element rimborsa l’80 % dei costi delle spese sostenute e riconosciute, ma ha un tetto massimo a livello settimanale; le spese riconosciute e rimborsabili, sono determinate da regolamenti nazionali o locali e comprendono un’ampia gamma di servizi. Il pagamento dell’ elemento bambino, del Working Tax Credit, è dato direttamente al principale responsabile nella famiglia, unitamente al Children Tax Credit. 9.2. La Francia

L’analisi del modello francese, riguarda i seguenti ambiti: servizi per l’infanzia, congedi dal lavoro, sussidi/premi, inserimento/reinserimento al lavoro, conciliazione e flessibilità.

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Per quanto riguarda i congedi parentali si individuano le seguenti categorie: Congedo di paternità: un lavoratore può chiedere di beneficiare di un congedo indennizzato, dagli 11 ai 18 giorni di calendario; se ci si avvale di tale strumento, il lavoro è sospeso e il salario non è erogato; al rientro il lavoratore deve trovare il suo precedente posto di lavoro o uno simile, con una remunerazione almeno equivalente. Congedo di solidarietà familiare: Permette a tutti i salariati di assentarsi per assistere un malato grave ed ha una durata massima di tre mesi, rinnovabile una sola volta; con l’accordo del datore di lavoro può essere trasformato in lavoro a tempo parziale. Il periodo del congedo è conteggiato ai fini dell’anzianità. Congedo di sostegno familiare: si rivolge ai salariati con un’anzianità di lavoro minima nell’impresa di due anni; non è remunerato ed ha una durata di tre mesi, inoltre, può essere rinnovato, ma non può superare un anno nella carriera lavorativa di una persona e viene utilizzato per assistere un familiare. Congedo parentale d’educazione: può essere utilizzato da un lavoratore o da lavoratrici dipendenti, con almeno un anno di anzianità per la nascita o l’adozione di un figlio. Questo tipo di congedo permette di interrompere o di ridurre l’attività professionale; nel primo caso il contratto di lavoro è sospeso, mentre nel secondo caso, il part-time deve essere uguale ad almeno 16 ore settimanali; il lavoratore/lavoratrice decide la durata, mentre è con il datore di lavoro, che deve essere stabilita la ripartizione. Congedo per bambino malato: può essere richiesto senza particolari condizioni di anzianità lavorativa. Le persone in cerca di lavoro, che percepiscono come indennità un sostegno economico di solidarietà specifico, possono cumulare per un determinato periodo di tempo e a certe condizioni, l’indennità con il reddito dell’attività di impresa. Queste indennità vengono erogate nei seguenti casi : Aiuto alla ripresa delle attività delle donne (ARAF) che consiste in un aiuto per la cura dell’infanzia, destinato alle madri alla ricerca di lavoro. Possono usufruirne all’avvio o alla ripresa della prestazione lavorativa, quale sostegno finanziario per far fronte ai costi generati dalla cura dei bambini. L’ammontare della somma differisce in base alle varie situazioni : per un bambino di età inferiore ai sei anni, è pari a 305 euro; è, invece di 460 euro, se se uno dei bambini non è secolarizzato. Il premio per il ritorno al reimpiego, è di 1000 euro e può essere erogato ai beneficiari dell’indennità di solidarietà specifica; esso è un aiuto per il mantenimento dell’attività professionale, ed è concesso alle persone che esercitano un’attività professionale salariata o non salariata, a determinate condizioni di risorse; l’ammontare è calcolato rispetto al reddito di attività; è dedotta dalle imposte sul reddito o versato direttamente al beneficiario se non è soggetto a tassazione. Il salario minimo d’imposta rappresenta la retribuzione minima, al di sotto della quale è vietato remunerare un salariato e garantisce la permanenza del potere d’acquisto. Per quanto riguarda i servizi di cura, per i bambini al di sotto dei 6 anni, ne sono previsti diversi: una modalità di accoglienza collettiva, individuale, una riduzione o una sospensione dell’attività professionale dei genitori, finalizzata alla cura dei bambini ed un servizio minimo di accoglienza nel periodo degli scioperi. 10. Le proposte di riforma in Italia Per ciò che riguarda l’Italia, sono state proposte delle misure fiscali come incentivo all’occupazione femminile.

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10.1. La tassazione di genere

La proposta di una tassazione di genere

26 consiste in una riduzione dell’aliquota di imposta sul reddito da lavoro delle donne e un aumento dell’aliquota su quello degli uomini. Questa teoria si fonda sull’evidenza empirica delle differenze di genere, che si riflette nell’elasticità dell’offerta di lavoro; essa è maggiore, nell’offerta di lavoro femminile, a fronte di una relativa anelasticità, dell’offerta di lavoro maschile. Una diminuzione, anche forte, dell’aliquota fiscale, applicata alle donne, non diminuirebbe di molto il gettito fiscale prodotto dalle loro retribuzioni, perché crescerebbe l’occupazione femminile e quindi la base imponibile su cui quella minore aliquota si applicherebbe. L’analisi di Alesina e Ichino del 2007, mostra come il modello dell’offerta di lavoro di base si modifichi inserendo la possibilità di contrattazione tra le parti, partendo dal presupposto che se i componenti di un nucleo familiare mettessero in comune i propri redditi, si potrebbe generare un miglioramento anche del benessere familiare, applicando una tassazione differenziata in base al genere e cambiando quindi i rendimenti delle diverse attività lavorative. Le osservazioni a tale proposta sono state diverse, ossia: se si considera che, l’offerta di lavoro femminile, è in media più elevata di quella maschile, la letteratura non è concorde sul valore delle stime e mostra differenze nei vari livelli, sia all’interno dell’occupazione femminile, (ad esempio tra donne più istruite la cui offerta di lavoro risulta meno sensibile a variazioni del salario reale), che all’interno dell’offerta di lavoro maschile, con una maggiore elasticità. Risulta quindi necessario differenziare, non solo in base al genere; la stessa definizione delle aliquote ottimali sarebbe sottoposta ad un elevato margine di incertezza e dovrebbe tener conto dell’esistenza di discriminazione salariale. La risposta, in termini di maggior numero di ore, sarà inferiore rispetto a quanto atteso teoricamente, a causa della relativa rigidità della domanda di lavoro, per le difficoltà che incontrano le donne che hanno problemi di cura di altri familiari, in ragione dell’incompatibilità degli orari di lavoro retribuito con gli orari di apertura dei servizi di assistenza e delle scuole, e di altri elementi presenti nella funzione di utilità individuale, non riconducibili soltanto all’incentivo monetario. I benefici per la famiglia possono realizzarsi in termini di benessere se i componenti mettono insieme i loro redditi o se, in assenza di questo presupposto, ma in presenza di figli, si considera l’effetto positivo che in altri contesti è stato empiricamente riscontrato dall’aumento del reddito delle madri rispetto al benessere dei propri figli. Sono state sollevate obiezioni i termini di equità alla proposta per l’atteso aumento delle differenze di reddito fra coppie aventi diversi livelli di reddito. 10.2. Il Credito d’imposta

Il credito d’imposta, è una proposta che pur avendo natura di incentivo fiscale, va considerato come un sussidio alle spese di cura. L’effetto che vuole sortire, è quello di incentivare l’occupazione femminile, anche se il suo effetto dipende sia della soglia di reddito, sia dalle aliquote di imposta sui redditi. Gli economisti Del Boca e Boeri, propongono l’introduzione di un credito di imposta, per le famiglie con un reddito inferiore alla soglia, aventi familiari a carico, che copra il 70% delle spese sostenute per la cura dei familiari, stabilendo un tetto massimo per la coperture delle stesse e al fine di incentivare la distribuzione del lavoro non pagato della coppia, legato all’attività lavorativa di entrambi i coniugi. Nel caso in cui la soglia venga superata, la proposta prevede un trasferimento; i costi di questa misura dipendono dalla soglia di reddito che viene scelta.

26 E’ stata avanzata dagli economisti Alesina e Ichino.

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10.3. Il Quoziente familiare

Per quanto riguarda l’introduzione del quoziente familiare, sono state avanzate diverse proposte. In generale è prevista l’applicazione, su un’unità impositiva di base, data dalla somma dei redditi individuali, di un’imposta familiare. La somma dei redditi del nucleo familiare viene divisa per un quoziente che rappresenta e pesa i suoi componenti; l’imposta viene calcolata sul reddito pro-capite, che risulta da questo rapporto, moltiplicata per il denominatore al fine di ottenere l’imposta familiare complessiva. Le proposte presentate, si differenziano per il peso attribuito ai componenti del nucleo familiare con redditi più bassi, che data la presenza di differenziali salariali a svantaggio delle donne, si traduce in un disincentivo all’offerta di lavoro femminile. Le maggiori critiche a questa teoria riguardano, il fatto che la riduzione della progressività dell’imposta potrebbe avvantaggiare i nuclei familiari con i redditi più alti; altre sono riferibili ai costi amministrativi e organizzativi riconducibili al cambiamento dell’unità impositiva. 11. Conclusioni Nell’ analisi effettuata sull’occupazione femminile, sono emerse delle disparità sostanziali, tra uomo e donna, in ambito lavorativo; sono state evidenziate le differenze retributive, derivanti anche da un elevato squilibrio, tra le mansioni ricoperte dagli uomini e le professioni esercitate dalle donne, poiché meno propense a sacrificare il proprio tempo per la carriera. E’ stata posta l’attenzione sull’inefficacia delle politiche di conciliazione, attuate in Italia, tenendo presenti anche le proposte di riforma presentate negli anni e risulta, quindi, evidente la gravità di tale situazione. Molti studi, hanno, infatti, sottolineato, come, promuovere la crescita dell’occupazione femminile, non riguardi soltanto una considerazione di pari opportunità; più in generale, vi è una ragione di natura strettamente economica. E’ stato accertato, infatti, dall’esperienza, di altri Paesi, che promuovendo l’occupazione femminile, si genera un circolo virtuoso, di crescita, rappresentato dall’aumento del PIL: con adeguate politiche di conciliazione molte donne, potrebbero vivere la propria scelta, con maggiore serenità. Si riscontrerebbe, così un aumento della natalità, con un conseguente ampliamento della domanda, nel settore dei servizi, che a sua volta, darebbe vita a maggiori investimenti e pertanto, un ulteriore domanda di lavoro e un successivo innalzamento del tasso di occupazione e quindi, dei redditi prodotti. Per questo in una nazione come l’Italia, che si caratterizza, anche per una crescita economica stagnante, utilizzare forza lavoro femminile, rappresenterebbe, uno strumento di ripresa di notevole importanza.

Bibliografia

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Isfol, “Differenziale salariale di genere e lavori tipicamente femminili”, Gennaio 2009.

Istat, “Conciliare lavoro e famiglia, una sfida quotidiana”, Roma, 2006.

73

Istat, “Rilevazione annuale sulle forze di lavoro: contenuti, metodologie, organizzazione”, Roma, 2008.

Naldini M., “Le politiche familiari in Europa”, in “Famiglie: mutamenti e politiche sociali, Bologna, il Mulino, 2001. Commissione delle Comunità Europee, “Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al comitato delle Regioni, Parità tra donne e uomini - 2009”, Bruxelles, 2009.

Sitografia

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ec.europa.eu/eurostat

www.ilsole24ore.com

www.isfol.it

www.istat.it www.lavoce.info

www.miur.it

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Assetti contrattuali e dinamiche macroeconomiche: dal Protocollo del 1993 all’Accordo interconfederale del 2009

Giovanni Rufini

Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Economia “Federico Caffè” Introduzione Nel corso degli ultimi 12 mesi le parti sociali hanno fortemente spinto affinché fosse trovato un accordo interconfederale sulla contrattazione collettiva, accordo che superasse la prassi stabilita dal Protocollo del Luglio 1993. La volontà del nuovo esecutivo insieme al pieno manifestarsi della crisi economico-finanziaria globale ha ulteriormente accelerato i tempi. La ratifica dell’Accordo interconfederale il 15 Aprile scorso è l’ultimo passaggio di un percorso costruito faticosamente mediante buoni propositi e spiriti recriminativi, intese mantenute ed intese rotte. La solidità dell’Accordo subisce il tremore della mancata firma della Cgil (firma che fu invece apposta sul Protocollo del 1993, malgrado fosse un accordo maggiormente di rottura rispetto alla prassi corrente). Allo stato attuale infatti il più rappresentativo sindacato italiano non ha firmato il patto, anche se è intenzionato ad evitare ostruzionismi pregiudiziali in seno alle singole contrattazioni nazionali venture, anzi cercherà di rimandare al piano programmatico che i tre sindacati confederali avevano firmato prima dell’accordo con il Governo e le associazioni datoriali.

2008

• Il 14 Aprile la coalizione di centro-destra vince le elezioni politiche con una larga maggioranza, Maurizio Sacconi viene nominato ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali.

• L’8 Maggio le segreterie dei tre sindacati confederali approvano un documento propositivo sui nuovi modelli contrattuali e su di una nuova forma di rappresentanza da presentare al sindacato datoriale ed al Governo. Lo scopo è il superamento dei parametri di contrattazione collettiva fissati dal Protocollo del Lavoro approvato il 23 Luglio 1993. Il documento viene così introdotto: “Obiettivi centrali sono il miglioramento delle condizioni di reddito, di sicurezza e qualità del lavoro dei lavoratori attraverso la crescita della qualità, del nostro paese, delle sue reti materiali e immateriali, del suo stato sociale e della qualità, competitività e produttività delle imprese. L’obiettivo è la realizzazione di un accordo unico che definisca un modello contrattuale per tutti i settori pubblici e privati. Va, quindi, aperto un tavolo con tutte le Associazioni datoriali e con il Governo”

• Il 28 Maggio viene organizzato un seminario a cui partecipano il Ministro Sacconi e i tre direttori generali degli ex-ministeri (Lavoro e Previdenza Sociale - Salute - Solidarietà Sociale) in cui è annunciata la realizzazione entro la fine di giugno di un Libro Verde su un “welfare capace di creare non solo tutele passive, o peggio privilegi, ma anche opportunità e percorsi realistici di crescita e di inclusione sociale”.

• Il 10 Giugno CGIL, CISL e UIL e Confindustria decidono di avviare un confronto sulla riesamina delle norme e sui tempi di contrattazione collettiva fissate dal Protocollo del Lavoro firmato il 23 Luglio 1993

• Il 25 Luglio è stato presentato al Consiglio dei Ministri il Libro Verde sul futuro del modello sociale. Obiettivo del Libro Verde è avviare un dibattito pubblico sul futuro del sistema di Welfare in Italia. Il documento, in analogia con i medesimi strumenti adottati dalla Commissione europea, è infatti rivolto a tutti i soggetti istituzionali, sociali e professionali per condividere la visione sul disegno di un nuovo modello sociale. Per il Ministro Sacconi il documento avrà una doppia valenza strategica: da un lato fungerà da base di partenza del confronto tra Esecutivo e parti sociali nell’ottica di un grande patto per

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la crescita; dall’altro, sarà trampolino di lancio per quello che riguarda il nuovo modello contrattuale e gli accorgimenti da introdurre nel medio periodo sul versante previdenziale.

• Il 12 Dicembre la CGIL proclama uno sciopero generale contro le politiche del Governo sui temi del lavoro (riforma degli ammortizzatori sociali), sulla fiscalità generale e sul generico atteggiamento dell’esecutivo di fronte alla crisi occupazionale globale che si sta progressivamente strutturando.

2009

• Il 22 Gennaio il Governo convoca le parti sociali per presentare l’ipotesi di Accordo Quadro sulla riforma degli assetti contrattuali che dovrebbe durare in via sperimentale per 4 anni, sostituendo interamente le regole comunemente individuate con l’Accordo del Luglio del 1993. Governo, CISL, UIL, UGL e le Associazioni Imprenditoriali la sottoscrivono (condividono ma non sottoscrivono subito LEGACOOP, ANIA, ABI). La CGIL prima chiede la possibilità di emendare l’Accordo ed in seguito non firma giudicando “irresponsabile da parte del Governo, in un momento in cui il sistema economico–produttivo è in crisi strutturale e l’occupazione cala drasticamente ogni giorno, non promuovere iniziative concrete sul fronte della gestione emergenziale e strategica della crisi.”

• Il 30 Marzo la CGIL indice un referendum consultivo sull’Accordo del 22 Gennaio: il totale dei votanti è di 3.643.836 persone e, sottraendo al totale i pensionati, su 2.827.561 sono 2.665.205 (pari al 97%) i lavoratori che si sono dichiarati contrari. Il segretario generale della CISL Raffaele Bonanni commenta con durezza l’iniziativa: “Ci meraviglia che una organizzazione come la Cgil possa ricorrere ad una panzana così clamorosa solo per fare propaganda alla vigilia di una propria manifestazione. Ma in questo modo si mina la credibilità dell'intero sindacato confederale.” Il segretario generale della CGIL Guglielmo Epifani a sua volta accusa CISL e UIL di aver privato i propri associati di qualsiasi iniziativa democratica volta a supportare “dalla base” l’Accordo.

• Il 15 Aprile il Governo, le associazioni datoriali, CISL, UIL e UGL ratificano l’Accordo interconfederale per l’attuazione dell’accordo-quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009.

1. Dalla scala mobile all’Accordo interconfederale del 1993

La politica di stabilizzazione dell’economia e del livello dei prezzi mediante la legislazione degli aumenti salariali è sempre stata una costante nel nostro Paese. Nel corso degli anni ’70 il parametro di indicizzazione delle retribuzione all’inflazione era la cosiddetta scala mobile: i salari venivano ritoccati automaticamente ogni trimestre ex-post la pubblicazione da parte dell’Istat dell’andamento dei prezzi al consumo. Il problema della sostenibilità del sistema si accentuò successivamente al manifestarsi di uno shock esogeno del livello dei prezzi (quadruplica il prezzo del petrolio nel 1973), non si riuscì infatti ad uscire dalla spirale inflazionistica (t1: shock petrolio, t2: salari, t3:prezzi) nella quale il sistema-paese era entrato. L’economista Tarantelli ipotizzò una politica salariale foward-looking, basata quindi sulle aspettative d’inflazione piuttosto che su l’indice di aumento dei prezzi corrente. Dal 1980 in avanti la legislazione e gli accordi interconfederali hanno progressivamente attenuato gli automatismi di indicizzazione salariale all’inflazione effettiva riuscendo così nell’intento di stabilizzare l’economia, decimando in circa venti anni l’andamento del livello dei prezzi (da circa il 20% su base annua del 1980, al 2,5% del 2000) e stabilizzando il costo del denaro ai livelli dei paesi europei più virtuosi. La firma del Trattato di Maastricht nel 1992 ha legittimato il potere esecutivo ad esigere un ulteriore rigore delle dinamiche macroeconomiche in vista del raggiungimento della moneta unica alla fine del decennio.

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Il grafico mostra una comparazione fra l’andamento dei prezzi al consumo e la retribuzione di fatto dei lavoratori dal 1970 al 2007. Il periodo in esame comprende quindi le dinamiche retributive ed inflazionistiche dall’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori alla piena applicazione della legge 30/2003 sulla modernizzazione del mercato del lavoro: in questo lasso di tempo si sono succeduti i seguenti passaggi normativi (Grafico 1).

• Primo shock inflazionistico legato all’aumento del costo del petrolio nel 1973. • 1975 firma tra Confindustria (Presidente Gianni Agnelli) e Cgil-Cisl-Uil sull’unificazione

della Scala mobile a tutti i settori dell’economia. • Secondo shock inflazionistico legato all’aumento del costo del petrolio nel 1979. • Il Lodo Scotti, firmato nel 1983 in seguito alla sconfitta dei metalmeccanici della FIAT

(1980) e all’affermarsi del primato della politica di “responsabilità nazionale”. In quell’accordo veniva invertita la logica di contrattazione vigente negli anni ’70 sul controllo della flessibilità, con la concessione degli straordinari non contrattati e la reintroduzione dei contratti a termine a scopo formativo. In generale l’accordo promuove l’identificazione tra il lavoratore ed il cittadino-consumatore.

• Il Patto di S.Valentino, firmato il 14 Febbraio 1984, tra il Governo, la CISL e la UIL, che prevedeva un ulteriore rallentamento della scala mobile di 4 punti percentuali.

• Legge 146/1990, disciplina degli scioperi per i servizi essenziali. La legge viene emanata in un ormai stabile assestamento dei nuovi attori del conflitto sociale: i lavoratori dei servizi a discapito dei lavoratori delle industrie manifatturiere. La svolta di tale fenomeno si può dire che inizia dopo la fine dell’ultimo grande conflitto industriale, la vertenza FIAT del 1980. Inizia così la terziarizzazione del conflitto.

• Disdetta della scala mobile da parte di Confindustria nel 1991. • Il 31 Luglio 1992 sotto il Governo Amato viene firmato un Accordo che prevede la

soppressione della scala mobile. • Protocollo del Luglio del 1993, inizia l’era concertativa che vede lo Stato una parte in causa

nella quantificazione delle retribuzioni. • Il decreto legislativo 276/2003 attuativo delle norme della legge 30/2003 (legge Biagi) sulla

modernizzazione del mercato del lavoro.

Fonte ISTAT Grafico 1

0,0

5,0

10,0

15,0

20,0

25,0

1970 1973 1976 1979 1982 1985 1988 1991 1994 1997 2000 2003 2006

Prezzi al consumo (f.o.i.)

Retribuzione lorda per equivalente t.p.

Prim

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scala

mobile

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2. Ragioni ed obiettivi del Protocollo di Luglio

Occorre a questo punto soffermarci brevemente sul Protocollo del Lavoro del 1993, sugli intenti politici e sul sistema di contrattazione che ha avuto luogo in Italia fino al 2009, così da dare un senso logico-storico al succedersi degli eventi che hanno portato all’Accordo Quadro del 22 Gennaio. L’ingresso dell’Italia nell’Unione Monetaria fu molto sofferto, quando nel 1990 venne deciso di entrare nello SME (riduzione di 2/3 della banda di oscillazione della lira e quindi impossibilità di ricorrere alla svalutazione per rilanciare la domanda aggregata) e quando si siglarono gli accordi di Maastricht nel 1992 in vista della moneta unica (vincoli a deficit, debito pubblico ed inflazione). Il problema più pressante dell’economia italiana era il forte deficit pubblico; gli attacchi speculativi del 1992 costrinsero la Banca d’Italia a privarsi di ingenti quantità di moneta per far restare la lira nella banda di oscillazione dello SME, per poi cedere e permettere che la lira si svalutasse del 25% sul marco tedesco e il franco francese. Il Governo Amato corse ai ripari con la finanziaria del 1993, manovra che prevedeva un forte aumento delle entrate ed una riduzione della spesa pubblica; cresceva intanto l’ostilità generale nei confronti dei partiti con l’esplosione di Tangentopoli, anche per questo il Governo si dimise, proseguì l’opera di risanamento un governo tecnico presieduto da Carlo Azeglio Ciampi che durò dal 28 Aprile 1993 al 10 Maggio 1994. Centrale nel programma di risanamento fu il Protocollo del Lavoro firmato il 23 Luglio 1993, si decretava definitivamente la fine della scala mobile, il contenimento delle dinamiche salariali, la riarticolazione del sistema di contrattazione collettiva e la promozione di politiche occupazionali. Il Governo inaugura il modello concertativo, entrerà quindi negli accordi fra le parti sociali non solo come garante della legge e della correttezza istituzionale degli stessi ma anche come attore che detta condizioni al fine di adempiere meglio i propositi macroeconomici che si prefigge. Il Protocollo conclude inoltre un discorso di rappresentatività effettiva delegando ai sindacati confederali di fatto il monopolio della contrattazione a livello nazionale ed una notevole influenza a livello aziendale soppiantando le rsa con le rsu (decisione già preceduta da un Accordo interconfederale del 1991). Viene offerta una legittimazione confederale all’accelerazione del processo di privatizzazione del pubblico impiego, processo che verrà sintetizzato in seguito dal d.lgs. 165/2001. Infine si accenna alla contrattazione di secondo livello come fattore di crescita del reddito parametrato al situazione economica generale dell’impresa. Ma è una contrattazione che ha coinvolto poche imprese prevalentemente nel nord Italia. La Riforma delle pensioni varata dal Governo Dini nel 1995 (anche quello un Governo tecnico), che reintroduce la previdenza contributiva piuttosto che retributiva, chiude una fase concitata e decisiva per il destino dell’Italia, Italia che riuscirà ad entrare nei parametri di Maastricht e che quindi farà parte dell’Unione Monetaria Europea. 2.1. Il verbale d’intesa L’Accordo rappresenta una tappa decisiva nel processo di rinnovamento delle relazioni industriali, in quanto cerca di porre fine ad un sistema di carattere informale introducendo una codificazione possibile solo in quanto sostenuta da quel clima concertativo indispensabile per ristabilire una convergenza macroeconomica sostenibile.

1. Politica dei redditi e dell’occupazione. Al fine del contenimento del costo del lavoro così da favorire la convergenza con politiche monetarie più restrittive, è necessario un coordinamento concertativo che preceda la contrattazione. Maggio – Giugno: il Governo convoca le parti sociali ed espone loro la

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dinamica della spesa pubblica, il tasso d’inflazione programmata, obiettivi di Pil ed occupazionali che poi prenderanno forma nel Dpef. Luglio – Agosto: pubblicazione del Dpef. Settembre: approfondimento degli aspetti attuativi da trasferire nelle legge finanziaria con definitiva programmazione delle variabili macroeconomiche. Il Governo (in qualità di datore di lavoro pubblico) e le parti sociali si impegnano ad agire in coerenza con tali indicatori in sede di contrattazione collettiva.

2. Assetti contrattuali. Due livelli di contrattazione distinti: CCNL di categoria e contrattazione territoriale o aziendale. Rinnovo biennale per la parte economica e quadriennale per la parte normativa. Indicizzazione salariale coerente (non aderente) con il tasso d’inflazione programmata, eventuali scostamenti con l’inflazione effettiva saranno valutati in sede di rinnovo biennale. Inizio della contrattazione 3 mesi prima della scadenza del CCNL, se non si è giunti ad un accordo a 3 mesi dalla scadenza scatta un rimborso pari al 30% dell’inflazione (50% dopo 6 mesi) sulla base di calcolo dei minimi retributivi. La contrattazione aziendale dovrà intendersi come indicizzazione di una parte della retribuzione alla produttività del lavoro e/o alla redditività dell’impresa; verifica e tempi saranno definiti dalla legge, dai CCNL e da prassi negoziali.

3. RSU. Le rappresentanze sindacali in azienda in forma unitaria saranno per 2/3 composte da membri eletti da tutti i lavoratori e per 1/3 su designazione dei sindacati stipulanti i CCNL.

Sono infine state stabilite forme di politiche per il lavoro e di sostegno al sistema produttivo.

3. Lo scambio asimmetrico: 1993 - 2009

La firma da parte dei sindacati del Protocollo del 1993 non fu una cosa facile (soprattutto per la CGIL che si scisse al suo interno), rinunciare alla certezza che i salari recuperino automaticamente sull’inflazione effettiva non è stato certo un passaggio coerente con le prassi di lotta consolidatesi nei decenni precedenti, ma c’erano interessi superiori in gioco, interessi che coinvolgevano la stessa sostenibilità del sistema economico italiano. Verso la fine degli anni ’80 ci furono tre shock decisivi che contribuirono a trasformare l’economia europea e mondiale:

• Shock tecnologico, il poderoso avanzamento della tecnologia dell’IT rivoluzionava le mansioni dei lavoratori e spostava verso i servizi il core produttivo dell’economia del continente.

• Shock globalizzante, a contribuire la deindustrializzazione europea fu la liberalizzazione del mercato dei capitali ed il crollo del blocco sovietico, fenomeno che favorì la delocalizzazione delle imprese manifatturiere in ogni parte del mondo.

• Shock della moneta unica, i parametri imposti nell’Atto Unico europeo (1986) per una convergenza monetaria in vista dell’euro rendevano l’autorità pubblica e monetaria più inerme nel rilanciare le economie nazionali con politiche di pianificazione centralizzata.

Era chiaro che le imprese italiane necessitassero, per far fronte a questa situazione sistemica, di maggiori risorse finanziarie indirizzate alla ristrutturazione produttiva del capitale fisico, così da mantenere elevata la crescita della produttività in un ambito di mercato unico europeo e mercato mondiale. Un aumento degli investimenti in formazione e riorganizzazione di cui i lavoratori, sconfitti di fatto dal Protocollo, avrebbero guadagnato ma solo nel medio periodo. Dopo il 1993 l’Italia mostra infatti una dinamica salariale moderata, la più bassa d’Europa. Malgrado questo la performance in termini di inflazione, produttività e competitività disattendono le aspettative di crescita considerate nel momento della firma del Protocollo.

79

La riforma del mercato del lavoro (prima Treu 1997 e poi Biagi 2003), altra rinuncia in termini di diritti e di reddito da parte dei lavoratori in prospettiva di un miglioramento sistemico di medio periodo, è stata applicata prevalentemente in settori poco produttivi creando così: poca flessibilità per chi svolge mansioni con alta possibilità di miglioramento della produttività, molta flessibilità a chi svolge mansioni semplici che quindi subisce doppiamente il carico gravoso di una precarietà costante. 3.1. Il Capitale Va anche detto che mentre da parte del lavoro dipendente ci sono stati moltissimi sacrifici e rinunce in termini di tutele normative e salariali ed in termini di flessibilità ‘liberale’, da parte della produzione non c’è stata alcuna profonda riorganizzazione del mercato verso i paradigmi di liberalizzazione di cui il sindacato datoriale si fa paladino. Inoltre gli accresciuti profitti delle imprese poche volte sono andati in direzione di ristrutturazioni aziendali (sia tecnologica che organizzativa), ricerca e formazione preferendo invece operazioni di portafoglio. La Grafico 2 spiega chiaramente questo fenomeno. La curva azzurra mostra l’andamento dei profitti in rapporto al prodotto lordo, quindi al fatturato totale, dell’aggregato delle imprese italiane: è chiaro come sia un andamento tendenzialmente decrescente dal 1980 (28,4%) al 1993 (20,9%) e tendenzialmente crescente dal 1993 (20,9%) al 2007 (24,4%). La curva rossa invece mostra l’andamento degli investimenti in rapporto all’aggregato dei profitti. Il risultato di queste due dinamiche ci porta alle seguenti considerazioni:

• Il Protocollo del 1993 ha indubbiamente portato ad un incremento sistemico della quota dei profitti per le ragioni descritte in precedenza.

• Il differenziale profitti-investimenti subisce un sensibile aumento successivamente alla firma del Protocollo, a testimonianza che al sacrificio in termini di salario del lavoro non è seguito un sacrificio proporzionale degli imprenditori in termini di investimenti in tecnologia, organizzazione e formazione.

Fonte ISTAT Grafico 2

20,0

21,0

22,0

23,0

24,0

25,0

26,0

27,0

28,0

29,0

1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006

56,0

62,0

68,0

74,0

80,0

86,0

92,0

98,0

104,0

110,0

In rapporto ai profitti lordi

(scala di destra)

In rapporto al prodotto

lordo (scala di sinistra)

80

3.2. La Rendita È evidente come il maggiore differenziale profitti-investimenti abbia generato un significativo spostamento di risorse all’interno dell’economia nazionale. Il flusso di introiti generati dall’economia reale (industriale) invece che all’autofinanziamento è stato progressivamente allocato in operazioni di portafoglio (economia finanziaria) o in settori protetti dalla concorrenza. Emblematica è la vicenda della famiglia Benetton la quale nel 2003 ha diminuito i propri poteri esecutivi nell’industria di famiglia razionalizzando i propri investimenti in settori monopolistici come Atlantia S.p.A. (già Autostrade S.p.A.), Grandi Stazione FS ed Aeroporti (Aeroporti di Roma S.p.A., Aeroporto di Torino S.p.A., Aeroporti di Bologna S.p.A.). Nel Grafico 3 è possibile analizzare lo storico della quota delle rendite in percentuale del valore aggiunto dal 1980 al 2003 in Italia nei settori: costruzioni, industria, commercio, salute ed educazione, intermediazione finanziaria ed agricoltura. Il totale (curva nera) mostra come ci sia un andamento alterno fino al 1993 e tendenzialmente crescente dopo quella data.

Fonte ISTAT Grafico 3 3.3. Il Lavoro Partendo dai dati sul capitale (sulla destinazione dei profitti) e sulla rendita è facile arrivare alla seguente conclusione: lo spostamento di risorse da investimenti a rendite genera un effetto negativo sulla produttività del lavoro, quindi sui salari e sul potere d’acquisto dei lavoratori. A supporto di questa affermazione è utile osservare l’andamento dal 1995 al 2005 (quindi nel decennio successivo alla piena applicazione del Protocollo del Luglio 1993) delle tre grandi variabili che sintetizzano la “salute” dell’economia nazionale: andamento del Prodotto Interno Lordo, numero di occupati e produttività del lavoro (Grafico 4).

-30,0

-20,0

-10,0

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002

Agriculture, forestry and fishing

Banking, finance and business

services

Total (excluding public administration)

Constructions

Manufacturing, energy, gas and water

Trade, repair, hotels and restaurants,

transport and communication

Health, education and other social

and personal services

81

E’ opportuno comunque ricordare che nei primi anni del periodo in esame il sistema Italia si sia distinto per ottime performance di politica monetaria, di deficit pubblico e di contenimento dell’inflazione. In questa sede sono però in esame le dinamiche proprie del mercato del lavoro: i dati sull’occupazione e sulla redistribuzione degli incrementi della produttività.

• Il prodotto interno lordo ha una crescita contrastata da brevi periodi di stagnazione, guadagna rispetto al 1995 poco più del 13%.

• Spicca il netto aumento del numero degli occupati. Tale performance è migliore di altri paesi appartenenti all’Unione Monetaria malgrado questi possano vantare una crescita economica maggiore.

• La natura contrattuale dei nuovi assunti risente delle minori garanzie retributive e normative introdotte principalmente dal pacchetto Treu (1997) e dalla legge Biagi (2003).

• È evidente come la crescita della produttività abbia un legame piuttosto sfumato con la crescita del PIL e dell’occupazione, mentre infatti queste ultime due grandezze hanno un andamento di non-decrescita, la produttività del lavoro segna un dato negativo a partire dal 2001 fino al 2004. Da questo risulta come sia andata diminuendo la produttività per lavoratore e, come già esposto nel paragrafo precedente, di come le imprese siano state carenti nello sfruttare l’accresciuta profittabilità riconducibile al contenimento salariale, in chiave di riassetto tecnologico, organizzativo e formativo.

Fonte ISTAT Grafico 4 [Un articolo di Riccardo Sanna (Ires-CGIL) analizza il problema della redistribuzione della produttività sulla base dei dati ISTAT aggiornati al 2008]. Tra il 1993 e il 2008 c’è stato un incremento complessivo della produttività del lavoro pari a 14,3%, di questa solo un 3,8% è andata alla renumerazione del lavoro salariato, pari dunque al 27% del totale. Oltre ad una perversa redistribuzione della ricchezza a livello di contrattazione nazionale ed aziendale la decurtazione del salario subisce un altro colpo dalla pressione fiscale. Si esamini il periodo 1993-2008

• Inflazione generale: 41,6% • Aumento retribuzioni contrattuali: 41,1% • Aumento retribuzioni lorde: 47,5% (+0,4% W/P annuo, pari a +5,9% complessivi,

corrispondenti a 2.474 euro) • Aumento retribuzioni nette: 43,3% (44,0% per i lavoratori con familiari a carico) • Retribuzioni lorde 47,5% - retribuzioni nette 43,3% = - 4,2% (- 3,5% per lavoratori con

familiari a carico)

82

• Il fisco ha quindi sottratto in 15 anni il 4,2% (o 3,5%) degli aumenti retributivi, corrispondenti ad un maggior gettito fiscale pari a 112 miliardi di euro.

In conclusione, i 3,8% di aumenti salariali riconducibili all’aumento della produttività del lavoro negli ultimi 15 anni è stato completamente “bruciato” dal fisco: -0,4% di retribuzione netta (+0,3% per i lavoratori con familiari a carico). Con questi dati è facile spiegare la bassa crescita renumerativa del lavoro salariato italiano in confronto ai principali paesi dell’Unione Europea (Grafico 5). Inoltre la produttività più sostenuta di questi paesi ha fatto sì che il differenziale salariale non abbia prodotto effetti in termini di aumento delle esportazioni, al contrario la bilancia commerciale è andata decrescendo. In sostanza i lavoratori delle altre nazioni europee guadagnano di più rispetto ai colleghi italiani, e producono una merce finale che costa di meno di quella prodotta dalle imprese italiane. Fonte ISTAT Grafico 5

Il Grafico 6 analizza le dinamiche salariali (1995 – 2006) evidenziando il tasso di crescita medio annuo delle retribuzioni reali per occupato dei lavoratori europei e delle due principali economie extraeuropee: Stati Uniti e Giappone. Fonte ISTAT Grafico 6

95

100

105

110

115

120

125

130

135

140

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

Grecia

Regno Unito

Portogallo

FranciaGermania

Italia

Spagna

-0,2

0,1

0,4

0,91,0 1,0

1,3

1,61,7

1,71,8

2,1

2,3

3,0

-0,5

0,0

0,5

1,0

1,5

2,0

2,5

3,0

3,5

Spa

gna

Italia

Giappo

ne

UE 15

Paes

i bassi

Germania

Franc

ia

Irland

a

Portoga

llo

USA

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Reg

no Unito

Sve

zia

Grecia

83

3.4. La competitività La firma del Protocollo del 1993 e le successive riforme del mercato del lavoro hanno prodotto un contenimento salariale crescente. A fronte di maggiori profitti, il mancato aumento proporzionale degli investimenti in tecnologia, organizzazione e formazione ed il progressivo aumento di sacche di rendita a riparo dalla concorrenza hanno prodotto un aumento della produttività del lavoro decrescente. L’innesco di queste due dinamiche ha generato una compressione del potere d’acquisto dei lavoratori ed una perdita di competitività del sistema Italia. Il mix funesto tra aumento del costo del lavoro, aumento dell’inflazione e diminuzione del salario reale impedisce al nostro sistema economico di essere competitivo all’estero e di attrarre investimenti stranieri.

Grafico 7: aumento dei prezzi al consumo, differenziali Italia – Area Euro Fonte ISTAT Grafico 7 4. Il nuovo Accordo

L’analisi delle variabili macroeconomiche nazionali degli ultimi 16 anni ha messo in luce un problema fondamentale: la lenta e faticosa crescita della produttività del lavoro. È facile intendere questa dinamica come il perno attorno cui hanno stagnato gli indici di crescita soprattutto nell’ultimo decennio. Bassa produttività infatti rimanda a basse retribuzioni reali, quindi ad una contrazione della domanda interna, quindi ad un calo del prodotto aggregato. Ma bassa produttività è anche la mancata occasione di sfruttare le basse retribuzioni reali in termini di competitività internazionale in un mercato unico quale quello europeo a causa dell’ingente cuneo fiscale. Il fenomeno è talmente allarmante che il sensibile aumento del numero di occupati in seguito ad una maggiore flessibilità del mercato del lavoro non ha sortito alcun effetto benefico alla domanda aggregata. Occorre dunque una nuova prassi di contrattazione collettiva che indicizzi le retribuzioni alla produttività, ma con criteri più oggettivi possibili. Il rischio è che la renumerazione capitale – lavoro continui ad essere a discrezione della classe imprenditoriale, la quale ha già mostrato sovente la miopia della propria gestione preferendo operazioni di portafoglio ad investimenti strutturali nel capitale fisico ed umano dell’azienda.

100,0

105,0

110,0

115,0

120,0

125,0

130,0

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Num

eri

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e 1

996

=1

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3,0

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5,0

6,0

Diffe

renze in

p.p

.

Area Euro

Italia

Differenze (scala ds.)

84

Occorre inoltre un’indicizzazione dei salari all’andamento dei prezzi più efficace che in passato, che non eroda il potere d’acquisto dei lavoratori e che renda il potere contrattuale del lavoro un ulteriore stimolo all’ammodernamento della struttura produttiva ed organizzativa e quindi all’aumento della produttività. Il 15 Aprile 2009 è stato ratificato l’Accordo interconfederale che determina le nuove prassi di contrattazione collettiva ed aziendale in sostituzione di quelle consolidatesi dopo la firma del Protocollo del 1993. Malgrado la mancata adesione della Cgil, il più grande sindacato italiano ha già dichiarato che non farà ostruzionismo e collaborerà nella contrattazione dei singoli CCNL. La seconda parte di questo articolo cercherà di stabilire se il nuovo Accordo interconfederale sarà migliorativo, peggiorativo o continuativo rispetto alle dinamiche lavoristiche e macroeconomiche derivate dal comportamento degli operatori economici in seguito all’Accordo del 1993.

5. Le principali novità introdotte dall’Accordo interconfederale

DURATA Accordi '93. I contratti nazionali di categoria hanno durata biennale per la parte economica e quadriennale per la parte normativa. Nuovo modello. La durata passa a tre anni sia per la parte normativa che per quella economica. INFLAZIONE Accordi '93. L'aumento salariale si stabilisce in base all'inflazione programmata dal governo nel Dpef. L'obiettivo è quello di non generare spirali inflazionistiche, e per questo il tasso viene tenuto volutamente basso. Previsto un conguaglio a fine biennio. Nuovo modello. L'inflazione passa da programmata a previsionale e la stima è sul triennio. Il tasso di crescita dei prezzi è calcolato da un soggetto terzo (si pensa all'Isae) sulla base dell'indice armonizzato europeo (Ipca), depurato dalla dinamica dei beni energetici importati (essenzialmente gas e petrolio). SECONDO LIVELLO Accordi '93. La contrattazione di secondo livello è prevista ma in nessun modo incentivata o favorita, per questa ragione non ha mai avuto uno forte sviluppo. Nuovo modello. Il contratto aziendale o territoriale ha durata triennale. Tale istituto viene La contrattazione aziendale e territoriale viene incentivata, con la detassazione e la decontribuzione. L' obiettivo è quello di legare salario e produttività. I lavoratori che non godono del secondo livello possono avvalersi di una «clausola di garanzia» per avere una compensazione salariale alla fine del triennio. Le parti sociali firmatarie del CCNL sono legittimate, mediante apposite procedure precedentemente definite, a modificare in via temporanea specifici istituti economici e normativi del Contratto Nazionale al fine di governare con più incisività crisi occupazionali aziendali o territoriali. TEMPI Accordi '93. Il confronto per i rinnovi inizia tre mesi prima della scadenza naturale del contratto. Il periodo di tregua in cui non è concesso proclamare sciopero è di quattro mesi, tre prima della scadenza e uno dopo. Se, a tre mesi dalla scadenza, non è trovato un accordo, è previsto il pagamento di una vacanza contrattuale.

85

Nuovo modello. Si inizia a trattare sei mesi prima per garantire una maggiore regolarità nei rinnovi. La tregua dura sette mesi: sei mesi prima della scadenza e uno dopo. Scompare la vacanza contrattuale: gli aumenti scattano dal giorno di scadenza naturale del contratto. RAPPRESENTANZA Accordi ’93. Si riconosce alle rappresentanze sindacali unitarie ed alle organizzazioni sindacali territoriali aderenti al medesimo CCNL la legittimazione a negoziare al II livello le materie oggetto del rinvio da parte del CCNL stesso. Nuovo modello. Le proposte di rinnovi di secondo livello devono essere presentate dalle organizzazioni stipulanti presso l’Associazione industriale territoriale e le strutture sindacali provinciali così da garantire una veduta convergente tra la singola unità produttiva ed il contesto territoriale. 6. I quattro punti salienti

Elencate le peculiarità formali del nuovo Accordo vorremmo soffermarci su quei passaggi che si sono rivelati più critici nella fase preliminare alla firma, tanto da lasciarli di fatto insoluti con la mancata adesione della CGIL. Possiamo sintetizzare in questo senso quattro questioni salienti:

• La definizione delle variazioni retributive in sede di contrattazione nazionale mediante il ricorso ad un nuovo indice di prezzi al consumo

• Il recupero dallo scostamento rispetto all’inflazione effettiva • Le dinamiche e le prassi della contrattazione di secondo livello • L’elemento di garanzia retributiva

6.1. L’inflazione di riferimento L’introduzione dell’indice Ipca non è una mossa così inattesa, fin dal 2003 molti Contratti Collettivi sono stati firmati tenendo conto di tale indice piuttosto che l’inflazione programmata (il cui differenziale con l’inflazione effettiva era arrivato a cifre non più credibili). La vera innovazione del nuovo indice Ipca sta nello scorporo dell’inflazione importata, quindi di quella parte dell’inflazione riconducibile alla variazione dei prezzi internazionali degli idrocarburi. Se aumenta il prezzo del petrolio sale il costo di tre variabili: l’inflazione effettiva, i costi di produzione delle imprese e le bollette a carico di tutti i cittadini. Considerare queste variazioni in sede di contrattazione collettiva permetterebbe ai lavoratori di mantenere stabile il potere d’acquisto sia come cittadini consumatori che come utenti di luce, gas e benzina, le imprese invece subirebbero doppiamente tali variazioni perchè ad una aumento dei costi per l’energia si aggiungerebbe l’adeguamento della renumerazione del fattore lavoro. Al contrario la firma dell’Accordo decreta, scorporando dall’indice IPCA il prezzo dei beni energetici importati, che le aziende recuperino i maggiori costi fissi con mancati adeguamenti salariali e che siano i lavoratori a subire doppiamente i maggiori costi sia come salariati che come consumatori di luce, gas e benzina. Di fronte a questo problema la CGIL ha proposto che la variazioni dei costi dell’energia venisse tripartita per 1/3 dalle aziende, 1/3 dai lavoratori e 1/3 dallo Stato tramite lo strumento della defiscalizzazione, ma tale offerta è stata rifiutata da Confindustria.

86

2003 2004 2005 2006 2007 2008 Somma Media

Tasso d’Inflazione Programmata (TIP) 1,4 1,7 1,6 1,7 2,0 1,7 10,1 1,7

Indice generale dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i paesi dell’Unione Europea (IPCA)

2,8 2,3 2,2 2,2 2,0 3,5 15,0 2,5

Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i paesi dell’Unione Europea depurata dall’energia (IPCA – componente Energia)

2,8 2,2 1,7 1,8 2,1 2,3 12,9 2,1

Fonte Ires-CGIL Tabella 1

Un’altra questione oggetto di scontro è la determinazione del valore punto sulla base dei minimi tabellari. Con i nuovi assetti contrattuali si abbassa il valore retributivo medio su cui calcolare l’entità dell’aumento salariale; ad esempio: il Contratto Collettivo dei metalmeccanici fissa in 18,84 euro il valore per ogni punto di incremento salariale, con questo Accordo il valore punto si ridurrebbe a 15,74 euro. Stando agli studi dell’Ires-CGIL tale cifra cumulata per 5 anni raggiungerebbe i 951 euro. Infine l’Accordo interconfederale rimanda la determinazione del tasso IPCA “armonizzato” (quindi sulla base di quello ufficiale) ad un “soggetto terzo di riconosciuta autorevolezza ed affidabilità”, soggetto su cui ancora non è stata fatta chiarezza. 6.2. La significatività dello scostamento Il recupero delle retribuzioni sull’inflazione reale, il cosiddetto scostamento, sarà anch’esso determinato dal soggetto terzo (considerando però l’indice sempre al netto dei beni energetici importati) e la verifica della “significatività” dello scostamento sarà sancita da un “Comitato paritetico costituito a livello interconfederale”. La determinazione della significatività o della non significatività degli eventuali scostamenti è un passaggio essenziale perché, dice l’Accordo, solo nel caso affermativo (cioè nel caso in cui questa significatività venisse accertata) si procederà alla rivalutazione delle retribuzioni. Il rischio è che questo giudizio possa essere basato non sulla reale necessità dei lavoratori (è significativo uno scostamento dello 0,3%?) ma su meccanismi concertativi che rimandano alle esigenze politiche e di finanza pubblica, essendo questo giudizio sospeso su dispositivi di eccessiva discrezionalità. La gravità di non regolamentare a priori l’effettivo peso dello scostamento può dar luogo a pesanti perdite per i lavoratori in termini di potere d’acquisto. Facciamo un esempio. In sede di contrattazione collettiva viene stabilito come significativo uno scostamento dell’Ipca depurato previsto sull’Ipca depurato effettivamente registrato dello 0,3%. Se si verificasse uno scostamento dello 0,2% (per esempio ad un Ipca depurato annuo previsto dell’1,9% a fine triennio viene registrato un Ipca depurato annuo del 2,1%) non ci sarebbe alcun recupero delle retribuzioni. Considerando che la verifica è triennale, non biennale come dopo gli accordi del 1993, lo scostamento annuo dello 0,2% arriverebbe alla scadenza del contratto a 0,6%. Bisogna ora ricordare che l’Ipca in questione è un indice di prezzi al consumo depurato dai costi dei beni energetici importati. Poniamo che l’Ipca generale (normalmente superiore rispetto all’Ipca depurato) nello stesso periodo registri una crescita media annua del 2,4%: in questo caso ci sarebbe un ulteriore scostamento dello 0,3% annuo (0,9% triennale) che graverebbe sul potere d’acquisto dei lavoratori. In sintesi, se venisse fissata una significatività dello scostamento pari a 0,3% in un triennio di Ipca depurato previsto di 1,9%, Ipca depurato registrato di 2,1% e Ipca generale di 2,4% i lavoratori perderebbero in un triennio l’1,5% del loro potere d’acquisto senza alcun diritto di recuperare nella successiva contrattazione (Tabella 2).

87

esempio Media annua

2009-2011

Scostamento

medio annuo

Scostamento

nel triennio

2009-2011

Inflazione di riferimento per gli aumenti previsti nel CCNL

+1,9%

Retribuzioni contrattuali alla fine del triennio +1,9%

Soglia di significatività prevista dalle parti 0,3% 0,9%

IPCA - componente Energia registrata alla fine del triennio

+2,1% 0,2% 0,6%

Recupero previsto 0,0%

IPCA (generale) registrata alla fine del triennio +2,4% 0,5% 1,5%

Perdita effettiva registrata alla fine del triennio –0,5% –1,5%

Fonte Ires-CGIL Tabella 2

6.3. La contrattazione decentrata La terza questione centrale è la prassi della contrattazione di secondo livello. Mentre confermo che, ad oggi, le forme di incentivo alla contrattazione di secondo livello sono senza copertura finanziaria e quindi le aziende che erogano premi di risultato non beneficiano di alcuna forma di sconto contributivo o fiscale, l’Accordo del 15 aprile scorso le prefigura – quasi indirettamente – ma non le qualifica. In altre parole, sotto il profilo politico, le parti dell’Accordo sembrano dare per scontato che, se si promuove la contrattazione integrativa, occorra anche incentivarla ma, in assenza di una espressa disponibilità da parte del Ministero dell’Economia, non si è previsto che natua e che misura tali agevolazioni debbano avere. L’Accordo del 15 Aprile le prefigura ma non le qualifica:

• “Nei principali Paesi dell’Unione europea si è sviluppata negli ultimi venti anni una generale tendenza a favorire un progressivo decentramento della contrattazione collettiva.”

• “Le parti confermano la necessità che vengano incrementate, rese strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure volte ad incentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, la contrattazione di secondo livello che collega aumenti salariali al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività nonché ai risultati legati all’andamento economico delle imprese, concordato fra le parti.”

• “Il premio variabile sarà calcolato con riferimento ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi concordati fra le parti (….) gli importi utili alla determinazione quantitativa saranno stabiliti contrattualmente dalle parti in sede aziendale.”

Le disposizioni continuano con un invito a tenere alto il livello di consultazione sindacale per accompagnare con più efficacia quelle trasformazioni aziendali e quei processi di ristrutturazione tecnologica ed organizzativa da un punto di vista della gestione degli effetti sociali, in sintesi si presuppone un costante monitoraggio dei sindacati per gestire meglio quello spiazzamento tecnologico endemico negli investimenti per aumenti di produttività. La piattaforma unitaria di Maggio 2008 tra CGIL, CISL e UIL aveva avanzato l’idea di intendere l’espressione del Protocollo del 1993 “contrattazione aziendale e territoriale secondo l’attuale prassi” (espressione nuovamente ripetuta nell’Accordo del 15 Aprile 2009) come un allargamento della contrattazione “a livello regionale, provinciale, settoriale, di filiera, di comparto, di distretto, di sito”. Ma nel momento di decidere sui nuovi assetti contrattuali, CISL e UIL hanno convenuto con Confindustria che la ripetizione dell’espressione “secondo l’attuale prassi” sia una conferma al primato della contrattazione aziendale sulla contrattazione territoriale. Il principale sindacato

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datiorale ha optato per questa ipotesi (come precedentemente proposto il 10 Ottobre 2008) in funzione del fatto che la sproporzione degli aumenti della produttività generate in uno stesso contesto territoriale non possano seguire una renumerazione del lavoro paritaria. La produttività e quindi unicamente riconducibile alle performance aziendali, sia che questa sia indicizzata alla produttività del lavoro (presenza, minor numeri di scarti, soddisfazione clienti) che alla redditività dell’azienda nel suo complesso. Secondo le stime fornite dall’Ires – Cgil solamente 2 milioni su un totale di 17 milioni di lavoratori dipendenti godono dei premi derivanti dalla contrattazione decentrata, l’entità del premio risulta mediamente di 166 euro annui (14 euro mensili). 6.4. L’elemento di garanzia retributiva Per estendere la diffusione della contrattazione l’Accordo interconfederale prevede che i singoli CCNL stabiliscano un certo importo, a titolo di garanzia retributiva, per “quei lavoratori che non percepiscono altri trattamenti economici individuali o collettivi oltre a quanto spettante per contratto collettivo nazionale di categoria”. Tale garanzia assorbirà qualsiasi altra forma di erogazione aziendale (compresi aumenti unilaterali) rilevata nei 4 anni precedenti alla sua determinazione. Si capisce come questo sia un messaggio implicito ad accelerare la determinazione di prassi di contrattazione aziendale rivolto ai singoli datori di lavoro, secondo il principio che se non saranno loro a sviluppare forme di incentivi di questo tipo ci penserà il criterio derivante dal contratto nazionale che poco si conforma con le singole realtà produttive. Gli intenti del nuovo Accordo per estendere la contrattazione di secondo livello si dovranno scontrare con una serie di elementi congiunturali:

• Ad oggi più del 60% dei lavoratori dipendenti privati non sono coperti dalla contrattazione di secondo livello

• Il tessuto produttivo italiano, composto per lo più da piccole – medie imprese, accosterebbe l’avvio di meccanismi concernenti il collegamento della retribuzione alla produttività ad un eccessivo peso (o un primo ingresso) delle pretese sindacali nelle decisioni dell’azienda

L’Ires stima che per queste ragioni la garanzia retributiva determinata in sede di contrattazione nazionale allargherebbe la platea di lavoratori soggetti alla contrattazione decentrata di circa 700.000 unità, un numero di fatto esiguo se si considera le minori garanzie retributive legate al CCNL. 7. Considerazioni finali

In un sistema economico fondato su tecnologie sempre più sofisticate e su nuovi paradigmi dell’organizzazione del lavoro quali la learning organization (teoria per cui l’azienda deve essere sempre reattiva ai cambiamenti del mercato mediante un sistema di “apprendimento ad apprendere”, un formazione continua organizzata dal top management), conferisce sì una accresciuta libertà di manovra da parte del lavoratore (intesa come serie di mansioni), ma allo stesso tempo aumenta le responsabilità datoriali in materia di ammodernamento tecnologico ed organizzativo. Il problema della stagnazione della crescita subita dall’Italia negli ultimi 16 anni discende, come già illustrato, da una carenza di investimenti in ricerca, formazione e ristrutturazione del capitale fisico. Il Protocollo del Luglio ’93 puntava proprio ad invertire questo trend: peggiori garanzie retributive per i lavoratori dipendenti, maggiori redditività dell’impresa e maggiori investimenti finalizzati ad aumenti sistemici della produttività, così da migliorare indirettamente la condizione dei lavoratori nel medio periodo in termini di retribuzione e di qualità del lavoro. Tali aspettative, come si evince dai dati aggregati, sono state però tradite e deviate in una maggiore quota di profitti distribuiti (a discapito degli investimenti) e una maggiore quota di rendita (a discapito del profitto), in sintesi un

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sistema vecchio, miope e destinato a soccombere di fronte alle sfide imposte dal mercato unico europeo e mondiale. L’Accordo Quadro del 22 Gennaio, e la ratifica del 15 Aprile, segue i principi cardine del Protocollo del 1993, perpetrando quello che è stato precedentemente definito “lo scambio asimmetrico” o innesca una nuova fase di contrattazione localistica virtuosa e coerente a quelle che sono le esigenze produttive aziendali? 7.1. La contrattazione nazionale Tre punti della nuova prassi evidenziano come la contrattazione nazionale abbia subito nella parte economica un ridimensionamento:

1. Viene escluso dal calcolo la dinamica dei prezzi energetici. 2. Non è prevista nessuna forma di recupero automatico sull’inflazione effettiva, bensì si

delega la decisione ad un soggetto terzo. 3. L’eventuale recupero dello scostamento sarà su base triennale e non più su base biennale.

La giustificazione più eloquente dello scorporo dei prezzi dei beni energetici importati verte sulla loro natura esogena, quindi sul fatto che tale dinamica prescinda da decisioni della controparte (datori di lavoro pubblici e privati). Ci sono però due questioni che pesano su questa affermazione. Non si tratta dei prezzi delle materie prime (ad esempio il prezzo del petrolio sul mercato internazionale o stabilito dal cartello dell’Opec) ma il prezzo dei prodotti ottenuti direttamente da quelle materie prime (prezzo della benzina), ragion per cui nella determinazione del prezzo finale, poi scorporato, si innescano una serie di intermediari, di costi e di prelievi fiscali non esattamente avulsi dalle decisioni datoriali (si pensi al peso del pubblico nell’Eni, all’affermata industria delle raffinerie o alle accise sul prezzo della benzina). Una soluzione possibile, in armonia con l’idea che sia la collettività tutta ad operare per il contenimento generale dei prezzi, potrebbe essere la costituzione di un tavolo di concertazione interconfederale parallelo ai tavoli dei singoli contratti nazionali. Il suo compito sarebbe quello di intervenire sul mercato energetico interno mediante interventi di natura pubblicistica, come la calmierazione delle accise al fine di incentivare la stabilità del prezzo finale della benzina, o di mercato, potenziando gli interventi dell’Autorità antitrust al fine di garantire un efficace monitoraggio contro le politiche di cartello da parte delle principali aziende pubbliche e private distributrici di benzina e di prodotti energetici. 7.2. La contrattazione decentrata È pacifico ritenere che il ridimensionamento degli strumenti delegati al mantenimento del potere d’acquisto nella contrattazione nazionale sia la naturale conseguenza di un’accentuata centralità della contrattazione aziendale. Il punto 3.3 dell’Accordo interconfederale afferma che “il premio variabile sarà calcolato con riferimento ai risultati conseguiti con la realizzazione dei programmi, concordati fra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità, di redditività, di efficacia, di innovazione, di efficienza organizzativa ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività aziendale nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa”. Questo passaggio non sembra individuare procedimenti di incentivazione individuale innovativi, non a caso l’Accordo quadro del 22 Gennaio 2009 ovviava il problema con un rimando all’ “attuale prassi”. Il sistema di premiazione sembra consolidarsi secondo il paradigma dell’output oriented, più specificatamente del profit-sharing. Il rischio è che i premi, ricordiamo una parte esigua della retribuzione totale, assumano unicamente una forma di incentivazione a pioggia derivata da una profittabilità ex-post (per esempio un premio collettivo parametrato ad un incremento annuale del MOL).

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Se al contrario si fosse cercato di invertire la prospettiva, la prassi si sarebbe potuta sviluppare con criteri diversi e forse maggiormente coerenti con quelle che sono le esigenze di un’economia basata sulla gestione della conoscenza. Per esempio un sistema input oriented, pochissimo sviluppato in Italia, individua come aumento della produttività individuale comportamenti organizzativi stabiliti a prescindere dal tenore quantitativo dei risultati raggiunti, in questo senso sono quindi premiati aspetti di polivalenza e policompetenza (in generale l’ambito dell’autoattivazione del dipendente) che garantiscono piuttosto che una latente fidelizzazione (“i risultati dell’azienda sono i miei risultati”) una maggiore reattività dei lavoratori ai cambi di variabili interne ed esterne all’azienda, con garanzie di profittabilità orientate nel lungo periodo. È evidente come il mansionario di un metalmeccanico sia differente da quello di un knowledge worker, ma è una grave lacuna non cogliere in questo Accordo interconfederale l’occasione di contemplare, almeno sulla carta, nuove coordinate di incentivazione individuale in un’economia in così rapida trasformazione. Per quanto riguarda gli incentivi fiscali, ricordando che l’ultima finanziaria non ha destinato alcunché alla defiscalizzazione ed alla decontribuzione degli aumenti salariali legati alla contrattazione di II livello, il Ministro Sacconi recentemente interpellato sull’argomento ha dichiarato che le richieste sindacali sulla detassazione completa dei premi produttività non possono essere accontentate “E' già importante confermare la detassazione del 10%, i sogni sono sempre leciti, però poi ci si misura con la concretezza della finanza pubblica.” Non sembra esserci quindi una reale volontà di integrazione legislativa corposa e di portata “storica”, al pari di come era stato definito l’Accordo Quadro. Le politiche di aumento della produttività si scontrano con due altre questioni fondamentali. La prima è di natura tecnica: è molto difficile trovare un criterio di misurazione oggettiva per determinare l’incremento della produttività ex-post del singolo lavoratore. La contrattazione di secondo livello come è intesa nell’Accordo si dovrà muovere secondo quella che è l’aumento “generale” della produttività aziendale. La seconda è di natura politica: aumento della produttività significa anche aumento delle infrastrutture pubbliche e degli investimenti in scuole, università e ricerca pubblica, tendenza assai disattesa con quelle che sono le politiche di bilancio reali da parte dell’esecutivo che ha firmato l’Accordo. L’indice IPCA ha il merito di allontanarsi dalla discrezionalità politica che ormai imperava nella determinazione dell’inflazione programmata. Un elemento che però ne pregiudica la validità è il fatto che quegli idrocarburi importati segnano un diverso rapporto di forza tra le parti. Se aumenta il costo del greggio e quindi la benzina gli importatori e i distributori possono aumentare i prezzi, e il governo le sue entrate, senza ridurre i margini di profitto, mentre i lavoratori subiranno la diminuzione del loro potere d’acquisto. Va anche detto che per gli aumenti retributivi del settore pubblico sono ulteriormente vessati in quanto l’indice IPCA è un “valore di riferimento” (quindi non vincolante come per il settore privato) nel rispetto e nei limiti della necessaria programmazione prevista dalla legge finanziaria. Il problema della produttività è evidente come sia l’asse attorno cui ruotano crescita, aumento degli occupati e aumenti dei salari. Per la situazione italiana una soluzione possibile potrebbe essere quella di parametrare le retribuzioni ad un indice legato alla produttività nazionale, o europea o programmata. Ma in un contesto generale, facendo riferimento alla strettissima attualità, la giusta renumerazione della produttività non sembra essere l’espressione salvifica del sistema. In un’intervista al quotidiano La Repubblica (2/4/2009) Jean-Paul Fitoussi, docente all'Istituto di studi politici di Parigi e presidente dell'Osservatorio francese per le congiunture economiche, alla domanda sulle ragioni della crisi finanziaria ha rilasciato quanto segue: “Ci dicevano che nuovi

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posti di lavoro si potevano creare soltanto in relazione alla loro produttività marginale. I lavoratori dovevano insomma essere pagati in proporzione al loro apporto produttivo. Eppure scopriamo oggi che, in realtà, la classe dirigente di molte imprese non veniva pagata con questa regola. Anzi, è stato esattamente il contrario: la maggior parte dei dirigenti del sistema finanziario ha avuto una produttività negativa, continuando però a incassare remunerazioni astronomiche. Ora che si chiedono sforzi supplementari ai lavoratori, ci si accorge che negli ultimi trent'anni il salario medio si è globalmente abbassato. In sostanza, abbiamo permesso che fossero rafforzate le discriminazioni economiche. La dottrina andava fino ad accettare che le disuguaglianze fossero considerate un fattore positivo di crescita e dinamismo economico. Questo ha provocato un'ovvia crisi della democrazia che, per sua stessa definizione, non può sopportare l'aumento delle disuguaglianze”. Lo scambio asimmetrico avvenuto in Italia in seguito alla firma del Protocollo di Luglio è di fatto perpetrato dall’Accordo del 15 Aprile. Noi quindi dubitiamo fortemente che questo possa rilanciare l’economia nazionale, soprattutto un’economia di crisi. In questi mesi, concitati e fatidici per l’economia mondiale, il Governo italiano aumenta la discrezionalità retributiva delle imprese ridimensionando il peso della contrattazione nazionale a favore della contrattazione di secondo livello delegando però le procedure aziendali alla prassi consolidatasi. Gli sgravi fiscali annunciati non sembrano essere un pungolo sufficiente per le imprese e la composizione della retribuzione lorda lascia poco spazio a manovre di incentivazione individuale. Indicizzare il salario alla produttività individuale in un momento di crisi economico-finanziaria-creditizia può essere un’iniziativa efficace se però fa perno su nuovi strumenti di incentivazione (più coraggio da parte della finanza pubblica nella detassazione dei premi) e su nuove tecniche di organizzazione del personale (input oriented). Riferimenti bibliografici Verbale d’intesa del Protocollo del Lavoro del 23 Luglio 2009 firmato dalle parti sociali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri Accordo interconfederale del 15 Aprile 2009 per l’attuazione dell’Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 Gennaio 2009 Riccardo Sanna, Qualità e innovazione nella contrattazione. Come contrattare gli effetti negativi

dell'accordo separato, Lavori n2 (Aprile – Giugno 2009), Ediesse, Roma, 2009 Nicola Acocella e Riccardo Leoni, La riforma della contrattazione: una valutazione e soluzioni

innovative. Un ruolo attivo per la politica economica. Working Paper. Dipartimento di Studi Geoeconomici, Linguistici, Statistici e Storici per l'Analisi regionale, Università di Roma La Sapienza, Roma, 2009 Leonello Tronti, Lezioni di Economia del Lavoro, Economia del lavoro (corso avanzato) materiali di studio, Roma Tre, 2009 http://www.istat.it http://www.cgil.it http://www.lavoce.info http://www.ilsole24ore.com


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