Il DANNO NON PATRIMONIALE DA ILLECITO EXTRACONTRATTUALE
1. Il danno non patrimoniale. Evoluzione della giurisprudenza; 2. L’intervento delle Sezioni
Unite della Cassazione del novembre 2008. Il nuovo danno morale; 3. Il danno morale da
morte “jure hereditario”; 4. Il danno morale “jure proprio” da morte o lesione del rapporto
parentale; 5. I criteri di liquidazione del danno morale ; 6. I criteri di liquidazione del danno
morale “jure proprio” da morte o lesione del rapporto parentale; 7. Il nuovo danno
esistenziale; 8. Il danno biologico; 9. Il danno biologico da morte. Il danno tanatologico; 10.
Criteri di liquidazione del danno biologico. In particolare nell’infortunistica stradale; 11. Il
danno estetico, il danno alla vita di relazione, il danno alla capacità lavorativa generica, il
danno alla sfera sessuale ed il danno da cenestesi lavorativa; 12. Liquidazione del danno non
patrimoniale da illecito extracontrattuale e stranieri. Criteri di quantificazione del danno e
condizione di reciprocità.
1. Il danno non patrimoniale. Evoluzione della giurisprudenza.
La dottrina ha sempre definito il danno non patrimoniale come la lesione di interessi non
economici, vale a dire di quegli interessi che, alla stregua della coscienza sociale, non sono
suscettibili di valutazione economica.
Il codice civile, in linea generale, sancisce la regola della risarcibilità del danno non
patrimoniale nei soli ed esclusivi casi determinati dalla legge (art. 2059 c.c.), vale a dire, in
particolare, in ipotesi di danni derivanti da reato.
Dunque vige nel nostro ordinamento il principio della non risarcibilità del danno non
patrimoniale, ispirato alla tradizionale concezione del diritto privato come ordinamento
costituito a tutela di interessi esclusivamente economici, con sostanziale irrilevanza di
interessi di altra natura.
L’eccezione dell’art. 2059 c.c. del danno non patrimoniale da reato è giustificata, secondo la
dottrina più avveduta, dal fatto che la norma penale tutela valori di rilevanza pubblica, la cui
violazione esige dalla vittima una completa riparazione del danno prodotto, economico e non
economico.
Per quanto concerne, poi, la configurazione del danno non patrimoniale risarcibile nei limiti
dell’art. 2059 c.c., giurisprudenza e dottrina lo individuavano nel solo danno morale, il cd.
“pretium doloris”, inteso come sofferenza psichica transitoria conseguente al pregiudizio
subito, con esclusione delle lesioni all’integrità ed alla salute della persona, considerati danni
materiali.
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Inoltre il danno morale soggiace al vincolo di cui all’art. 185 c.p. e deve sussistere una
fattispecie di reato, anche solamente in astratto e sulla base di semplici presunzioni legali.
Tuttavia, sotto un primo profilo, la concezione “paneconomica” del diritto privato è stata
gradualmente abbandonata, essendo andata emergendo, viceversa, la preminenza dei valori
della persona e la inadeguatezza dell’impostazione tradizionale, la quale riteneva non
risarcibili le lesioni dei diritti fondamentali dell’uomo.
Del pari con la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 14.7.1986 è stata
affermata la risarcibilità del danno biologico come tale, a prescindere dagli effetti economici
negativi.
Il giudice delle leggi ha affermato che il collegamento dell’art. 2043 c.c. con l’art. 32 della
Costituzione consente, alla luce dell’interpretazione estensiva affermatasi nella evoluzione
dello stesso diritto vivente, di risarcire, oltre ai danni in senso stretto patrimoniali, anche tutti
quelli che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana e
quindi anche, autonomamente e senza alcun ipotizzabile limite, il danno biologico.
Dunque, il danno non patrimoniale non è più limitato a quello morale, comprendendo anche il
danno biologico, inteso come lesione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé
considerata e da accertare sul piano medico- legale, e può definirsi come il pregiudizio
arrecato ad interessi non economici aventi rilevanza sociale, tra i quali, principalmente, i
diritti fondamentali dell’individuo.
Il sistema risarcitorio del danno alla persona si veniva a configurare come tripolare, vale a
dire il danno patrimoniale, il danno morale ex art. 2059 c.c. ed il danno biologico.
Con le sentenze della Cassazione, terza sezione civile, nn. 8827 e 8828 del 2003 è stato
superato il principio che faceva coincidere il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. con il
solo danno morale soggettivo, giungendo, quindi, ad un sistema risarcitorio del danno alla
persona non più tripolare, bensì bipolare, contraddistinto solo dal danno patrimoniale e dal
danno non patrimoniale, in cui comprendere il danno morale soggettivo, il danno biologico e
il danno da lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona, o anche detto
esistenziale.
A questa impostazione ha dato continuità la Corte Costituzionale, la quale con sentenza n.
233 del 12.7.2003 ha anche tributato un formale riconoscimento al danno esistenziale, quale
terza sottocategoria di danno non patrimoniale.
Tutta la disciplina del risarcimento del danno non patrimoniale viene integralmente posta
sotto l’egida dell’art. 2059 c.c. e, dunque, mentre l’art. 2043 c.c. sottopone il risarcimento del
danno patrimoniale al principio della atipicità dell’illecito aquiliano (e ciò vuol dire che la
lesione di qualunque interesse dotato di protezione giuridica può generare l’obbligazione di
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risarcimento del danno patrimoniale), l’art. 2059 c.c. stabilisce invece l’opposta regola
secondo cui il risarcimento del danno non patrimoniale è ammesso nei soli casi, tipici, previsti
dalla legge.
2. L’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione del novembre 2008. Il nuovo danno
morale.
In questo quadro sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione con le quattro sentenze
gemelle nn. 26972, n. 26973, n. 26974 e n. 26975 dell’11 novembre 2008, rivisitando alcuni
dei più importanti tasselli della responsabilità civile e le questioni più dibattute in materia di
danno non patrimoniale.
I primi commentatori hanno evidenziato come le sentenze in questione non abbiano raggiunto
l’obiettivo preso di mira, vale a dire fornire un indirizzo preciso ed univoco sui temi più
controversi in materia di danno non patrimoniale.
Anzi, come è stato giustamente osservato, alcuni obiter dicta hanno dato adito a letture
interpretative diametralmente opposte e, se possibile, ulteriormente infiammato il dibattito
dottrinario.
In particolare le Sezioni Unite, dopo aver ribadito che tutti i danni non patrimoniali sono da
ricondursi nell’ambito della previsione dell’art. 2059 c.c., hanno premesso che nella categoria
generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma
sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di
pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata.
Tale danno, poi, in conformità alle precedenti pronunce, (per tutte Cass. Civ., 19 ottobre 2007
n. 22020, in motivazione) consegue alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona,
costituzionalmente garantito e, per essere risarcito, non è soggetto al limite derivante dalla
riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non presuppone necessariamente, pertanto, la
configurazione del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la
riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della
Costituzione, anche alle previsioni della stessa, ove si consideri che il riconoscimento, ivi
contenuto, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica
implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso
determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
In conclusione è un danno che sussiste nei casi di reato o previsti dalla legge, ovvero in
ipotesi di lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente qualificati, nonchè in
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presenza di una offesa grave e di una lesione seria e, per quanto concerne l’onere probatorio,
le Sezioni Unite operano riferimento alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.
Precisato tutto ciò, la Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che (punto 4.9 della sentenza n.
26972/08) va “Definitivamente accantonata la figura del cd. danno morale soggettivo, la
sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non
patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come
componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia
allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona
diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della
sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico,
del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.
Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico
e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo
alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si
avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del
danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche
patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”.
Dunque, sembra configurarsi una duplice categoria di danno morale.
In primo luogo si avrà un danno morale “puro” o in senso stretto, inteso come “sofferenza
soggettiva in sé considerata” e non come componente di più complesso pregiudizio non
patrimoniale, ricorrente ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad
es., dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni
patologiche della sofferenza.
Al danno morale puro si accompagna un danno morale con degenerazioni patologiche, il
quale sussiste quando il turbamento dell’animo o il dolore intimo sofferti siano accompagnati
da degenerazioni patologiche della sofferenza.
Questa seconda tipologia di danno morale, in realtà, continua la Cassazione, rientrerebbe
nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura
intrinseca costituisce componente, e, dunque, determina duplicazione di risarcimento la
congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale, nei suindicati termini inteso,
normalmente liquidato in percentuale del primo.
Le pronunce delle Sezioni Unite, dunque, inquadrano il danno morale come aspetto del danno
non patrimoniale e negano ogni sua autonomia ontologica, affermando che la sua liquidazione
deve essere sganciata da quanto riconosciuto a titolo di danno biologico.
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Questa impostazione della Corte di Cassazione è stata ogge tto di critiche, in particolare per
quanto concerne la negazione del danno morale come categoria autonoma, lamentando la sua
sostanziale scomparsa ed il pericolo che il danneggiato possa percepire un risarcimento
inferiore rispetto al pregiudizio effettivamente subito.
In particolare è stato osservato come l’affermazione secondo la quale il danno biologico non
si cumula a quello morale, come è invece prassi della generalità dei Tribunali italiani, in caso
di macrolesioni, cioè di lesioni della persona comprese tra il 10% ed il 99% di invalidità, può
voler dire tra i centomila ed i duecentomila euro in meno al danneggiato.
Più precisamente, si osserva, che la liquidazione del danno non patrimoniale è di norma fatta
sulla base delle tabelle del danno biologico, sia pure con l’ausilio della sempre necessaria
personalizzazione, ed occorre considerare che le stesse non tengono conto del danno morale
soggettivo e che, in caso di sinistri stradali, anche se solo per le micropermanenti, o lesioni di
lievi entità, la personalizzazione incontra il limite del 20% in aumento ex art. 139 del decreto
legislativo n. 209/2005.
Altri autori, però, hanno evidenziato come, a fronte di una apparente rivoluzione in materia di
danno non patrimoniale, in realtà, da un punto di vista pratico, nulla è cambiato per il danno
morale e che una lettura attenta degli enunciati motivazionali conduce, invero, a ritenere che
la SS.UU. abbiano cambiato il linguaggio della responsabilità civile, ma non la sostanza e che
non può ritenersi che il danno morale inteso come sofferenza psichica transitoria conseguente
al sinistro sia scomparso dal nostro ordinamento e non sia più risarcibile.
Lo stesso, in realtà, gode solo di un diverso inquadramento sistematico, non più categoria
autonoma, bensì aspetto meramente descrittivo del danno non patrimoniale unitariamente
inteso.
Del pari il danno morale con degenerazioni patologiche altro non è che il danno biologico da
invalidità permanente, già riconosciuto e liquidato da tempo per costante giurisprudenza.
Dunque il danno morale è sempre da riconoscere e da liquidare e, del resto, le successive
pronunce della Cassazione hanno ribadito la piena risarcibilità del danno morale.
La Cassazione civile, sez. III, 28 novembre 2008, n. 28407 ha chiarito infatti che
“L’autonomia ontologia del danno morale rispetto al danno biologico, in relazione alla
diversità del bene protetto, appartiene ad una consolidata, giurisprudenza di questa Corte,
che esclude il ricorso semplificativo a quote del danno biologico, esigendo la considerazione
delle condizioni soggettive della vittima e della gravità del fatto e pervenendo ad una
valutazione equitativa autonoma e personalizzata”.
Il collegio qui si pronuncia, espressamente, proprio a favore della netta distinzione tra
biologico e morale, da un punto di vista ontologico in relazione alla diversità del bene
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protetto, e tale decisione trova conferma in Cassazione civile, sez. III, 12 dicembre 2008, n.
29191, la quale, pur ribadendo come sia un “error in iudicando” valutare il danno morale
quale in termini di quota del danno biologico, sostiene che “nella valutazione del danno
morale contestuale alla lesione del diritto della salute, la valutazione di tale voce, dotata di
logica autonomia in relazione alla diversità del bene protetto, che pure attiene ad un diritto
inviolabile della persona (la sua integrità morale: art. 2 della Costituzione in relazione allo
art. 1 della Carta di Nizza, che il Trattato di Lisbona, ratificato dall'Italia con L. 2 agosto
2008, n. 130, collocando la dignità umana come la massima espressione della sua integrità
morale e biologica) deve tener conto delle condizioni soggettive della persona umana e della
gravità del fatto, senza che possa considerarsi il valore della integrità morale una quota
minore del danno alla salute”.
Per Cassazione civile, sez. Lavoro, 19 dicembre 2008, n. 29832, invece, il danno morale e
quello biologico non sono categorie di danno, ma il giudice ne deve tenere comunque conto ai
fini della liquidazione del risarcimento, in quanto descrivono la lesione subita.
Questa sentenza, dunque, fa proprie le conclusioni delle SS.UU. del novembre 2008,
attenuando, però, i principi di diritto enunciati dal Supremo Collegio.
Infatti, se è vero che danno biologico e morale non sono categorie di danno, bensì semplici
nozioni descrittive, è anche vero che, in sostanza, il giudice, esattamente come prima, li
utilizza e li considera ai fini del risarcimento del danno e, dunque, pur cambiando le
terminologie e le collocazioni sistematiche, non muta la sostanza.
Di recente, poi, Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2009, n. 479 si è sganciata dalle
pronunce gemelle del 2008, nelle quali, come già detto, il Collegio aveva chiaramente
affermato che se la sofferenza è accompagnata da degenerazioni patologiche il danno morale
non va liquidato assieme al biologico, e, dunque, se c’è danno alla salute, va risarcito il solo
danno biologico dinamico, il quale è comprensivo del morale così inteso.
Per Cassazione n. 479/09, invece, costituisce violazione dell’art. 2059 c.c. negare il
risarcimento del danno morale in caso di lesioni gravi riportate dalla vittima.
Nella fattispecie oggetto di giudizio le corti di merito avevano già liquidato il biologico, ma
non il morale e, se il Collegio avesse confermato la lettera delle SS.UU. 2008, dinanzi alle
censure concernenti la mancata liquidazione del morale, questi avrebbe, comunque, affermato
che andava liquidato il solo biologico seppur con adeguamento ai risvolti “dinamici”.
Invece Cass. 479/09 afferma il seguente principio di diritto: “la parte che ha subito lesioni
gravi alla salute nel corso di un incidente stradale, ha diritto al risarcimento integrale del
danno ingiusto non patrimoniale (nella specie dedotto come danno morale), che deve essere
equitativamente valutato tenendo conto delle condizioni soggettive della vittima, della entità
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delle lesioni e delle altre circostanze che attengono alla valutazione della condotta
dell’autore del danno”.
Da ultimo Cassazione civile, sez. III, ordinanza 17.09.2010 n. 19816, nel chiarire che le
sofferenze morali devono essere sempre risarcite, ha stabilito che “Le sentenze della Corte di
cassazione a S.U. n. 26972 e 26973/2008 - citate dalla resistente - confermano tale principio,
disponendo che non è ammessa la creazione di diverse tipologie autonome e a sè stanti di
danno non patrimoniale (ed in particolare di quella del danno c.d. esistenziale), per attribuire
una specifica somma in risarcimento di ognuna; ma che il giudice deve comunque tenere
conto - nel liquidare l’unica somma spettante in riparazione - di tutti gli aspetti che il danno
non patrimoniale assume nel caso concreto (danno alla vita, alla salute, ai rapporti affettivi e
familiari, sofferenze psichiche, ecc.)”
In definitiva oggi la giurisprudenza di legittimità, pur sottolineando la necessità di evitare
duplicazioni risarcitorie del danno non patrimoniale, ha ribadito l’esistenza del danno morale,
ne ha confermato il ristoro pur in presenza di semplici presunzioni e ha sganciato la sua
risarcibilità dall’accertamento incidentale della presenza di un reato (per quest’ultimo aspetto
chiaramente la già citata Cass. civ., n. 29832/08),
Sul punto, inoltre, è da registrare un importante intervento del legislatore, il quale, seppur in
una materia del tutto peculiare e disciplinando un settore speciale, rivela un ragionamento in
evidente contrasto con quello fatto dalle SS.UU.
Si tratta del d.p.r. 3.3.2009, n. 37 (Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità
di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle
missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell'articolo 2,
commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 244), il cui art. 5 introduce criteri legali per
la determinazione dell’invalidità permanente.
Orbene, con questa normativa il legislatore collega il danno biologico del decreto in oggetto a
quello del Codice delle Assicurazioni Private di cui al d.lgs. 209/05 e stabilisce, art. 5, comma
1°, lett. c), che nella determinazione del danno morale si deve tenere conto della “lesione alla
dignità della persona”, riconoscendo, così, l’autonomia ontologica del danno morale e
facendone presidio della dignità umana.
Peraltro anche quei Tribunali che non individuano espressamente come danno autonomo il
pregiudizio morale, ma lo considerano come aspetto descrittivo di un unico danno, quello non
patrimoniale (tra le altre Trib. Nocera Inferiore, Sez. II, 26/01/2010; Trib. Roma, Sez. XII,
12/01/2010, Trib. Roma, Sez. XII, 04/01/2010; Trib. Milano, Sez. X, 17/11/2009; Trib.
Roma, Sez. XIII, 29/10/2009; Trib. Milano, Sez. XI, 21/10/2009; Trib. Roma, Sez. XIII,
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23/07/2009; Trib. Milano, Sez. X, 12/03/2009), giungono, in sostanza, alle medesime
conclusioni pratiche, nel senso che trattasi di danno comunque risarcito e riconosciuto.
Appare opportuno, infine, rammentare che in materia di circolazione stradale, in virtù della
sentenza della Corte Costituzionale n. 233 dell’11.07.2003, il risarcimento del danno morale,
ma ciò è dirsi per l’intera area del danno non patrimoniale, non richiede la responsabilità
penale dell’autore del fatto illecito, ovvero la necessaria sussistenza di un fatto-reato accertato
in concreto, ed è, dunque, risarcibile anche nel caso in cui la responsabilità sia fondata sulla
presunzione di colpa ex art. 2054, 2° comma, c.c. (Cass. n. 479/2009, cit.; Trib. Roma, Sez.
XIII, 04/09/2009; App. Bologna, Sez. II, 13/01/2009; Trib. Modena, 23/05/2008; Cass. civ.,
sez. I, 15/01/2005, n. 729; Cass. civ., Sez. III, 24/11/2005, n. 24808; Cass. civ., Sez. III,
20/07/2004, n. 13445; Cass. civ., Sez. III, 01/06/2004, n. 10482; Cass. civ., Sez. III,
20/07/2004, n. 13445; Cass. civ., Sez. III, 14/07/2003, n. 10987; Trib. Roma, 17/10/2003).
3. Il danno morale da morte “jure hereditario”.
Per costante orientamento della giurisprudenza la morte non costituisce la massima lesione
possibile del diritto alla salute (tra le tante Cass. civ., Sez. lavoro, 27/05/2009, n. 12326; Cass.
civ., Sez. lavoro, 22/07/2008, n. 20188; Cass. civ., Sez. III, 17/01/2008, n. 870; Cass. civ.,
Sez. lavoro, 13/01/2006, n. 517; Cass. civ., Sez. III, 19/10/2007, n. 21976; Corte
Costituzionale, 27.10.1994, n. 372; Cass. civ., Sez. III, 16/05/2003, n. 7632; Cass. civ., Sez.
III, 23/02/2004, n. 3549; Cass. civ., Sez. III, 30/06/1998, n. 6404), e, dunque, in caso di morte
senza che sia passato un apprezzabile lasso di tempo dal momento dell’illecito, non sorge
alcun danno biologico o morale da trasmettere agli eredi.
Le sentenze gemelle del 2008 sono state innovative sul punto, in quanto è stato colmato il
vuoto di tutela rappresentato dalla tesi giurisprudenziale che nega, appunto, in caso di morte
immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno
biologico per perdita della vita, come vedremo poi sub. 9 detto anche tanatologico,
ammettendolo solo se il soggetto rimanga in vita per un tempo apprezzabile.
Infatti è riconosciuto dalle sezioni unite del 2008 che, in ogni caso, “il giudice potrà invece
correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza
psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la
morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine” e che “Una
sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo
suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in
patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova
più ampia accezione”.
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Dunque, in caso di morte immediata o di sopravvivenza limitata nel tempo, se non può
nascere alcun danno biologico, può essere riconosciuto un danno morale trasmissibile agli
eredi.
Si vedano oggi sulla questione in esame Cass. civ., Sez. III, 08/04/2010, n. 8360 per la quale
“Deve essere risarcito iure hereditario ai familiari della persona deceduta dopo mezz’ora il
danno morale patito dal de cuius che in tale lasso di tempo sia rimasto lucido durante
l'agonia, in consapevole attesa della fine”, Cass. civ., Sez. III, 12/02/2010, n. 3357 secondo
cui “In caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo, la sofferenza psichica patita
dalla vittima delle lesioni fisiche integra un danno che deve essere qualificato, e risarcito
“iure haereditatis” (con liquidazione ancorata alla gravità dell'offesa ed alla serietà del
pregiudizio), come danno morale e non come danno biologico, giacché una tale sofferenza, di
massima intensità anche se di durata contenuta, non è suscettibile, in ragione del limitato
intervallo temporale di tempo tra lesione e morte, di degenerare in patologia” e Cass. civ.,
Sez. III, 13/01/2009, n. 458, in base alla quale “Nel caso in cui il “de cuius” sia sopravvissuto
per un apprezzabile lasso di tempo all'evento lesivo è ammissibile il risarcimento del danno
morale terminale”.
4. Il danno morale “jure proprio” da morte o lesione del rapporto parentale.
E’ormai consolidato in giurisprudenza il riconoscimento del danno morale “jure proprio” da
lesione del rapporto di parentela, vale a dire il riconoscimento di tale danno in favore dei
congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito, lesioni personali (per tutte
Cass. Civ. Sez. Unite, 1.7.2002, n. 9556), ovvero sia deceduto (per tutte Cass. civ., Sez. III,
15/07/2005, n. 15019 e Cass. civ., Sez. III, 12/07/2006, n. 15760), e che tale danno, il quale
trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso (Cass. civ., sez. III, 11/03/2004, n. 4993),
può essere dimostrato in via presuntiva (Cass. civ., sez. III, 14/12/2004, n. 23291; Cass. civ.,
sez. III, 14/07/2003, n. 11001; Cass. civ., sez. III, 14/07/2003, n. 10996).
Parte della giurisprudenza qualifica questo pregiudizio non come morale, bens ì, più
genericamente, come lesione “alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca
solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione
delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione
sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.”,
trattandosi di “interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la
cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., nel cui ambito
rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 c.c. - senza il
limite ivi previsto in correlazione all'art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso -
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vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato”
(Cass. civ., Sez. III, 16/09/2008, n. 23725).
Le Sezioni Unite del novembre 2008, poi, hanno precisato che il danno morale assorbe il
danno parentale, vale a dire il danno da lesione o uccisione del congiunto, e statuito che
determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua
rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza
patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del
soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va
integralmente ed unitariamente ristorato (così anche Cass. civ., Sez. III, 28/11/2008, n.
28423).
Anche, in questo caso, però, la precisazione e solo terminologica o sistematica, in quanto,
comunque lo si voglia inquadrare o chiamare e fermo il divieto di duplicare le voci
risarcitorie, il danno da lesione o uccisione del congiunto è oggi un danno che deve sempre
essere integralmente risarcito.
5. I criteri di liquidazione del danno morale.
Dopo le sentenze delle Sezioni Unite del novembre 2008 si è aperto un ampio dibattito in
seno ai Tribunali italiani in ordine ai criteri di determinazione del punto tabellare, vale a dire
del punto delle tabelle normalmente utilizzate per la liquidazione del danno biologico.
Una prima impostazione, oggi seguita dal Tribunale di Milano, le cui tabelle sono largamente
le più diffuse sul territorio nazionale, ha adottato il criterio del c.d. “punto pesante”, nel senso
di comprendere nel punto in una liquidazione congiunta i valori riferibili al danno biologico
ed a quello morale.
In particolare l'Osservatorio per la giustizia civile di Milano ha elaborato nel maggio 2009
nuove tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale complessivamente inteso, con le
quali viene proposta la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale quale lesione
dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico legale, sia nel suo
aspetto “statico”, vale a dire la lesione in sé e per sé considerata, sia nel suo aspetto
“dinamico”, vale a dire dei risvolti anatomo-funzionali e relazionali, e del danno non
patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di “sofferenza soggettiva”.
In definitiva sono liquidati unitariamente, con riferimento all’andamento dei precedenti degli
uffici giudiziari di Milano, i pregiudizi in passato liquidati a titolo di danno biologico
standard, in tutte le sue componenti (estetico, alla vita di relazione, alla capacità lavorativa
generica, etc), di danno esistenziale e di danno morale.
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Questa posizione, però, è stato osservato, se ha l’indubbio vantaggio, in un’ottica di
conciliazione e transazione delle cause, di fornire una maggiore prevedibilità della futura
entità del risarcimento, comporta un eccessivo automatismo nella liquidazione del danno e
comprime notevolmente il potere equitativo del giudice in un valore già elaborato a priori nei
suoi standard medi, lasciando alla personalizzazione solo una funzione marginale di
intervento in ipotesi rare ed eccezionali.
Altri Tribunali, invece, tra cui quello di Roma, ha adottato un principio opposto, lasciando
sostanzialmente invariato il punto di invalidità, limitato al solo danno biologico, e
rimandando al potere equitativo del giudice la personalizzazione e, soprattutto, la liquidazione
del danno morale.
Inoltre comprendere il danno morale nel punto tabellare tramite un “appesantimento” dello
stesso incontra altri due ostacoli, uno di carattere sistematico e l’altro pratico.
Sotto il primo profilo, quello sistematico, il danno biologico è un danno permanente, mentre
quello morale è, per sua definizione, un danno transitorio.
Da qui la difficoltà concettuale di comprendere nello stesso punto un danno non patrimoniale
permanente, quello biologico, ed un danno patrimoniale transitorio per sua natura, quale è
quello morale.
Inoltre, da un punto di vista pratico, appunto, anche comprendendo il danno morale nel punto
tabellare, non potrebbe non esservi comunque sempre spazio per la c.d. personalizzazione del
danno, personalizzazione che, per costante giurisprudenza di legittimità, costituisce uno
specifico dovere del giudice, il quale non può limitarsi alla semplice applicazione automatica
dei criteri tabellari.
In concreto, dunque, dovendosi comunque sempre personalizzare il danno non patrimoniale,
appare sostanzialmente inutile includere nel punto tabellare il danno morale, oltre che
parzialmente, ed inutilmente, vincolante per il giudice.
Peraltro, inserire il danno morale nel punto tabellare è più complicato rispetto al danno
biologico, attesa la natura strettamente soggettiva della sofferenza psichica transitoria, la
quale non può non tener conto di circostanze, quali, ad esempio, il tipo e la gravità della
condotta illecita altrui, le quali ben possono cagionare un danno morale elevato a fronte di un
biologico lieve o insussistente (sul punto basti pensare alla violenza sessuale, la quale, se può
comportare un lieve danno sotto il profilo strettamente biologico, integra un rilevante danno
morale per la vittima).
Infine, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente censurato la prassi delle corti di
merito in ordine all’appiattimento del risarcimento sui criteri tabellari e, dunque, la
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superficiale valutazione soggettiva del danno in relazione al singolo caso concreto e,
inevitabilmente, il punto tabellare “pesante” aumenta la possibilità di questo appiattimento.
Altra questione e se il danno morale possa essere liquidato in percentuale su quanto
riconosciuto a titolo di danno biologico, opzione che, in base a quanto sopra esposto,
sembrerebbe preclusa dalle pronunce delle Sezioni Unite.
In realtà alcuni Tribunali di merito continuano a liquidare il danno morale con riferimento ad
una frazione del “quantum” liquidato a titolo di danno biologico (da ultimo Trib. L'Aquila,
05/03/2010) e la successiva giurisprudenza di legittimità avalla tale impostazione,
sottolineando però il dovere del giudice di procedere poi alla necessaria personalizzazione
(Cass. civ., Sez. III, 15/07/2009, n. 16448; Cass. civ., Sez. III, 19/01/2010, n. 702).
Anche in questo caso, peraltro, la questione appare più formale che sostanziale, atteso che,
una volta riconosciuta la risarcibilità del danno morale, il relativo criterio di liquidazione,
necessariamente equitativo, è rimesso al prudente apprezzamento del giudice, il quale ben
potrà utilizzare come punto di riferimento quanto liquidato a titolo di danno biologico, salvo
tener conto delle circostanze del caso concreto e riconoscere un complessivo danno non
patrimoniale il più possibile personalizzato.
6. I criteri di liquidazione del danno morale “jure proprio” da morte o lesione del rapporto
parentale.
Per questa liquidazione i Tribunali hanno normalmente adottato un criterio elastico, lasciando
ampio margine di personalizzazione e quindi di parametrazione del risarcimento alla
specificità del caso concreto e all’incidenza dell’azione illecita del terzo.
In pratica è normalmente prevista una forbice tra i massimi ed i minimi tabellari ed è rimesso
al potere sostanzialmente discrezionale del giudice la liquidazione del danno.
Il Tribunale di Roma, invece, prevede oggi per tale tipo di danno, nell’ottica di una maggiore
personalizzazione, un sistema a punti basato sull’attribuzione al danno di un punteggio
numerico a seconda della sua presumibile entità e nella moltiplicazione di tale punteggio per
una somma di denaro che costituisce il valore di ideale di ogni punto.
Più precisamente sono individuati cinque fattori di influenza del risarcimento, vale a dire il
rapporto parentale, l’età della vittima, l’età del danneggiato, la convivenza e la composizione
del nucleo familiare, nei quali sono previste delle variabili a ciascuna delle quali è attribuito
un punteggio da moltiplicarsi per il valore monetario, aggiornato annualmente, sul cui
importo finale possono essere, poi, applicati dei correttivi per adeguare ulteriormente il
risarcimento alla fattispecie concreta in esame.
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Questa presenza di variabili soggettive di valutazione porta la tabella romana ad avere un
approccio meno rigido e, dunque, meno discrezionale e più orientato alla personalizzazione
del danno.
7. Il nuovo danno esistenziale.
A seguito dell’intervento delle Sezioni Unite del novembre 2008 anche il danno esistenziale
non può essere inteso come categoria autonoma, ma come figura individuata ai fini
meramente descrittivi di un particolare aspetto del danno non patrimoniale.
Tale danno consiste in un pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma
permanente, oggettivamente accertabile e provocato sul fare areddittuale del soggetto, il quale
altera le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte
di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno
(Cass. Civ. Sez. Unite, n. 26972 del 24.6/11.11.2008; Cass. civ., Sez. Unite, 24/03/2006, n.
6572; Cass. civ., Sez. lavoro, 07/03/2007, n. 5221; Cass. civ., Sez. lavoro, 16/05/2007, n.
11278) e sussiste solo nei casi di reato o previsti dalla legge, ovvero in ipotesi di lesione di
diritti inviolabili della persona costituzionalmente qualificati, ed in presenza di una lesione
grave e di un danno serio (da ultimo sempre Cass. Civ. Sezioni Unite, n. 26972/2008).
Dunque, così come per il danno morale, non può ritenersi che il danno esistenziale sia stato
cancellato dalle Sezioni Unite, ma, al pari di quello, è stato semplicemente collocato
sistematicamente nella più ampia categoria unitaria del danno non patrimoniale e ne è stata
delimitata in termini ristretti l’area di applicazione.
In particolare la Corte ha osservato che (punto 3.11 sent. 26972/08) “La gravità dell’offesa
costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali
alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere
inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve
eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere
meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della
gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di
solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del
danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed
il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel
complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la
convivenza impone (art. 2 Cost.). Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice
secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico
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(criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o
disciplinare, S.U. n. 16265/2002)”.
Basta, per tali motivi, al risarcimento di danni “bagatellari”, quali, così come riconosciuti
dalla giurisprudenza di merito, in particolare dai Giudici di Pace, la rottura del tacco di una
scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa in aeroporto, il disservizio dell’ufficio
pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale da affezione o il
mancato godimento della partita di calcio in tv determinato da “black out” elettrico.
Insomma, non sono meritevoli di tutela risarcitoria non patrimoniale i pregiudizi consistenti
in «disagi, fastidi, disappunti, ansie» o varie insoddisfazioni relative ai più disparati aspetti
della vita quotidiana e non esiste un diritto ad essere felici ed alla qualità della vita.
In sostanza il pregiudizio di tipo esistenziale è riconosciuto solo entro il limite segnato dalla
ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno e senza lesione di diritti
fondamentali non c’è tutela, con l’ulteriore filtro della serietà e gravità della lesione e, per
quanto concerne l’onere probatorio, si rinvia ancora alla prova documentale, testimoniale o
per presunzioni (Cass. civ., Sez. Unite, 6572/2006, cit., e. Cass. civ., Sez. lavoro, 11278/2007,
cit.)
In definitiva, le Sezioni Unite non negano affatto la configurabilità di pregiudizi esistenziali,
ma si limitano ad affermare che tali pregiudizi in tanto sono risarcibili in quanto siano
conseguenza (danni-conseguenza) della lesione di diritti fondamentali costituzionalmente
tutelati (danni-evento): pregiudizi di tipo esistenziale, dicono le Sezioni Unite, sono risarcibili
purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Peraltro appare evidente, anche per evitare la duplicazione del danno risarcibile, la distinzione
del danno esistenziale da quello morale.
In particolare è stato osservato che “Poiché il danno esistenziale si sostanzia in un non poter
più fare, un dover agire altrimenti, la prova della sola lesione di un diritto fondamentale
dell'individuo (nella specie la lesione del diritto alla salute ed alla solidarietà familiare) non
è sufficiente a giustificarne il risarcimento, costituendo invero la stessa un semplice indizio di
danno; la sua esistenza deve, perciò, essere dimostrata mediante elementi che confermino il
carattere permanente del pregiudizio, risolvendosi altrimenti lo stesso in un "pati" transitorio
risarcibile solo sotto il diverso profilo del danno morale” (Trib. Roma, Sez. XII, 01/12/2009).
Dunque, il danno morale è essenzialmente un sentire, mentre il danno esistenziale è piuttosto
un non poter più fare, un dover agire altrimenti, l’uno attiene per sua natura alla sfera
dell’emotività e l’altro concerne il modo di estrinsecarsi e nessuna incidenza sullo stesso è
stata compiutamente provata.
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Interessante, per quanto concerne i rapporti tra il danno esistenziale e quello morale, è Cass.
civ., Sez. Unite, 16/02/2009, n. 3677, la quale, sempre per sottolineare la necessità di evitare
duplicazioni risarcitorie, ha evidenziato come “Il danno c.d. esistenziale, non costituendo una
categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno morale, non può essere
liquidato separatamente solo perchè diversamente denominato”.
Da ultimo, a conferma di quanto sopra esposto, è stato affermato che “Il danno non
patrimoniale di cui all’art. 2059 cod. civ. costituisce una categoria ampia, comprensiva non
solo del c.d. danno morale soggettivo (e cioè della sofferenza contingente e del turbamento
d’animo transeunte, determinati da fatto illecito integrante reato), ma anche di ogni ipotesi in
cui si verifichi un’ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente
garantito, dalla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica,
senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 cod. pen.”
(Cass. civ., Sez. III, 19/02/2009, n. 4053).
La conclusione, così come per il danno morale, anche per il danno esistenziale appare la
stessa, nel senso che, come lo si voglia nominare ed inquadrare, è un pregiudizio che deve
essere liquidato, sempre nell’ottica della personalizzazione e nel rispetto dell’esigenza di
evitare duplicazioni risarcitorie.
8. Il danno biologico
Nei primi anni settanta la dottrina e la giurisprudenza cominciano ad incentrare l’attenzione
sulla tutela della persona in quanto tale, prescindendo dalla sua capacità di produrre reddito.
Il primo a pronunciarsi in tal senso è il Tribunale di Genova, il quale, con sentenza del
25.5.1974, stabilisce che il danno alla persona riguarda sia l’ambito professionale, sia le
attività extralavorative e ricreative, giacché è attraverso queste ultime che l’individuo realizza
la propria personalità.
Cinque anni più tardi, con sentenza n. 88 del 26.7.1979, la Corte Costituzionale contribuisce
ulteriormente all’affermarsi di questo rinnovato concetto di danno alla persona, sancendo
testualmente che la salute è un diritto fondamentale, primario ed assoluto dell’individuo, il
quale, in virtù del suo carattere privatistico, è direttamente tutelato dalla Costituzione (art. 32)
e, nel caso di sua violazione, il soggetto può chiedere ed ottenere il giusto risarcimento, in
forza del combinato tra il medesimo articolo costituzionale e l’art. 2059 del codice civile.
Nella stessa pronuncia, il giudice delle leggi precisa che la tutela del bene salute va estesa
anche alle situazioni ove intervenga la lesione di interessi non economici.
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In questa nuova ottica, il risarcimento del danno alla persona perde il suo legame esclusivo
con l’aspetto reddituale per riferirsi a chiunque subisca una lesione da parte di terzi,
includendo, pertanto, anche quelle categorie sociali, fino ad allora, escluse.
La sentenza n. 88/79, inoltre, ha il merito di aver valorizzato il dettame dell’art. 32 della
Costituzione, segnando il passo alla successiva e già evidenziata pronuncia della Corte
Costituzionale n. 184/86, la quale, nel combinato disposto dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2043
c.c., pone in essere l’effettiva tutela giuridica del bene salute e conferisce al danno biologico
lo status di “tertium genus” rispetto al danno patrimoniale e morale derivante da reato.
Il danno biologico diventa evento costitutivo della lesione, quindi insito nella medesima e, in
altre parole, la prova della lesione è in re ipsa.
Si apre, inoltre, la strada ad una diversa definizione del bene salute, nella cui accezione, d’ora
in avanti, saranno comprese tutte le funzioni naturali afferenti al soggetto nel suo ambiente e
aventi rilevanza biologica, sociale, culturale ed estetica, oltre che economica (Cass. civ., Sez.
lavoro, 06/07/1990, n. 7101).
Il legislatore è poi intervenuto dando le definizioni normative del danno biologico, così come
contenute nel decreto legislativo 23 febbraio 2000 n. 38 e nella Legge 5 marzo 2001 n. 57.
L’art. 13 del d.l.vo n. 38/2000 definisce il danno biologico come la lesione dell’integrità
psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico- legale, specificando che le
prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla
capacità di produzione di reddito del danneggiato.
L’art. 5 della legge n. 57/2001 riprende testualmente quanto già espresso dal d.l.vo n.
38/2000, aggiungendo che il danno biologico viene ulteriormente risarcito tenuto conto delle
condizioni soggettive del danneggiato.
Da ultimo è intervenuto l’art. 139, secondo comma, del decreto legislativo n. 209 del
7.9.2005, il quale ha definito il danno biologico come “la lesione temporanea o permanente
all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico- legale che esplica
un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita
del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre
reddito”.
Nel danno biologico, poi, come vedremo sub 10, sono state comprese dalla giurisprudenza le
figure del danno estetico, del danno alla vita di relazione, del danno alla capacità lavorativa
generica, del danno alla sfera sessuale e del danno da cenestesi lavorativa.
9. Il danno biologico da morte. Il danno tanatologico.
Il danno tanatologico è il danno derivante dalla morte di un congiunto per fatto illecito altrui.
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La dottrina ha individuato due categorie di danno tanatologico: diretto e riflesso.
Si parla di danno tanatologico diretto quando il soggetto perde la vita per un fatto ingiusto
causato da terzi.
In questo caso, il risarcimento del danno tanatologico, traducendosi in un vero è proprio
danno biologico, è trasmissibile “iure hereditatis”, salvo che, come già visto parlando sub. 3
del danno morale da morte e come vedremo poi, nei casi di decesso istantaneo.
Il danno tanatologico, riflesso, invece, si ha quando un soggetto subisce una menomazione
psicofisica, a causa dell’evento morte di un congiunto.
In questo caso, l’evento-morte produce un ulteriore evento- lesione che danneggia la salute
psichica o fisica del congiunto rimasto in vita, e, in definitiva, causa un danno biologico.
La c.d. tesi minoritaria positiva, seguita dalla dottrina, sostiene la risarcibilità “jure
hereditario” sempre e comunque del danno tanatologico diretto, anche quando l’evento morte
cagionato dall’evento lesivo è pressoché immediato, ovvero interviene dopo un breve lasso di
tempo.
Questa impostazione trova fondamento nell’art. 2 della Costituzione, nella Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo (10.12.1948), nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo
(4.11.1950) e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici (16/19.12.1966), tutti ratificati
dall’Italia con apposite leggi.
L’altra corrente, che prende il nome di c.d. tesi maggioritaria negativa ed è seguita dalla
prevalente giurisprudenza, sostiene che il danno tanatologico diretto da morte immediata non
costituisce danno biologico, poiché la perdita della vita non è la massima lesione possibile del
diritto alla salute (vedi giurisprudenza sopra sub 3) e richiede ai fini della risarcibilità il
decorrere di un certo lasso di tempo tra l’illecito e la morte.
Di conseguenza, trasmettere per via ereditaria il risarcimento della perdita della vita,
equivarrebbe a dare al bene giuridico vita lo status giuridico di un bene patrimoniale, senza
contare che il danno da morte nega la sopravvivenza, mentre il danno alla salute la
presuppone.
A chiarire la posizione della giurisprudenza in tema di danno tanatologico è intervenuta di
recente Cass. civ., Sez. III, 17.1.2008, n. 870.
La Corte distingue il caso in cui la morte è istantanea dal caso in cui il decesso intercorre
dopo un certo lasso di tempo dall’evento lesivo.
Nel caso di morte istantanea, non vi è danno alla salute, poiché ciò che viene leso è il bene
giuridico vita e non la salute, la quale, perché sia considerata un bene giuridico, presuppone
l’essere in vita del danneggiato.
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Quando, invece, il decesso avviene dopo un considerevole lasso di tempo dall’evento lesivo,
il bene giuridico salute deve considerarsi compromesso, poiché il danneggiato è stato
costretto a vivere, fino al momento della propria morte, accusando la compromissione della
propria integrità psico-fisica.
Per quanto concerne i criteri di liquidazione, l’ammontare del danno biologico che gli eredi
del defunto richiedono “iure successionis” va calcolato non con riferimento alla durata
probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva (Cass. civ., Sez. III, 30/10/2009,
n. 23053; Cass. civ., Sez. III, 30/01/2008, n. 2106), tenendo conto del fatto che nei primi
tempi il patema d'animo è più intenso rispetto ai periodi successivi, ed è un danno nel quale i
fattori della personalizzazione debbono valere in un grado assai elevato.
Lo stesso, dunque, non può essere liquidato attraverso l’applicazione automatica dei criteri
contenuti nelle tabelle utilizzate dai Tribunali, le quali, per quanto dettagliate, nella generalità
dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità,
temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso, ma deve essere
ulteriormente e compiutamente adeguato al caso concreto (Cass. civ., Sez. III, 27/11/2006, n.
25124; Cass. civ., Sez. III, 30/01/2006, n. 1877 ; Cass. civ., Sez. III, 16/05/2003, n. 7632;
Cass. civ., Sez. III, 23/02/2004, n. 3549; Cass. civ., Sez. III, 14/07/2003, n. 11003).
Da notare, inoltre, che la giurisprudenza rinvia normalmente alle sole tabelle per l'invalidità
temporanea assoluta e totale e non a quelle per l’invalidità permanente (per tutte Cass. civ.,
Sez. III, 09/10/2009, n. 21497).
Inoltre il giudice, nell'adeguare l’ammontare tale danno alle circostanze del caso concreto,
deve tener conto del fatto del fatto che lo stesso, se pure temporaneo, è massimo nella sua
entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di
recupero ed esitare nella morte (Cass. civ., Sez. III, 28/08/2007, n. 18163; Cass. civ., Sez. III,
14/02/2007, n. 3260)
Infine è da ricordare che, come già ampiamente evidenziato sub 3, in caso di morte immediata
è oggi comunque riconosciuto il danno morale “jure hereditario”.
10. Criteri di liquidazione del danno biologico. In particolare nell’infortunistica stradale.
Per quantificare tale danno si procede, come è noto, ad una liquidazione in via equitativa ai
sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c.
Utilizzando questo criterio e per il riconoscimento di un danno il più possibile personalizzato,
il giudice di norma, deve avere riguardo, in modo particolare, all’età del danneggiato ed alla
gravità della lesione, applicando a tal fine, come è prassi giurisprudenziale, le tabelle
appositamente fissate in materia dai singoli Tribunali.
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Il fondamento della tabella è la media dei precedenti giudiziari in un dato ambito territoriale e
la finalità è quella di uniformare i criteri di liquidazione del danno, ma non deve essere
applicata automaticamente, bensì con apprezzamento anche delle c.d. condizioni
personalizzanti, tenendo conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del
danno, anche per evitare l’eventualità che possa giungersi a liquidazioni puramente
simboliche o irrisorie (Cass. civ., Sez. III, 25/05/2007, n. 12247; Cass. civ., Sez. III,
11/01/2007, n. 392; Cass. civ., Sez. III, 25/08/2006, n. 18489; Cass. civ., Sez. III, 20/03/2006,
n. 6088; Cass. civ., Sez. III, 30/01/2006, n. 1877).
Le tabelle non rientrano nelle nozioni di fatto di comune esperienza, né sono recepite in
norme di diritto appartenenti necessariamente alla conoscenza del magistrato (Cass. civ., Sez.
III, 11/01/2007, n. 394; Cass. civ., Sez. III, 01/06/2006, n. 13130; Cass. civ., Sez. III,
16/12/2005, n. 27723. Di “notorio locale”, vale a dire limitato ad una stretta cerchia di
soggetti, parla Cass. civ., Sez. III, 12/03/2008, n. 6684) e, pertanto, il giudice che intenda
utilizzarle deve, per non incorrere nell’errore di omessa motivazione, dare conto dei criteri
indicati nelle tabelle e poi descriverne l’applicazione alla fattispecie concreta (Cass. civ., Sez.
III, 23/05/2003, n. 8169; Cass. civ., Sez. III, 09/08/2001, n. 10980; Cass. civ., Sez. lavoro,
06/11/2000, n. 14440).
Sotto altro profilo, se si ritiene non sussistente alcun diritto del danneggiato ad ottenere la
liquidazione del danno in base a tabelle in uso presso un determinato Ufficio Giudiziario
piuttosto che in un altro (Cass. civ., Sez. III, 26/01/2010, n. 1524), il giudice, pur non essendo
vincolato alle tabelle di sezione adottate dal suo Tribunale, qualora le utilizzi la motivazione
della scelta è già in “re ipsa” (Cass. civ., Sez. III, 03/08/2005, n. 16237), mentre, qualora se ne
discosti e adotti le tabelle in uso presso altro ufficio giudiziario, è tenuto in ogni caso a dare
ragione della diversa scelta (Cass. civ., Sez. III, 01/06/2006, n. 13130; Cass. civ., Sez. III,
02/03/2004, n. 4186; Cass. Civ., 16237/05, cit.).
Nel campo del risarcimento del danno da circolazione stradale, dove, inevitabilmente, il
pregiudizio non patrimoniale si afferma in tutti i suoi aspetti, il legislatore ha adottato una
tabella unica nazionale per le lesioni micropermanenti, vale a dire per le lesioni di lieve entità
dall’1% al 9%.
Trattasi dell’art. 139 del Decreto Legislativo n. 209 del 7.9.2005, c.d. “Codice delle
Assicurazioni Private” in vigore dall’1.1.2006, il quale riprende i criteri già fissati dall’art. 5),
lett. a), e 5° comma, della legge 5.3.2001 n. 57, a sua volta in vigore dal 4.4.2001.
Tale normativa utilizza come criteri di riferimento la percentuale di invalidità e l’età del
danneggiato, adottando come base di calcolo il c.d. valore punto, ed un coefficiente indicato
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nell’allegato A), con successiva riduzione dell’importo dello 0,5% per ogni anno di età a
partire dall’undicesimo anno di età.
Per quanto concerne il danno biologico da invalidità temporanea assoluta sempre l’art. 139
prevede un determinato importo per ogni giorno di inabilità assoluta e che in caso di inabilità
temporanea inferiore al cento per cento la liquidazione avviene in misura corrispondente alla
percentuale di inabilità riconosciuta per ciascun giorno.
L’importo del valore punto e quello per determinare l’invalidità temporanea sono aggiornati
annualmente con decreto del Ministro delle Attività produttive, in misura corrispondente alla
variazione dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati
accertata dall’Istat, e sono oggi fissati dal D.M. 27.5.2010.
L’art. 139, terzo comma, poi, prevede la possibilità per il giudice di aumentare l’ammontare
del danno biologico liquidato in misura non superiore ad un quinto “con equo e motivato
apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato”, dando, così, spazio alla c.d.
personalizzazione.
Peraltro è da ritenersi, per quanto sopra esposto, che questa personalizzazione per le lesioni di
lieve entità, proprio perché limitata al 20%, concerni esclusivamente il danno biologico in
senso stretto, dovendo il giudice poi ulteriormente personalizzare il complessivo danno non
patrimoniale in tutti suoi ulteriori aspetti: “Le soglie massime per il risarcimento del danno
biologico previste dagli artt. 138 e 139 del D.Lgs. n. 209/2005 operano unicamente con
riguardo al danno alla validità biologica medicalmente accertato e non invece con riguardo
al pregiudizio alla integrità morale della persona” (App. Torino, 05/10/2009).
Questa conclusione sembra inevitabile alla luce della costante giurisprudenza di legittimità, la
quale ritiene necessaria sempre e comunque la personalizzazione del danno non patrimoniale
complessivamente inteso (per tutte Cass. civ., Sez. III, 29/03/2007, n. 7740).
Precisato che, in quanto oggetto di specifica previsione legislativa, per le lesioni di lieve entità
in materia di circolazione stradale il giudice non può più operare riferimento alle note tabelle
vigenti in Tribunale, ulteriore questione è quella se per i sinistri anteriori al 4.4.2001, data di
vigenza della legge n. 57/01 poi ripresa dall’art. 139 del d.l.vo n. 209/05, il giudice debba
applicare comunque il sopravvenuto dato normativo, ovvero le tabelle di liquidazione del
danno biologico adottate dal Tribunale di appartenenza, peraltro normalmente di importo
superiore.
Secondo una prima impostazione la liquidazione del danno biologico da c.d. micropermanente
può essere effettuata applicando i criteri previsti dalla legge n. 57/ 2001 anche nel caso di
sinistro stradale verificatosi in data antecedente all'entrata in vigore della legge stessa, sulla
base della considerazione che “i criteri di cui alla detta legge, pur se contenuti in un
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provvedimento normativo entrato in vigore dopo il sinistro, possono costituire una base
equitativa per la liquidazione uniforme dei danni da c.d. micropermanente” (Trib. Modena,
23/05/2008), ovvero che “sarebbe iniquo ed irragionevole, in presenza di un criterio di
liquidazione del danno alla persona finalmente stabilito dal legislatore, procedere alla
quantificazione del danno risarcibile adottando, in ipotesi in cui emergano lesioni della
medesima entità, criteri di liquidazione diversi, e, di conseguenza, determinare in sede
giudiziale il ristoro in misura differente a seconda che il fatto generatore del pregiudizio
all’integrità psico - fisica si sia verificato prima o dopo l’entrata in vigore della legge n. 57
del 2001” (Trib. Reggio Emilia, 19/04/2001).
Nello stesso senso anche Trib. Castiglione S., 02/11/2005, Trib. La Spezia, 27/10/2005, Trib.
Mantova, Sez. II, 17/02/2004 e Trib. Milano, 20/09/2001.
Per altro orientamento, invece, “In tema di liquidazione del danno biologico da sinistro
stradale avvenuto prima dell’entrata in vigore della legge 5 marzo 2001, n. 57, non va
operata l’applicazione di tale legge in via analogica, in quanto contraddice con il dato
testuale della stessa, che dispone l’applicabilità ai sinistri avvenuti successivamente alla data
di entrata in vigore della legge, oltre a contrastare con il principio di equità, per finire con il
trattare con lo stesso criterio fatti avvenuti in tempi diversi” (App. Genova, Sez. I,
18/07/2005. Nello stesso senso Trib. Massa, 23/03/2002).
La questione sembra oggi risolta da Cass. civ., Sez. III, 13/05/2009, n. 11048, per la quale le
tabelle mediche per la micropermanente di cui all’art. 5, comma 5°, della legge n. 57/01,
approvate con D.M. 3 luglio 2003 ed in vigore dal giorno 11 settembre 2003, data della sua
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, non hanno effetto retroattivo, stabilendo, così, in
pratica l’inapplicabilità della legge n. 57/01 quanto meno ai sinistri anteriori all’11.9.2003.
Isolate restano quelle pronunce le quali, in considerazione del fatto che la liquidazione del
danno biologico nei sinistri stradali deve avvenire con criteri equitativi, ritengono che i
parametri previsti dalla legge 5 marzo 2001, n. 57 possono essere utilizzati anche per lesioni
che superano il 9% di invalidità permanente (Trib. Venezia, 11/07/2002; Trib. Dolo,
11/07/2002).
Appare, infine, interessante osservare come alcuni Tribunali ritengano applicabili in via
analogica i criteri di cui alla legge n. 57/01 anche in ipotesi di lesioni micropermanenti non
derivanti da circolazione stradale (Trib. Catania, Sez. V, 16/01/2006; Trib. Bari, Sez. III,
31/03/2006; Trib. Milano, 02/07/2001; Trib. Venezia, 11/05/2001).
Per le lesioni macropermanenti da sinistro stradale, o lesioni di non lieve entità, vale a dire dal
10% in poi, l’art. 138 del d.l.vo n. 209/05 stabilisce la predisposizione di una specifica tabella
unica su tutto il territorio nazionale, in realtà già prevista fin dall’art. 23 della legge n. 273 del
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12.12.2002, ma ad oggi non ancora elaborata, con la conseguenza che per tali lesioni il
giudice dovrà continuare a fare ricorso alle tabelle in uso presso il suo Tribunale.
Da notare che il 3° comma dell’art. 138 dispone che “Qualora la menomazione accertata
incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, l’ammontare
del danno determinato ai sensi della tabella unica nazionale può essere aumentato dal
giudice sino al trenta per cento, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni
soggettive del danneggiato”.
Dunque, anche in ipotesi di lesioni gravi è prevista una personalizzazione ed anche in questo
caso la stessa deve ritenersi limitata al danno biologico in senso stretto, sempre per consentire
una adeguata personalizzazione del danno non patrimoniale complessivamente inteso in tutti i
suoi aspetti.
11. Il danno estetico, il danno alla vita di relazione, il danno alla capacità lavorativa generica,
il danno alla sfera sessuale ed il danno da cenestesi lavorativa.
Il danno estetico consiste nella compromissione dell’integrità fisionomica della persona (per
tutte Cass. civ., Sez. III, 23/01/1995, n. 755) ed è manifestazione del danno biologico nel
momento in cui incide sulla capacità dell’individuo di relazionarsi col mondo esterno e sulla
sua personalità (tra le tante Trib. Napoli, 24/12/1999, Cass. civ., Sez. III, 29/09/1999, n.
10762, Cass. civ., Sez. III, 12/01/1999, n. 256, Trib. Roma, 17/07/1998).
Nell’attuale accezione, il danno estetico trova tutela giuridica nell’art. 2 della Costituzione,
laddove la lesione comporti serie e rilevanti limitazioni nella realizzazione della personalità
dell’individuo.
Dal danno estetico possono derivare danni morali (ex art. 2059 c.c.) e danni patrimoniali,
intesi come diminuzione della capacità reddituale in concreto (è il caso, ad esempio, di
modelle, per cui la bellezza è essenziale allo svolgimento della loro professione) e,
comunque, è un danno che, se limitato alla sfera non patrimoniale, deve essere liquidato
nell'ambito della personalizzazione del danno biologico (Cass. civ., Sez. III, 22/04/2009, n.
9549).
Il danno alla vita di relazione consiste, invece, nel danno alla capacità del singolo di
relazionarsi con gli altri e di poter svolgere tutte quelle attività extralavorative che lo
realizzano come persona.
Negli anni sessanta, il danno alla vita di relazione era correlato al danno patrimoniale,
ritenendosi che la menomazione fisica di un soggetto influisse sulla sua capacità di
concorrenza, ne l senso di rendere difficile il suo reinserimento nelle dinamiche sociali ed
economiche.
23
In questo, il concetto di danno alla vita di relazione appare molto vicino a quello di danno
estetico, mentre è evidente come nella valutazione del danno ricorrano ancora i criteri
economico-patrimoniale e lavorativo.
Bisognerà attendere gli anni novanta perché i giudici di legittimità sentenzino che la
menomazione dell’integrità psicofisica dell’individuo incide negativamente sulla
realizzazione della sua personalità nelle attività sociali e ricreative che lo pongono in
relazione con terzi (Cass. civ., Sez. III, 16/09/1996, n. 8287 e Cass. civ., Sez. III, 16/04/1996,
n. 3564), legando il concetto di danno alla vita di relazione ad una visione dell’uomo inteso
come essere “sociale”, piuttosto che “economico”.
Oggi questo danno è pacificamente considerato componente del danno biologico (per tutte
Cass. civ., sez. III, 26/02/2004, n. 3868 e Cass. civ., Sez. lavoro, 30/11/2009, n. 25236) e
deve essere provato, non essendo automatico, infatti, che la lesione psicofisica arrechi
automaticamente un danno alla sfera relazionale e ricreativa del soggetto.
Il danno alla capacità lavorativa generica è la “lesione alla potenziale attitudine del soggetto
all’attività lavorativa, ind ipendentemente dalla produzione di un reddito” (Cass. civ., Sez. III,
16/02/1996, n. 1198).
Il danno alla capacità lavorativa generica differisce dal danno patrimoniale in quanto, al
contrario di questo, prescinde dalla titolarità di un reddito.
Sotto questo profilo si distingue dal danno alla capacità lavorativa specifica, inteso come
danno all’attività in concreto svolta e, come tale, costituente danno patrimoniale in quanto
idoneo ad incidere sulla capacità di produrre reddito.
Il risarcimento del danno alla capacità lavorativa generica spetta anche ai soggetti non
occupati e dediti agli studi per l’acquisizione di un titolo professionale, dovendosi considerare
quali effetti pregiudizievoli ricollegabili all’evento, l’invalidità, gli esborsi necessari al
recupero degli studi e le perdite patrimoniali correlate al ritardato ingresso nel mondo del
lavoro.
Si annoverano anche nel danno in oggetto, la perdita di chances lavorative, la riduzione della
capacità di concorrenza (Cass. civ., Sez. III, 23/01/1995, n. 755) e l’infermità derivante da
un’attività lavorativa usurante (Cass. civ., Sez. lavoro, 04/03/2000, n. 2455).
Il danno alla sfera sessuale consiste nella lesione del diritto di un coniuge ad avere rapporti
con l’altro coniuge secondo Cass. civ., Sez. III, 21/05/1996, n. 4671.
Questa pronuncia si riallaccia a Cass. civ., Sez. III, 11/11/1986, n. 6607 che considera il
diritto-dovere ai rapporti sessuali una componente essenziale del rapporto di coniugio.
Partendo da questa valutazione, e tenendo presente che la norma di cui all’art. 2043 c.c. pone
il principio di risarcibilità del danno ingiusto, senza alcun riferimento alla natura patrimoniale
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dello stesso, stabilendo in via immediata la risarcibilità del complessivo valore della persona
nella sua proiezione non solo economica ed oggettiva, ma anche soggettiva, la Corte ritiene
giusto risarcire il coniuge il cui diritto alla vita sessuale con l’altro coniuge sia stato leso da
fatto illecito altrui.
Va da sé, quindi, che il danno alla sfera sessuale rientra nel danno biologico, in quanto la
lesione riguarda un diritto primario dell’individuo, mentre per Cass. civ., Sez. III, 02/02/2007,
n. 2311 la perdita o la compromissione anche soltanto psichica della sessualità (come avviene
nei casi di stupro e di pedofilia) costituisce un vero e proprio danno esistenziale.
Infine nel biologico da invalidità permanente è compreso anche il danno da cenestesi
lavorativa, inteso come maggiore sforzo nello svolgimento dell’attività lavorativa (per tutte
Cass. civ., Sez. III, 08/11/2007, n. 23293).
12. Liquidazione del danno non patrimoniale da illecito extracontrattuale e stranieri. Criteri di
quantificazione del danno e condizione di reciprocità.
Questione di particolare interesse, di sovente presente nelle controversie in materia di
circolazione stradale che vede danneggiati cittadini stranieri, in particolare extracomunitari, è
quella se, nel quantificare il danno, debba o meno tenersi conto della realtà socio-economica
del danneggiato, normalmente per limitarne il risarcimento.
Secondo il Tribunale di Monza (sent n. 3302 del 2.11.2007) il risarcimento deve essere
commisurato alla realtà socio-economica del danneggiato “Ciò, in quanto il denaro non ha un
valore intrinseco ed assoluto, ma è espressione di quanto è in grado di procurare: l’utilità
ricavata attraverso il risarcimento in denaro non ha una consistenza oggettiva, ma varia in
relazione a quanto il denaro permette di conseguire in termini di beni e di servizi. L’esigenza
di riconoscere a tutti i danneggiati un uguale risarcimento non può essere soddisfatta
attraverso la mera attribuzione a ciascun danneggiato di un uguale risarcimento,
indipendentemente dal contesto economico in cui tale danneggiato si trovi a vivere, perché
così facendo la medesima espressione monetaria verrebbe a rivelarsi insufficiente per chi
viva in contesti economici con prezzi medi superiori, eccessiva per chi viva in contesti
economici con prezzi inferiori”.
Questa impostazione trova supporto in Cass. civ., Sez. III, 14/02/2000, n. 1637, la quale,
relativamente a cittadini italiani all’interno di Regioni dal maggiore o minore costo della vita,
valorizza il fatto che l’entità compensativa dei risarcimenti in denaro possa essere diversa a
seconda dell’area nella quale il denaro è speso, ritenendo corretto che i Tribunali
rapportassero l’importo risarcibile alla realtà socio-economica della provincia del Centro-Sud
teatro della causa.
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Di contrario avviso è il Tribunale di Milano (X sezione civile, sent. n. 12099 del 18.12.2008),
il quale nel rifiutare il criterio delle «gabbie risarcitorie del dolore» sul modello delle «gabbie
salariali» in funzione del costo della vita localmente differente, ne sottolinea la possibile
sostanziale ingiustizia e la pericolosa incertezza sul complessivo piano giurisprudenziale.
Il Tribunale meneghino ha precisato che “la prospettiva di un risarcimento differenziato in
ragione del diverso costo dei beni in altri paesi, per non smentire la sua stessa interna logica
di rilevanza del contesto socio-economico dell’area territoriale in cui vive il danneggiato (e
non esporsi a critiche consimili a quelle da alcuni rivolte alle gabbie salariali...)
richiederebbe di quel contesto una valutazione assai più complessa e approfondita, che non
quella riferita al solo elevato potere d’acquisto della moneta. Desta poi insuperabili
perplessità ancorare la quantificazione del risarcimento al luogo di residenza del
danneggiato anche sotto il profilo della prova dell’abitualità di quella residenza e del suo
futuro mantenimento (e se in previsione di un più congruo risarcimento il danneggiato
modificasse temporaneamente la propria residenza...?). Comprende il Tribunale che simile
problematica potrebbe porsi più facilmente per i cittadini italiani (quali erano i danneggiati
nel procedimento deciso dalla Cassazione con la richiamata sentenza) che per quelli
stranieri, ma è evidente che il criterio di cui alla sentenza 1637/00 non potrebbe essere
affermato ed applicato per i soli stranieri senza divenire discriminatorio.
L’aspetto più preoccupante di una giurisprudenza interessata a ‘‘dove’’ verrà utilizzato
l’importo versato in risarcimento è che al ‘‘dove’’ potrebbero affiancarsi il ‘‘quando’’ e il
‘‘come’’, pure rilevanti rispetto al potere d’acquisto, con pericolose aperture ad ogni sorta di
arbitrarie previsioni e valutazioni delle possibili scelte del danneggiato.
Quanto all’asserito egualitarismo del proposto criterio di riferimento alla realtà socio-
economica territoriale in cui il danneggiato vive - nel senso che i parametri comunemente
adottati dai tribunali potrebbero rivelarsi incongrui non solo per eccesso, come si assume in
questo caso, ma anche per difetto - si tratta di una caratteristica che, oltre a risultare
praticamente priva di effetti in una direzione (stante la prevalente provenienza degli
extracomunitari presenti nel nostro paese, si profilerebbero di certo più numerosi i casi di
incongruità per eccesso, che quelli di incongruità per difetto, ove si dovesse, ad esempio,
risarcire un cittadino giapponese), non vale evidentemente a superare le considerazioni
svolte.
In definitiva, ritiene questo giudice che il luogo in cui il danneggiato vive, e in cui utilizzerà
(forse) il denaro ricevuto a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del
congiunto, sia circostanza successiva, esterna e del tutto estranea alla quantificazione del
predetto danno, quantificazione che va operata dal giudice secondo i parametri economici
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comunemente usati – e quindi sulla base del potere d’acquisto medio, nel tempo e nel luogo
in cui lo stesso giudice si pronuncia - per esprimere, seppure con l’inadeguatezza propria di
ogni traduzione monetaria destinata a dare misura a dolori che misura non hanno, il valore
della perdita subita.
Il luogo in cui vive il danneggiato resta circostanza irrilevante anche sul piano della
personalizzazione del danno non patrimoniale, la cui entità deve tener conto dei profili,
attinenti alla situazione personale e familiare del singolo danneggiato, che contribuiscono a
delineare il quadro delle sofferenze dovute alla perdita”.
In realtà ritengo possa ragionevolmente sostenersi che i risarcimenti liquidati non possono
essere ridotti per il semplice fatto che alcuni dei danneggiati risiedano in un luogo dove la
realtà socio-economica è diversa.
Infatti, venendo in rilievo diritti fondamentali dell’individuo, quali la salute e la solidarietà
familiare, il risarcimento costituisce una sorta di riparazione, peraltro necessariamente
equitativa e mai realmente integrale trattandosi di ridurre ad una mera valutazione economica
beni primari ed intangibili, la quale, in via di principio, prescinde da come e dove il
danneggiato utilizzerà il ristoro percepito.
Inoltre differenziare il risarcimento in base alla residenza ed alle condizioni sociali costituisce
un criterio non convincente, atteso che non è dato sapere, in concreto, il luogo in cui il
danneggiato andrà a vivere una volta ottenuto il risarcimento, il quale ben potrà essere diverso
dal precedente.
Del resto le stesse tabelle per il danno biologico in uso presso i vari Tribunali nazionali non
operano alcuna distinzione ai fini del “quantum” del risarcimento basata sulla condizione
socio-economica del danneggiato, ovvero sulla realtà sociale del territorio, regione o città di
provenienza, e tale impostazione è stata seguita anche dal legislatore nelle tabelle delle
micropermanenti di cui all’art. 139 del decreto legislativo n. 209 del 7.9.2005, vale a dire il
nuovo Codice delle Assicurazioni Private, dove non è stata adottata alcuna distinzione in base
al luogo di apprensione e di godimento delle somme oggetto del risarcimento, il quale,
dunque, non è stato considerato un valido criterio cui attribuire rilevanza.
Altra questione è quella concernente la c.d. condizione di reciprocità.
L’art. 16 delle Disposizioni sulla legge in generale per cui “Lo straniero è ammesso a godere
dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni
contenute in leggi speciali”, il quale oggi non si applica gli stranieri regolarmente
soggiornanti in Italia, atteso che l’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 286 del 25.7.1998
attribuisce agli stessi il godimento dei diritti civili spettanti ai cittadini italiani, si ritiene che
debba comunque tener conto del valore preminente che nel nostro ordinamento assume la
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Costituzione, la quale all’art. 2 garantisce i diritti inviolabili della persona ed all’art. 32
riconosce il diritto alla salute.
Ne consegue che il danno non patrimoniale subito in proprio, ma anche da morte o lesione del
congiunto visto che gli artt. 29 e 30 della Carta garantiscono i diritti della famiglia, e, dunque,
tutelano dalla lesione del rapporto parentale, attiene ad un diritto la cui protezione è sganciata
dal possesso o meno della cittadinanza e, dunque, dalla condizione di reciprocità, la quale è
applicabile, in definitiva, solo ai diritti civili diversi da quelli riconosciuti dalla Costituzione
(Cass. civ., Sez. III, 07/05/2009, n. 10504; Trib. Trieste, 28/05/2009; Trib. Asti, 03/02/2009;
Trib. Milano, Sezione X, n. 12099 del 18.12.2008; Trib. Nola, Sez. II, 18/10/2007; Trib.
Desio, 01/07/2003; Trib. Roma, 24/10/2001; Trib. Monza, 08/05/1998; Trib. Roma,
23/03/1996; Trib. Siena, 09/02/1993; Trib. Roma, 29/01/1993).
Di recente Cass. civ., Sez. III, 24/02/2010, n. 4484 ha ribadito che “In caso di lesioni
conseguenti a infortunio stradale, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale,
rientrando tra i diritti fondamentali della persona, in quanto riguardante il diritto alla salute,
spetta a tutte le persone, indipendente dalla cittadinanza (italiana, comunitaria ed
extracomunitaria)”.
Lo straniero ha quindi diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla
reciprocità e dalla sussistenza di un valido permesso di soggiorno, mentre per il danno
patrimoniale, trattandosi di pregiudizio di diritto non di rango costituzionale, il criterio di
reciprocità opera.
Dr. Corrado Cartoni
Giudice del Tribunale di Roma