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IL MIO SORATTE 2

Date post: 13-Feb-2017
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IL MIO SORATTE LE STORIE E LA STORIA Volume secondo di Oreste Malatesta (foto di Oreste Malatesta) Centro Studi Soratte
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IL MIO SORATTE

LE STORIE E LA STORIA

Volume secondo

di Oreste Malatesta

(foto di Oreste Malatesta)

Centro Studi Soratte

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Il mio Soratte, le storie e la storia Volume secondo

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INDICE

NOTA INTRODUTTIVA Pag. 2 PREMESSA: La memoria dei lontani Pag. 3 CAPITOLO I: I Personaggi Le vecchiette del Soratte Pag. 4 La Caritas di Alberta Cecchini Pag. 5 Benedetta del Soratte Pag. 6 Alessandra Zozi e Francesco Saverio Rinaldi Pag. 7 Il Senatore Cesare Cursi Pag. 8 Don Nello Salvatucci Pag. 9 Don Angelo Bartoli, l’amico di san Luigi Orione Pag. 10 Don Guido, la roccia e la fedeltà Pag. 11 Ennio Paolucci Pag. 12 Furio De Iulis Pag. 13 Giovanni Biancini Pag. 14 I Corinaldesi Pag. 15 Giulio Mascarucci, Carmelo Paolucci e Claudio Miscia Pag. 16 Gianni Acqua Pag. 17 Usai + Mazzone = William Sersanti Pag. 18 L’esame di Gregory Pag. 19 I personaggi del mio mese mariano Pag. 20 CAPITOLO II: La Storia La montagna sacra … sconsacrata Pag. 22 Lo Statuto di Santo Resto Pag. 23 Il Soratte di Francesco Saverio Rinaldi Pag. 25 Giacobini e frammassoni del Soratte Pag. 26 Il Soratte del “Quo vadis?” Pag. 27 Il violino di Mio padre Pag. 28 CAPITOLO III: I Santi

La sorpresa di san Nonnoso Pag. 30 San Nonnoso nel mondo Pag. 31 Il vero volto di san Nonnoso Pag. 32 San Paolo e Sant’Edisto: compagni di carcere? Pag. 33 La festa di Santa Cecilia Pag. 35 Santa Galla sul Soratte Pag. 36 Una via a santa Francesca Cabrini Pag. 37 San Nicola: tra halloween e solstizi Pag. 38 CAPITOLO IV: Attualità Soprannomi e razze Pag. 40 Il gemellaggio con Freising Pag. 41 Tatal Nostru dei Rumeni Pag. 42 Evoluzione ed evoluzionismo Pag. 43 CAPITOLO V: I Miei Viaggi

Tra Pollastri e Garibaldi Pag. 45 Il Giappone Pag. 46 In Cina: Mao e Malatesta Pag. 47 Razzismo simpatico Pag. 48 Il Soratte all’estero Pag. 49 Tra Koala e coalizzati Pag. 50 U focu, u lume, a campana Pag. 51

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NOTA INTRODUTTIVA

Il secondo volume di Il mio Soratte, le storie e la storia esce in occasione del n.

100 di Soratte Nostro nuovo, ma è un ulteriore segno di affetto che Oreste Malatesta dimostra al Monte Soratte, alla sua luminosa storia e, soprattutto, al suo popolo.

Esso nasce su sollecitazione di alcuni lettori, che hanno apprezzato il primo volu-me di Il mio Soratte, uscito tre anni fa, e che hanno espresso il desiderio di avere la raccolta anche di quegli articoli pubblicati e non contenuti nel precedente lavoro.

Per la copertina l’autore ha scelto una fotografia che riprende un profilo del Soratte

diverso da quello normalmente impresso nella nostra mente: è la stessa montagna, vi-sta da un’altra prospettiva. Come la storia raccontata in questo volume. E l’autore lo sottolinea nel titolo, proponendo davanti al “Soratte” l’aggettivo possessivo “mio”.

In effetti Oreste Malatesta prende spesso spunto da episodi che l’hanno toccato personalmente; e questo filo rosso della personalizzazione rende avvincente ed inte-ressante ogni racconto.

L’opera è composta di cinque capitoli, preceduti da una premessa, che, come nel

primo volume, è la riproposizione di un articolo pubblicato da Soratte Nostro: espri-me la sintesi del modo di sentire dell’autore, ovvero la sua “cultura”.

Il capitolo primo presenta alcuni di quei personaggi, che non avevano ricevuto l’attenzione dell’autore, nel primo volume. Esso inizia con un omaggio alle donne del Soratte, “vecchiette” e giovani, che sono il fiore all’occhiello della comunità.

Il capitolo secondo raccoglie alcune riflessioni sulla millenaria storia del Soratte. Il capitolo terzo tratta di alcuni santi che hanno avuto un ruolo importante nel mo-

do di sentire la vita e di concepire i rapporti sociali del popolo. Il capitolo quarto è dedicato ad alcuni argomenti di attualità che sono stati oggetto

di dibattito tra la gente. Il capitolo quinto descrive alcuni episodi vissuti e personaggi incontrati durante i

viaggi di lavoro dell’autore. E’ una parte simpatica e divertente, ed è espressione di quell’umorismo tipico della gente del Soratte.

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PREMESSA LA MEMORIA DEI LONTANI Da tanti anni non riesco a partecipare alla festa della Madonna di maggio. Eppure quando, puntuale, arriva l’ultima domenica di maggio, dovunque mi tro-

vo, mi viene in mente: “in questo momento i miei amici della banda stanno facendo il giro del paese … in questo momento si sta svolgendo la processione e la fiaccola-ta” , che è stata inventata da Giovanni Malatesta, detto Bedine, il nonno di mio non-no.

La prima volta che mancai a questa festa fu quando avevo 14 anni. In quel perio-do, per motivi di studio, stavo in collegio dai Salesiani a Frascati, insieme a mio cu-gino Stefano. Quella domenica eravamo tristi al pensiero di non poter partecipare, insieme ai nostri amici e parenti, alla festa più bella del paese. Ma, quando andam-mo a letto, ci affacciammo dalla finestra della camerata e, con grande sorpresa, da Frascati vedemmo all’orizzonte, piccola ma chiara, la montagna del Soratte che ar-deva per la fiaccolata. E, nella lontananza, ripensavo alla processione, ai bambini vestiti da angioletti, alla spontaneità con cui si gridava “Viva Maria”, allo stendardo delle donne cattoliche, che mia madre portava, anche quando ormai quell’associazione non esisteva più.

Mi sorprende sempre la bellezza di questa festa, che vivo con la memoria e da lontano. La devozione alla Madonna è espressione della genialità del cattolicesimo, perché a tutti è possibile rivolgersi alla nostra Madre: ai ricchi ed ai poveri, ai malati ed ai sani. Non c’è bisogno di lauree, di masters o di studi particolari. Il Rosario è per tutti: per i colti e per gli ignoranti, per gli uomini buoni e bravi e per noi, che siamo peccatori e pieni di limiti. Io ho imparato a dire il Rosario frequentando il mese mariano e festeggiando la Madonna di maggio. Ogni volta, recitandolo, mi viene in mente quella cadenza popolare tipica del popolo di Sant’Oreste ed anche certe storpiature di chi recitava l’Ave Maria in latino: catinora in catinora.

La coscienza del mio io è legata a questa tradizione, da cui non mi sono mai sco-stato. Sono fiero di appartenervi e non mi sono mai pentito di avervi aderito cor-dialmente: la mia personalità è definita da questa memoria viva che è desta anche nella lontananza. A tal proposito mi è piaciuta una frase che ho letto su una e mail di Teatri Soratte, inviatami per presentare la festa della Liberazione: “Non possiamo vivere coscientemente e pienamente il nostro presente e il nostro futuro se dimenti-chiamo il nostro passato. Non c’è progresso se non consideriamo da dove veniamo e potremmo ripetere certi errori se non conosciamo la storia di cui siamo figli”.

Il legame a questa tradizione mi permette di vivere la memoria, non come quelli che hanno nostalgia per i tempi che furono, ma come occasione attuale per vivere pienamente il presente e per guardare al futuro con speranza. Talvolta mi capita di provare dispiacere per coloro che dimenticano il loro passato e abbandonano il sol-co sicuro della nostra tradizione, perché si condannano ad una debolezza strutturale: senza la memoria delle nostre origini, siamo incapaci di affrontare adeguatamente il futuro e la vita, le sue difficoltà e le sue prove.

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Capitolo Primo

I PERSONAGGI

SOMMARIO: Le vecchiette del Soratte Pag. 4 La Caritas di Alberta Cecchini Pag. 5 Benedetta del Soratte Pag. 6 Alessandra Zozi e Francesco Saverio Rinaldi Pag. 7 Il Senatore Cesare Cursi Pag. 8 Don Nello Salvatucci Pag. 9 Don Angelo Bartoli, l’amico di san Luigi Orione Pag.10 Don Guido, la roccia e la fedeltà Pag. 11 Ennio Paolucci Pag. 12 Furio De Iulis Pag. 13 Giovanni Biancini Pag. 14 I Corinaldesi Pag. 15 Giulio Mascarucci, Carmelo Paolucci e Claudio Miscia Pag. 16 Gianni Acqua Pag. 17 Usai + Mazzone = William Sersanti Pag. 18 L’esame di Gregory Pag. 19 I personaggi del mio mese mariano Pag. 20

LE VECCHIETTE DEL SORATTE Quella mattina, alla messa parrocchiale delle 7,15, il vangelo proponeva una fra-

se che mi ha colpito particolarmente: “Ti ringrazio, Padre, perché hai fatto cono-scere queste cose ai poveri ed agli umili e le hai tenute nascoste ai ricchi ed ai sa-pienti di questo mondo”. Mi sono guardato intorno e mi è apparsa evidente questa verità evangelica, al vedere quelle cinquanta, sessanta vecchiette di Sant’Oreste, che, come ogni giorno, partecipavano al gesto più rivoluzionario mai inventato nella storia dell’umanità: l’Eucarestia.

Sì, le persone più povere di Sant’Oreste, le vecchiette, ogni mattina vanno in par-rocchia, ed iniziano la giornata alle 7, recitando, prima della messa, insieme al rosa-rio, la “Preghiera a San Giuseppe”, il “ Ti adoro”, l’“ Atto di dolore”, l’“ Atto di cari-tà”, l’“ Atto di fede”, l’“ Atto di speranza” …

Le persone più povere la mattina iniziano così, perché sono anche quelle che si riconoscono bisognose dell’aiuto di Dio e di Sua Madre. Quasi tutte vedove, vivono della pensione minima, dopo aver dedicato una vita alla loro famiglia, al lavoro domestico, alla campagna. Oltre che povere, sono anche umili: al massimo hanno fatto la quinta elementare, non sanno parlare di politica e votano come dicono i loro figli, né conoscono i best sellers della letteratura mondiale. Ascoltano la televisione, ma non si lasciano imbrogliare dagli imbonitori serali, né dalla pubblicità: per que-sto sono serene e liete. Vivono con poco e non hanno bisogno di seguire le mode: guardano tutto con la saggezza di chi conosce ciò che vale nella vita.

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Nel pomeriggio si possono incontrare a San Biagio, ove recitano nuovamente il rosario prima di preparare la parca cena. E vanno a letto dopo aver pregato: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola …”.

Non è raro sentire citare queste vecchiette come esempio di sotto cultura o di ar-retratezza; invece la loro è una cultura totalmente diversa da quella che domina nei nostri costumi, nella nostra coscienza. Forse si tratta delle ultime espressioni co-scienti del cristianesimo più autentico, quello destinato ai poveri ed agli umili, quel-lo che i sapienti deridono o avversano in nome di una cultura sempre più lontana dalle esigenze dell’uomo e sempre più appariscente, mostrata ed imposta attraverso i mass media dei potenti.

L’episodio, raccontatomi da una di queste vecchiette, è il sintomo della loro di-versità culturale: oggi nessun giovane avrebbe avuto la reazione di un’umile donna del Soratte, nel 1932. In quell’anno a Sant’Oreste fu inviata una commissione dell’Ufficio Tecnico Erariale del Regno, per prendere le decisioni sul da farsi ri-guardo alla chiesa di San Biagio, che stava andando in rovina. La commissione, do-po una breve visita, si pronunciò per l’abbattimento della chiesa, motivandola anche con il vantaggio dell’ampliamento della piazza, ove, allora, era ubicato il comune. Una povera donna (la madre di una delle vecchiette, che questo episodio mi ha rac-contato), avendo ascoltato le intenzioni dei burocrati statali, chiese loro: “Posso dire una parola?”. Incuriositi, questi signori le sentirono dire: “Se proprio volete fare la piazza più grande, perché non buttate giù quel palazzo?”, indicando proprio il pa-lazzo del Municipio. Ma questi, sorpresi, quasi si trattasse di una follia, chiesero: “E poi come farete senza il comune?”. E la signora: “Del comune potemo fa’ a meno, di San Biagio no!”.

Poi San Biagio fu restaurata, nel 1933, con il ricavato della vendita dell’oro, cu-stodito dalla confraternita di San Giovanni.

LA CARITAS DI ALBERTA CECCHINI Conosco Alberta Cecchini e sua sorella Nella, da quando partecipavamo insieme

ai treni bianchi dell’UNITALSI. Da Alberta abbiamo imparato a trattare i malati ed i bisognosi con amore e con gentilezza: tanti malati la cercavano per la sua cordiali-tà. Ogni tanto, quando guardiamo le fotografie di quei tempi, rimaniamo stupiti, perché l’UNITALSI, 30 anni fa, disponeva di circa 50 dame e barellieri (giovanis-simi), che accompagnavano i malati a Lourdes e a Loreto.

Oggi Alberta continua ad organizzare i pellegrinaggi con i pulmans che vanno nei più significativi luoghi di culto italiani ed esteri. La sua attività a favore dei bi-sognosi, però, non l’ha mai interrotta, anche perché Sora Marcella l’ha stimolata a continuare e, pochi mesi prima di morire, le ha passato il testimone. Le ha detto di continuare la sua opera: “Fai il bene e dimentica di averlo fatto”. Questa sua incli-nazione alla carità è stata favorita anche dal parroco, don Guido, che le ha affidato la responsabilità di coordinare le attività della Caritas di Sant’Oreste, insieme ad un gruppetto di volontari, sensibili alle esigenze della povera gente.

Per scrivere questo pezzo ho fatto una chiacchierata con Alberta, che, però, ha voluto conservare un atteggiamento di comprensibile riservatezza, data la delicatez-

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za dell’argomento. Non sono riuscito a sapere chi sono i beneficiari di questa carità, né quante donazioni hanno fatto i santorestesi a favore della Caritas. Alberta mi ha detto, però, che, di anno in anno, le offerte in danaro sono state sempre minori. Per tale motivo la Caritas attiva una serie di iniziative finalizzate a racimolare un po’ di €uro: la vendita dei dolci a Natale, a Pasqua, a Sant’Edisto, oppure il piccolo ristoro aperto in occasione della “Festa dei vicoli”. Con questi proventi è possibile acqui-stare medicine, vestiti ed alimenti per le famiglie più bisognose. Fortunatamente il Banco Alimentare, periodicamente, dona alla Caritas generi alimentari, che vengo-no distribuiti ai poveri di Sant’Oreste. Mi ha colpito che, a Sant’Oreste, vi sono una ventina di famiglie (di cui Alberta ha voluto conservare l’anonimato), che vivono in estrema indigenza e che qualche capo famiglia, per far mangiare i suoi figli, più vol-te è stato costretto a cenare, bevendo acqua.

La prima scuola di carità per Alberta sono stati i suoi genitori: quando cucinava-no, abbondavano sempre, per riservare una parte della loro mensa alle famiglie più povere, soprattutto durante le feste. “Con i poveri bisogna essere delicati” mi ha detto durante quella chiacchierata. I princìpi che regolano l’attività di Alberta sono quelli evangelici: “Anche nel donare, bisogna essere discreti ed evitare l’umiliazione di chi ha bisogno”. E, poi, la riservatezza, che Gesù esplicitamente e-sige da chi fa del bene: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti a-gli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando, dunque, fai l'elemosina, non suonare la trom-ba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lo-dati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Matteo 5, 1/6).

BENEDETTA DEL SORATTE Una delle sorprese più piacevoli della mia visita al Meeting, svoltosi a Rimini lo

scorso agosto, è stato l’incontro con Benedetta Capelli, una giovane di Sant’Oreste giornalista di Radio in Blu. Sua madre, Adria, mi aveva detto che Benedetta era sta-ta inviata, dal suo direttore, a Rimini per seguire la kermesse di Comunione e Libe-razione e mi aveva suggerito di andarla a trovare. Sono andato ed ho potuto consta-tare che ella è una giornalista molto stimata. Non è ancora molto nota, anche perché non lavora per editori potentissimi come la Rai, Mediaset e Sky: Radio in Blu, in-sieme ad Avvenire e Sat 2000, è un media della Conferenza Episcopale Italiana.

Un episodio mi ha fatto capire che Benedetta è apprezzata nella sua professione. Quando sono andato a farle visita, mentre stavamo bevendo un’aranciata, un giova-ne giornalista si è avvicinato e, contentissimo, le ha detto: “Grazie Benedetta. Il mio articolo ha avuto un’ottima accoglienza da parte del mio direttore, che mi ha ga-rantito la sua pubblicazione. E’ tutto merito tuo, ma ho tenuto nascosto che il pezzo è stato rivisto e corretto da te”. Anche Benedetta ha mostrato soddisfazione perché quel ragazzo è un suo “allievo”, uno dei tanti che va a chiederle consigli e che, pri-ma di pubblicare un pezzo, lo sottopone alla sua attenzione.

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Insomma la bravura di Benedetta è così nota, che altri giovani giornalisti la con-siderano un riferimento e modello. Ma questo è anche il sintomo della sua grande disponibilità ad insegnare il mestiere e della bontà d’animo ereditata dai suoi geni-tori: non conosce le gelosie tipiche di tanti giornalisti, che, spesso, si mostrano restii a trasmettere ad altri i “segreti” della loro arte.

Vi consiglio di sintonizzarvi con Radio in Blu, perché le cronache di Benedetta sono semplici e complete: si ascoltano volentieri.

Ella ha seguito le tracce di un altro giornalista del Soratte, vissuto più di mille anni fa: Benedetto del Soratte, che riportava le notizie del suo tempo in un Chroni-con - Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma.

Bisogna dire che tra i due c’è una certa differenza. Benedetto scriveva un latino ostico, complesso e, talvolta, sgrammaticato; mentre Benedetta, sotto questo profilo, è perfetta nel suo italiano. Benedetto non usava il note book e non prestava la sua voce alla radio (allora inesistente); mentre Benedetta usa il microfono per comuni-care le notizie ed è sempre impegnata con il registratore per le interviste: non cono-sce tregua nell’inseguire i “personaggi” che danno conferenze stampa. Benedetta, inoltre, ha un sorriso che mette a suo agio chiunque tratti con lei; mentre Benedetto del Soratte era un monaco austero e che incuteva timore.

Se mi chiedete di esprimere una preferenza tra i due … l’avete capito che la mia simpatia è tutta per Benedetta del Soratte.

ALESSANDRA ZOZI E FRANCESCO SAVERIO RINALDI Per chi desidera conoscere o approfondire la storia millenaria del Soratte vi sono

buone notizie: recentemente sono usciti due libri di fondamentale importanza, Il Soratte illustrato di Francesco Saverio Rinaldi e La devozione mariana a Sant’Oreste di Alessandra Zozi.

- Il Soratte Illustrato , composto nel 1863 dal Rinaldi, è un poema storico di cui si erano perse le tracce fino a tre anni fa, quando, per puro caso, fu rinvenuto. L’opera è pubblicata on line dal Centro Studi Soratte (è scaricabile gratuitamente entrando in http://www.centrostudisoratte.com) e la sua lettura è facilitata dalle ab-bondanti note a piè di pagina, che l’autore ha inserito per indicare le fonti dei fatti narrati e per fornire complete e dettagliate notizie storiche sul Soratte.

Una breve introduzione aiuta a capire il contesto in cui è nata l’opera poetica di Rinaldi, del quale sappiamo solo che era zio materno di Mariano De Carolis e che faceva il medico. Il poema, composto di tre cantiche, si conclude con una preghiera a San Nonnoso (cui è dedicata l’opera), affinché allontanasse da Sant’Oreste il “mo-stro” liberale, che provocò guerre sanguinose, portando povertà in Europa ed in Ita-lia. Tra i tanti disastri cagionati dal mostro, Rinaldi certamente ha vivi nella memo-ria gli orrori delle battaglie combattute - nel 1959 (4 anni prima che scrivesse la cantica) dai Franco Piemontesi contro gli Austriaci - a San Martino ed a Solferino, ove caddero, in pochi giorni, più di 30 mila soldati, per soddisfare le mire espansio-nistiche di Napoleone III e dei Savoia (espressioni del mostro liberale).

- La devozione mariana a Sant’Oreste è un libro pubblicato dal Comune di Sant’Oreste: è la tesi di laurea della dott.ssa Alessandra Zozi.

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Non lasciatevi ingannare dal titolo: è una ricerca storica condotta con rigore scientifico e senza alcun cedimento al bigottismo. La giovane autrice ha ripercorso più di 15 secoli della storia di Sant’Oreste, evidenziando le tracce della devozione mariana nelle varie forme di espressione popolare. Interessanti sono gli approfon-dimenti sull’economia e sulle istituzioni civili pre - unitarie, nonché sui monumenti, di cui è ricchissimo il territorio del Soratte. Particolarmente avvincente è la descri-zione dell’organizzazione della comunità di Sant’Oreste prima dell’avvento del Re-gno d’Italia, quando il paese disponeva di uno Statuto, con il quale fu introdotta, dal 1576, una sorta di democrazia diretta: il Gran Consiglio era composto dai membri di tutte le famiglie di Sant’Oreste (un huomo per foco). Invece, con l’avvento dei Savoia, lo Statuto di Santo Resto fu abolito e fu applicata la legge elettorale pie-montese, basata sul censo: erano elettori ed eleggibili soltanto i cittadini titolari di un “certo” patrimonio. Per Sant’Oreste ciò significò l’estromissione dei rappresen-tanti del popolo dalla gestione della cosa pubblica e l’avvento di un potere oligar-chico composto da una dozzina di signorotti liberali. E borghese fu – ci dice la Zozi - la prima amministrazione eletta, nel 1870, con il nuovo sistema elettorale.

Il collegamento tra i due libri? Quanto è documentato dalla Zozi è avvalorato dal Rinaldi, testimone diretto degli ultimi anni di vita dello Statuto di Santo Resto.

IL SENATORE CESARE CURSI Parlare del Senatore Cesare Cursi con obiettività per me è impossibile, per un

motivo semplice: io sono stato sempre dalla sua parte, un suo partigiano. Infatti, da quando, giovanissimo, è entrato in politica fino ad oggi, ho sempre votato per Cesa-re, un uomo che ammiro perché non ha mai dimenticato le sue origini.

La conferma l’ho avuta quando sono andato sul suo sito internet ove ho scoperto che la prima notizia della sua biografia politica è questa: dal 1970 al 1980 Consi-gliere Comunale di S. Oreste. Se Cesare ha voluto precisare di aver fatto, per 10 an-ni, il consigliere comunale di Sant’Oreste, a mio parere è più per manifestare il suo grande affetto verso il Soratte, che non per evidenziare un titolo significativo per la sua carriera politica. Infatti non c’è paragone tra il prestigio che può venire dall’aver svolto incarichi di altissimo rilievo istituzionale (Sottosegretario al Ministero della Salute dal 2001 al 2006, Presidente di varie commissioni parlamentari …) e quello di essere stato consigliere comunale di un paesino dell’alto Lazio: se avesse omesso questa notizia il suo ricchissimo curriculum politico non ne avrebbe sofferto.

L’amore di Cesare verso Sant’Oreste non è mai venuto meno, neanche quando, in passato, i santorestesi non hanno ricambiato il suo affetto: mi riferisco al fatto che Cesare fu consigliere comunale, stando all’opposizione come esponente della De-mocrazia Cristiana. Tuttavia penso che se, allora, egli fosse stato eletto sindaco di Sant’Oreste, probabilmente non avrebbe raggiunto quei traguardi significativi, che l’hanno visto protagonista nella vita politica degli ultimi anni e per i quali tanti di noi hanno fatto il tifo. In effetti tutti abbiamo gioito quando Cesare è stato eletto Consigliere della Provincia di Roma (dal 1976 al 1981) e, successivamente, Consi-gliere della Regione Lazio (dal 1980 al 1990). Ed il nostro entusiasmo si è incre-

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mentato quando è stato eletto alla Camera dei Deputati (dal 1987 al 2001) e, poi, Senatore della Repubblica (dal 2001 ad oggi).

In effetti mai un santorestese ha ricoperto ruoli istituzionali così importanti come Cesare. Uno di noi ha avuto a che fare con personaggi di grande spessore politico e culturale, come (tra i grandi ricordo solo) Amintore Fanfani (più volte Presidente del Consiglio e Presidente del Senato), il quale scelse Cesare Cursi come suo segre-tario particolare. Uno di noi, sì: perché ha vissuto a Sant’Oreste ed ha condiviso con noi gli anni più belli della sua gioventù. Tutti infatti ricordano Cesare, oltre che per il suo impegno politico nella DC, come il centromediano roccioso (n. 6) della squa-dra di calcio US Soratte.

E che Cesare sia affezionato al nostro paese lo dimostra il fatto che la sua casa di Sant’Oreste è il luogo dove, ogni tanto, viene a rifocillarsi. Inoltre è noto che, quan-do c’è un bisogno, di cui non si riesce a trovare la soluzione, si ricorre a Cesare, che sa sempre suggerire la via giusta a chi cerca lavoro o a chi si trova in difficoltà.

Che non lo faccia per clientelismo politico ormai l’hanno capito tutti. In primo luogo perché Cesare non avrebbe bisogno della piccola manciata di voti dei santo-restesi, in secondo luogo perché egli, quando può, aiuta anche chi ha tessere di par-tito diverse dal suo. Basta essere di Sant’Oreste per mettere in moto la disponibilità di Cesare Cursi.

DON NELLO SALVATUCCI Se tanti ragazzi di Sant’Oreste hanno potuto diplomarsi negli istituti tecnici per

geometri e per ragionieri di Rignano Flaminio, lo devono a don Nello Salvatucci. Fu lui, vice parroco di Rignano Flaminio negli anni sessanta, a mobilitarsi presso il Ministero della Pubblica Istruzione, affinché i nostri ragazzi evitassero di andare a scuola a Roma. Era preoccupato anche perché il rendimento scolastico di tanti gio-vani santorestesi, a causa di strapazzanti viaggi, spesso non era conforme alle aspet-tative dei genitori ed alle loro capacità. Egli fu il primo vicepreside della sezione di-staccata a Rignano Flaminio dell’istituto per geometri “Medici del Vascello” di Roma. Poi l’istituto assunse una sua autonomia, a cui si aggiunse anche l’altro isti-tuto tecnico per ragionieri.

Il cognome di don Nello è rignanese, perché suo padre era di Rignano Flaminio; ma egli si sentiva un vero santorestese e parlava correttamente il nostro dialetto: sua madre Adelina apparteneva – lo diceva con fierezza - alla razza di Arpagghjara (i Menichelli). Rimasto orfano, ancora bambino, la sua famiglia si trasferì a Sant’Oreste, ove ebbe la fortuna di conoscere l’opera di don Orione, che, qui, aveva fondato una casa. E deve a sua madre la frequentazione della congregazione di don Orione, ove ella aveva trovato un impiego come cuoca. Rimasta vedova ancora gio-vane, Adele dovette lavorare duramente per tirare su i piccoli Nello e Giovanni. Come sua madre, don Nello visse sempre nella povertà (prima come condizione, poi come scelta), anche quando diventò parroco del Duomo di Civita Castellana, la parrocchia più importante della Diocesi.

Frequentò la congregazione di san Luigi Orione, come ricordato, per necessità, ma subito fu affascinato dal suo carisma, a tal punto che, in questa compagnia, ma-

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turò la sua vocazione al sacerdozio. Per questo i suoi studi da chierico li fece a Tor-tona. Una volta sacerdote ricoprì la responsabilità di Prefetto (curava la formazione e la disciplina dei giovani studenti) in vari collegi. Ma l’istituto che più amò è stato quello della Camilluccia, perché, dal suo bel terrazzo, l’ultima domenica di maggio, poteva ammirare lo spettacolo delle fiaccolata sul Soratte: gli obblighi di Prefetto lo tenevano lontano dal suo paese in questa speciale occasione, che nessun santoreste-se vorrebbe perdere.

Nel 1962, su richiesta del vescovo di Civita Castellana, lasciò la congregazione di don Orione per diventare sacerdote diocesano. Come detto fu vice parroco di Ri-gnano Flaminio e, nel 1974, parroco del Duomo di Civita Castellana.

Amava tanto Sant’Oreste che faceva le vacanze estive, ospite gradito, a casa mia, ove mia madre gli riservava una cameretta, la mia. Ed io ero felicissimo di lasciar-gliela, non solo perché, quando c’era zio Nello, si mangiava meglio, ma anche per-ché, nei miei confronti, egli ha sempre dimostrato tanto affetto: in me rivedeva se stesso, essendo entrambi rimasti senza padre in tener età. Era orgoglioso di essere santorestese, a tal punto che, quando a Civita Castellana, in occasione della festa di San Marciano, invitava a pranzo, nella sua casa parrocchiale, il vescovo ed i sacer-doti, sempre evidenziava che i cibi deliziosi, gustati dai prelati, erano cucinati dalle migliori cuoche del Soratte: Pasquettina, Marisa (sua nuora) ed altre donne santore-stesi.

Ci ha lasciato nel 1994 ed ha chiesto di essere sepolto nel cimitero di Sant’Oreste. La sua tomba è sempre piena di fiori, segno dell’affetto che, ancora oggi, i santorestesi nutrono nei suoi confronti.

Un suggerimento: perché non dedichiamo una via a don Nello Salvatucci? DON ANGELO BARTOLI , L’AMICO DI SAN LUIGI ORIONE Tra i primi candidati al sacerdozio, che don Mariano De Carolis inviò al suo a-

mico don Luigi Orione, vi fu Angelo Bartoli, un ragazzo del ’94, che, in seguito, di-venne uno stretto collaboratore del prete di Tortona. Angelo fu subito affascinato dalla figura di questo santo, che non finiva mai di stupire: lo guardava e lo seguiva, si immedesimava nel suo carisma, condividendo un’amicizia, che era, contempora-neamente, di questo e di un altro mondo. Proprio come i discepoli che andavano dietro a Gesù.

E’ grazie a don Angelo che don Orione venne più volte a Sant’Oreste e vi fondò due case: una dove oggi ha sede il comune, l’altra sul monte Soratte, nel santuario della Madonna delle Grazie. Don Orione si accorse subito della genuinità e dell’intelligenza di don Angelo. Per questo gli affidò incarichi di responsabilità no-tevoli all’interno della sua congregazione: lo nominò, prima, responsabile della pro-vincia del Nord Italia con sede a Tortona, poi, responsabile della provincia del Bra-sile, infine responsabile della provincia di Roma. Don Orione volle destinare la casa del Soratte, anche, ad esercizi spirituali per i chierici della sua congregazione: nei giorni di ritiro, per tanti anni, la cura del pranzo e della cena erano affidati alla gene-rosità delle donne di Sant’Oreste, in primo luogo alle sorelle di don Angelo.

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A causa di questa amicizia don Orione si affezionò a Sant’Oreste ed ai suoi abi-tanti, che da lui hanno ricevuto tante grazie.

Una volta don Orione venne a far visita alle sue suore e don Angelo gli disse che una sua giovane sorella, Rosetta, giaceva gravemente malata e lo pregò di fare un salto da lei: le avevano diagnosticato un tumore al seno, da cui usciva un brutto li-quido marrone. I medici avevano dichiarato l’incurabilità della malattia e pronosti-cato la morte della donna di lì a breve. Don Orione l’andò a trovare: abitava nella Spiazzetta, nella casa attaccata all’attuale sezione del PD. Appena entrato don Orio-ne si raccolse in silenzio, poi iniziò ad invocare la Madonna con il Salve Regina. Finita la preghiera, mentre don Orione discorreva con la donna, don Angelo sussur-rò all’orecchio del marito di Rosetta: “Quando don Luigi inizia con il Salve Regina i malati guariscono. Tua moglie morirà in vecchiaia”. E così fu. La malattia scom-parve il giorno dopo.

In un’altra visita a Sant’Oreste don Angelo presentò le sue tre sorelle a don O-rione, il quale chiese se, in quel momento, esse fossero tutte presenti. Don Angelo gli disse che ne mancava una, Celeste, che aveva partorito una bambina da pochi giorni. Volle andare a trovarla, ma, strada facendo, passò davanti alla casa di un uomo gravemente malato, Rinaldo Diamanti detto Sprecamuri, che aveva una brutta polmonite e (allora) rischiava la vita. Don Orione si fermò ed entrò nella sua mode-sta casa. Recitò nuovamente il Salve Regina ed anche Sprecamuri guarì. Poi, sicco-me l’autobus per Roma era in partenza, don Orione non poté visitare la signora Ce-leste e la sua bambina. Chiese quale nome avessero dato alla neonata. “Oleana” fu la risposta di don Angelo. E don Orione gli disse: “E’ meglio Giuliana. Noi abbia-mo una Chiesa dedicata a Santa Giuliana, una martire di Cristo. Chiamatela Giu-liana in suo onore”. Da allora, nonostante che all’anagrafe la bambina fosse già re-gistrata con il nome di Oleana, tutti la chiamarono (e la chiamano ancora) Giuliana: è la signora che mi ha raccontato questi fatti.

In una di queste visite sul Soratte, don Orione, durante la notte, andò a pregare davanti all’altare della Madonna delle Grazie; ma la mattina seguente, quando don Angelo lo cercò, non era nella sua camera: trovò don Orione in chiesa. La sua me-raviglia fu nel vedere il Santo, che, mentre pregava in ginocchio, era sollevato (lie-vitato) da terra per più di un metro.

Gli occhi di don Angelo hanno potuto vedere tanti altri miracoli, vivendo insie-me a questo santo. La sua semplicità di cuore, la sua capacità di stupore e la sua a-pertura mentale, proprie di un figlio del Soratte, gli hanno permesso di riconoscere, nella persona di don Orione, il volto di Cristo, che è venuto a visitare, in modo così prodigioso, anche il nostro popolo.

DON GUIDO: LA ROCCIA E LA FEDELTÀ Ogni mattina alle 7,15 ed ogni sera alle 19 don Guido è davanti all’altare per ce-

lebrare la santa messa, per dare al popolo di Dio il cibo della vita eterna. Per 50 anni, di cui più della metà vissuti a Sant’Oreste, don Guido Anzidei è sta-

to il dispensatore dei sacramenti al popolo; non solo dell’eucarestia, ma anche di battesimi, matrimoni e, purtroppo, anche di estreme unzioni.

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E’ stato il ministro di Dio in mezzo a noi: un ministro roccioso come le pietre del Soratte, pur non essendo egli del Soratte, e fedele nella sua missione.

Tu es sacerdos in Aeternum secundum ordinen Melkisedech. E’ commovente vedere le coppie di anziani che festeggiano i 50 anni di nozze, è

più commovente vedere un ministro di Dio festeggiare i 50 anni di servizio sacerdo-tale, sintomo di una fedeltà reciproca: Dio è rimasto fedele ed ha continuato a chia-mare don Guido al suo servizio consacrato, come Suo sacerdote “in aeternum”, per sempre. Ogni giorno Gesù gli ha posto la stessa domanda di Pietro: “Mi ami tu!”. E, come Pietro, Don Guido ha continuato, per 50 anni, a rispondere: “Signore tu sai tutto, Tu sai che ti amo”.

Per questo il Signore gli ha risposto: “Pasci le mie pecore”. ENNIO PAOLUCCI Anche se il Colonnello Ennio Paolucci è in pensione da due anni, alla Prima Re-

gione Aerea di Milano tutti sentono la nostalgia della sua cordialità, della sua affa-bilità e delle sue capacità organizzative. Tanto è vero che quando, ogni tanto, torna in quegli uffici, dove ha prestato servizio per più di 35 anni, impiega mezz’ora per percorrere un corridoio di 50 metri: tutti lo vogliono salutare e gli vogliono chiedere che cosa fa, come va la sua salute, la sua signora, il figlio ... E tutti sanno che è di Sant’Oreste.

Tanta popolarità nasce dal fatto che Ennio è stato, per tanti anni, un ineguagliabi-le Capo calotta, vale a dire quell’ufficiale che cura l’organizzazione di tutti gli e-venti della Prima Regione Aerea, dalle premiazioni alle promozioni, dall’accoglienza di nuovi militari alle feste di Natale, di Carnevale di Ferragosto. Ennio, inoltre, è stato l’animatore, il batterista ed il cantante di un’orchestrina, che allietava sempre ogni occasione di vita conviviale. E’ stato anche il presidente di una squadra di calcio composta da giovani dell’aeronautica. Ha organizzato decine di gare di pesca, avendo per avversari i Vigili urbani, i Vigili del fuoco, la Polizia, i Finanzieri … E, prima di andare in pensione, è stato anche responsabile del Centro Sportivo di Linate, che, ancora oggi, frequenta quasi quotidianamente, con i suoi ex commilitoni, per momenti di relax: spesso va a pescare nel laghetto di Linate, sem-pre con un sigaro toscano acceso, e, nel periodo invernale lo si può trovare a parte-cipare a qualche torneo di carte, al calduccio e davanti ad un bel bicchiere di vino.

Quando io sono entrato, per lavoro, nella Prima Regione Aerea ed ho fatto pre-sente che conoscevo il Colonnello Paolucci, diverse persone, riconoscendo nella mia parlata la stessa cadenza di Ennio, mi hanno detto: “Anche lei è di Sant’Oreste!”. A quel punto, perché l’hanno sentito raccontare da Ennio, alcuni mi parlavano della vicende dell’oro del Soratte, altri della bella montagna che domina la campagna romana, altri del Tevere che scorre ai suoi piedi, altri delle feste che si fanno e dei cibi deliziosi nostrani.

Adesso Ennio viene poco a Sant’Oreste, anche perché, quando capita a Roma, va a trovare la mamma anziana, che vive, con il fratello, a Capena. Egli è innamoratis-simo del Soratte e vorrebbe venirci più spesso, ma gli è successo di sposare una donna milanese, che non è ancora riuscita ad apprezzare tutte le bellezze della no-

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stra terra. E questa sua nostalgia la percepisco ogni volta che lo incontro, perché mi parla dei suoi amici, oppure mi narra qualche episodio santorestese della sua vita.

L’ultima volta mi ha raccontato dell’incontro, avvenuto, più di trent’anni fa, con il giovane Tenente Gianni Lazzari. Erano insieme in mensa a Padova ed, al militare che raccoglieva l’ordinazione del pranzo, Gianni ha chiesto quasi in termini di sfi-da: “Per contorno mi piacerebbe avere le cucuzzole”. Quel militare ha annotato, e, dopo un po’ gli ha portato le zucchine, precisando: “Anche noi, a Filacciano, le zucchine le chiamiamo cucuzzole”.

FURIO DE IULIS La versione più credibile di come avvenne il passaggio di Sant’Oreste dalla pro-

vincia di Viterbo alla provincia di Roma è quella raccontata da Furio De Iulis. La cronistoria è stata raccolta, con il registratore acceso, da suo nipote Maurizio (che, nonostante la violazione delle leggi sulla privacy, ha evitato la galera!). Per questo il suo racconto sulla visita del Duce a Sant’Oreste, del 16 ottobre 1939, è naturale e spontaneo: “Mussolini era venuto a visitare le gallerie del Soratte, non entrò nel paese di Sant'Oreste. Giulio Leoni e Don Germinio attesero a Sant'Antonio che Mussolini tornasse dalle gallerie. C'era anche il podestà Moroni. Era martedì. I santorestesi volevano stare sotto la provincia di Roma per comodità e già avevano fatto reclami. Ci fu un colloquio tra Mussolini e le autorità santorestesi, ed il gio-vedì successivo Sant'Oreste si trovò in provincia di Roma per la contentezza di tutta la popolazione. Con i lavori alle gallerie la gente di Sant'Oreste ha cominciato a lavorare. Se per una giornata intera a vangare la terra si prendevano 6 lire, una giornata di lavoro alle gallerie rendeva 10 lire. Nel 1936/37, durante la guerra ci-vile spagnola, da Sant'Oreste partirono una quindicina di volontari per 17 lire al giorno”.

Di Furio ci si può fidare, non solo perché fu testimone oculare di questi fatti, ma anche perché era una delle persone più informate di Sant’Oreste: faceva l’esattore delle tasse e, per questo, non sempre era amato. Nel suo piccolo era un uomo d'affa-ri: aveva fatto buoni investimenti nella terra, ma anche con il bestiame. Insieme a Marano era l'unico in paese ad avere un'automobile. Egli era curioso di capire quel che succedeva anche fuori dai confini della piccola comunità del Soratte: ad esem-pio era uno dei pochi che comprava il quotidiano; e, poi, lo regalava ai suoi vicini, i "Protestanti". Inoltre Furio aveva una memoria di ferro, che conservò anche in vec-chiaia: a distanza di anni ricordava prezzi, date e situazioni. Tra gli episodi che l’hanno più toccato in gioventù vi fu l’incontro con don Orione, con il quale ebbe un colloquio personale.

E, come gli uomini di una volta, era tutt’uno con sua moglie Emma (chiamata Arminda), una donna che amò, ricambiato, per oltre 50 anni. Emma era la sua silen-ziosa forza e sostegno, la donna forte della famiglia, la tipica donna del Soratte, re-ligiosa e concreta, che sapeva trasmettere la fede attraverso la sua presenza operosa. Per questo, dopo la sua morte, Furio diceva, come tanti vecchietti: “mi sono stufato di vivere”. Ma non dichiarava il vero perché era, al contrario, soddisfatto della vita che continuava nelle famiglie dei suoi figli. Contento, nelle calde mattine d’estate

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caricava i nipotini sulla sua Giardinetta e li portava nel suo casolare di Pantano. Li vedeva divertirsi con poco: giocavano a tana, a libera, a montalaluna, a treggiug-giù, a costruire le capanne, e facevano il bagno nella "piscina" (un vascone), che Fu-rio aveva fabbricato per innaffiare l'orto e la vigna, cui dedicò gran parte della sua vita da pensionato. A volte li portava in una piscina vera, altre volte al circo o a ve-dere il dirigibile a Capena. Ed essi percepivano come un atto di amore anche le pu-nizioni ricevute dal nonno, quando combinavano qualche guaio.

Alla festa del suo compleanno, nel mese di luglio, non mancava nessuno, anzi, con il tempo gli invitati erano sempre più numerosi, perché le famiglie dei suoi figli crescevano e non volevano perdersi il tradizionale pranzo, che terminava con il ge-lato ed il cocomero messo a fresco nella grotta. E tutti i 12 nipoti, quel giorno, mo-stravano lo Zenit d’oro, che nonno Furio aveva loro regalato.

Morì sereno, grato a Dio per avergli concesso di vedere diventar grandi i figli ed i figli dei suoi figli.

GIOVANNI BIANCINI Giovanni Biancini, più noto come Giovanni i dottore ci ha lasciati in un giorno

di maggio (l’8), il mese più caro alla Madonna, la quale ha voluto, in questo modo, ricambiare l’affetto verso un figlio, che l’ha sempre venerata ed invocata. Era que-sta la sua cultura: non imparata dai libri, ma forgiata con la sua esperienza di vita e condita e insaporita dalla sua umanità.

Fin da adolescente ha fatto parte del Comitato della Madonna di maggio, ed ha dedicato tanti sabati e domeniche della sua vita a raccogliere le canne per la fiacco-lata e la mortella, a preparare gli addobbi necessari per la luminata ed a rendere sempre più bella la festa più bella del nostro paese. Per non parlare della sua opera gratuita, come muratore, per sistemare Santa Lucia e l’Annunziata e della sua di-sponibilità a tutte le iniziative del paese, anche se era poco amante dei lustrini e sempre lontano dai palchi degli onori e dai flash della notorietà.

Per tanti di noi Giovanni è stato come un padre. Lo abbiamo conosciuto quando, ancora adolescenti, iniziammo a suonare nella banda Innocenzo Ricci. Era l’uomo della pacificazione quando vi erano i contrasti, ed infondeva calma quando eravamo nervosi. Era allegro, di buona compagnia e, con noi giovani, affettuoso e compren-sivo; anche se, quando era necessario, non mancava di correggerci, proprio come fa un padre con i figli. Ad un uomo così ci siamo affezionati e vogliamo dire alla sua famiglia quanto gli siamo riconoscenti e grati.

Giovanni era una colonna della banda, non solo perché ne ha fatto parte per oltre 65 anni, ma soprattutto perché è stato sempre disponibile a cambiare ruolo: all’occorrenza: ha suonato il trombone, il basso tuba ed, infine, la grancassa. Egli ha incarnato lo spirito più sano della banda: anche se non era un virtuoso strumentista ha saputo amalgamarsi e amalgamare giovani, adulti e anziani. Il prestigio della banda era alto quando egli era il presidente ed i nostri soldi erano sicuri quando ne era il cassiere, perché la banda era la sua seconda famiglia. Tanto amava questa compagnia che, negli ultimi giorni della sua vita, quasi non sentiva più le sofferenze

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della malattia, se gli facevano vedere o ascoltare i filmati e le registrazioni della sua banda.

Bene hanno fatto i nipoti a metterlo nella tomba con la mazza che ha impugnato, per tanti anni, quando suonava la grancassa. In Paradiso, ci piace immaginare Gio-vanni i dottore, mentre, insieme a tanti musicanti del Soratte (Dario, Paccosu, Maz-ziere, Mario Saragat, Carmelo …) suona le Marce di San Nonnoso e di Sant’Edisto proprio al cospetto di questi santi protettori, o mentre fa i concertini in onore della Madonna di maggio per onorarla anche nell’eternità. Ci piace pure pensare che ne-anche gli angeli del cielo sono capaci di suonare così bene come i musicanti della grande banda Innocenzo Ricci.

I CORINALDESI A Sant’Oreste dire i Corinaldesi equivale a dire i “Cornari”, una famiglia di arti-

giani che ha reso famoso il Soratte per la singolare lavorazione del corno. Essi sono originari delle Marche: Ernesto Corinaldesi veniva da Serra San Quiri-

co, ma la loro vera patria è Corinaldo, da cui Corinaldesi. Ernesto si è trasferito a Sant’Oreste per amore. Egli infatti, dopo aver prestato il servizio militare, durante la prima guerra mondiale, come attendente del principe Barberini, si trasferì a Roma perché questo nobile lo volle come uomo di fiducia nella sua residenza di palazzo Barberini. A Roma conobbe e sposò una giovane di Sant’Oreste, Brigida Menichel-li, la quale lo convinse a lasciare quel prestigioso e ben retribuito servizio per stabi-lirsi a Sant’Oreste, ove incominciò a fare il cornaro. Iniziò a produrre le spatole per i farmacisti romani, poi, pian piano, i pettini, le farfalle, gli uccelli e tanti altri og-getti. Il suo primo laboratorio era locato nel fondo di Portavalle, in una baracca vi-cino al fontanile (che oggi non c’è più). Poi il laboratorio fu trasferito vicino al Cancellone. Le forniture di corno venivano da Viterbo, trasportate, con un treno merci della Roma Nord fino alla stazione; poi, con un carro, fino a Sant’Oreste.

Agli inizi degli anni ‘30 Ernesto portò laboratorio e famiglia a Sant’Anna, grazie a mio nonno Oreste, con il quale aveva stretto amicizia a causa della comune devo-zione alla Madonna di maggio e del comune impegno nel comitato della omonima festa. Tanta era la stima tra i due che mio nonno investi i suoi risparmi, facendo co-struire un edificio, per dare una sistemazione adeguata al laboratorio dei cornari, cui era annessa una abitazione abbastanza spaziosa per quei tempi. La soluzione fu ide-ale per Ernesto, che, in pochi anni, si ritrovò con una bella (ma numerosa) famiglia: Brigida gli aveva dato 10 figli: 8 maschi (Peppe, Giulio, Enrico, Ugo, Checchino, Angelo, Armando e Gino, detto Cazzabini) e 2 femmine (Teresa e Margherita). I-noltre il canone annuo chiesto era da vero amico: in cambio dell’uso dell’edificio di Sant’Anna, Ernesto si era obbligato a consegnare la segatura e gli scarti di lavora-zione del corno a mio nonno, che li utilizzava per fertilizzare la vigna, l’uliveto e le piante da frutta.

All’inizio gli attrezzi ed i macchinari per lavorare il corno erano semplici: i roto-ni giravano solo a mano. Ma un salto di qualità i Corinaldesi poterono farlo alla fine degli anni 30, grazie ad un contributo fatto avere dallo stesso Mussolini, il quale, in occasione delle sue visite sul Soratte, ebbe modo di apprezzare la loro grande mae-

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stria nella lavorazione del corno. Con quel contributo i Corinaldesi acquistarono macchinari a trazione elettrica, che semplificarono il lavoro e moltiplicarono la pro-duttività.

Dopo Ernesto, i figli continuarono a fare i cornari, anche se Peppe si mise in proprio, costruendo un suo laboratorio a Sant’Anna. Gli altri fratelli, invece, a metà degli anni ’50, riconsegnarono l’edificio alla mia famiglia e si trasferirono in un edi-ficio di loro proprietà, in via Josafat Riccioni. Per ognuno dei figli di Ernesto Cori-naldesi si potrebbe scrivere una storia, in quanto essi hanno continuato ad essere creativi e fantasiosi come il loro genitore.

Oggi, dei nipoti di Ernesto, solo Alberto continua a fare il cornaro. C’è qualcun altro che vuole imparare quest’arte? Noi Malatesta siamo ancora disposti ad affitta-re ai Corinaldesi lo stabile di Sant’Anna, … in cambio della segatura e degli scarti di lavorazione del corno.

GIULIO MASCARUCCI, CARMELO PAOLUCCI E CLAUDIO M ISCIA Vale la pena raccontare di tre incontri imprevisti con uomini che fanno onore al

Soratte. 1) Sul “ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno”, in quel luogo della cit-

tà di Lecco, ove don Abbondio è stato affrontato dai bravi, oggi esiste un ristorante panoramico chiamato “Il Griso”, per ricordare il più caratteristico dei birbanti de-scritti nei “Promessi sposi”. In quel ristorante ero appena entrato per una colazione di lavoro, quando, ad un tratto, mi sono sentito chiamare: “Che ci fai qui?”. Che gradevole sorpresa nel constatare che era Giulio Mascarucci: la sorpresa è stata an-cor più gustata perché era da tanto tempo che non avevo più sue notizie. Anche Giulio si trovava in quel ristorante per una colazione di lavoro, insieme allo staff della Esso (la compagnia petrolifera belga), di cui è un apprezzato manager. In quell’attimo mi è venuta in mente la sua storia: da giovane ha sempre studiato con serietà, diventando un ingegnere chimico di prim’ordine, e, durante gli anni dello studio, ha sempre cercato di non pesare sulla sua famiglia, andando a lavorare du-rante le vacanze. Per questo sono contento che Giulio sia riuscito bene nella vita: oggi svolge il suo lavoro tra Milano e Bruxelles e, spesso, deve andare in giro per il mondo, soprattutto dove c’è il petrolio da comprare. Di Giulio, poi, mi piaceva an-che l’estro musicale: era entrato nella banda Innocenzo Ricci, diventando uno dei migliori trombonisti.

2) “Posso offrirti un pranzo?Mi trovo a Milano e devo festeggiare”. Era Carme-lo Paolucci che, il 13 maggio, mi chiamava per offrirmi il pranzo: quel giorno, è stato rieletto presidente dell’AssoFerMet. Io, invece, gli ho offerto … un sigaro to-scano. Carmelo deve avere lavorato bene nel precedente triennio se la sua conferma è avvenuta con l’80 % dei voti. E pensare che AssoFerMet è il sindacato dei produt-tori di materiale ferroso e che, del suo direttivo fa parte Emma Mercegaglia, l’attuale presidente della Confindustria. A ciò si aggiunga che, in qualità di presi-dente di quell’associazione, Carmelo rappresenta l’Italia nell’Unione Europea, a Bruxelles, quale esperto in materie di produzione dei metalli.

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Quella di Carmelo è una storia analoga a quella di Giulio, entrambi figli del So-ratte, ingegneri chimici e dotati di genio musicale. Carmelo si è anche diplomato al conservatorio in Pianoforte.

3) Prima della cena di lavoro presso l’Ambasciata d’Italia a Buenos Aires, quella sera di fine marzo, ci sono state le presentazioni. La frase consueta era: “Ho l’onore di presentarle …”. E difficilmente riuscivo a ricordare tutti i nomi delle persone co-nosciute. Ma quando mi hanno detto: “Ho l’onore di presentarle Claudio Miscia, il Console Generale d’Italia a Rosario”, mi è venuto spontaneo di dirgli: “Il cugino di Anna Balerna”. Immaginate la meraviglia di questo ragazzone (che ricopre un posto di grande responsabilità quale rappresentante dello Stato Italiano in Argentina): Claudio mi ha guardato e mi ha chiesto: “Come fa a conoscere mia cugina Anna?”. Allora gli ho detto che sono di Sant’Oreste, che conosco i suoi genitori (padre san-torestese e madre brasiliana) e che se, fino a quel momento, non avevo avuto l’occasione di incontrarlo personalmente, tuttavia Anna mi aveva parlato della sua bella carriera intrapresa come diplomatico della Farnesina.

Quella sera, con Claudio, ai presenti abbiamo parlato di Sant’Oreste, suscitando in tutti la curiosità di venire a visitare le bellezze del Soratte.

GIANNI ACQUA Nel locale di Berva, che allora faceva il barbiere, ci andavo volentieri, non solo

perché era sotto casa mia, ma anche perché c’era Gianni Acqua, detto Puzzetta, che, tra un taglio di capelli ed uno shampo, suonava la chitarra. Era coinvolgente: spesso insieme a lui si univano altri suoi amici che riempivano via Umberto I e la zona “deu spacciu” di suoni e di canti. E di scherzi: quanta gente è stata inviata per le vie del paese in cerca “deu garbu”, o “deu paicchjiu”!!

Gianni è scomparso troppo giovane ed ha lasciato un enorme vuoto in tutti gli ambienti che frequentava: oltre che essere un musicista con i fiocchi, era anche una persona semplice, alla mano, nonché un ottimo organizzatore. Dove c’era un’iniziativa, soprattutto di natura musicale, non mancava mai Puzzetta.

Era cordiale, vivace e creativo. Fu lui l’animatore della prima band (allora si di-ceva complesso) di Sant’Oreste: I Magneti, con quella mitica formazione iniziale, composta da Puzzetta, Cacchetta, Potolina e Creminu (che soprannomi!!). Poi Gianni è stato tra i fondatori del festival dello scolaro, per il quale, insieme ad An-dreotti, Gajoffo e Lososo, ha composto quel bellissimo inno che ancora oggi tutti cantano “Van per l’aria …”. Ed ancora è stato protagonista (come autore, composi-tore, organizzatore, strumentista), insieme alla Brandory Jazz Band, nel musical dialettale di “Atera propriu cusì”.

Riusciva a suonare qualsiasi brano musicale: gli bastava ascoltarlo una volta ed era capace di riprodurlo. A volte era in grado di accompagnare anche pezzi che non conosceva, tanto sensibile e raffinato era il suo orecchio musicale. E pensare che non aveva studiato la musica, se non relativamente tardi: imparò a suonare il trom-bone per arruolarsi nella Banda Innocenzo Ricci.

Puzzetta era così aperto e gioviale perché veniva da una famiglia numerosa, con due genitori meravigliosi e indimenticabili, santorestesi di vecchio stampo, che a-

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privano a tutti la loro casa, nella quale il bel canto e la musica erano sempre coltiva-ti, insieme ad un’ottima cucina. Questo spiega anche perché i fratelli e le sorelle di Gianni (quessi dea razza i Pelatu) sono sempre stati parte attiva in ogni iniziativa musicale del Soratte (e non solo musicale) o nei cori, anche in quello della Corale Proserpio. Ricordo che Rosa Proserpio manifestò più volte una speciale preferenza per i figli della famiglia Acqua, veloci ad apprendere, sempre seri ed affidabili, oltre che affettuosi con lei.

Dopo oltre venticinque anni dalla sua scomparsa, Gianni lo rivedo ancora vivo nei volti dei suoi tre figli: Gian Maria, Michele e Clarice.

USAI + MAZZONE = WILLIAM SERSANTI Un lettore di Soratte Nostro, in occasione della pubblicazione di Filastrocche per

Sant’Oreste di William Sersanti, ha inviato all’autore una poesia che inizia con que-sta strofa.

Hanno sbagghjiatu a datti un nome inglese perché tu si un veru santorestese. Quanno scrivi m’arecordi Mazzone e, cumo Usai, tu fai e rime bbone. Per questo oserei dire che William Serzanti è l’erede naturale di Mazzone e di

Luigi Usai, i quali, come Willy, erano affezionati collaboratori dei Soratte Nostro. Sulle Filastrocche per Sant’Oreste, rispetto agli altri positivi commenti, voglio

solo aggiungere che l’espressione dialettale di Willy non è una tarda manifestazione folcloristica di un poeta fuori moda. Con alcuni brani di questa opera Willy ha sapu-to raggiungere le vette più alte della poesia e di stare a confronto con i più grandi maestri della letteratura mondiale. In particolare mi riferisco alla filastrocca 101, in-titolata Cerco, il “verbo” con cui inizia ogni verso. Essa parte con “Cerco u filu du destinu” e finisce con “Cerco sempre e ‘n trovo gniente”. In mezzo a questi due, vi sono altri dieci versi, in cui il poeta ci confida di aver cercato in tante cose il gusto ed il senso della vita, senza risultati.

Willy descrive la condizione della maggior parte degli uomini ed il primo verso della sua poesia mi ha fatto venire in mente quel brano notissimo di Sant’Agostino (Confessioni X, 27 – 38) che parla della stessa ricerca sul senso della vita: “Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo: Deforme mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me e io non ero con te, Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesisten-ti, come se non esistessero in te. Mi chiamasti ed il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità …”.

Agostino conobbe la bellezza, che Willy ancora cerca, a 34 anni (tardi ti amai): quindi c’è tempo anche per Willy.

E la sua insoddisfazione, espressa nell’ultimo verso (Cerco sempre e ‘n trovo niente), mi ricorda anche un altro capolavoro della letteratura italiana: Pensieri di Giacomo Leopardi. Per il quale sintomo della grandezza dell’uomo è “questo non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa

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dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che siffatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto e pure noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà che si veggia della natura umana”.

Anche usando il dialetto di Sant’Oreste, allo stesso modo di Agostino, che si è espresso in latino, o di Leopardi, che scrisse in italiano, Willy ha saputo comunicare alla grande quel sentimento universale della vita che è l’insoddisfazione di chi cerca u filu du destinu, senza trovarlo.

Willy, non ti stancare, continua a cercare u filu du destinu ed a raccontarcelo con le tue belle storie e con le tue simpatiche filastrocche!

L’ ESAME DI GREGORY Gregory, architetto santorestese, per ingegno pari, se non superiore, al Vignola,

durante il suo corso di studi all’università, ha dovuto affrontare anche un difficilis-simo esame di fisica.

Quella mattina si recò presto all’università: anche se la sua prova era stata fissata nel pomeriggio, fece questo sacrificio per sentire le domande più ricorrenti e, so-prattutto, per carpire le risposte giuste.

Con le orecchie aguzzate ascoltò il professore che, al primo studente interrogato, chiese: “Immagina di viaggiare su un treno, in uno scompartimento ove porta e fi-nestrino sono chiusi. E’ luglio e nello scompartimento vi sono 40 gradi di tempera-tura. L’aria è irrespirabile. Tu cosa fai?”. “ Apro il finestrino!”, rispose lo studente.

“Bene!” riprese il professore “Tu hai aperto, col finestrino, una fessura rettango-lare delle seguenti dimensioni: 40 cm x 80 cm; questa fa entrare aria nello scom-partimento, che presenta le seguenti dimensioni: altezza 220 cm, lunghezza 150 cm, larghezza 120 cm. Considerato che il treno viaggia a 70 km orari, mi sai dire quan-ti metri cubi di aria vengono ricambiati in 1 minuto?”.

Lo studente dopo un lungo attimo di silenziosa riflessione ammise di non essere in grado di risolvere il problema. Il professore, senza dargli altre possibilità con nuove domande, lo bocciò. Stessa domanda il professore fece anche agli altri stu-denti, che, purtroppo, non furono in grado di rispondere e, pertanto, furono bocciati.

Anche quando, nel pomeriggio, venne il turno di Gregory, il professore esordì così: “Immagina di viaggiare sul treno della Roma Nord, in uno scompartimento ove porta e finestrino sono chiusi. E’ luglio e vi sono 40 gradi di temperatura. L’aria è irrespirabile. Tu cosa fai?”. “ Mi tolgo la giacca” rispose Gregory. Sorpre-so il professore replicò: “Ma l’aria è afosa, insopportabile e la camicia è tutta ba-gnata dal sudore. Tu cosa fai?” e fece segno con la mano come per invitarlo ad a-prire il finestrino. “Per evitare di tenere addosso indumenti bagnati, mi tolgo anche la camicia” fu la risposta. Il Professore perseverò: “Ma anche la canottiera è fradi-cia, bagnata, sporca di sudore. Che cosa fai?”. E fece nuovamente il segno come per invitarlo ad aprire il finestrino. “Mi tolgo pure la canottiera” fu pronto a rispon-dere.

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Allora il Professore, nuovamente insistendo: “Ma pure i pantaloni sono appicci-cati per il sudore. Che cosa fai?” e fece ancora segno con la mano come per invitar-lo ad aprire il finestrino. Di fronte a tanta insistenza Gregory tagliò corto: “Profes-sore, è inutile che insiste, tanto io il finestrino non lo apro!”.

L’arguzia fu tanto apprezzata dal Professore, che, a differenza di quanto fece con gli altri studenti, propose nuove domande, a cui Gregory seppe rispondere, superan-do brillantemente l’esame.

I PERSONAGGI DEL MIO MESE MARIANO Tra i più bei ricordi della mia infanzia ed adolescenza vissuta a Sant’Oreste c’è il

mese mariano. Era una delle poche funzioni religiose per la quale mia madre non doveva forzarmi: ci andavo volentieri perché quelle serate, trascorse presso l’altare, dominato dalla materna figura della Madonna di Maggio e pieno di fiori profumati, erano sempre feste gioiose.

Al mese mariano io devo anche il mio ingresso nella simpatica compagnia dei chierichetti, allora guidati da Checco e Moreno. Ricordo che la mia prima uscita da chierichetto, ancora abusivo, fu a 5 anni, con una cotta cucita apposta da mia madre, perché in sacrestia non ce ne era una della mia misura: ero ancora troppo piccolo. Ero contento di andare a fare il chierichetto durante il mese mariano perché don Germinio ci ricordava continuamente che noi bambini eravamo al servizio di una Regina. E questo mi rendeva orgoglioso, anche se, spesso, me lo dimenticavo e liti-gavo, con gli altri, per portare l’incensiere e il campanello (il massimo della mia a-spirazione) e la croce; in alternativa mi accontentavo di portare la navicella o la candela. Mi sembrava di essere castigato quando non svolgevo un ruolo importante nel cerimoniale della funzione e non comprendevo che la Madonna mi guardava con lo stesso affetto, anche quando non avevo una specifica mansione durante quel-la liturgia.

Poi devo confessare che io volevo molto bene a don Germinio, che, con me, è stato sempre comprensivo: la mia vivacità, fino all’indisponenza, ha fatto scappare anche qualche scappellotto dalle mani di quel santo sacerdote, che, sempre, mi ha dimostrato un grande affetto, anche quando era costretto a punire le mie imprudenze ed intemperanze.

Quando sono diventato adolescente ed ho lasciato quella splendida compagnia dei chierichetti, mi sono aggregato al coro diretto dalla grande signorina Rosa Pro-serpio. Quanti canti, quante litanie ho imparato ed eseguito con quel coro meravi-glioso. Anche la Proserpio mi ha voluto bene, perché era molto legata a mio padre e mia madre. Non mi sono mai annoiato con lei; eppure, nel periodo del mese maria-no, facevamo le prove addirittura due o tre volte alla settimana, non solo per ripas-sare i canti già noti o per impararne di nuovi, ma anche perché, in occasione della festa della Madonna di Maggio, preparavamo sempre una bellissima messa polifo-nica in un clima di solennità festosa.

Certe figure del coro diretto dalla Proserpio sono indimenticabili: la voce caver-nosa di Generoso, un basso che era riferimento e garanzia per tutto il coro, oppure la bella voce di Peppe i Basiliu (mi ritorna sempre in mente quando intonava, a fine

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delle litanie, quel bellissimo Agnus, A - agnus Dei ...), oppure la schiera completa delle famiglie Acqua, Celiboni, verso le quali la Proserpio ha nutrito sempre una particolare simpatia.

La cosa più bella del mese mariano era il popolo, che pregava e cantava con leti-zia: erano tutti contadini, pastori, operai, casalinghe e giovani che si riconoscevano bisognosi e consegnavano in quel luogo, durante quel rito, i loro desideri, le loro gioie, le preoccupazioni ed i dolori. All’uscita dalla chiesa, al termine della funzio-ne, il clima era sempre festoso e noi adolescenti ne approfittavamo per fare le prime passeggiate con l’occhio rivolto verso le ragazzine per le quali cominciavamo ad avere qualche preferenza.

In quelle sere di maggio, quando le giornate iniziavano ad essere più lunghe, più tiepide, riuscivamo anche ad ottenere dai nostri genitori qualche deroga all’orario di rientro a casa: invece che alle 21, potevamo anche rientrare alle 21,30 o alle 22. Po-teva succedeva che abusassimo di quei momenti di libertà, andando a fare visita a certi orti, dove vi erano ciliegie e fave, che altri avevano coltivato non per noi.

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Capitolo secondo

LA STORIA

SOMMARIO: La montagna sacra … sconsacrata Pag. 22 Lo Statuto di Santo Resto Pag. 23 Il Soratte di Francesco Saverio Rinaldi Pag. 25 Giacobini e frammassoni del Soratte Pag. 26 Il Soratte del “Quo vadis?” Pag. 27 Il violino di Mio padre Pag. 28

LA MONTAGNA SACRA … SCONSACRATA Il Soratte, fin dall’antichità, è stata la montagna sacra: ha sempre affascinato ed

ospitato i cercatori e gli adoratori di Dio: i pagani prima, i cristiani dopo. “Summe Deum sancti custos Soractis Apollo …” è la preghiera che Arunte, prin-

cipe degli Irpi, innalzò al dio Apollo, custode del Soratte, prima del vittorioso con-fronto con Camilla, regina dei Volsci, alleata di Enea nella guerra contro i Latini (Eneide, libro XI, verso 785).

Secondo Plinio Seniore, la singolare religiosità degli Irpi (lupi in lingua sabina), indusse il Senato Romano a concedere loro l’esenzione dall’obbligo del servizio mi-litare e da ogni onere tributario. Ciò perché l’antica Roma considerava il Soratte come terra sacra: il più grande poeta latino, Virgilio, nell’Eneide, lo chiama sacro Soratte, luogo custodito da Apollo, dove la presenza della divinità era da tutti rico-nosciuta. Per questo i Romani offrirono agli Irpi del Soratte condizioni di privilegio rispetto alle altre popolazioni laziali. Infatti, mentre i Vejenti, i Falisci, i Capenati ed i Sabini furono assoggettati a Roma, manu militari, contro gli Irpi i Romani non mossero mai guerra, per riguardo alla misteriosa protezione che il nume (Apollo o Sorano) aveva loro concesso e che si manifestava anche in fatti prodigiosi.

Anche con l’affermarsi del cristianesimo il Soratte conservò la sua sacralità. An-zi gli adoratori di Dio vi vennero ad abitare stabilmente e fu la presenza di uomini consacrati a Dio che spinse anche l’imperatore Costantino ad onorare la montagna sacra: vi edificò la chiesa dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo. Il Soratte, infat-ti, ha visto i primi passi del monachesimo occidentale: nel IV secolo, mentre il de-serto egiziano, con Sant’Antonio, accoglieva le prime esperienze di romitaggio, la montagna sacra ospitava i suoi primi eremiti (tra essi Santa Romana); e mentre San Pacomio, sempre in Egitto, dava vita ai primi monasteri cenobiti d’oriente, San Sil-vestro (non ancora papa), nel suo esilio, sul Soratte fondava uno dei primi cenobi d’occidente. Per la sua sacralità, anche i governanti pontifici, come il Senato Roma-no, riconobbero un regime speciale agli abitanti del Soratte. Testimone ne è lo Sta-tuto di Santo Resto del 1576.

Ma la montagna sacra, nel tempo, è stata più volte dissacrata.

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Francesco Saverio Rinaldi ci segnala che la prima violenza alla sacralità del So-ratte fu opera di Annibale, che, dopo la vittoriosa battaglia sul lago Trasimeno con-tro i Romani (nel 217 a.C.), si diresse a Capua e, transitando per il territorio del So-ratte, saccheggiò i suoi luoghi sacri. Altra violazione della montagna sacra fu opera-ta dall’imperatore Giuliano l’Apostata, che distrusse (nel 362) la chiesa edificata da Costantino ed il monastero silvestrino. E dobbiamo a Papa Damaso la ricostruzione del cenobio, ove San Benedetto inviò San Nonnoso con un gruppo di monaci.

Poi furono le scorrerie dei Longobardi ariani di Liutprando a distruggere nuova-mente, nel 740, i luoghi sacri del Soratte. Ma, pochi anni dopo, Carlomanno riedifi-cò il monastero, su impulso di Papa Zaccaria. Purtroppo le dissacrazioni della mon-tagna sacra continuarono nella storia: le più gravi furono quelle dei Saraceni, che, alla fine del IX secolo, distrussero i luoghi sacri del Soratte, e quella dei Giacobini della Seconda Repubblica Romana, che, nel 1848, saccheggiarono e incendiarono il monastero di San Silvestro, profanando anche la tomba del beato Paolo Giustiniani.

Nonostante tanti atti di dissacrazione, gli adoratori di Dio continuarono ad abitar-la: l’ultimo fu padre Antonio Delle Piane, che ha lasciato il Soratte più di 20 anni fa.

Oggi la montagna sacra è sconsacrata. La chiesa di San Silvestro è aperta (grazie ad Avventura Soratte) ai turisti ed il

santuario della Madonna delle Grazie è chiuso. L’attenzione rivolta al Soratte è pre-valentemente di natura turistico - ambientale e la maggior parte degli eventi che lo riguardano ha carattere ludico o culturale. Invece, in passato, quelli che salivano sulla montagna sacra (la gente del popolo, i papi, gli imperatori, i principi ed i re) vi andavano in pellegrinaggio. Quanti di noi salgono sul Soratte con la coscienza di calpestare un suolo che, fin dall’antichità, è stato riconosciuto come sacro?

LO STATUTO DI SANTO RESTO 140 anni fa’, dopo tre secoli di onorato servizio, lo Statuto di Santo Resto fu

mandato in pensione: con l’annessione di Roma al Regno d’Italia (20 settembre 1870) la vita civile dei santorestesi non fu più regolata dalle leggi dello Stato Ponti-ficio, abrogate e sostitute con quelle del nuovo Stato governato dai Savoia.

Per evidenziare il valore dello Statuto di Santo Resto, che entrò in vigore il 12 aprile 1576, proverò, sinteticamente, a fare un confronto tra il regime giuridico, di cui esso era espressione, ed il nuovo, manifestazione del liberalismo ottocentesco.

Lo Statuto di Santo Resto, in primo luogo, riconosceva al popolo del Soratte una amplia autonomia organizzativa e politica, che rispecchiava, per molti versi, le forme di autogoverno e di democrazia sperimentate nei monasteri benedettini.

Nel Proemio dello Statuto è esplicitata la filosofia portante, secondo la quale funzione della legge è quella di correggere e sorreggere la fragilità dell’uomo, natu-ralmente inclinato al male, a causa del peccato originale: “… per rimedio dell’imbecillità et fragilità humana … sono state introdotte le leggi scritte, nelle quali remirando gli uomini indifferentemente come vivo specchio, et co’ retta rag-gione tra loro vivendo, si conserva il viver onesto, non si offende persona alcuna, et a ciascuno si rende quel che debitamente si conviene”.

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In forza di questa concezione, per lo Statuto, il soggetto giuridicamente rilevante non era un ente, ma la Comunità, che si auto - organizzava. Dopo il 1870, con l’avvento dei liberali, invece, la comunità ha perso la sua rilevanza giuridica: fu creato il Comune, ente che si rapportava con i cittadini, uti singuli, non più come espressione di una co-munità. Invece, per lo Statuto di Santo Resto, quelli appartenenti alla comunità erano i figli di un grande padre (il Padrone), l’Abate delle Tre Fontane, Commendatario del Papa. E chi non coglie la valenza positiva della parola Padrone (che oggi ha assunto, per motivi ideologici, un significato negativo), non solo rischia di non capire la portata dello Statuto, ma anche di vedere i fantasmi dell’autoritarismo in ogni espressione del Commendatario.

L’autonomia della comunità di Santo Resto si manifestava attraverso la libera scelta dei suoi amministratori. Il Conseglio generale composto di “un huomo per foco” e-leggeva il “Conseglio ordinario”, formato da 40 membri (ridotti a 24 nel 1606), i quali nominavano, a loro volta, i Priori ed il Camerlengo (il tesoriere ed il responsabile dell’amministrazione). Il Conseglio, inoltre, nominava il Cancelliero (con funzioni no-tarili) ed altre cariche minori (gli Estimatori, i Santesi, i Guardiani del danno dato …).

Con l’avvento del Regno d’Italia, invece, fu introdotto un sistema elettorale basato sul censo: votavano solo i ricchi!

Lo Statuto prevedeva anche la figura di un magistrato: il Podestà, che, nominato dal Commendatario, amministrava la giustizia, sia nelle cause civili che in quelle penali. Egli disponeva di un vicario (il Vice Comite), eletto dal Conseglio.

Dopo il 1870 Sant’Oreste non ebbe più un suo magistrato, né un ufficio giudiziario: per le cause civili e penali si dovette andare a Roma. Sant’Oreste non ebbe più neanche il Cancelliero, che esercitava le funzioni notarili. Il nuovo Regno d’Italia “privatizzò” anche tale ufficio; ed i Santorestesi, per ogni contratto o per qualsiasi negozio di obbli-gazioni o di trasferimento dei diritti, dovettero andare, a pagamento, davanti ad un pro-fessionista, iscritto nell’Albo dei Notai, a Roma o a Civita Castellana.

Anche il sistema fiscale, dopo il 1870, mutò. Quando vigeva lo Statuto, la Comuni-tà, attraverso il Camerlengo, era titolare della riscossione delle tasse e dei tributi, che entravano nel suo erario: solo una parte (tra il 20 ed il 30 %) veniva trasferita al Com-mendatario per contribuire alle spese generali dello Stato Pontificio. Dopo il 1870 le tasse ed i tributi furono riscossi, tramite i Dazieri, direttamente dallo Stato italiano: il Comune di Sant’Oreste non ebbe più entrate proprie, ma solo quelle derivanti dai tra-sferimenti statali. Peraltro, sotto il Regno d’Italia, secondo l’economista Napoleoni, la pressione fiscale divenne cinque volte superiore a quella degli Stati italiani pre - unitari, con conseguenze sociali disastrose. Tra le nuove imposte in natura, tra l’altro, fu intro-dotto il servizio militare obbligatorio, istituto ignoto a tutti gli stati italiani pre - unitari, ad eccezione del Piemonte dei Savoia.

La grande autonomia riconosciuta dallo Statuto è documentata anche dai libri 2° (delle cause civili) 3° (delli criminali) e 4° (delli danni dati), che contengono le norme del codice civile e penale. Oggi queste materie sono riservate, dal nostro ordinamento, al legislatore statale e non più all’autonomia dei comuni. A ciò si aggiunga che la nor-mativa contenuta nello Statuto, in materia civile e penale, era di natura primaria: infatti, la legislazione civile e penale dello Stato Pontificio si applicava solo per le fattispecie non previste dallo Statuto stesso.

Quanto brevemente esposto evidenzia che lo Statuto di Santo Resto fu portatore di una concezione politica e giuridica avanzatissima, espressione anticipata del principio di sussidiarietà: infatti tale principio, nell’ordinamento giuridico dello

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Stato italiano, ha visto la sua prima formulazione con la Costituzione Repubblicana del 1947.

NB: A chi volesse approfondire, consiglio di leggere Lo Statuto di Santo Resto, pubblicato dal Comune di Sant’Oreste nel 1982, a cura di Francesco Zozi.

IL SORATTE DI FRANCESCO SAVERIO RINALDI Di Francesco Saverio Rinaldi, a cui è stata dedicata una via di Porta Costa, ab-

biamo poche notizie. Mariano De Carolis ci dice che è suo zio materno, che era un medico e ce ne parla come autore di un poema dedicato al Soratte e di cui non si trovava più traccia, fino al 2007.

La cantica, intitolata Il Soratte illustrato, è stata scritta nel 1863, in occasione dei 200 anni del ritorno, a Sant’Oreste, delle reliquie di San Nonnoso: il 3 aprile 1663. Quello ritrovato, però, non è l’originale, ma un libro ristampato a Napoli, nel 1885, nella tipografia di Salvatore Marchese. Nella prima pagina dell’opera è ripor-tata l’effige di san Nonnoso, che si venera nella chiesa dell’Abazia di Valvisciola a Sermoneta (Latina). Ai margini della figura di san Nonnoso sono rappresentati i tre miracoli attribuitigli da san Gregorio Magno, che Rinaldi, nel canto primo, così de-scrive:

Trasporta un gran catollo d’uno scoglio; vitrea lampada infranta egli reintegra; in gran copia moltiplica poc’oglio. Il poema è formato da tre canti, scritti in terzine con lo stile di Dante Alighieri,

dal quale l’autore ha preso a prestito diversi elementi. Ad esempio, come Dante, nella Divina commedia, fu guidato da Virgilio e Beatrice, così Rinaldi, nella sua cantica, è stato accompagnato da “un Venerando in atto soave, e in lunga nivea to-ga, adorno il petto col segnal del gran riscatto (la Croce di Cristo)”.

Nel primo canto l’autore riferisce di una passeggiata sul Soratte, fatta il 2 set-tembre 1863, festa di San Nonnoso. Il poeta non si limita a descrivere i luoghi visi-bili dalla vetta, ma, di ognuno, ricorda l’antica storia, i personaggi e le gesta che li hanno resi famosi. Nel secondo canto il Venerando richiama alla mente del poeta i santi, i papi e gli imperatori che hanno calcato il pavimento del monastero di San Silvestro. Interessanti sono le notizie riguardanti la traslazione delle spoglie di San Nonnoso, dal Soratte a Sant’Elia ed a Freising. Nel terzo canto l’autore descrive la gioiosa festa dedicata al santo monaco e ci fornisce un lungo elenco di città d’Italia e d’Europa in cui San Nonnoso allora era venerato.

L’esposizione, in versi, di avvenimenti e personaggi storici è accompagnata da note a piè di pagina, che completano quello che la poesia non poteva indicare: le fonti, da cui Rinaldi ha tratto quei fatti.

Bisogna precisare che certe espressioni, presenti nell’opera, risentono del clima politico e dello scontro di classe allora in atto: la ricca borghesia era affascinata dai Savoia, mentre le masse popolari erano fedeli al Papa ed alla tradizione cattolica. Per Antonio Gramsci Rinaldi sarebbe un bell’esempio di intellettuale organico con il popolo. Infatti egli, pur facendo parte della classe benestante santorestese (era medico), non rinnegò la tradizione secolare del suo popolo. Se il poema fu scritto in

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occasione di un nobile anniversario, il suo vero scopo era di provocare l’intelletto di quel pugno di liberali del Soratte, convinti, dalla propaganda massonica, che, per secoli, gli uomini sono stati dominati dall’oscurantismo e che, per secoli, il popolo ha creduto alle favole. Di fronte all’insensibilità della cultura laica, allora imperante tra le classi benestanti, il poeta si rivolge ai sassi in questo modo:

“Ditelo voi, ditelo ai tempi ingrati quanta chiudeste santità nel grembo o ruderi de’ chiostri diroccati”. Per la lettura de Il Soratte illustrato, consiglio la pubblicazione on line

(http://www.centrostudisoratte.com/NuoviFile/soratteillustrato.pdf), rintracciabile sul sito del Centro Studi Soratte e da me curata.

GIAGOBINI E FRAMASSONI DEL SORATTE L’abate Luca Antonio Benedetti ha fornito un elenco delle famiglie borghesi ro-

mane che presero parte all’assalto del Quirinale, il 5 luglio 1809, quando l’esercito napoleonico fece prigioniero il Papa Pio VII. Lo stesso abate testimoniò che alcuni assalitori del Quirinale venivano da varie località del Lazio, tra cui Sant’Oreste, ove i giacobini avevano un loro avamposto.

Tra i primi giacobini del Soratte Mariano De Carolis ci segnala il cittadino Giu-seppe Bastari, il quale fu uno dei collaborazionisti più ferventi degli invasori france-si: essi lo nominarono, nel 1809, amministratore dell’Ospedale di Santa Maria, al posto del canonico don Biagio Caponi. Il cittadino Bastari (cittadino per i liberali francesi era un appellativo analogo a compagno per i comunisti), come amministra-tore, fu un disastro, e dei denari pubblici sperperati non presentò mai il rendiconto. Certamente la famiglia Bastari dovette vivere un dramma interno doloroso, visto che il cittadino Giuseppe mantenne forte i suoi sentimenti anticlericali, anche quan-do suo cugino don Francesco Bastari, insieme a don Giuseppe Capelli, don Giusep-pe Peligni e don Giuliano Paolucci, conobbe il rigore della prigione per essersi rifiu-tato di giurare fedeltà al dittatore Napoleone. Ironia della sorte: il cittadino Bastari si trovò in compagnia di un cittadino clericale, don Lorenzo Marzetti, un don Ab-bondio del Soratte, che giurò fedeltà all’occupante francese.

Un attivo drappello di liberali anticlericali era presente a Sant’Oreste anche quando fu istaurata la Repubblica Romana, nel 1848. Delle violenze, poste in essere dai rivoluzionari guidati dal triunvirato Mazzini Saffi Armellini, il De Carolis prefe-risce non parlare, anche se Mariano Nardi, testimone oculare di quegli anni, glie ne raccontò molte. La più clamorosa delle azioni rivoluzionarie dei borghesi del Sorat-te, in questo periodo, è stata la profanazione della tomba del Beato Paolo Giustinia-ni, all’interno dell’abazia di San Silvestro.

E quando, il 20 settembre 1870, l’esercito piemontese conquistò Roma, annet-tendola al regno dei Savoia, fu il farmacista liberale sor Pio De Carolis, padre di don Mariano, ad inalberare il tricolore sul comune ed a congedare il Priore Pietro Zozi. Fu ancora sor Pio, antipapalino ed amico del poeta massone Gioacchino Belli, a portare a Roma il favorevole risultato del plebiscito di adesione, da parte di Sant’Oreste, al Regno d’Italia. Peraltro, in occasione di quel plebiscito, non fu ap-

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plicata la procedura elettorale dello Statuto di Santo Resto, allora vigente, che pre-vedeva la partecipazione al voto di “uno per foco” (uno per famiglia), ma la legge elettorale piemontese, basata sul censo: insomma, al plebiscito votarono solo quel pugno di ricchi borghesi, che, a maggioranza (con il voto contrario di Pietro Zozi), aderirono all’Italia dei Savoia.

Bisogna precisare che, da allora, i laico borghesi non si chiamarono più cittadini, ma fratelli, in quanto essi avevano fatto il salto della quaglia: erano passati, per se-guire i Savoia e gli eroi della nostra patria, all’obbedienza massonica del Grande Oriente inglese, che, comunque, si dimostrò più moderata delle congreghe giacobi-ne francesi. In effetti sor Pio, pur essendo massone (anche se don Mariano dice che fu solo un buon patriota), accettò che suo figlio diventasse prete senza drammi.

Anche i Bastari ebbero una svolta moderata rispetto al cittadino Giuseppe e, con-trariamente ad altri fratelli del Soratte, non fecero mistero della loro appartenenza alle sette massoniche: sopra la porta d’ingresso della loro casa è posto in evidenza, ancor oggi, un fregio raffigurante il Compasso e la Rosa dei venti, significativi della loro appartenenza alla grande fratellanza massonica di rito scozzese (quelli col grembiule e con le gonne!).

Fatti fuori i preti, dal 1870, in Italia (ed a Sant’Oreste) governarono i massoni con i risultati catastrofici a tutti noti: in 50 anni di loro governo 25 milioni di italia-ni, ridotti alla fame e alla povertà, furono costretti ad emigrare. Tra questi vi furono anche un centinaio di giovani santorestesi.

L’ultimo santorestese, che sicuramente apparteneva alla massoneria, è stato Um-berto Ortolani; ma la sua adesione alla P2 è maturata in un contesto estraneo agli ambienti laici del Soratte.

Chi sa se i framassoni del Soratte, oggi, sono in sonno o sono scomparsi? IL SORATTE DEL “Q UO VADIS?” Un amico mi ha consigliato di leggere, durante l’estate, il romanzo di Henryk

Sienkiewicz, intitolato “Quo vadis?”, un best seller, che, negli anni 60, è diventato anche un film, uno dei più fortunati colossal americani. Ho provato a resistere all’invito perché l’opera si presenta come un corposo mattone (con più di 600 pagi-ne), anche se si legge con piacere. Tuttavia l’amico mi ha convinto ad intraprendere l’impresa della lettura del libro, esclusivamente perché mi ha detto che, in esso, vi sono diversi riferimenti al monte Soratte.

Se ve ne parlo significa che non mi sono pentito, anzi sono rimasto sorpreso di fronte alle continue citazioni del monte Soratte: il Sienkiewicz ricorre al monte So-ratte, in diversi passi del suo romanzo, in particolare quando vuole dare un tocco di poesia ai fatti che descrive. All’attenzione dei lettori di Soratte Nostro propongo al-cuni brani che, nel “Quo vadis?”, trattano del nostro bel monte.

Già nel Capitolo I vi è una citazione del Soratte. Vinicio (il protagonista), quan-do confida a suo zio Petronio di essersi innamorato di Ligia, così si esprime: “… voglio averla nella mia casa fino a quando il mio capo non sarà bianco come il So-ratte d’inverno”.

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E nel Capitolo XV, Petronio scrive al protagonista innamorato: “… mi aspetto, quindi, che o avrai già appagato i tuoi desideri nelle braccia di Ligia, o li appaghe-rai prima che il freddo autunnale soffi sulla campagna romana dalle cime del So-ratte”.

Nel Capitolo XXVIII, in una lettera a Petronio, Vinicio, per esprimere la sua im-potenza ad aiutare Ligia (non può sposarla parchè è in prigione), scrive: “Tu sai quanto io ami Ligia, sai che non vi è nulla al mondo che per lei non sia disposto a fare. Ma non potrei, con ciò, nemmeno a sua richiesta, sollevare il Soratte o il Ve-suvio, né far entrare nella mia mano il lago Trasimeno …”.

Nel Capitolo LVII il Sienkiewicz descrive una cena in casa di Petronio (detto anche arbiter elegantiarum) e nuovamente cita il Soratte: “Contento di sé stesso passò poi nel triclinio e sedette a cena con Eunice: Il lettore leggeva durante il pa-sto gli idilli di Teocrito. Fuori il vento spingeva nuvole dal Soratte ed una bufera improvvisa venne a turbare il silenzio della serena notte estiva …”.

In questi brani il Soratte viene associato alla neve invernale ed al vento freddo dell’autunno o a quello caldo dell’estate: per l’antica Roma esso era un riferimento geografico ben visibile, dalle sommità dei suoi colli, a nord della campagna romana.

IL VIOLINO DI MIO PADRE In quella fredda serata di dicembre del 1944 i miei nonni, Oreste e Maria, rima-

sero sorpresi quando sentirono bussare, con un insolito tocco, alla porta di casa. Ma la sorpresa si tramutò in un sentimento di triste presagio, quando, aperta la porta, videro la figura in un ufficiale dell’esercito tedesco, uno dei tanti che prestava ser-vizio nel bunker del Maresciallo Kesserling; il quale aveva trasferito, dopo i bom-bardamenti americani di Frascati, il comando generale presso le gallerie del monte Soratte. Il primo pensiero che passò nella mente dei miei nonni fu che quell’ufficiale avrebbe portato una tragica novità riguardante i due figli, fatti prigio-nieri dopo l’armistizio dell’8 settembre, e di cui non avevano più notizie.

Invece, il gentilissimo ufficiale era venuto per un altro motivo: era venuto a chiedere in prestito il violino di mio padre. Anche per gli occupanti tedeschi si av-vicinava il Natale e volevano festeggiarlo con canti e musiche della loro tradizione. Mio nonno provò a dire di no, adducendo a scusa il fatto che il violino non era in buone condizioni. Esso non era stato suonato da più di quattro anni, da quando, cio-è, mio padre (Carmelo) era partito soldato per quella tragica avventura della guerra: l’ultima volta che l’aveva suonato fu per fare una serenata a mia madre (Agnese), allora sua fidanzata.

L’ufficiale insistette per avere in prestito quel violino garantendo, non solo la sua restituzione, una volta terminate le feste di Natale, ma anche la perfetta riparazione, a sue spese. A quel punto mio nonno non seppe opporre resistenza, ma all’ufficiale rappresentò che quello strumento aveva un valore affettivo enorme, perché gli ri-cordava il suo figlio primogenito, prigioniero di guerra. Mio nonno si rassegnò all’idea che non avrebbe più rivisto il violino di mio padre e, più che un prestito, lo considerò un sequestro. La sua idea si rafforzò quando, terminate le feste natalizie, quell’ufficiale si presentò per chiedere una proroga: lo strumento fu utilizzato anche

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per il periodo di carnevale. E dovette ricredersi quando, alla fine di febbraio del 1945, quell’ufficiale gli riconsegnò lo strumento rimesso a nuovo.

Quel violino risistemato, poté essere suonato nuovamente da mio padre, quando, terminata la guerra, nell’estate del 1945 tornò a casa. E lo suonò subito per la fidan-zata, che aveva atteso il suo ritorno, vivendo, per due anni, nell’incertezza che il suo promesso sposo fosse ancora vivo. E lo suonò anche per mia sorella e per me, quando, bambini, facevamo i capricci e non volevamo mangiare. Il suono di quel violino attirava tutta la nostra attenzione, cosicché mia madre poteva, senza difficol-tà, introdurre le pappe nelle nostre bocche aperte, mentre le orecchie e gli occhi era-no tutti concentrati ad ascoltare ed a vedere mio padre che suonava il violino.

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Capitolo terzo

I SANTI

SOMMARIO: La sorpresa di san Nonnoso Pag. 30 San Nonnoso nel mondo Pag. 31 Il vero volto di san Nonnoso Pag. 32 San Paolo e Sant’Edisto: compagni di carcere? Pag. 33 La festa di Santa Cecilia Pag. 35 Santa Galla sul Soratte Pag. 36 Una via a santa Francesca Cabrini Pag. 37 San Nicola: Tra Halloween e solstizi Pag. 38

LA SORPRESA DI SAN NONNOSO Nonnoso è un nome di origine bizantina che significa “piccolo”, “ poca cosa”: in

santorestese potremmo tradurlo con “Pizzichellu”. Fino ad un secolo fa’ almeno un uomo su cento a Sant’Oreste si chiamava Nonnoso. Qualche volta, più raramente, si incontrava anche il nome Nonnosa. Era un modo per esprimere la devozione e la gratitudine al nostro compatrono per le grazie ricevute. Oggi, invece, nessuno da ai propri figli il nome di Nonnoso e nessuno parla più delle sue grazie, anche perché nessuno sente il bisogno di chiederle.

Luigi Usai, in una poesia così si rivolgeva al nostro compatrono: “Sembri un santo abbandonato: non un fiore, un oggetto, un cero, niente pone sul vuoto altare la tua gente, e mai nessuno io vedo inginocchiato davanti a te per voto o per preghiera…”. Qualcuno mi ricordava che, in passato, si ricorreva a San Nonnoso ed alla Ma-

donna perché i servizi sanitari erano inesistenti. Oggi ricorrere ad un santo, per chiedere una grazia che riguarda la salute, è sintomo di ignoranza e nessuno pensa di farlo, o, se ci pensa, non lo fa perché (soprattutto gli uomini) si vergogna.

Un imprevisto, un avvenimento non programmato dagli organizzatori della Festa di San Nonnoso, quest’anno, ha sorpreso molti di noi. La signora Antonella Coluc-ci, da Novara, è venuta in pellegrinaggio sul Soratte per esprimere a San Nonnoso la riconoscenza per i miracoli ricevuti.

Ella – racconta in una lettera pubblicata su Soratte Nostro -, malata di insuffi-cienza renale cronica, mentre passeggiava per le vie di Milano, ha letto, nelle pagine di un libro, che San Nonnoso è un taumaturgo, protettore dei malati di reni. Accom-pagnata dal marito, convinto laico, si è recata presso la tomba di San Nonnoso, a Freising, per chiedere il miracolo, visto che la scienza medica non le offriva speran-

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ze. Alla richiesta della guarigione, San Nonnoso ha risposto sovrabbondando: le ha donato un netto miglioramento della salute e la fede.

E’ proprio vero che, di fronte ad un bisogno reale, la ragione umana può aprirsi e considerare anche quelle ipotesi, che, per mero pregiudizio, sono ritenute come sin-tomo di arretratezza. La giovane signora piemontese ha preso in seria considerazio-ne quella notizia, che interessava la sua vita, come una ipotesi ragionevole; tanto è vero che, nella lettera a Soratte Nostro, afferma: “questa cosa meritava approfon-dimenti”.

Quanta gente bisognosa non approfondisce questa possibilità per pigrizia, o per-ché pensa che la devozione a San Nonnoso, come tante altre, sia una favola per i creduloni!? Forse anche la signora Colucci e suo marito hanno pensato così; ma, a differenza degli altri, hanno voluto “verificare”. Sono andati presso la tomba di san Nonnoso: gli hanno affidato il loro bisogno, si sono fidati di lui. E l’abate del Sorat-te li ha presi sul serio. La sig.ra Colucci ha ricominciato a credere ed, in seguito, ha costatato inspiegabili (secondo i medici) miglioramenti clinici.

I Colucci non hanno fatto né più, né meno di quanto faceva, tanto tempo fa, la nostra gente, quando chiedeva le grazie a San Nonnoso e gli riservava quell’affettuosa venerazione, di cui è testimone tutta la nostra storia. Probabilmente Antonella manifesterà ancora la sua gratitudine a San Nonnoso, quando, dopo esse-re completamente guarita (glielo auguriamo di cuore), chiamerà il suo bambino con lo stesso nome del santo che l’ha esaudita: Nonnoso.

SAN NONNOSO NEL MONDO E’ una felice coincidenza che il 70° numero di Soratte Nostro esca il giorno di

San Nonnoso! Un santo che ha segnato la vita e la storia del nostro popolo e del po-polo di Freising. Ma anche in altre parti d’Italia e del mondo San Nonnoso è stato venerato grazie ai miracoli a lui attribuiti da molte persone che lo hanno invocato.

Francesco Saverio Rinaldi, nel suo “Soratte illustrato”, riporta un elenco di luo-ghi in cui San Nonnoso è onorato. Nella chiesa romana di Santa Pudenziana i principi Altieri gli dedicarono un altare, nel 1670, per una grazia ricevuta. I medici ormai disperavano che la moglie del principe riuscisse a sopravvivere ad un parto travagliatissimo: la donna, invece, si salvò, dando alla luce un bimbo, grazie all’intercessione di San Nonnoso.

Anche a Tivoli il culto di San Nonnoso fu introdotto per opera del canonico della Basilica Tiburtina, don Giacomo Belluomo, che, nel maggio 1669, dopo aver invo-cato San Nonnoso, fu miracolosamente guarito da una grave malattia, che gli procu-rava incessanti e continui sbocchi di sangue e che lo aveva condotto in fin di vita. In detta basilica fu esposto un quadro riportante la sacra immagine di San Nonnoso. Poi, nel 1673, sempre a Tivoli, fu eretto un altare dedicato al santo monaco nella chiesa di Santa Maria in Carciano.

Anche la chiesa parrocchiale di Fiorenzuola, vicino Parma, nel 1667 dedicò un altare a San Nonnoso, sopra il quale fu esposto un quadro riportante la sua immagi-ne, voluta dall’Abate generale dei Riformati di San Bernardo.

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Inoltre il vescovo di Montefeltro , mons. Bona, nel 1670 introdusse il culto di San Nonnoso a causa di numerosi miracoli attribuiti alla sua intercessione dai fedeli di quella diocesi.

A Caprarola, nel 1671 mons Angelo Scotti, arciprete della Collegiata maggiore di Sant’Angelo, introdusse il culto del nostro compatrono.

Nel 1672 padre Giuseppe di Lazzara volle avviare la venerazione di San Nonno-so nella chiesa del Crocefisso di Marino , e la sua immagine, posta sopra l’altare dedicato al santo, fu fatta dipingere da Francesco Duozi, un avvocato romano, che fu miracolosamente liberato e guarito da una febbre maligna, per intercessione del santo monaco del Soratte.

Anche i monaci benedettini di Nazano dedicarono un altare a San Nonnoso nella Chiesa di Sant’Antimo.

A Ventimiglia la venerazione di San Nonnoso si diffuse nel 1671, per opera di Giovanni Battista Asplenati, il quale, dopo essere stato canonico della collegiata di San Nicola, a Sant’Oreste, fu promosso alla Prepositura della cattedrale nella fio-rente città ligure. In questa stessa città, presso la Chiesa di Sant’Agostino, fu eretto anche un altro altare dedicato a San Nonnoso.

Altari dedicati a San Nonnoso sono stati eretti anche nelle Abbazie di Casamari e di Valvisciola a Sermoneta, nonché e nella chiesa di Unterweikertshofen a Da-chau in Baviera.

Francesco Saverio Rinaldi ci da notizia che i monaci benedettino cassinensi e quelli cistercensi portarono e promulgarono la venerazione e la devozione di San Nonnoso nei paesi del Sannio e della Sabina. Lo stesso ci fa presente che “i viag-giatori stranieri, gli eremiti, i pellegrini oltramontani, cioè della Francia, della Fiandra, della Polonia, della Germania e della Spagna, reduci dal pellegrinaggio di Roma, passando per la via Flaminia, salivano sul monte Soratte e visitavano questi luoghi santi, ove stette San Silvestro, San Gregorio Magno, Carlomanno, San Nonnoso e di lui si riportavano le sacre immagini e le medaglie per propagare la divozione e venerazione di questo santo taumaturgo nelle loro lontane regioni”.

Sono cose d’altri tempi? No, san Nonnoso continua a sorprenderci. Proprio l’anno scorso è venuta, in pellegrinaggio sul Soratte, la sig.ra Antonella Colucci, da Novara, per esprimere a San Nonnoso la riconoscenza per il miracolo ricevuto, di cui ho dato notizie nel precedente racconto.

IL VERO VOLTO DI SAN NONNOSO Certa agiografia religiosa, anzi clericale, ci presenta i santi, come persone fuori

dal mondo, tutte sacrifici, privazioni e mortificazioni. Anche san Nonnoso è rimasto imprigionato in questi schemi; così che, a volte, ci domandiamo se l’abate del So-ratte può veramente essere un modello per noi che viviamo nel mondo, chiamati ad una vita ordinaria.

Eppure le poche fonti che ci parlano di San Nonnoso non evidenziano questi lati antipatici, anzi ci presentano un volto radioso, proprio di un uomo che ha vissuto con pienezza la sua esistenza.

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Certo egli è vissuto in un’epoca difficilissima, ove la ricchezza ed il benessere dell’impero romano era un lontano ricordo: i barbari avevano depredato e distrutto tutto ed, in quel periodo, in Italia dominavano i Goti, ariani ed anticattolici, che a-vevano messo a ferro e fuoco le ricche città della penisola e che avevano costretto la popolazione a scappare ed a vivere nelle campagne, nelle foreste, in estrema pover-tà. San Nonnoso, che proveniva da una famiglia di alto rango (i suoi più illustri rampolli sembra fossero ambasciatori bizantini), proprio per la vocazione che aveva ricevuto, ha scelto di vivere come la gente normale di allora, secondo lo stile di San Benedetto: l’eroico nel quotidiano.

Per comprendere la figura di San Nonnoso può essere utile rifarsi a madre Teresa di Calcutta ed alle sue suore. Esse si sono sviluppate in India ed hanno voluto con-dividere in tutto la condizione del popolo: hanno indossato il vestito che usa la maggior parte delle donne indiane nella vita quotidiana ed hanno scelto di vivere come la gente di quel popolo. Nessuna motivazione umanitaria ha mosso Madre Te-resa, ma unicamente l’amore verso il suo sposo, Gesù Cristo. L’ha fatto per amore, non per un ideale ascetico irragionevole.

Allo stesso modo Nonnoso ed i figli di San Benedetto per amore di Cristo (che ha voluto condividere in tutto la condizione umana) vestivano il saio, cioè l’abito che normalmente indossavano i contadini di allora, pur potendo vivere nell’agiatezza dei principi; per amore di Cristo, che lo chiedeva, dormivano in mo-deste dimore, avendo per cuscini le pietre e per materasso la paglia.

Oggi san Nonnoso, invece del saio, userebbe il nostro abbigliamento, e vivrebbe in alloggi più confortevoli, come gli uomini del nostro tempo.

La santità cristiana è legata alla letizia di uomini e donne che sono pienamente realizzati ed affettivamente soddisfatti: solo questo può permettere di affrontare, di-gnitosamente, i sacrifici; ed uno sguardo superficiale può essere colpito da apparenti privazioni, perché certi stili di vita sono incompatibili con la bellezza e la concre-tezza della vita cristiana.

Anche la santità di Nonnoso è stata la conseguenza di una scelta di convenienza: ha lasciato la sua ricca famiglia, la sua carriera di ambasciatore dell’imperatore Giu-stiniano, ma ne ha guadagnato in umanità piena. Come tutti i santi ha preso sul serio la domanda evangelica: “A che serve guadagnare tutto il mondo se poi perdi te stesso?”.

SAN PAOLO E SANT ’EDISTO: COMPAGNI DI CARCERE ? Nella lettera ai Filippesi san Paolo ci fornisce questa notizia: “Desidero che sap-

piate, fratelli, che le mie vicende si sono volte a vantaggio del vangelo, al punto che, in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo” (Fil. 1, 12 -13). Come è noto Paolo, nel 61, soggiornò a Roma, agli arresti domiciliari: incate-nato solo la notte e sempre sorvegliato da un pretoriano.

L’Apostolo era prigioniero a causa di un processo iniziato a Gerusalemme (volu-to dai Giudei): gli Atti degli Apostoli raccontano che Paolo, essendo cittadino ro-mano e diffidando della giustizia degli Ebrei, si appellò a Cesare ed ottenne il tra-sferimento a Roma del processo, che si celebrò davanti all’imperatore.

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Alla fine di un’altra lettera, che l’Apostolo inviò, durante la sua prigionia roma-na, ai Colossesi (4, 10), si legge: “Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco il cugino di Barnaba …”. Secondo Holzner, Aristarco è il macedone che, con Luca e Timoteo, accompagnò Paolo nel suo viaggio da Gerusalemme a Roma.

Io mi permetto di formulane un’altra ipotesi, in considerazione del fatto che il macedone non fu compagno di carcere di Paolo, ma suo compagno di viaggio, oltre che suo fedele discepolo e collaboratore. Inoltre, Paolo durante gli arresti domicilia-ri ebbe, come compagno di “carcere”, solo un soldato pretoriano.

Per questo oso supporre che Aristarco della lettera ai Colossesi sia il nostro sant’Edisto, che fu soldato del pretorio ed, a mio parere, incaricato della vigilanza di Paolo. Propongo questa ipotesi a partire dalle notizie forniteci, nel suo “Il monte Soratte e i suoi santuari” (Pagg. 328 – 331), da Mariano De Carolis, secondo il qua-le il vero nome di Edisto è Aristo (una contrazione di Aristarco) ed è legato al culto di San Paolo. De Carolis cita lo storico De Rossi, che, nella sua “Roma sotterranea” (Pag. 185), così scrive: “… sappiamo che, sul principio del secolo VII, già esisteva un monastero che intitolavasi a Sant’Edisto, e possedeva dei beni nelle vicinanze della Basilica di San Paolo. Tanto si impara dall’atto di donazione di diversi beni, che, il 25 gennaio 604, San Gregorio Magno, fece alla detta basilica. L’atto di do-nazione fu fatto incidere in marmo: esiste nel museo lapidario della basilica di San Paolo. In essa marmorea iscrizione Edisto è chiamato Aristo: Monsterium S. Aristi … Un’altra memoria … ci informa dell’esistenza, presso la basilica di San Paolo di Roma, di una chiesa in onore di Sant’Edisto, e ci da la preziosa notizia che il corpo di questo santo e i corpi di due sante, sue compagne nel martirio (Cristina e Vitto-ria), stavano in una chiesa ad essi dedicata presso la basilica di San Paolo”. La conclusione del De Carolis è la seguente: “Essendo certo, dagli atti, che Cristina e Vittoria furono martiri, insieme con Edisto, non vi può essere dubbio che l’Aristi qui nominato è identico col nostro Sant’Edisto”.

Se Aristarco, di cui ci parla san Paolo, fosse l’Aristo (contrazione lapidaria di A-ristarco), cui era dedicata una chiesa vicino alla basilica di san Paolo, potremmo supporre che Sant’Edisto fu quel soldato del Pretorio incaricato della vigilanza di san Paolo, durante la sua prima prigionia a Roma, dal 61 al 63. Grazie a que-sto contatto diretto, Edisto si sarebbe convertito al cristianesimo.

Sappiamo che Paolo fu assolto dalle accuse, ma che subì il martirio nel 68, in occasione della prima grande persecuzione di Nerone. Durante la quale fu ucciso anche Edisto, nelle vicinanze di Roma, a Laurento, sulla via Ardeatina, ove Nerone aveva fatto costruire una villa, che utilizzava per le sue battute di caccia. Edisto fu condannato a morte perché, nei pressi di questa villa (di cui curava la sicurezza), fu sorpreso a partecipare ad una messa celebrata dal presbitero Prisco.

Alla luce delle notizie esposte, quest’anno la festa di Sant’Edisto acquista un va-lore particolare, visto che cade nell’anno giubilare che ricorda i 2000 anni della na-scita di San Paolo.

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LA FESTA DI SANTA CECILIA Da tanti anni non capito a Sant’Oreste per la festa di Santa Cecilia, che cade il 22

novembre; una festa di cui conservo alcuni tra i ricordi più belli della mia infanzia e della mia adolescenza.

Allora tutte le manifestazioni culturali (canore, musicali e religiose) erano realiz-zate dai coristi, diretti da Rosa Proserpio e dal complesso bandistico Innocenzo Ric-ci, guidato da Dario Bellucci.

Anche l’aspetto culinario era connesso alle espressioni culturali di questa festa. Alla fine di novembre si uccidevano i maiali e si macinavano le ulive: le polentate (con salsicce e costate di maiale) e le bruschette (col pane fatto in casa e con l’olio appena uscito dal frantoio) caratterizzavano le tavole delle famiglie in festa, che, tra musicanti e coristi, coinvolgeva una buona metà del paese.

Nella mia famiglia questa festa era molto sentita perché i miei genitori erano par-ticolarmente affezionati a Rosa Proserpio, che tanto venerava la protettrice dei mu-sicisti e dei cantanti.

Mio padre, poi, dedicava molto tempo a questa educatrice di giovani perché, a causa del suo handicap, le dettava, nota per nota, la musica, che ella riproduceva in caratteri per non vedenti con la sua particolare macchinetta.

Anche mia madre era legata alla Proserpio, che l’aveva educata al bello musica-le, insegnandole tanti canti e polifonie, quando faceva parte del coro parrocchiale. Inoltre mio padre, fino alla fine della sua breve vita, ha suonato il clarinetto nella banda, che, dalla sua fondazione, ha sempre reso onore alla santa musicista.

Sulle orme dei miei genitori anch’io ho cantato nel coro di Rosa Proserpio, dalla voce della quale ho sentito raccontare, per la prima volta, la storia di Santa Cecilia. Era una giovane romana suonatrice d’organo, che si consacrò a Dio nella verginità; ma i genitori la destinarono al matrimonio, secondo le usanze del tempo (siamo nel 3° secolo dC). Cecilia, però, convinse anche il marito a consacrarsi a Dio ed a vive-re insieme come se fossero fratello e sorella.

Tra le tante arie, Rosa Proserpio ci faceva cantare, per questa festa, un inno in-dimenticabile (che iniziava così: “Di Santa Cecilia l’alto canto festeggia a letizia il dì suo santo …”) e l’antifona dedicata alla santa: “Cantantibus organis, Cecilia vir-go in corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat Domine cor meum et corpus meum inmaculatum ut non confundar" (Quando suonava l’organo, la vergine Ceci-lia cantava nel suo cuore soltanto per il Signore, dicendo: Signore, il mio cuore e il mio corpo siano immacolati affinché io non resti confusa).

E l’esempio di totale affidamento a Dio, proposto dalla Proserpio, anche attra-verso la figura di Santa Cecilia, è stato accolto da tanti giovani del suo coro, che, nella vita matrimoniale, hanno costruito rapporti sani, saldi e lieti, anche quando sono stati attraversati dal dolore e dalle prove.

Santa Cecilia mi sta a cuore anche perché in occasione della sua festa, nel 1965 (a 12 anni), feci la prima uscita, con il mio clarinetto, nella banda Innocenzo Ricci. Ricordo, come se fosse oggi, che, durante la messa cantata, suonammo il Largo di Handel; mentre, durante il giro del paese, fui costretto a tacere quasi sempre, perché avevo imparato ad eseguire discretamente solo la “Mariannina”, una marcia di cui ancora oggi conservo nella memoria tutte le note.

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Neanche quest’anno riuscirò a venire a Sant’Oreste per la festa di Santa Cecilia. Perciò approfitto di questo spazio per fare gli auguri agli amici della banda Inno-cenzo Ricci, che compie 130 anni di vita, ed alla signora Cecilia Spinilli (mia vicina di casa), che festeggia l’onomastico.

SANTA GALLA SUL SORATTE Il 6 aprile (secondo altri il 17 luglio o il 5 ottobre) si festeggia santa Galla, una

matrona romana vissuta dal 505 al 550, a cui Sant’Oreste deve la sua stessa origine, visto che ella apparteneva alla famiglia dei Simmachi, proprietaria di tutto il territo-rio del monte Soratte e di quello ad esso circostante.

Probabilmente fu santa Galla a consigliare san Benedetto da Norcia ad inviare sul Soratte il gruppo di monaci guidato da san Nonnoso, che presero possesso di un monastero già esistente e fondato da san Silvestro. Dell’esistenza di questo mona-stero siamo certi perché esso fu ricostruito da Papa Damaso, dopo che l’imperatore Giuliano l’Apostata ne ordinò la distruzione nel 362.

Fu Galla ad intitolare al santo martire Edisto il primo insediamento civile del So-ratte: la “Curtis sancti Eristi”. Ella si mosse seguendo la tradizione proposta da uno dei membri più illustri della sua famiglia, sant’Ambrogio (era un Simmaco come santa Galla), che favorì, nella Chiesa intera, la diffusione della venerazione dei mar-tiri: e sant’Edisto, in servizio presso il corpo delle guardie pretoriane quando era imperatore Nerone, fu ucciso a Laurento, altra località che apparteneva al patrimo-nio fondiario dei Simmachi.

A Galla Benedetto del Soratte attribuisce la costruzione, intorno al Soratte, di molti insediamenti civili fortificati (a causa delle invasioni barbariche), che avevano per centro le chiese dedicate ai martiri cristiani: tra quelle a noi più vicine ricordia-mo, oltre alla pieve dedicata a sant’Edisto, le chiese di san Lorenzo (sopra la quale, su disegno del Vignola, fu poi edificata l’attuale collegiata parrocchiale), di san Va-lentino a Stimigliano, di sant’Andrea a Ponzano.

Ella venne spesso nei suoi territori del Soratte per curare gli interessi della fami-glia. Giovanissima, infatti, dovette assumersi tutte le responsabilità, che allora erano proprie degli uomini. In effetti, nel giro di pochi anni, due tragedie familiari l’hanno toccata facendo venir meno i suoi affetti più cari ed i suoi sostegni: appena venten-ne, nel 525, suo padre Quinto Aurelio Memmio Simmaco, princeps senatus, fu fatto uccidere, per infondati sospetti di tradimento, dal re d’Italia Teodorico, del quale fu fedele consigliere. Inoltre, dopo un solo anno di matrimonio con un giovane patrizio romano, rimase vedova.

San Gregorio Magno, nel Libro IV dei suoi Dialoghi, riferisce che, quantunque stimolata dai parenti a nuove nozze, preferì consacrarsi a Dio, amministrando da so-la i suoi beni, utilizzati soprattutto per aiutare i poveri.

Alla fine della sua vita si ritirò in un monastero nei pressi della basilica di San Pietro in Vaticano.

I Romani hanno voluto ricordare santa Galla per la sua carità verso i bisognosi e per i miracoli a lei attribuiti e di cui sono stati testimoni: tra essi commemorano un suo intervento presso Dio, che sortì l’effetto dell’improvvisa scomparsa della peste.

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Per questi motivi le hanno dedicato diverse istituzioni e, dal 1940, anche una par-rocchia.

A Sant’Oreste, invece, non esiste un altare o una via in memoria di colei alla quale dobbiamo l’inizio della nostra storia civile.

UNA VIA A SANTA FRANCESCA CABRINI Che bella notizia sapere che il Comune di Sant’Oreste ha dedicato una delle vie

del nuovo Outlet a Santa Francesca Cabrini! E’ un riconoscimento all’opera di que-sta grande santa che ha creato opere a favore degli emigranti, tra questi molti di Sant’Oreste, che, all’inizio del 1900, hanno salutato i loro genitori e fratelli con il bacio dell’addio, senza essersi più rivisti in questa vita.

Gianfranco Gadeschi ha pubblicato, sul sito di Perticone, una ricerca riguardante i santorestesi che, dal 1892 al 1924, hanno lasciato la loro patria per recarsi negli USA. Le poche notizie su questi nostri concittadini sono state riprese dall’American Family Immigration History Center, a cui risulta che ben 48 santorestesi sono sbar-cati, in quel periodo, ad Ellis Island, il porto di New York.

Quanti abbiano preso altre rotte migratorie (Argentina, Brasile …) non è noto. Sappiamo soltanto che chi è andato negli USA ha trovato un ambiente molto ostile, quasi più ostile dell’Italia dei Savoia e dei governanti risorgimentali. I quali hanno pensato solo ad arricchirsi, depauperando l’Italia con politiche sociali antipopolari e sconsiderate, provocando una povertà mai vista ed un flusso migratorio di dimen-sioni bibliche: dal 1870 (anno della conquista di Roma) fino al 1920 più di 25 mi-lioni di emigranti sono scappati via dall’Italia. Mai dall’Italia vi era stato un esodo così massiccio. Anzi, prima di allora, i flussi migratori si erano riversati, da altri pa-esi, verso i ricchi stati italiani pre - unitari, che vantavano, prima dell’avvento dei Savoia, redditi medi pro capite superiori a quelli degli altri stati europei.

Gli emigranti santorestesi hanno sicuramente sofferto le stesse angherie subite dagli immigrati italiani, che, negli USA, venivano trattati peggio dei negri, a causa della loro fede cattolica.

Il Rapporto di “Propaganda Fide” del novembre 1887 diceva che “dopo la scomparsa degli Indiani degli Stati Uniti e l’emancipazione dei neri, sono gli emi-grati italiani quelli che, in gran numero, rappresentano i paria della grande repub-blica americana”. Gli americani, quando si riferivano agli italiani, usavano il termi-ne “Guinea pigs” (porci della Guinea, cioè della peggiore specie).

Il quotidiano Progresso Italo Americano, nel 1889, scriveva: “La colonia italia-na si trova in uno stato deplorevole, sfruttata economicamente e moralmente da al-tri italiani e dai protestanti. Gli italiani sono odiati, trattati come animali, persegui-tati peggio dei negri”.

Allo sfruttamento degli italiani collaborarono altri connazionali, aderenti ai Fi-lantropici Italiani, associazioni di stampo massonico, che svolgevano una sorta di caporalato: offrivano, per salari da fame, uomini e donne italiani ai padroni ameri-cani, che li utilizzavano nei lavori più pesanti dei campi, dei porti e delle grandi fabbriche.

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Naturalmente i governanti italiani di allora, espressione della borghesia, trascu-ravano i nostri immigrati, occupati dalle conquiste coloniali in Africa e dalle repres-sioni antioperaie di fine secolo.

L’unico aiuto a questa povera gente venne dalla Chiesa, in particolare da Santa Francesca Cabrini: appositamente inviata da Papa Leone XIII, ella cominciò ad aiu-tare le famiglie dei nostri emigranti, che vivevano nei bassifondi delle grandi città in condizioni di povertà estrema, e ad istruire i loro figli, che non conoscevano né l’inglese, né l’italiano, ma solo il loro dialetto.

Non pochi furono i casi di linciaggio degli italiani perché ignoranti e cattolici. Il più tragico episodio avvenne nel 1891 a New Orleans, ove 11 italiani dichiarati in-nocenti in un processo, furono linciati da una folla inferocita, incitata dai clan prote-stanti e razzisti del Klu Klux Klan, che urlavano “kill the Italians” (uccidete gli Ita-liani).

Dopo soli 4 mesi da quell’episodio, Madre Cabrini, attorno a cui si erano raduna-ti tutti gli italiani poveri, fece un miracolo inaspettato: risvegliò l’orgoglio nazionale ed organizzò una grande processione per le vie di New Orleans, con migliaia di ita-liani che portavano una grande statua del Sacro Cuore. La gente di New Orleans, di fronte alla compostezza degli italiani ed alla bellezza dei loro canti (erano inni sacri e motivi della tradizione popolare italiana), mutò atteggiamento e si sciolse in un grande e prolungato applauso, che segnò l’inizio del processo di integrazione degli italiani negli USA.

La proposta di Madre Cabrini, grazie ad una capillare azione educativa e sociale svolta attraverso scuole ed ospedali (i famosi Columbus) sparsi in tutta l’America, servì a frenare la tendenza di far vergognare i nostri immigrati di essere italiani e di essere costretti, per integrarsi, a rinnegare la loro origine. Come fece Fiorello La Guardia (sindaco di New Jork), che, per non essere discriminato ed emarginato dal-la vita pubblica, dovette farsi protestante e rinunciare alla cittadinanza italiana.

Oggi gli USA sono un paese ricco, ma non possiamo dimenticare che quel diffu-so benessere è stato possibile anche grazie a tanti italiani e, tra questi, a quel pugno di santorestesi, che, con l’aiuto di Santa Francesca Cabrini, si sono guadagnati il pane quotidiano con la dignità e la caparbietà propria di chi proviene dal Soratte, da una comunità cattolica, e che non hanno mai dimenticato quel monte con sette pun-te, quei sassi, quei boschi, quelle valli sempre verdi e piene di greggi e di mandrie, quei campi di grano da mietere e quelle vigne da vendemmiare, quegli ulivi, quelle fonti, quelle feste della Madonna di Maggio e di San Nonnoso, quel popolo, quei genitori e quegli amici, che hanno atteso invano il loro ritorno.

SAN NICOLA : TRA HALLOWEEN E SOLSTIZI C’era una volta l’ottavario dei morti … C’era una volta la novena di Natale…

No, ci sono ancora! Ma sono pratiche religiose di altri tempi, nel senso che, in altri tempi, questi gesti erano vissuti da tutto il popolo; oggi solo da poche persone.

In altri tempi i primi giorni di novembre erano dedicati alla commemorazione dei defunti ed erano un’occasione per riflettere sulla morte, che è un evento certo per tutti: certus an, sed incertus quando.

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Ricordo che, in altri tempi, le messe dell’ottavario dei morti erano piene zeppe: anche i più tiepidi, i più lontani dalla fede, in questo periodo dell’anno, partecipava-no almeno ad un gesto in suffragio dei loro cari scomparsi. Così ho imparato che, per essere sempre pronti ad accogliere la morte, bisogna vivere in grazia di Dio. Ed il segreto della mia serenità sta proprio nel fatto che io continuo a seguire questi in-segnamenti: mi confesso ogni 10/15 giorni per essere preparato (cioè in grazia di Dio) quando arriverà (San Francesco direbbe) “Sorella morte”.

Oggi, invece, la cultura dominante cerca di esorcizzare la morte, così che molti vi giungono impreparati, rischiando le pene eterne dell’inferno. Tra la gente si fa strada un nuovo paganesimo, che propone visioni della vita superficiali e svuota le feste religiose del loro significato originale.

Se è vero che la commemorazione dei morti c’è ancora e che le tombe sono pie-ne di fiori, tuttavia le feste di halloween sono più popolari dell’ottavario dei morti, soprattutto fra i giovani. Alla riflessione sulla vita si è sostituita una sorta di carne-vale americano, fatto di battute infantili, di maschere con scheletri, di streghe e di vampiri: che allegria! Un modo spensierato per evadere dalla realtà (spesso accom-pagnato da alcool, sesso e droga) ha sostituito l’idea di festa come memoria gioiosa di un fatto significativo per la nostra vita.

Un’altra vittima illustre di questa perdita di significato è il Natale. La prima ba-nalizzazione del Natale è rappresentata dalla maschera di Babbo Natale.

Almeno gli americani conservano il nome originale di questo personaggio, Santa Klaus, e sono costretti a ricordarne l’origine religiosa. Santa Klaus è il nostro San Nicola, vescovo di Mira (in Licia, regione dell’attuale Turchia) e patrono di Bari, che è festeggiato il 6 dicembre: i Santorestesi, in altri tempi, gli hanno dedicato una chiesa a Portaladentro.

Se non altro gli americani sanno che Santa Klaus è il protettore dei bambini e delle ragazze indigenti; invece, in Italia, pochi sanno che Babbo Natale, alias San Nicola, procurava la dote matrimoniale alle ragazze povere e che ai bambini biso-gnosi procacciava il cibo e persino i giocattoli.

Una moda dell’alta società (che si va diffondendo anche tra il popolo) ha ridotto il Natale a festa dell’equinozio invernale, con tanto di maghi che confezionano gli oroscopi e che, a pagamento, promettono fortuna e felicità: i gesti proposti dai ne-gromanti si sovrappongono (e si sostituiscono) a quelli religiosi. Non provate a dire che è superstizione: i sortilegi e gli scongiuri sono … cultura!

Anche le iniziative sociali, ormai, sono dominate dal nuovo paganesimo: chi par-la più, nella scuola, del Natale come la festa del Dio fatto uomo, diventato uno di noi? Nel migliore dei casi il Natale è presentato come uno dei tanti miti, frutto della fantasia umana, da raccontare ai bambini per carpire loro il proposito di essere un po’ più buoni, cioè un po’ meno fastidiosi.

Così, pian piano, il cristianesimo lascia il posto alla nuova (anzi vecchissima) mentalità pagana, in nome del progresso e della cultura. Quando penso a questo processo di scristianizzazione, mi viene in mente la domanda di Dostoevskij (I fra-telli Karamazov): “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, crede-re veramente, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?”.

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Capitolo quarto

ATTUALITA’

SOMMARIO: Soprannomi e razze Pag. 40 Il gemellaggio con Freising Pag. 41 Tatal Nostru dei Rumeni Pag. 42 Evoluzione ed evoluzionismo Pag. 43

SOPRANNOMI E RAZZE Nella tradizione popolare di Sant’Oreste era frequentissimo (oggi un po’ meno)

l’uso di soprannomi che si sovrapponevano al nome di battesimo e al cognome ana-grafico di molti personaggi. I soprannomi sono espressioni affettuose, che sottoline-ano i tratti caratteristici delle persone, le quali, normalmente, li accettano come i-dentificativi della loro stessa personalità. Quasi tutti i miei amici d’infanzia avevano un soprannome: Piero De Iulis è stato ribattezzato come l’Asinaru, Paolo Acqua è Zimpepè, Umberto Miscia è, come suo padre, Pancottu, Massimo Menichelli è Cuccanera, Marco Placidi è Bau, Giuseppe Biancini è Trippetta (con una versione inglese Troples), Emilio Brunelli è Billone (con una versione inglese Billy Billon), Fausto Celiboni è Bonzi, Claudio Salvucci è Begonia, Danieli Mario è Semenza …

Soprannomi fantasiosi erano affibbiati anche a quelli che suonavano nella banda o nelle orchestrine o che cantavano nei cori: tutti sanno chi è Lososo, Gajoffo, La-naru, Creminu, Cacchetta, Potolina, Puzzetta, Peticone, Comparone, Scatulone, Nicotina, Mazzone, Ciolu …; ed è facile che, di queste persone, molti non conosca-no il vero nome e cognome. Peraltro, diversi sindaci di Sant’Oreste sono (ed erano) noti più per il soprannome che per il nome: Felice Abballe era meglio conosciuto come Pinnellu; Ennio Acqua è a tutti noto come Berva; Gianni Lazzari da sempre lo chiamano Cipolla; e l’attuale primo cittadino Sergio Menichelli, per farsi meglio identificare, nella scheda elettorale delle ultime elezioni amministrative ha dovuto precisare il suo soprannome, Titti. Anche nel campo sportivo alcuni atleti erano più noti con i soprannomi, che con i nomi. Ne cito solo alcuni: Straccetta, Catone, Ci-cio, Pugnetta, a Pipa, Ciuccone, Cerinu, Caletta, Pezzaccia, Tartore, Stracca, Chi-notto, Andalù …

Più raro è il fenomeno dei soprannomi dati alle donne, tipo Scioccaghjona, Balu-cana, a Svuga. Più spesso il nome viene conservato con l’aggiunta di un aggettivo che caratterizza la signora: Agusta a Fornaia, Maria a Gelatara …

Certi soprannomi, poi, hanno avuto tanto successo, che hanno identificato le fa-miglie stesse. Ad esempio la mia famiglia appartiene a quelli dea razza dei Bronzi, e mio padre ha sposato una donna (Agnese) dea razza dei Pecuraroni. Ma, se vado indietro di una generazione, scopro che mio nonno paterno (Oreste i Bronzu) aveva sposato una donna (Maria) dea razza i Zozi (famiglia che, nell’identificazione popo-

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lare, eccezionalmente, ha conservato il suo vero cognome), e che mio nonno mater-no (Baffone u Pecurarone) ha sposato una donna (Giulietta) dea razza i Arpag-ghjiara. Mentre mia sorella Mariangela ha sposato Amedeo, un Paolucci apparte-nente a quessi dea razza dei Trappulini. Se, poi, andassi ancora più indietro, proba-bilmente, sarei costretto a nominare tutte le razze che, ancor oggi, identificano mol-te famiglie di Sant’Oreste e che si sono imparentate tra loro grazie ai matrimoni.

Inoltre, certi soprannomi relativamente più recenti hanno identificato nuove raz-ze: quelli dea razza i Picculone, i Beccapesce, i Cannolicchjiu, i Pelatu, i Fischjio-ne, dei Cornari …

Non continuo la carrellata dei soprannomi e delle razze, altrimenti il direttore di Soratte Nostro, che appartiene a quessi dea razza i Miciu Briccone, potrebbe rim-proverami che scrivo troppo e che sottraggo spazio prezioso ad altri collaboratori più bravi di me ed a tematiche più interessanti di quelle io propongo.

IL GEMELLAGGIO CON FREISING “Mia madre mi parlava sempre di Sant’Oreste e della sua meravigliosa banda”.

Con sorpresa ho sentito dire questa frase da una scienziata che incontrai, qualche anno fa, in un istituto di ricerca agroalimentare, da me visitato per motivi di lavoro. La studiosa mi disse che sua madre, originaria di Freising e sposata con un italiano di Roma, aveva sentito suonare la banda di Sant’Oreste nella sua città d’origine, circa quaranta anni fa, prima ancora di trasferirsi a Roma. Ella raccontava che quel-la banda italiana, a Freising, ebbe un tale successo, che dopo qualche anno fu nuo-vamente invitata. E ricordava la bravura della banda nel suo complesso e nei vari solisti, i quali, spesso, dopo aver concluso il concerto, continuavano a suonare, con gruppetti di sei o sette persone, fino a tarda notte, in allegria, in mezzo alla gente che li applaudiva.

Per la ricercatrice è stata una sorpresa sapere che anch’io, allora appena quindi-cenne, facevo parte della banda Innocenzo Ricci e che i racconti di sua madre trova-vano una conferma da parte di un testimone di quegli eventi. In effetti ebbi la fortu-na di partecipare a quell’entusiasmante impresa a Freising e ricordo, come se fosse oggi, i tedeschi entusiasti dei nostri concerti. Suonammo nei luoghi più svariati: nel-la cattedrale che ospita le spoglie di San Nonnoso, nei locali, ove la gente beveva la birra in giganteschi boccali e ci urlava, in dialetto bavarese, “Eins, zwei, drei, g’suffa!”. Facemmo concerti nelle piazze e lungo le strade, tra un pubblico entusia-sta che accoglieva la banda di ferro: indimenticabile, per me, fu quella passeggiata trionfale per le vie di Freising, tra due ali di migliaia di persone. Spiegai alla studio-sa che quei gruppetti che continuavano a suonare, anche dopo l’esibizione, erano i concertini proposti dai nostri migliori solisti. Credo che, in quegli anni, la banda In-nocenzo Ricci raggiunse livelli di maturità artistica elevatissimi: la sua stima infatti derivava esclusivamente dalla sua bravura.

L’ospitalità dei tedeschi nei nostri confronti fu calorosa perché noi provenivamo dal monte Soratte, dal monte ove era vissuto il loro ed il nostro patrono san Nonno-so. Ma la cordialità dei santorestesi non fu inferiore quando la visita fu ricambiata (due volte) dalla banda di Freising, che fece l’ultimo memorabile concerto a

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Sant’Oreste nel 1979, in occasione dei cento anni dalla fondazione della Banda In-nocenzo Ricci. Per la circostanza io stesso curai la registrazione, quasi professiona-le, di un concerto bellissimo, del quale, per chi fosse interessato ad averla, Fausto Cenci e Stefano Malatesta conservano l’incisione originaria.

Questi scambi culturali erano nati per iniziativa della banda Innocenzo Ricci di Sant’Oreste e della Banda di Freising, che avevano voluto un gemellaggio in forza di una storia che lega le nostre cittadine da più di dieci secoli, da quando, cioè, il corpo di San Nonnoso, nel IX secolo dC, fu portato a Freising, per sottrarlo al peri-colo dell’oltraggio da parte dei Longobardi, che infestavano la campagna romana. Anche se il gemellaggio fu realizzato da due istituzioni non pubbliche (le due ban-de), riscosse un forte consenso da parte dei cittadini santorestesi e bavaresi.

Quando la banda di Freising venne per la prima volta a Sant’Oreste vi fu una ga-ra per preparare al meglio l’accoglienza, con il calore tipico della nostra gente. Quando gli amici tedeschi suonavano, le piazze erano stracolme ed i santorestesi dimostrarono un grande apprezzamento verso i musicisti di Freising, spesso costret-ti a fare il bis.

La popolarità che, per 13 anni, ebbe quel gemellaggio (attivo dal 1967 al 1979), fu determinata dal consenso generalizzato e convinto delle due cittadinanze, che, pure nella diversità, si riconoscevano legate ad una storia comune. E tutte le spese ed i costi del gemellaggio furono sostenuti dalla banda e dai vari contributi dei san-torestesi, i quali, per accogliere gli amici di Freising, hanno offerto cibo, vino, al-loggi e soldi.

TATAL NOSTRU DEI RUMENI Quando i Rumeni si rivolgono a Dio, pregano così: “Tatal nostru (Padre nostro),

carele esti in ceruri (che sei nei cieli) sfinteasca se (sia santificato) numele tau (il tuo nome) …”. Solo l’inizio di questa preghiera ci dice quanto la lingua rumena, di origine latina, sia vicina a quella italiana: “ceruri” è simile al nostro “cieli” e “nu-mele tau” assomiglia a “il tuo nome”.

Quello che più meraviglia, però, è che la prima espressione, Tatal nostru, è iden-tica a quella che usavano i santorestesi di 50 anni fa. Quando mio nonno raccontava di suo padre diceva: “Tata ha dittu … Tata ha fattu …”. Chissà perché i Santorestesi (e solo i Santorestesi), per indicare l’espressione Padre, usavano il termine Tata? Come i Rumeni usano Tatal.

Parlando con alcuni Rumeni, che vivono a Sant’Oreste, ho scoperto che non ab-biamo solo il ceppo linguistico in comune: essi sono gli antichi Daci e sono stati chiamati Rumeni per sottolineare quanto fossero grandi amici dei Romani, a diffe-renza di tanti altri popoli appartenenti all’antico impero romano. In comune abbia-mo anche la tradizione religiosa cristiana. Se, tra noi Cattolici e gli Ortodossi (Ru-meni compresi), si è consumato, intorno all’anno mille, uno scisma, tuttavia esso ha riguardato solo il primato del Papa: per gli Ortodossi il Papa è uno dei tanti Patriar-chi, per noi cattolici è Primus inter pares. Gli Ortodossi, a differenza dei Protestan-ti, hanno conservato, intatta, la stessa dottrina professata dalla Chiesa Cattolica. Per

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questo non mi sono meravigliato quando, durante una processione di San Nonnoso, ho visto accanto a me due Rumeni che vivono a Sant’Oreste.

Quest’estate, inoltre, mi ha fatto molto impressione un giovane Rumeno, a cui ho dato un passaggio in macchina al bivio della stazione: mi parlava della sua devozio-ne alla Madonna come ne parlavano i nostri padri, con la semplicità di chi esprime una cultura fatta di gesti, di valori sperimentati nella vita, non di libri inutili. Questa povera gente conferma che la cultura cristiana è fatta di terra, di carne e di Spirito, non di ideologie e di filosofie astratte, che annebbiano il cervello degli intellettuali.

Un’altra cosa che abbiamo in comune con i Rumeni è l’emigrazione. Mi colpisce sempre vedere, al sabato pomeriggio di ogni settimana, il pulmino, in partenza da Portavalle per la Romania, carico dei pacchi, che i Rumeni santorestesi inviano ai parenti rimasti nelle loro città di origine. Anche molti santorestesi, agli inizi del se-colo, sono stati costretti ad emigrare per l’America. L’emigrazione è un destino co-mune di chi vive sotto regimi antipopolari: nell’Italia dei primi del ‘900 governava-no i Liberal massoni, in Romania, per oltre 40 anni, hanno governato i Comunisti.

Avrete sicuramente capito che guardo con simpatia i Rumeni, in particolare quel-li che vivono a Sant’Oreste, perché, come i nostri immigrati del secolo scorso, è gente laboriosa ed intelligente. E’ vero, tra i Rumeni, vi sono anche dei delinquenti, ma anche tra gli emigranti italiani in America vi erano i mafiosi. E’ vero anche che molti Rumeni si ubriacano e, mentre i Carabinieri stanno a guardare, vivono di e-spedienti illeciti (rubano … anche il rame e persino le tegole del nostro cimitero!); ma è anche vero che un fatto di cronaca nera fa più notizia del silenzioso ed onesto lavoro di tanti uomini e donne.

Dei Rumeni, poi, mi piace che fanno i figli: le loro donne sono spesso incinte. Invece a Sant’Oreste, come in Italia, la popolazione invecchia e, pian piano, la-

scia il posto … a chi fa i figli, ai veri proletari. Non mi dispiace pensare che anche il futuro di Sant’Oreste sia legato alla comunità dei Rumeni, che, ormai, occupa la metà dell’antico centro storico. Bisogna anche riconoscere che, con il tempo, il pro-cesso di integrazione dei Rumeni con i Santorestesi è avanzato e migliorato: rispetto a 10 anni fa mi sembra che la fiducia nei loro confronti sia aumentata.

EVOLUZIONE ED EVOLUZIONISMO Tra amici e nei bar di Sant’Oreste sento, spesso, parlare di uomini provenienti

dalla scimmia e di una Chiesa arretrata, attestata a difendere le favole raccontate dalla Bibbia. Ed il dibattito si riduce a due posizioni: quella evoluzionista, che ha tantissimi tifosi, e quella creazionista, che ne ha pochissimi.

La maggior parte della gente, su questo punto, ignora la dottrina cattolica. Infatti ho constatato che non si conosce l’insegnamento di Sant'Agostino sull'evoluzione del mondo. Questi sostiene che Dio crea continuamente, istante per istante, in un di-segno creativo che è ancora in corso di realizzazione. Questa dottrina ci da una spiegazione ragionevole della comparsa, nel corso dei secoli, di nuove specie di a-nimali e di piante. Essa è stata confermata anche dal nuovo catechismo della Chiesa cattolica, che, nel paragrafo 296, testualmente recita: "... Dio crea liberamente dal nulla… la potenza di Dio si manifesta precisamente in questo, che Egli parte dal

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nulla per fare tutto ciò che vuole …". Il catechismo non dice “Dio ha creato, una volta per tutte, dal nulla”, ma usa il presente continuativo “crea”, così come fa Ge-sù, quando, nel vangelo, afferma che il Padre è l’eterno lavoratore e che non smette mai di creare. Questo magistero è stato recentemente riaffermato da Papa Ratzinger, che agli scienziati dell’Accademia Pontificia ha ricordato: “Dio stesso è il Creatore del mondo e la creazione non è ancora finita … Dio crea continuamente”.

Differente è la teoria creazionista proposta dai protestanti (e dai mussulmani), i quali sostengono che Dio, all'inizio, ha creato, una volta per tutte, le varie specie di esseri viventi. Con ciò essi negano l'evoluzione delle specie (atteggiamento tipico del fondamentalismo religioso), ma non sanno spiegare la comparsa sulla terra di nuove specie di animali o di piante. L’irragionevolezza di queste posizioni è tran-quillamente accolta dai protestanti (e dai mussulmani), che giustificano il conflitto tra fede e ragione: secondo Lutero (e Maometto) le verità della fede possono essere diverse da quelle della ragione.

Neanche la teoria evoluzionista, nella versione darwiniana, soddisfa la nostra e-sigenza di razionalità. Darwin sostiene che il mondo è venuto fuori per caso, e che continua a svilupparsi per caso. Invece, secondo l’insegnamento di Galileo Galilei, la natura dimostra di essere governata da una intelligenza superiore alla nostra: le stagioni, le piogge e la siccità sono ordinate con una precisione e regolarità tali, che, all’intelligenza umana, ripugna pensare che siano governate dal caso.

Peraltro la teoria darwiniana concerne il campo della filosofia, non quello della scienza: essa infatti non è stata mai dimostrata attraverso il metodo della sperimen-tazione di tipo galileiano. E proprio la filosofia dell'evoluzionismo darwiniano, con il principio della selezione delle specie, si è prestata a giustificare teorie socialmente e politicamente pericolose, quali il razzismo. I nazionalsocialisti (sostenitori dell’evoluzionismo darwiniano), infatti, pensavano che la razza ariana rappresentas-se uno di quei salti fatti dalla natura: secondo i nazisti, come la scimmia si è evoluta in uomo, allo stesso modo l’umanità ha conosciuto la sua evoluzione nella razza a-riana. Ed Hitler partiva dalla constatazione "scientifica" (sono sue parole) che gli indo europei, per l’evoluzione sociale raggiunta dalle loro civiltà, fossero superiori ai negri ed agli ebrei. Egli pose la svastica al centro della bandiera rossa nazionalso-cialista perché è un simbolo proveniente dall’India, ove, ancor oggi, gli uomini sono socialmente inquadrati in caste, a seconda del loro grado di evoluzione raggiunto.

Credo che la dottrina cattolica formulata da Sant’Agostino (e sempre riaffermata dal magistero della Chiesa) sia, ancor oggi, la più ragionevole: essa spiega la realtà tenendo conto di tutti i fattori in gioco. Essa, inoltre, si presenta più convincente della teoria di Darwin (spesso utilizzata per deridere la fede cristiana) e del creazio-nismo protestante (e islamico), che, con la sua base di fideismo acritico, censura le esigenze dell’uomo ragionevole, che vuole capire.

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Capitolo Quinto

I MIEI VIAGGI

SOMMARIO : Tra Pollastri e Garibaldi Pag. 45 Il Giappone Pag. 46 In Cina: Mao e Malatesta Pag. 47 Razzismo simpatico Pag. 48 Il Soratte all’estero Pag. 49 Tra Koala e coalizzati Pag. 50 U focu, u lume, a campana Pag. 51

TRA POLLASTRI E GARIBALDI Tempo fa’ Franco Zozi mi ha chiesto di raccontare alcuni episodi dei miei viaggi

per il mondo. Come si fa a dire di no al grande Direttore di Soratte Nostro? Questa volta vi parlo di tre fatti capitatimi in Brasile ed in Giappone.

1) A San Paolo del Brasile, durante un evento conviviale, mi presentarono il dott. Pollastri, attuale Presidente della Camera di Commercio Italo Brasiliana, ente che il giorno dopo avrei dovuto ispezionare. Nel corso della cena mi hanno fatto conoscere anche alcuni rappresentanti delle associazioni di italiani paulisti. Tra que-sti il Presidente degli immigrati di origine laziale, il dott. Pollastrini. Al quale mi venne spontaneo di rivolgere questa domanda: “Lei è il figlio del Presidente della Camera di Commercio di San Paolo?”. E lui, ridendo per la confusione fatta, mi ri-spose: “No lui è Pollastri, io sono Pollastrini!”. “ Però – rispondo - sempre della stessa famiglia di volatili siete”.

2) A Tokyo arrivammo in pulmino nell’albergo, che ha un ingresso con una de-cina di scale, sulle quali vi erano due facchini giapponesi, intenti a caricare i bagagli di alcuni ospiti in partenza. Vedendoli occupati, i miei colleghi ed io abbiamo ini-ziato a scaricare i nostri bagagli dal pulmino, ignari di procurare offesa, nel fare ciò, ai facchini giapponesi. I quali, sentitisi spodestati nelle loro mansioni, dall’alto delle scale urlarono alcune frasi incomprensibili a noi italiani. Una di queste espressioni, però, mi parve familiare perché, anche se pronunciata da una di quelle velocissime macchinette parlanti che sono i giapponesi, sembrava detta in santorestese: “Da ccassù mo vengo jo”. Quando i due facchini arrivarono da noi, presi da parte il giapponesino che ha urlato “Da ccassù mo vengo jo”, e gli precisai: “Cumo pronun-cia vai troppu svertu pe parlà be’ u santorestese. E po’ nun si dice jo, ma ghjo, bel-lu ncargatu”. Il facchino giapponese mi ha guardato e, sorridendo, mi ha fatto un profondo inchino.

Avrà capito? 3) A Curitiba (capitale dello stato brasiliano di Paranà), dopo un incontro con i

rappresentanti delle associazioni degli italiani all’estero, nel corso di un buffet, mi accostò un parlamentare (di origine italiana) del vicino stato di Santa Catarina e,

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credendomi un pezzo grosso ed influente dell’amministrazione italiana, mi propose: “Lei dovrebbe fare una cortesia agli italiani dello stato di Santa Catarina. Dovreb-be dire al Presidente Ciampi ed al Premier Berlusconi che il nostro stato è interes-sato ad avere almeno una parte delle spoglie di Anita Garibaldi, originaria di Flo-rianopolis (capitale di Santa Catarina). Sopra le sue spoglie intendiamo edificare un grande monumento per onorare Anita e Giuseppe Garibaldi (che qui ha cono-sciuto la sua sposa ed ha vissuto per dieci anni), oltre che per esprimere gratitudine alla nostra patria”.

Io gli spiegai che non ho rapporti né istituzionali, né personali con i nostri Presi-denti della Repubblica e del Consiglio. Tuttavia il deputato continuò ad insistere sulla necessità che io attivassi tutti i miei canali e conoscenze al fine di riferire que-sta richiesta a tali personalità, facendomi intendere che ne avrei tratto anche qualche vantaggio personale. Di fronte a tanta insistenza, dopo avergli ripetuto, due o tre volte, che non conoscevo personalmente né Ciampi, né Berlusconi, mi balenò l’idea liberatoria e gli dissi: “Se diventerò Presidente della Repubblica le prometto che concederò allo stato di Santa Catarina, non una parte, ma l’intero corpo di Anita Garibaldi ed anche le spoglie dell’eroe dei due mondi. Siete disposti voi a fare un monumento per entrambi?”. “ Altro che! - mi rispose – Anzi le prometto che lei, a cui auguro di essere il successore di Ciampi, su quel monumento avrà una partico-lare menzione”.

Se, un giorno, diventerò Presidente della Repubblica manterrò la promessa! IL GIAPPONE Una delle gaff più clamorose che ho fatto, mi è capitata in Giappone, una sera

durante una cena a Tokio. Ad un certo punto mi hanno chiesto: “Che cosa pensi dei giapponesi?” ed io ho risposto “Mi sembra un popolo di carabinieri”. Improvvisa-mente ho sentito una gomitata del signore che sedeva alla mia sinistra, che mi ha sussurrato all’orecchio: “Attento a quel che dici. L’uomo che sta alla tua destra è un colonnello dei carabinieri in borghese”. Il mio paragone era riferito al sistema ordi-natissimo di vita dei giapponesi ed alla loro precisione ai limiti dell’immaginabile.

In considerazione di questa precisione, con i giapponesi bisogna stare attenti a quel che si dice altrimenti si rischia di essere fraintesi. Il primo giorno che sono en-trato nell’Ambasciata d’Italia a Tokio, una impiegata giapponese, in servizio presso quell’ufficio diplomatico, mi ha fornito, insieme al materiale di cancelleria, anche alcune cartellette porta documenti. Il giorno dopo alla stessa impiegata ho chiesto: “Posso avere altre cartellette come queste?” e glie le ho mostrate. Questa si è scu-sata dicendomi che erano finite. “Ma io vedo”, osservai, “che sulla sua scrivania vi sono decine di queste cartellette. Come fa a dire che sono finite?”. E lei “Ma quelle che vede sulla mia scrivania sono azzurre, mentre quelle che lei mi ha mostrato so-no verdi”.

L’altra cosa che assomiglia i giapponesi ai carabinieri è il senso dell’autorità: gli ordini non si discutono. Ad un impiegato giapponese dell’Istituto Italiano di Cultura ho chiesto: “E’ vero che voi credete che l’Imperatore sia Dio?”. “ Non ci crediamo

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più” mi ha risposto ed ha aggiunto: “nel 1946 l’Imperatore ci ha detto di non essere un Dio, ma un uomo come noi; e ci ha ordinato di non adorarlo più”.

I giapponesi però superano, nella cortesia, anche i carabinieri: essi non dicono mai “no”. Me ne sono accorto quel giorno che avevo acceso il sigaro nei locali di un ufficio: l’impiegata che stava davanti a me mostrava un tale evidente disagio, che le ho chiesto: “Posso fumare?”. Ella per non manifestarmi il suo no, mi ha detto “Il portacenere è in una stanza al secondo piano”. Allora le ho chiesto: “E se portiamo su il portacenere dal secondo piano, posso fumare?”. E lei “Si può fumare al se-condo piano”. Così ho spento il sigaro.

In Giappone ci sono degli aspetti di efficienza per noi assolutamente inconcepi-bili. Quando abbiamo preso il treno per andare da Kyoto a Tokio, non volevamo credere che i 500 Km di distanza sarebbero stati percorsi in 2 ore e 17 minuti, così come era previsto. Per questo ci siamo messi a controllare.

Il risultato è stato che, quando la sfera dell’orologio della stazione di Kyoto indi-cava le ore 17, il treno si è mosso; e quando, nella stazione di Tokio, la sfera dell’orologio segnava le ore 19,17 il treno si è fermato.

Per non parlare delle 35 linee di metropolitana di Tokio, ove gli orari dei treni sono stabiliti in ore, minuti e secondi. Inoltre vi sono dei cartelloni che segnalano persino quale vagone del treno conviene prendere per uscire e trovarsi davanti alla scala mobile della stazione di destinazione. Efficienti quasi come la Roma Nord!

I Giappone sono così tanti (130 milioni in un territorio grande come l’Italia) che risparmiano anche sugli spazi, a tal punto che la tazza del bagno è usata anche come bidè. Me ne sono accorto quando mi ci sono seduto: con le mani ho azionato invo-lontariamente un pulsantino, che ha attivato uno spruzzo d’acqua bollente ...

Per quanto riguarda il cibo meglio non parlarne. Basti sapere che una sera mi hanno fatto mangiare la medusa cruda, con certe salse …

IN CINA : MAO E MALATESTA Per fare apprezzare la nostra storia ai Cinesi (che studiano la loro, a partire dalle

dinastie dei mandarini e delle famiglie imperiali), l’Istituto Italiano di Cultura di Shanghai organizza periodicamente degli eventi culturali, che mettono a tema le più importanti famiglie del medio evo e del rinascimento italiano. La sera del 20 no-vembre è stata dedicata alla corte dei Malatesta di Rimini.

L’evento, presentato da un paphlet in inglese, che illustrava la storia di questi si-gnori, è stato introdotto dal Direttore dell’istituto; è seguito un concerto con musi-che da camera suonate dal quartetto del conservatorio di Shanghai, ed … una sor-presa finale. La sorpresa, annunciata dal direttore stesso, è stata … la presenza, tra i circa 150 convenuti, di un discendente della nobile famiglia dei Malatesta; il quale avrebbe letto le celebri rime dedicate alla storia di Paolo e Francesca Malatesta, trat-te dalla Divina commedia di Dante Alighieri.

Quel discendente della nobile famiglia dei Malatesta ero io e, naturalmente, quando il Direttore mi invitò, ero impreparato a leggere quelle terzine dantesche, un vero capolavoro della letteratura mondiale. Accettai perché ero sicuro che, dei cine-

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si presenti, solo pochi avrebbero capito il mio disagio: potevo permettermi anche qualche errore di tono in una lettura così impegnativa.

Finito l’evento ci siamo accomodati a consumare un buffet che richiamava la tradizione culinaria della Romagna, la terra di cui furono signori i Malatesta. Men-tre mangiavamo diversi cinesi sono venuti a chiedermi se, ancora oggi, io abito nel mio castello riminese. A questa domanda ho risposto diplomaticamente che un ra-mo della mia famiglia ha trasferito la residenza a Sant’Oreste, una ridente cittadina vicino Roma. E qualche simpatica cinesina ha anche commentato: “Sant’Oreste, dove fanno quel bellissimo festival della canzone italiana!”. Evidentemente la si-gnora era di religione “confuciana”: infatti ha “confuso” Sant’Oreste con San Re-mo; ma l’ho lasciata nella sua “confucione”, come ho lasciato credere a tutti i pre-senti che io sono un autentico discendente di Paolo e Francesca Malatesta.

Ma l’episodio più curioso è avvenuto alla fine del buffet. Si è avvicinato a me un signore, che si è presentato con un biglietto da visita, dal

quale risultavano molti incarichi istituzionali, tra i quali spiccava anche quello di membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Mi disse che la mia presenza onorava la città di Shanghai ed il suo popolo e che era orgoglioso di fare la mia conoscenza, essendo anche egli appartenente ad una nobile famiglia cinese: era un nipote del grande Mao Tse Dong, come risulta anche dal biglietto da visita, che conservo con religiosa devozione. Con una sincera enfasi mi ha anche detto che, come i Malatesta hanno dato lustro all’Italia, così la famiglia di Mao ha dato tanta gloria alla Cina moderna, la quale, prima tra le potenze mondiali, avanza sulla via del progresso, del benessere e della democrazia.

Gli ho risposto di essere, a mia volta, onorato dall’aver conosciuto un discenden-te del grande condottiero del popolo cinese e l’ho invitato a visitare i miei castelli di Rimini e di … Sant’Oreste.

I discendenti santorestesi della nobile famiglia dei Malatesta (Pierluigi, Matteo, Marta e Lucia) sono pregati di mettere a lucido il castello di Morifunaru: quest’estate avremo illustri ospiti cinesi.

RAZZISMO SIMPATICO Razzismo simpatico è un’espressione che ho sentito pronunciare a Sant’Oreste

da una persona, che considera riprovevole solo il razzismo “leghista” o “nazista”. I due episodi che vi racconterò appartengono alla categoria del razzismo simpa-

tico. 1) Stavamo andando in macchina per una colazione di lavoro a Pretoria (capita-

le del Sud Africa), quando, ad un tratto, ci siamo dovuti fermare perché la strada era totalmente occupata da venditori ambulanti. Allora abbiamo pregato l’autista, un simpatico giovane appartenente alla tribù degli Zulù, di chiedere gentilmente agli occupanti di fare un po’ di spazio per lasciarci passare. L’autista inizialmente è stato affabile, poi si è alterato: usando anche gesti minacciosi, è riuscito, comunque, ad ottenere, dai venditori ambulanti, lo sgombero di una parte della strada e, per noi, la possibilità di transitare. Quando è rientrato in macchina, abbiamo chiesto al giovane di colore che cosa avesse detto e perché, ad un certo punto, ha usato toni così inti-

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midatori. E l’autista ci ha risposto letteralmente in questo modo: “Prima ho chiesto, con cortesia, di lasciarci passare, ma, quando ho capito che non mi ascoltavano, mi sono arrabbiato ed ho detto loro ‘di voi, sporchi negri, abbiamo le p… piene’. Poi ho aggiunto che, se non ci avessero fatto passare, avrei chiamato la polizia per sbatterli tutti in galera. A quel punto hanno liberato la strada”. Confesso che il rac-conto ci ha lasciato di stucco e subito abbiamo evidenziato all’autista: “Ma anche il colore della tua pelle è nero come quello dei venditori ambulanti che hai apostrofa-to come sporchi negri!”. Ed egli, con tono solenne, ci ha risposto: “Tra me e loro c’è un abisso. Io appartengo alla razza degli Zulù, un popolo di origine divina. Quei negri là, invece, sono dei pezzenti che vengono dal Kenia, dall’Uganda, dal Congo … e con cui noi Zulù non abbiamo niente in comune”. L’orgoglioso Zulù non diceva la verità: in comune essi hanno, almeno, la pelle nera e l’Africa …!

2) Mi trovavo in via Sarpi, nella Cina Town di Milano, quando ho visto che, circondato da un capannello di persone, un signore anziano, adirato e con un chiaro accento napoletano, se la prendeva con un Cinesino. Il motivo del contendere era questo: il Cinese andava in bicicletta contro mano, con le sue mercanzie, e l’anziano napoletano continuava a ripetergli “Si tu vuje sta a ccà, haje a rispiettà e regole no-stre”. Ma il Cinese continuava a dire di essere rispettoso delle leggi italiane. Solo che aveva urgenza di consegnare le merci e, per questo, era andato contro mano: andare contro mano in bicicletta, poi, non gli sembrava una violazione così grave.

Di fronte alle insistite giustificazioni del Cinese, il Napoletano è letteralmente uscito fuori dai gangheri ed ha cominciato ad urlare: “Cinese di m …, tuorna a casa tua!”. Ma la risposta del Cinesino, che trasforma la “r” in “l” , è stata pronta e ful-minante: “Tellone! Pelchè non tolni tu a Napoli?”. A quel punto per evitare che il Cinese ed il Napoletano venissero alle mani la gente è intervenuta. Tutti, però, di fronte a questo episodio di razzismo simpatico, eravamo divertiti. Che emozione sentire un Napoletano esigere da un Cinese … il rispetto delle regole. Ed anche il Terrone, che il Cinesino ha affibbiato al Napoletano, trasformandolo in Tellone, ha suscitato nei presenti una generalizzata ilarità.

IL SORATTE ALL ’ESTERO All’ingresso dell’Ambasciata d’Italia a Belgrado vi è una antica carta geografica

dell’Italia centrale (datata 1640), che indica il Monte Soratte ed il paese Santo Re-sto. Me lo ha fatto notare la contabile di quella rappresentanza diplomatica, che co-nosce bene Sant’Oreste: vi capita spesso per rifornirsi della ottima farina di polenta prodotta dal mulino di Umberto De Iulis.

Nell’antichità il Monte Soratte compariva in ogni cartina geografica, era oggetto di attenzione da parte di poeti e pittori. Alcuni esempi: alla Art Gallery di Londra è esposto un dipinto del ‘600 che riproduce il Gianicolo “con lo sfondo del Monte Soratte” (così precisa la targhetta che riporta anche il nome del pittore inglese, che non ricordo); a Courmayeour, nel celebre ristorante della Maison de Filippò vi è esposta una carta del 1500 che riporta i monti più importanti della storia, tra questi viene anche indicato il Monte Soratte.

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Vi racconto queste cose perché mi dispiace vedere che le cartine turistiche in cir-colazione, non riportano più né il Monte Soratte né Sant’Oreste. Ho protestato vi-vamente presso gli uffici dell’ENIT all’estero perché gli itinerari turistici proposti escludono sistematicamente il Monte Soratte. Stessa cosa vale per le cartine geogra-fiche dell’ACI, della De Agostini …

Qualche fondata ragione esiste: mi dicono che sulle sue cartine l’ENIT riporta quelle mete turistiche in cui vi siano alberghi e ristoranti garantiti dall’appartenenza a circuiti qualificati.

E’ un peccato perché, se i tour operators ignorano il nostro isolato monte, gli addetti ai lavori lo conoscono bene e, quando dico la mia origine sorattina, mi reci-tano “Vides ut alta stet nive candidum Soratte …” A tal proposito non posso trala-sciare un recente e significativo episodio.

A Bruxelles, quest’anno (era il giorno della Madonna di maggio), abbiamo avu-to una riunione con i funzionari accreditati presso l’Unione Europea dalle 5 regioni del centro Italia (Lazio, Toscana, Marche, Umbria ed Abruzzo). Nel discorso con-clusivo mi ha commosso l’intervento dell’Ambasciatore, che ha voluto sottolineare quanta ricchezza di storia, di arte, di natura abbiano le regioni del centro Italia. Ed ha evidenziato che non vi sono solo Roma o Firenze o Assisi, e che, nelle nostre ter-re, sono presenti anche altri gioielli quali Montefalco in Umbria o il Monte Soratte, con il suo pittoresco paesello, nel Lazio.

Il Soratte unisce anche le persone che non si erano mai conosciute. A Montevi-deo, qualche anni fa’, il Console di quella città mi presentò un illustre cittadino uru-guaiano ed italiano, il dott. Piero Ortolani. Non lo avevo mai conosciuto, ma la cu-riosità mi ha portato a chiedergli se egli fosse il figlio di Umberto Ortolani. Quando gli ho detto che sono di Sant’Oreste, mi ha fatto festa per tutta la serata, raccontando con nostalgia alcuni episodi della sua infanzia e adolescenza trascorsa, nei periodi estivi, a Sant’Oreste. Mi ripeteva spesso: “mi chiamavano u sindichicchju, per il fatto che mio nonno Amedeo, allora, era sindaco di Sant’Oreste”.

TRA KOALA E KOALIZZATI L’Australia è un paese che favorisce lo humor santorestese: mi veniva da ridere

quando ci facevano visitare, a Camberra, il museo di storia australiana, che, tra i suoi più antichi reperti, espone una motosega del 1966 ed un tagliaerba del 1964, o quando, a Sydney, ci mostravano il primo edificio della storia australiana, costruito dagli inglesi nel 1813.

Del mio viaggio in Australia non posso raccontare tutto quello che vorrei: lo spazio concessomi dal grande direttore di Soratte Nostro mi consiglia di limitarmi a qualche episodio.

A Camberra, una domenica pomeriggio, liberi dalle fatiche del lavoro settima-nale, ci portarono a visitare lo zoo cittadino, che offriva una variegata tipologia di animali, tra i quali il simpaticissimo Koala, un orsetto alto 80 centimetri che dorme 18 ore al giorno e che si nutre esclusivamente di foglie di eucalipto.

Prima della conclusione della visita, i miei colleghi del Ministero degli Esteri cominciarono ad accusare un grande sonno causato del fuso orario, la cui differenza

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con l’Italia è di 10 ore. Io, che pure soffrivo del fuso orario, avrei voluto continuare a vedere la bellezza di tanti pappagalli variopinti, canguri saltellanti, struzzi altissi-mi, koala addormentati ... Invece questi signori assonnati mi costrinsero ad inter-rompere la visita. Mentre tornavamo in albergo, ai sonnacchiosi colleghi ho chiesto: “Ma voi siete sempre così Koalizzati?”. “ Si, mi hanno risposto, noi siamo sempre coalizzati. Non si vede?”.

A Brisbane, dopo giorni di lavoro senza orario, arrivammo al sabato pomeriggio stanchissimi, ed il Console di quella città ci propose una gita sull’isola Merton, all’inizio della barriera corallina australiana, ad un’ora di traghetto. Come ogni sa-bato sera, sull’isola, per attirare i delfini, furono accesi due enormi fari puntati sulle acque dell’oceano Pacifico. Ho subito aderisco alla proposta di farmi una fotografia con i delfini, e mi hanno munito di un pesciolino da dare loro in pasto.

Sono entrato nell’oceano insieme ad altri, candidati a farsi fotografare con i del-fini; ma appena dentro l’acqua ho notato che, a circa 10 metri, emergeva la sinistra pinna di uno squalo. Immediatamente sono scappato fuori dall’acqua, memore delle notizie dei telegiornali australiani di quei giorni (a Perth uno squalo aveva pranzato con la gamba di un turista americano, mentre a Darwin un coccodrillo aveva fatto colazione con un turista giapponese intero): ero spaventato al pensiero di poter di-ventare la cena italiana di uno squalo australiano. Vedendomi di nuovo a riva, il Console, che era sul pontile, mi urlò: “Non si preoccupi, quello è uno squalo tigre, che non attacca l’uomo. Rientri tranquillamente in acqua per fare la foto!”. “ Mi di-spiace, risposi, ma, fin quando c’è quello squalo, anche se fosse uno squalo colom-ba, io in acqua non ci entro”.

Poi mi fui convinto ad entrare in acqua, quando vidi una donna cannone, che, con circa 150 Kg di stazza, avanzava nell’oceano con un pesciolino, anch’ella per farsi fotografare con i delfini. Allora ho pensato: “Mi metto dietro a questa ciccio-na; se lo squalo dovesse attaccare, incomincerebbe ad addentare i suoi carnosissi-mi polpacci ed io farei in tempo a scappare sulla riva”.

Che coraggio!! Che senso di altruismo!!! A Wellinghton (capitale della Nuova Zelanda), alle 8 e mezzo di una domenica

mattina di fine novembre, dimenticando che la differenza di fuso orario con l’Italia è di 12 ore, telefonai a Gregory per sapere il risultato della partita Lazio – Juventus, in programma il sabato sera. Gregory mi rispose che la partita non era ancora inizia-ta, essendo, in Italia, le 8,30 di sabato sera. “Lì dove stai tu che ore sono?” mi chie-se. Ed io “sono le 8,30 di domenica mattina”. Gregory mi replicò: “Se là è domeni-ca mattina dovresti dirmelo tu il risultato di Lazio – Juventus visto che la partita si gioca … il sabato sera!”.

Sarà rimasto così arguto Gregory anche adesso che si è messo a fare politica? U FOCU, U LUME , A CAMPANA Se vi capita di andare in paesi di lingua portoghese e di avere a che fare con per-

sone che non capiscono né l’italiano, né l’inglese, vi conviene parlare in santoreste-se. Non voglio dire che sia la stessa cosa, ma, alla fine, il nostro dialetto, in questi

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paesi, facilita la comprensione. Me ne sono reso conto un mese fa, andando in Mo-zambico, un paese in cui si parla, appunto, il portoghese.

Il primo giorno, con i miei colleghi, per la pausa pranzo siamo andati a mangiare al “Campo dei fiori”, una pizzeria, al centro di Maputo, gestita da italiani. Ognuno ha ordinato la sua pizza: io ho scelto una “capricciosa” ed il cameriere, in portoghe-se, mi ha chiesto se la volevo “cu preciuttu” o senza. La mia meraviglia, nel sentire questa parola tanto famigliare, ha fatto credere al cameriere che non avessi capito la domanda; per questo mi ha spiegato, con un italiano stentato, che “u preciuttu”, in portoghese, significa “il prosciutto”. Avevo capito benissimo! Anzi, da quel mo-mento, ho deciso di parlare in santorestese ogni volta che avessi trattato con chiun-que parlasse portoghese.

Infatti, dopo quel pranzo, abbiamo fatto una passeggiata e volevamo fumare chi un sigaro, chi una sigaretta; ma tutti avevamo dimenticato l’accendino.

Un collega si è rivolto a dei ragazzi del luogo in inglese, chiedendo: “Have you the lighter?”. Ma i nostri interlocutori non capivano. Un altro di noi, facendo chiari gesti per significare che voleva accendere la sigaretta, ha insistito: “Have you some fire?”.

I ragazzi, che non conoscevano l’inglese, continuavano a non capire. Allora mi sono fatto avanti e, anch’io aiutandomi con significativi movimenti di braccia, ho detto in santorestese: “U focu, ce ll’ete u focu?”. E uno dei ragazzi mi ha risposto: “Ah, u fogu!”, come per dire “non potevi dirlo prima?”. Così ha tirato fuori l’accendino e ci ha fatto fumare.

Ne è seguita una breve conversazione ed uno di questi simpatici giovani mi ha precisato, in un portoghese comprensibile, che non è proprio esatto dire “u fogu” quando si chiede di accendere una sigaretta: “u fogu”, per loro, rappresenta una grande fiamma, un falò.

Nel nostro caso il termine appropriato non era “u fogu”, ma … “u lume”! Le sorprese non sono finite lì. Sono quasi tornato alla mia prima infanzia, quan-

do, visitando una scuola, ho visto alcune bambine che giocavano “a campana”. Mi hanno detto che, nelle scuole del Mozambico, piace tanto questo gioco, che favori-sce l’attività fisica e la concentrazione psichica. La campana, quando io ero fanciul-lo, era un gioco molto diffuso a Sant’Oreste; ma ormai esso è stato abbandonato dai nostri bambini, che sono attratti dai video giochi e dal computer.

Non ho approfondito se i bambini del Mozambico giocano, come una volta noi, a “Tre giugiù”, a “Monta la luna”, a “Pitala, potala e scrapito”, a “Coralli”, a “Chjiapparella”, a “Libera”, a “Tana”, a “Ferulate”, a “Lecchi”, a “Pè”, a “Circu-lu”, a “Lippe” … però, vedendoli così contenti mentre gareggiavano a campana, mi sono chiesto: “Sono più evoluti i nostri bambini o quelli del Mozambico?”.


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