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KANT

Date post: 23-Dec-2015
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filosofia
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Kant in OTTANTA PUNTI. Sintesi della filosofia Kantiana per giovani studenti somari e strafottenti. Il movente…………. Si sente dire da più parti che Kant stia tornando di moda! Da ultimo infatti U. Eco titola un suo testo Kant e l’ornitorinco. Sia che si tratti di una moda di rivisitazione, magari dovuta ad un certo vuoto filosofico di idee e di nuovi apparati teorici che rendano comprensibile l’enorme quantità di informazioni che possediamo e che stentiamo a comprendere; oppure ad una presa d’atto della importanza della sintesi kantiana, fatto è che veramente Kant viene riproposto all’attenzione del pubblico adulto e non. Ci pare personalmente che tale rifiorire sia anche correlato al progresso della psicologia sperimentale e delle neuroscienze. Infatti tali ambiti conoscitivi vanno sempre più chiarendo che l’immagine del mondo che noi abbiamo attorno dipende dal modo con cui è strutturato il cervello umano e, quindi, dal modo con cui decodifica i dati sensibili e dai meccanismi che pone in essere per correlarvi e costruirvi sopra delle connessioni elaborative che sono poi gli apprendimenti e la conoscenze. Insomma il mondo che conosciamo e sperimentiamo è una nostra immagine esatta dei fenomeni che acquisiamo perché tutti gli uomini abbiamo gli stessi strumenti per conoscere la realtà. Al di là di questo modo di rappresentarcelo, se potessimo distinguere le molecole o addirittura gli atomi, l’immagine del mondo sarebbe sostanzialmente diversa. Kant non è un filosofo semplice e spesso gli alunni penano non poco per capire fino in fondo il suo modo di procedere nell’analisi filosofica della conoscenza. Spesso si finisce in pieno marasma nel comprendere la differenza tra mondo fenomenico e mondo noumenico, nel capire la novità del criticismo e della filosofia trascendentale. Egli stesso dovette scrivere delle “volgarizzazioni” 1
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Kant in OTTANTA PUNTI.

Sintesi della filosofia Kantiana per giovani studenti somari e strafottenti.

Il movente………….

Si sente dire da più parti che Kant stia tornando di moda! Da ultimo infatti U. Eco titola un suo testo Kant e l’ornitorinco. Sia che si tratti di una moda di rivisitazione, magari dovuta ad un certo vuoto filosofico di idee e di nuovi apparati teorici che rendano comprensibile l’enorme quantità di informazioni che possediamo e che stentiamo a comprendere; oppure ad una presa d’atto della importanza della sintesi kantiana, fatto è che veramente Kant viene riproposto all’attenzione del pubblico adulto e non. Ci pare personalmente che tale rifiorire sia anche correlato al progresso della psicologia sperimentale e delle neuroscienze. Infatti tali ambiti conoscitivi vanno sempre più chiarendo che l’immagine del mondo che noi abbiamo attorno dipende dal modo con cui è strutturato il cervello umano e, quindi, dal modo con cui decodifica i dati sensibili e dai meccanismi che pone in essere per correlarvi e costruirvi sopra delle connessioni elaborative che sono poi gli apprendimenti e la conoscenze. Insomma il mondo che conosciamo e sperimentiamo è una nostra immagine esatta dei fenomeni che acquisiamo perché tutti gli uomini abbiamo gli stessi strumenti per conoscere la realtà. Al di là di questo modo di rappresentarcelo, se potessimo distinguere le molecole o addirittura gli atomi, l’immagine del mondo sarebbe sostanzialmente diversa. Kant non è un filosofo semplice e spesso gli alunni penano non poco per capire fino in fondo il suo modo di procedere nell’analisi filosofica della conoscenza. Spesso si finisce in pieno marasma nel comprendere la differenza tra mondo fenomenico e mondo noumenico, nel capire la novità del criticismo e della filosofia trascendentale. Egli stesso dovette scrivere delle “volgarizzazioni” alle due Critiche, come i Prolegomeni e la Fondazione alla metafisica dei costumi, per rendere più accessibile il contenuto di queste. Segno evidente che le sue opere maggiori, le due Critiche, erano piuttosto ostiche e di non facile comprensione per gli addetti ai lavori filosofici di quel tempo…….. Questo Kant ridotto in ottanta punti è un Kant semplificato per gli alunni: un tentativo di semplificazione al quadrato. E tuttavia tale opera di semplificazione, per non scadere nella banalizzazione, si è cercato di condurla nel modo più scientifico possibile. Che tale processo sia necessariamente riuscito non saprei dire. Ma è forse “una buona volontà” quella che ci permette di tenere aperto un dialogo con gli altri e che, in ultima analisi, ci spinge a pensare che la filosofia abbia una sua validità e forse anche una sua utilità che ci permette di comprendere che il mondo della vita non è una storia semplice e che ciò che pensiamo e facciamo non è necessariamente così importante.

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Lo spazio ed il tempo della sua esistenza……………….

Immanuel Kant nasce in un piccolo borgo della Prussia orientale: Konigsberg. Non è una grande città ma nel secolo precedente, il Seicento, una nutrita schiera di protestanti vi hanno edificato scuole di vario ordine e grado e la cittadina vanta una piccola ma efficiente università. Egli viene al mondo, quarto di nove figli, il 22 aprile del 1724. La sua famiglia era di umili origini: il padre sellaio e la madre casalinga. Quest’ultima era molto religiosa è portava spesso il piccolo Immanuel a spasso nei boschi per mostrargli la potenza e la bellezza della natura nella quale si manifestava la potenza divina. Questa religiosità della madre è forse all’origine del più grande amore di Kant: la metafisica. Se Freud dovesse intervenire probabilmente direbbe che Kant sublimò l’amore incestuoso per la madre amando la spiritualità che la caratterizzava. Tuttavia quelle passeggiate nei boschi generarono il secondo grande amore di Kant: il giardinaggio. Per metafisica egli intendeva quella parte della filosofia che si occupa degli oggetti posti oltre l’esperienza sensibile ed empirica. Tali oggetti sono ad esempio l’anima, il mondo, Dio. Il giardinaggio era l’arte, venuta in gran moda nel Settecento, di addobbare i giardini con diverse specie di fiori e di diverso colore nonché secondo forme geometriche ben specifiche ed aiuole disposte in forma artistica. Così come oggi si arredano con piante e fiori le terrazze degli attici allo stesso modo nel secolo decimo ottavo si studiavano le forme da dare ai giardini, alla disposizione ed al tipo di fiori, all’arredamento e via di seguito. Nel giardinaggio la spontaneità della natura viene modificata ed ordinata dalle forma e dai contenuti che sono dati dal pensiero umano. La casualità naturale e meccanica della natura viene ordinata e dunque finalizzata dalle forme del pensiero umano. Forse proprio per questo a Kant piaceva il giardinaggio! All’età di otto anni, nel 1732, Kant fu iscritto al Collegium Fridericianum fondato nel Seicento da Protestanti appartenenti alla corrente del Pietismo. Nel 1740 si iscrive all’università di Konigsberg nella facoltà di filosofia. Nel suo corso di laurea segue la maggiore parte di insegnamenti possibili: soprattutto si occupa della “filosofia naturale” di Newton e si laurea con una tesi sul problema della misurazione dell’energia cinetica. Dal 1747 al 1754, per procurarsi da vivere, svolge l’attività di precettore privato presso alcune famiglie nobili della sua città. Nel 1755 pubblica la sua prima opera con la quale ottiene il titolo di magister: Storia universale della natura e teoria dei cieli. Ottiene successivamente la libera docenza e l’incarico all’università di Konigsberg. Dal 1755 al 1770 studiò intensamente Leibniz, Wolff, Newton, Hume, Keplero e Rousseau e tutto quanto riguardasse le scoperte di fisica di quel periodo. Finalmente nel 1770 diviene professore ordinario di logica e metafisica nella stessa università e per ben undici anni non pubblica più nulla! Poi stende “quasi al volo” e pubblica nel 1781 La critica della ragion pura. Nel 1783 pubblica “I prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza”. Nel 1785 la Fondazione della metafisica dei costumi e nel 1788, tre anni dopo La fondazione della metafisica dei costumi, usciva la seconda delle opere fondamentali di Kant: La critica della ragion pratica. Da sottolineare che nel 1787 era stata ripubblicata la seconda edizione della Critica della ragion pura, profondamente modificata e riveduta. In effetti i Prolegomeni erano una semplificazione della prima edizione della Critica della ragion pura che era stata accolta freddamente dalla comunità dei filosofi sia per la novità di impostazione dell’opera sia perché scritta in modo talvolta tortuoso e poco chiaro. Tanto che, come già ricordato, nel 1787 Kant ripubblica in una seconda edizione la prima critica con delle

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modificazioni sostanziali e con una lunga introduzione nella quale esplicita il nuovo carattere della sua filosofia come critica e come trascendentale. Nel 1790 veniva alla luce la terza fondamentale opera di Kant , La critica del giudizio, che concludeva in modo perfettamente coerente il sistema kantiano. Il nostro morì a Konigsberg nel 1804 e purtroppo gli ultimi anni della sua vita furono particolarmente dolorosi e tristi perché gli vennero a mancare lentamente tutte le facoltà intellettuali compresa la parola. A Konigsberg sulla sua tomba stanno incise come epigrafi le parole con cui termina la Critica della ragion pratica: “……………il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” .

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GLI OTTANTA PUNTI

“ Il mio principio è che ogni conoscenza delle cose che provenga dal semplice intelletto puro o dalla ragione pura non è che semplice parvenza. La verità è soltanto nell’esperienza”

“ La sorte della metafisica dipende dalla soluzione del seguente problema: in essa è possibile una conoscenza sintetica a priori? “

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Prima di Kant la filosofia europea era giunta ai seguenti risultati generali: con Cartesio si era creata una frattura insanabile tra res cogitans e res extensa, tra realtà pensante e realtà estesa. La realtà pensante coincideva con il soggetto ed era conoscibile sia pure attraverso il dubbio; la realtà estesa rimaneva garantita da Dio ma inconoscibile nella sua realtà essenziale. Nel tentativo di superare questo dualismo si era sviluppata tanto la filosofia inglese nella sua forma dell’Empirismo (Hobbes, Locke, Hume); quanto quella francese nella sua forma del razionalismo ( Spinoza, Leibniz). -PER IL RAZIONALISMO tutte le verità sono dentro di noi: innate e garantite da Dio che le ha poste in noi. -PER L’EMPIRISMO tutte le verità sono da noi conosciute tramite l’esperienza. L’esperienza ci da i rapporti tra le cose, ma non ci dice come sono le cose nella loro essenza perché l’esperienza è soggettiva ed i processi sui quali essa si fonda consistono nel porre rapporti tra le

(2) Per il razionalismo ogni conoscenza è apriori, prima dell’esperienza: il criterio di certezza è in noi. Per l’empirismo ogni conoscenza è aposteriori ed induttiva. Data la radicale e netta contrapposizione di queste due tesi a cui era giunta la filosofia europea prima di Kant bisognava tracciare una terza via nella quale veniva garantito il valore empirico, aposteriori, dell’esperienza sensibile; e, contemporaneamente, che questa esperienza sensibile poggiasse su un elemento apriori. L’elemento apriori aveva significato per sottrarre la conoscenza alla soggettività dell’esperienza individuale

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Occorreva una accurata analisi delle possibilità della ragione per stabilire i limiti delle sue pretese nel determinare conoscenze sicure soprattutto nell’ambito della conoscenza metafisica che è la conoscenza verso cui tende l’insieme concettuale e problematico di tutta la filosofia

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Secondo Kant l’essenza del pensiero, il modo con cui opera ed agisce, E’ FORMULARE GIUDIZI !

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Secondo Kant “Pensare è giudicare”. Orbene, se una scienza vuole essere esatta, deve usare giudizi che abbiano un contenuto datoci dall’esperienza più un contenuto che non provenga dall’esperienza stessa. Se diciamo infatti: “tutto ciò che avviene ha una causa” è chiaro che, riferendoci al “tutto ciò che avviene” ci riferiamo ad un contenuto datoci dall’esperienza. Ma riferendoci all’idea di CAUSA non facciamo riferimento ad un contenuto derivato dall’esperienza perché, come aveva osservato Hume, l’esperienza ci dice solo che un dato fenomeno né precede solitamente un altro; ma nulla più. Dunque il pensiero esplica la sua attività formulando giudizi! Ma , per fondare una scienza rigorosa occorre che tali giudizi non provengano soltanto dalle sensazioni o “intuizioni empiriche” come le chiama Kant: i giudizi che possiedono verità conoscitiva DEVONO possedere un elemento oggettivo, comune a tutti gli esseri umani, che non è dato dall’esperienza sensibile ma che la rende possibile.

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Ebbene se riusciamo a trovare saperi disciplinari che impiegano tali tipi di giudizi e che hanno conseguito significativi risultati in termini di conoscenze potremmo vedere come tali giudizi funzionino in tali campi del sapere. Ebbene se noi analizziamo tutti i tipi di giudizio possibile ci accorgiamo che questi si possono ridurre a due tipi: GIUDIZI ANALITICI E GIUDIZI SINTETICI.

a) I giudizi analitici: sono quelli nei quali il predicato NON aggiunge nessuna nuova conoscenza al contenuto conoscitivo implicito nel soggetto. Essi sono tutti apriori nel senso che non dobbiamo ricorrere a nessuna esperienza empirica per verificarli e verificarne la

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veridicità. Si fondano tutti sul principio di non contraddizione. Così ad esempio: “ tutti i corpi sono estesi”; oppure: “l’oro è un metallo giallo”. E’ evidente che per sapere che tutti i corpi sono estesi non dobbiamo ricorrere ad alcuna verifica empirica: è implicito che un corpo, per esistere, debba avere un’estensione. E’ altrettanto evidente che l’oro è un metallo e che è di colore giallo. Quando dico a qualcuno che le regalerò un anello d’oro questa sa già che tale anello è di metallo e che il colore sarà giallo: è inutile specificarlo! I giudizi analitici sono “sterili” dice Kant perché essi non amplificano la conoscenza che abbiamo degli oggetti a cui fanno riferimento; si limitano a specificare elementi impliciti nel giudizio stesso. Essi sono tautologici e sui giudizi analitici non si può costruire nessuna scienza.

b) Giudizi sintetici: sono quelli nei quali il predicato aggiunge al soggetto un CONTENUTO che esso non contiene. Moltissimi giudizi sintetici sono aposteriori, vale a dire sono costruiti attraverso l’esperienza; così ad esempio “questo ferro è caldo”. Oppure: “questa tovaglia è sporca”; “questi alunni sono cornacchioni” etc. La cosa fondamentale di tali tipo di giudizio è che il predicato aggiunge un contenuto nuovo, non prima presente od implicito, al contenuto informativo del soggetto. Tale aggiunta avviene, nei giudizi sintetici aposteriori, tramite l’esperienza. Infatti per affermare che questo ferro è caldo devo averlo toccato e, magari, mi ci sono scottato; lo stesso per la tovaglia sporca e per la cornacchionaggine dei miei alunni. Per questo motivo i giudizi sintetici a posteriori sono tutti giudizi di esperienza.

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Con i giudizi analitici e con quelli sintetici a posteriori non è possibile fondare alcuna scienza (conoscenza) certa. I primi perché non aggiungono nessuna conoscenza al già dato, essendo solo esplicativi. I secondi perché aggiungono solo una conoscenza soggettiva e non generale al contenuto del soggetto (il ferro caldo per me può non esserlo per un altro; la tovaglia sporca per me può essere pulita per un altro; i miei alunni che a me appaiono certamente cornacchioni e somari potrebbero apparire diversamente nel giudizio di un altro insegnante).

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Per fondare una conoscenza sicura, vera, certa, saranno allora necessari giudizi sintetici apriori: giudizi cioè che si fondano sull’esperienza ma che supportano il dato sensibile (intuizione sensibile come la chiama Kant) o dato empirico CON UN ELEMENTO OGGETTIVO, SICURO, che l’esperienza non ci fornisce, ma che rende possibile l’esperienza stessa e che questa assuma per noi una valenza oggettiva.

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Il giudizio riportato nella (5), “tutto ciò che avviene ha una causa” è un giudizio sintetico apriori perché l’idea di causa è in noi prima che possiamo analizzare che “tutti” i fenomeni sono causati da qualche cosa che necessariamente li precede.

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Il vero problema è allora, secondo Kant, questo. “Come sono possibili i giudizi sintetici apriori?”

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E’ possibile rispondere a tale domanda SE TROVIAMO DELLE FORME DI CONOSCENZA RICONOSCIUTE DALLA COMUNITA COME CERTE E SICURE NEI LORO RISULTATI E CHE ADOPERINO TALI TIPI DI GIUDIZIO.

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Ebbene afferma Kant che tali giudizi esistono perché vengono adoperati dalla matematica e dalla fisica e, in filosofia, dalla metafisica. La metafisica per Kant è una conoscenza in qualche modo ambigua, ricca di fraintendimenti terminologici e logici inquantochè: “Se essa è una scienza come è possibile che non riesca ad ottenere, come le altre scienze, un universale e durevole accordo tra i suoi studiosi? Se la metafisica viceversa non è una scienza come mai essa continua a grandeggiare con le connotazioni di scienza e fornisce all’intelletto umano speranze sempre vive che non vengono mai definitivamente soddisfatte?” “ Sembra infatti ridicolo che mentre ogni altra scienza progredisce incessantemente, viceversa nella scienza metafisica, che vorrebbe essere la saggezza stessa il cui oracolo ogni uomo interroga, ci si aggiri sempre sullo stesso punto, senza andare avanti di un passo”. Il problema è posto così da Kant in modo chiarissimo: il patrimonio scientifico-tecnico procede conseguendo risultati brillanti e certi perché sui risultati conseguiti la comunità degli scienziati concorda con unanimità. Viceversa i grandi temi della metafisica, l’anima, il mondo e Dio, appaiono come il prodotto di una conoscenza soggettiva perché i risultati conseguiti in questo campo dalla conoscenza non sono condivisi in modo unanime da una comunità di specialisti e accettabile da un certo numero di laici. E tuttavia, anche se la metafisica non è una scienza, non si fonda su un patrimonio di conoscenze condivise, come è possibile che gli uomini avvertono costantemente l’esigenza di un simile sapere e di una simile conoscenza?

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Allora porsi il problema dei giudizi sintetici apriori significa porsi e rispondere a tre precisi quesiti:a) come è possibile la matematica pura?b) Come è possibile la fisica pura?c) Come è possibile la metafisica come tendenza naturale dell’uomo? Infatti queste tre domande sottendono a tutto il discorso fatto fino a qui da Kant: visto che la matematica e le scienze della natura (fisica) sono saperi con un proprio statuto di certezze perché scienziati delle due discipline concordano sui risultati ottenuti, viceversa la metafisica che vorrebbe essere la regina di tutte le conoscenze perché ricerca i fondamenti stessi di ogni conoscenza non ha ottenuto un universale accordo sui suoi procedimenti e sui suoi risultati. Appare allora necessario porre la ragione sul banco degli imputati ed interrogarla sui suoi metodi nel formulare ricerche e sui suoi limiti. Il CRITICISMO Kantiano consiste proprio in questa capacità di “giudicare” la ragione per capire

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quali sono le sue fonti di conoscenza sicura e quali sono i suoi limiti gnoseologici (conoscitivi). Ebbene partendo dal fatto che quando il pensiero agisce la sua attività si esplica nel formulare dei giudizi occorre stabilire quali sono i giudizi che comportano conoscenze certe, cioè comuni a tutti gli esseri dotati di ragione, e che finiscono col generare un universale consentimento sui risultati ottenuti dai vari saperi che li impiegano. Esistono giudizi analitici che non dilatano la conoscenza; esistono giudizi sintetici aposteriori che dilatano l’esperienza ma non sono scientifici perché soggettivi. Vi devono essere dei giudizi sintetici apriori, che hanno a fondamento il dato sensibile ma che contengono anche un elemento apriori, cioè comune a tutti gli esseri umani. Di tale tipo di giudizio si servono la matematica e la fisica. Se il loro uso risulterà legittimo anche nel campo della metafisica potremmo certamente dire che la metafisica è una conoscenza vera. Altrimenti sapremo che essa è impossibile come scienza perché in essa non si potranno mai formulare giudizi sintetici apriori.

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Dovea) l’aggettivo “pura” significa una conoscenza intellettuale priva di ogni elemento determinato, un

puro atteggiamento mentale di fronte ad una determinata conoscenza.b) L’espressione come “tendenza naturale” vuole indicare il naturale desiderio proprio dell’uomo

di una conoscenza assoluta, oltre l'esperienza: metafisica appunto! E’ risaputo che gli esseri umani non si accontentano delle conoscenze del mondo fisico; si pongono domande sulla stessa finalità della loro vita, sul significato della stessa; sul valore delle loro azioni e sulla possibilità di una vita oltre la morte. Dunque la metafisica è una forma di conoscenza tipicamente umana.

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Alla prima domanda, e cioè come sia possibile la matematica pura, Kant sviluppa la risposta nella prima parte della Critica della ragione pura: l’estetica trascendentale (teoria della sensibilità) Alla seconda domanda, come sia possibile la fisica pura, nell’analitica trascendentale ( analisi e condizione della conoscenza sperimentale). Alla terza domanda Kant risponde nella dialettica trascendentale ( discussione e critica della metafisica).

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Nell’estetica trascendentale Kant analizza il funzionamento della matematica. Questa secondo il Nostro usa giudizi sintetici apriori. Infatti, differentemente da quanto pensava Hume, se noi analizziamo le proposizioni della matematica 7+5=12 ci accorgiamo che nel 12 non è contenuto necessariamente il 7+5. Infatti il numero 12 può essere il risultato di 6+6, oppure di 8+4, oppure di 11+1 etc. Quindi occorre necessariamente per avere da 5+7=12 contare

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fisicamente(empiricamente) cinque somari ed aggiungere sette cornacchioni! Come è possibile eseguire concretamente tale operazione? Ebbene dice Kant noi possiamo eseguire fisicamente l’operazione perché possiamo disporre gli oggetti in uno spazio ed in un tempo nel quale riunire la successione dei somari e dei cornacchioni che danno alla fine dell’operazione il dodici. Dunque lo spazio ed il tempo sono le DUE INTUIZIONI CHE RENDONO POSSIBILI I GIUDIZI SINTETICI NELLA MATEMATICA. Ma tanto lo SPAZIO quanto il TEMPO non sono a noi dati da NESSUNA esperienza. Rendono possibile l’esperienza sensibile ma sono apriori in noi perché non sono oggetti dell’esperienza: la precedono. SPAZIO E TEMPO VENGONO DETTI DA KANT INTUIZIONI PURE PERCHE’ RENDONO POSSIBILE L’ESPERIENZA MA NON PROVENGONO DA QUESTA. Sono in noi apriori! Secondo Davide Hume i giudizi della matematica erano tutti analitici perché, ad esempio, calcolando 7+5=12 nel 12 era contenuto il processo dell’operazione compiuta che risultava non-contraddittoria. Kant ritiene invece che le conoscenze matematiche non comportino esclusivamente l’adesione al principio di non contraddizione ma che le operazioni sulle quali procedono implichino diverse possibilità: e dunque ciò che il predicato dice del soggetto(operazione) non è già implicito in questo. La filosofia di Hume rappresentò una tappa di fondamentale importanza per lo sviluppo della filosofia del criticismo. Infatti se l’esigenza della conoscenza metafisica si ripresenta costantemente all’uomo ed i suoi principali problemi non vengono mai risolti può essere possibile che vi sia qualche cosa di sbagliato nell’affrontare il problema della metafisica in termini logico-deduttivi oppure induttivamente. Occorre determinare una strategia nuova. Ed in questa operazione occorre un metodo nuovo: il Criticismo appunto. Seguiamo Kant su questo punto che riguarda la riflessione di cui egli si dichiara debitore a Davide Hume. “………………………………Nella metafisica ciascuno, per quanto ignorante in qualsiasi scienza, si sentirà in essa autorizzato a dire le sue opinioni. Ebbene ciò è dovuto al fatto che da quando essa è nata, comprese le analisi di Locke e di Leibniz, non è accaduto fatto che, riguardo al destino di questa scienza, sarebbe divenuto più decisivo dell’attacco mossole da Davide Hume!……………………………Lo confesso francamente: l’avvertimento di Davide Hume fu proprio quello che, molti anni or sono, primo mi destò dal sonno dogmatico e diede un indirizzo completamente diverso alle mie ricerche nel campo della filosofia speculativa……………………Hume partì principalmente da un unico ma importante concetto della metafisica, cioè quello della connessione di causa ed effetto, ed invitò la ragione a rendergli conto con quale diritto essa ritiene che qualche cosa, una volta data e posta in una determinata maniera, ne faccia derivare qualche altra, giacché questo afferma il concetto di causa. Egli provò irrecusabilmente che è del tutto impossibile alla ragione di pensare a priori tale collegamento traendolo da concetti. Infatti tale collegamento implica una necessità vera e propria non potendosi stabilire come solo perché una cosa è data qualche altra debba essere in modo necessario e come il concetto di una tale connessione possa darsi a priori. Da ciò egli dedusse che, riguardo a questo problema, la ragione si inganna totalmente e che la causalità è una figlia illegittima della immaginazione che, messa in gravidanza da parte dell’esperienza, ha sottoposto alcune rappresentazioni alla legge delle associazioni. Ne nasce allora una abitudine, cioè una necessità soggettiva che viene spacciata come necessità oggettiva proveniente dalla ragione………………Il che vuole dire che non c’è e non potrà mai esservi una scienza metafisica fondata oggettivamente, cioè su principi a priori e di pura ragione……………… La questione non era se il principio di causa sia legittimo, adoperabile ed indispensabile riguardo ad ogni conoscenza della natura, che Hume non aveva mai posto in dubbio questo! Ma piuttosto se esso sia pensabile a priori dalla ragione ed in tale modo abbia una verità intrinseca indipendente da ogni esperienza…………A questo Hume aspettava una risposta!” Questa lunga citazione del pensiero filosofico di Hume fatto da Kant nei Prolegomeni ad ogni futura Metafisica ci appare opportuna per capire veramente bene il punto di partenza della filosofia trascendentale o criticismo. Tale filosofia infatti precede ogni metafisica, cioè ogni discorso sull’essenza delle cose, degli oggetti posti oltre l’esperienza sensibile: l’anima, il mondo, Dio.

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Questo perché su tali argomenti i filosofi, ma anche gli uomini in generale, non hanno mai trovato un accordo o delle concezioni comuni. Ebbene Kant afferma che solo Hume, l’acuto uomo, ha posto filosoficamente bene il problema affrontando il principio di causalità e riducendolo ad un’abitudine, cioè ad un fatto soggettivo, non supportato da un principio oggettivo che poggi sulla pura ragione e che si sottragga alla soggettività delle leggi dell’associazione tra idee. Il problema della causalità è particolarmente importante per la metafisica perché l’esistenza di Dio è spesso dimostrata filosoficamente, ma anche teologicamente, attraverso tale principio: se c’e l’orologio ci deve essere l’orologiaio e se c’è il mondo ci deve essere il creatore del mondo, cioè Dio! Se c’è Dio come causa del mondo esso è anche l’artefice della creatura umana e della sua sostanza spirituale: vale a dire l’anima! L’anima, il mondo e Dio, gli oggetti per eccellenza della metafisica, sono spesso stati dedotti per tramite del principio di causalità. Il vero problema su tale principio è stato individuato da Hume che ha richiesto che tale principio di causalità sia accertato a priori, per pura ragione. Pertanto Hume, agli occhi di Kant, ha intercettato meglio di chiunque altro il vero nocciolo del problema di ogni metafisica: dedurre a priori il principio sul quale essa si fonda, o fonda le pretese del proprio sapere. Il principio di causalità è molto rilevante in ambito filosofico perché molto spesso ci capita di associare gli avvenimenti tra loro e finiamo con il pensare che ogni cosa che accade succede perché qualche altra cosa ne è la causa. Finiamo per pensare, consciamente od inconsciamente, che il mondo sia un insieme organico di cause a cui seguono ben determinati effetti. Così ad esempio il professore di filosofia dice all’alunno somaro e strafottente: ti piazzo due perché non hai studiato la filosofia! Costui comincia allora a pensare, soprattutto se tale evento si ripete, che tutti i due della sua pagella abbiano sempre come causa il fatto di non studiare………………. L’abitudine rischia di trasformare una connessione casualmente ripetuta in una legge oggettiva. Infatti un due in filosofia può anche dipendere da un…………..indigesto con problemi conseguenti; oppure da un momento di deconcentrazione dovuto ad un fidanzato che, bontà sua, si è defilato per una ragazza molto più carina; ecc…………….. Insomma Hume fece per primo notare come il principio di causalità non sia a priori nella ragione ma anzi che segue all’esperienza ed è da questa condizionato negativamente attraverso l’associazione per abitudine.

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LO SPAZIO ED IL TEMPO RENDONO POSSIBILI LE SENSAZIONI.

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Questo significa che ogni sensazione per giungere a noi ha bisogno di assumere una forma spaziale e temporale. Così ad esempio se mi brucio con questo accendino la sensazione conseguente assume dentro di me uno spazio (es. il mio studio) ed un tempo (es. le 17;05). Anche

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se non mi accorgo coscientemente di ciò sarebbe immaginabile una scottatura che avvenga senza uno spazio e senza un tempo? Sarebbe possibile immaginare un compito di matematica con la prof. Amorelli senza un luogo dove ciò avvenga e senza un tempo in cui questo compito è stato fatto: sicuramente no! Mah! La cosa sicura, sulla quale Kant ha probabilmente ragione, è che qualsiasi oggetto od esperienza di oggetti o sensazione per oggetti sperimentati può essere percepita solo se la poniamo in uno spazio ed in un tempo.

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Secondo Kant la forma spaziale è quella del mondo esterno. Quella temporale è quella del mondo interno. L’esperienza di oggetti esterni deve essere posta in uno spazio; il tempo è, viceversa, una dimensione nostra per la quale le cose, gli oggetti, li percepiamo in successioni temporali.

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Spazio e tempo non sono dunque da noi conosciuti per esperienza DIRETTA: nessuna sensazione ci da lo spazio oppure il tempo! Essi rendono possibile l’esperienza perché senza di essi tutte le nostre sensazioni si accavallerebbero in un caotico disordine. Spazio e tempo sono “pure” forme della nostra sensibilità attraverso le quali noi ordiniamo la conoscenza sensibile. Ma bisogna stare attenti perché senza la conoscenza sensibile, senza le intuizioni empiriche (la mia scottatura di poco sopra) NOI NON CONOSCEREMMO NEPPURE LO SPAZIO ED IL TEMPO. Se per assurdo immaginiamo un essere umano privo di qualsiasi senso esterno ed interno (es. la vista, il tatto, il gusto, l’olfatto, l’udito) costui non potrebbe conoscere neppure lo spazio ed il tempo.

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DA TUTTO CIO’ DERIVA CHE LA CONOSCENZA COMINCIA DALL’ESPERIENZA MA CHE NON DERIVA DA QUESTA. Senza le intuizioni pure di spazio e di tempo le intuizioni empiriche non avrebbero la possibilità di giungere fino a noi secondo un certo ordine: non avrebbero significato. Almeno per noi esseri umani!

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Le intuizioni pure di spazio e di tempo sono da noi conosciute ogni qual volta vengono attivate al sopraggiungere di un’esperienza sensibile. L’esempio che potrebbe rendere bene l’idea è quello di un uomo che possiede del denaro ma che ne comprende il valore se ci sono merci da potere acquistare. Se non ci fossero merci da potere comprare come potremmo capire il valore del denaro. Le intuizioni pure di spazio e di tempo sono l’equivalente del denaro: hanno senso solo se ci sono le sensazioni empiriche. Altrimenti sono prive di senso! Se non vi fosse un’esperienza empirica non potremmo attivare le due intuizioni pure perché non ci sarebbe nulla da porre nello spazio e nel tempo. Immaginare uno spazio vuoto di cose od un tempo privo di fatti è praticamente impossibile: come pensare all’aria fritta oppure agli asini che volano o ai cornacchioni che studiano!

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L’apriorità delle intuizioni pure di spazio e di tempo spiega come sia possibile la matematica. L’operazione 5 + 7= 12 è possibile perché posso sommare in una successione temporale e in una spazialità un insieme di oggetti ad un altro. Si tratta allora di un giudizio sintetico ma apriori perché fondato sull’intuizione di tempo e di spazio. Anche la geometria è resa possibile dall’intuizione pura di spazio. Se penso una circonferenza esso mi appare come il luogo geometrico di tutti i punti equidistanti dal centro: non ho bisogno di controllare sempre tutti i cerchi che incontro nella mia esperienza! Le regole stabilite per uno varranno per tutti i circoli perché un cerchio è una forma spaziale ed obbedisce alle leggi della spazialità che sono identiche per tutti gli uomini.

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I giudizi sintetici apriori, per quanto riguarda la conoscenza matematica, sono dunque resi possibili dalle intuizioni pure di spazio e di tempo: in esse attingono alla loro universalità. Universalità non assoluta ma relativa: noi non possiamo dire se, fuori dal nostro pensiero, dal pensiero razionale usato dalla nostra specie, una circonferenza sia il luogo geometrico dei punti equidistanti dal centro! Anzi forse possiamo anche escluderlo perché l’idea di distanza e di equidistanza ha una realtà solo nell’intuizione pura dello spazio. Fuori da tale intuizione potrebbe non esservi una distanza o una equidistanza. NON NE’ SAPPIAMO NULLA!

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Allora le intuizioni pure di spazio e di tempo sono dette da Kant “TRASCENDENTALI” perché sono in “funzione” dell’esperienza. Fuori dall’esperienza non avrebbero senso alcuno. Rendono possibile l’esperienza ma acquistano realtà nell’esperienza stessa! Il termine kantiano trascendentale significa “valido, in funzione dell’esperienza”. Viceversa il termine “trascendente” significa oltre l’esperienza sensibile. Pertanto quando useremo il termine kantiano trascendentale significherà sempre “in funzione dell’esperienza!

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L’attività sensibile non è dunque un rispecchiamento passivo della realtà. Non vi è una realtà esterna sensibile che detta le proprie regole ad un soggetto senziente passivo che si adegua alle leggi di tale realtà! E’ vero piuttosto il contrario e cioè CHE E’ IL SOGGETTO A DETTARE LE PROPRIE LEGGI ALLA REALTA’, attraverso i modi che gli sono propri. Per questa prospettiva nuova di affrontare i problemi della filosofia Kant affermò che egli aveva compiuto una rivoluzione copernicana nell’ambito della filosofia! Così come Copernico aveva posto il sole al centro dell’universo mentre i pianeti ruotavano attorno a questo, così Kant aveva posto il soggetto al centro delle dinamiche conoscitive: questo conosceva la realtà adattandola alle sue strutture conoscitive.

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Ma l’attività del pensiero non si limita a dare una forma spaziale e temporale alle sensazioni o intuizioni empiriche come le chiama Kant. Il nostro pensiero tende anche a “collegare” le sensazioni le une con le altre, a stabilire dei rapporti tra diverse percezioni. Riconnettendoci all’esempio di poco sopra possiamo dire: “essendomi bruciato con l’accendino nel mio studio devo evitare la prossima volta di avvicinare troppo il dito alla fiamma”. Possiamo allora notare che quando articoliamo un discorso operiamo una serie di giudizi che collegano tra loro diverse cose, sensazioni diverse che vengono IN VARIO MODO COLLEGATE. Possiamo certamente dire che le proposizioni le quali contengono i nostri giudizi si fondano su concetti. Un concetto è una generalizzazione del tipo: fuoco=calore; passione=desiderio; etc. Così quando diciamo a qualcuno di darci il concetto di ciò che sta dicendo gli chiediamo di sintetizzare con un unico termine una serie di sensazioni eterologhe. Il termine amore sintetizza un insieme di comportamenti diversi che sono caratterizzati dall’attrazione per un altro essere umano. Nelle

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normali dinamiche della vita, attraverso il nostro linguaggio, ricorriamo continuamente a questi termini “scatoletta” nei quali racchiudiamo generalizzazioni di vario genere. Prestami una penna, diciamo al compagno più solerte di noi. Quando parliamo di penna parliamo di un oggetto che serve per scrivere, indipendentemente dalla sua forma, dal suo colore, dal suo prezzo, da chi e dove è stato acquistato, etc. Insomma se togliamo a qualche cosa i suoi elementi “accidentali”, “non necessari o contingenti”, otteniamo il concetto di quella data cosa. Tale forma di conoscenza per concetti, specifica della conoscenza razionale, era stata formulata da Socrate, da Platone e da Aristotele. Socrate aveva formulato il problema della conoscenza concettuale affermando che per superare il relativismo sofista occorreva razionalizzare il discorso attraverso il valore monosemico dei termini. Così se togliamo ad ogni fenomeno tutti gli elementi accidentali che lo caratterizzano otterremo il concetto. Non quella “statua” particolare, fatta da quell’autore in quel dato periodo storico, per quella particolare occasione, in quel particolare materiale etc. Ma “la statua” con cui noi indichiamo un fenomeno generale che sottende qualunque altro fenomeno in particolare. Platone ritenendo che il concetto come semplice forma razionale non fosse sufficiente a garantire l’oggettività dei discorsi costruì un mondo di pure forme, assomigliante all’essere parmenideo, nel quale le idee rappresentavano la “forma” assoluta dei concetti socratici. Nel mondo dell’iperuraneo le idee giacevano immobili nella loro assoluta purezza sottratta al tempo e allo spazio umani del divenire. Garantivano i “discorsi veri” da quelli falsi ed approssimativi. Solo il “saggio”, l’aristocratico dell’acropoli, conosceva le idee, le amava ed accettava l’immutabilità della verità. Filosofia, quella platonica, oracolare ed aristocratica! Aristotele, stretto nella sua visione finalistica della realtà, ritiene che la realtà stessa contenga dei suoi modi di essere. Questi modi di essere o CATEGORIE sono per Aristotele 10! Ad esempio la categoria di “sostanza” o “ di causalità” sono modi di essere della realtà. Infatti la realtà è costituita da una sostanza da cui originano tutte le cose molteplici; e ogni cosa che capita è causata da qualche altra cosa! Ebbene secondo Kant i nostri giudizi fanno uso di concetti ma questi NON corrispondono a modi di essere della realtà bensì appartengono al nostro apparato conoscitivo, alla struttura del nostro intelletto che ha il compito specifico di elaborare la conoscenza razionale. I concetti che usa l’intelletto sono oggettivi perché valgono per tutti gli uomini. Non può esistere un individuo della specie umana che possa formulare giudizi fuori dalle modalità che sono proprie dell’intelletto. Ma attenzione: fuori dall’intelletto umano tali forme del pensiero, tali contenitori, potrebbero anche non avere significato. Vedremo più avanti il perché!

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Esistono secondo Kant dei collegamenti, dei rapporti che noi creiamo in certe condizioni. Diciamo ad esempio: “questo vino è secco”. Ebbene questo giudizio è il frutto di un’aggregazione tra diverse sensazioni empiriche già strutturate nello spazio e nel tempo. Il determinativo “questo” indica un oggetto presente, situato nel tempo attuale; “vino” indica un concetto empirico, dedotto dal processo di generalizzazione razionale: le uve trattate in modo che fermentino si dicono vino. Ma anche il vino di cui parliamo è situato in uno spazio ed in un tempo! “Secco” è un attributo che il predicato aggiunge al concetto espresso dal soggetto. Tale giudizio è un giudizio di esperienza perché abbiamo dovuto assaggiare il vino per giudicare che esso è secco! Associando il concetto di vino, strutturato nello spazio e nel tempo, al gusto secco ho ottenuto una conoscenza che rende il giudizio sintetico aposteriori perché esso non è ne universale ne necessario. Infatti il gusto

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che per me è secco può per un altro essere piuttosto dolce o poco secco. Insomma i giudizi sintetici che si fondano soltanto su dati empirici, di esperienza, sono soggettivi e su di questi non potrebbe costituirsi una conoscenza certa come quella della fisica. E’ necessario che un giudizio sintetico sia fondato su un elemento oggettivo, apriori, che sia cioè comune a tutti gli individui razionali: cioè esseri umani. Ebbene tale elemento oggettivo, secondo Kant, esiste e rende possibile i giudizi sintetici apriori della fisica e delle scienze della natura: si tratta delle categorie dell’intelletto!

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Kant ritiene che i concetti puri o categorie siano dodici e che siano pure forme apriori dell’intelletto. Esse permettono al pensiero di costruire in modo oggettivo il mondo dell’esperienza, vale a dire di costruire la realtà secondo parametri condivisi da tutti gli esseri umani. Le categorie, o modi con cui organizziamo logicamente la nostra esperienza, sono DODICI, classificate in quattro gruppi.

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Noi possiamo organizzare le nostre sensazioni secondo i concetti puri di unità (la misura), pluralità( la grandezza), totalità (il tutto). In tale caso queste tre categorie rientrano nel gruppo della quantità. Appare abbastanza semplice comprendere che le connessioni che operiamo tra le nostre sensazioni sono spesso quantitative: nell’esempio precedente “questo vino è secco” il vino di cui parliamo è questo, cioè è uno. Ma appartiene anche ad una molteplicità di prodotti enologici che, con varie differenze, sono tutti vini. Insomma ogni determinato fenomeno ha una realtà quantitativa che si specifica nelle tre categorie della quantità.

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Secondo il gruppo della qualità ed avremo i concetti puri di realtà, negazione e limitazione. Ogni oggetto della nostra esperienza deve possedere una realtà; può essere negato e deve avere un limite.

(32) Secondo il gruppo della relazione ed avremo i concetti puri di sostanza, causa, comunanza. Ogni oggetto della nostra esperienza deve possedere una sostanza, una causa, una comunanza con qualche altro oggetto. ( esempio: una penna è fatta da una certa sostanza; è costruita da qualcuno al fine di scrivere, ha comunanza con la carta!).

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Secondo il gruppo della modalità ed avremo i concetti puri di possibilità, esistenza, necessità. Ogni oggetto della nostra esperienza deve possedere una possibilità, una esistenza ed una necessità. Ad esempio è possibile fare amicizia con il ragazzo che ci piace; questo deve avere una esistenza; e può anche essere che, dopo che lo abbiamo conosciuto, necessariamente è diventato il nostro ragazzo.

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Questi dodici concetti puri o categorie come li chiama Kant sono la forma di ogni concetto empirico. Senza di esse le sensazioni ci apparirebbero come un molteplice sensibile ordinato nel tempo e nello spazio ma privo di qualsiasi significato: sarebbe possibile la sensazione ma non il pensiero logico. Dunque le categorie rappresentano le modalità di funzionamento dell’intelletto umano che, operando sui contenuti dell’intuizione sensibile, stabilisce relazioni e rapporti costanti.

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Dal momento che le categorie sono in noi apriori, vere e proprie modalità del nostro pensiero logico comuni a tutti gli esseri umani, esse hanno universalità ed oggettività! Tutte le scienze che si fondano sulle categorie sono dunque oggettive e vere. Pertanto possiamo dire che un fenomeno è CAUSATO da un altro evento ad esso collegato semplicemente perché nella struttura del nostro intelletto esiste una categoria di causa che ci impedisce di pensare un fenomeno qualsiasi che non abbia una causa e che non sia causato. Se dovesse apparire qualche cosa del genere diremmo che tale evento non è un fenomeno ma un “miracolo”.

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Tuttavia le categorie come le intuizioni pure di spazio e di tempo non hanno alcuna realtà al di fuori di noi e delle modalità con cui è costruito il nostro intelletto: sono forme esclusivamente nostre che valgono solo entro i limiti del nostro intelletto. Fuori delle modalità del nostro intelletto potrebbero NON esservi ne cause, ne sostanze, ne relazioni: non ne sappiamo nulla! Sappiamo solo con sicurezza che le sensazioni che ci provengono dal mondo esterno vengono da noi ordinate nello spazio e nel tempo e poi correlate ed associate dalle

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categorie. Ma come sia in se il mondo da cui provengono le sensazioni empiriche non lo sappiamo affatto. Sappiamo solo di conoscerlo secondo le nostre modalità.

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Da qui la famosa distinzione kantiana tra “mondo dei fenomeni” e “mondo dei noumeni”. Il mondo dei fenomeni è il mondo come appare a noi, organizzato nello spazio e nel tempo e coordinato dalle categorie. Il mondo dei noumeni è il mondo in se, il mondo come veramente è indipendentemente dal nostro modo di rappresentarcelo: il mondo nella sua essenza. La divisione Kantiana non è facilissima da comprendere. Tuttavia si può cercare di fare qualche esempio esplicativo. Noi sappiamo ad esempio che la realtà che noi percepiamo è formata da elementi così piccoli che noi non possiamo distinguere con i nostri sensi: le molecole ad esempio. Il nostro apparato sensoriale non ci permette di percepire tali oggetti da cui sono composte le cose che ci circondano. Ma le molecole a loro volta sono composte da elementi infinitamente più piccoli: gli atomi. Ebbene nel mondo atomico le cose non vanno precisamente, in modo fisico, come vanno nel mondo che noi osserviamo: le dimensioni e le proporzioni, nonché i rapporti di causa e di effetto, sono alquanto differenti dai nostri. Se il nostro apparato sensoriale ci mostrasse il mondo dell’infinitamente piccolo vedremmo un enorme vuoto con qualche oggetto che talvolta è un corpo e nello stesso tempo è un’onda di energia. Cercando di indovinare dove si trova potremmo riuscirci solo per caso: prevedendo in modo statistico dove si potrebbe trovare. Insomma la nostra capacità di fare esperienza sarebbe molto, radicalmente, diversa. Il mondo che noi conosciamo e di cui facciamo esperienza è quello che ci testimoniano i nostri sensi: che viene ordinato nello spazio e nel tempo e coordinato dalle categorie dell’intelletto. Di come sia il mondo al di là delle nostre coordinate conoscitive non ne sappiamo nulla! Possiamo comunque essere sicuri che c’è! Viceversa da dove proverrebbero le intuizioni empiriche che poi noi elaboriamo con i nostri apparati intellettivi e sensoriali?

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Le relazioni come causa-effetto che Hume considerava discendere dall’abitudine e quindi relazioni labili e soggettive, incapaci di fondare un sapere scientifico ed oggettivo , in Kant sono relazioni costruite necessariamente apriori dall’intelletto, il quale agisce con un suo automatismo universale. Il mondo della natura ci appare così come appare (es: causa-effetto) perché il nostro pensiero lo ordina in un modo che gli è proprio! La realtà è fenomeno ovverosia apparenza: e la scienza è scienza di fenomeni, cioè delle cose che appaiono, e non delle cose come sono! Comunque il mondo fenomenico che a noi appare ordinato dalle intuizioni pure e coordinato dalle categorie realizza una sua oggettività perché di fronte ad esso concordano tutti i pensanti.

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I giudizi sintetici apriori sono possibili nella fisica perché si fondano sull’oggettività delle categorie del pensiero. Ed è vera la rivoluzione copernicana che Kant attribuisce a se stesso nell’ambito della cultura filosofica. E’ infatti il soggetto che detta le sue condizioni al mondo della realtà: non viceversa! Il soggetto non è un passivo spettatore posto davanti ad un mondo che, per essere conosciuto, impone al soggetto stesso di adeguarsi. Sono le leggi insite in tutti gli esseri umani che condizionano il loro modo di percepire la realtà che si deve adeguare a tali strutture preesistenti nel soggetto stesso.

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Si è già osservato che affinché un concetto si formi è necessario anzitutto che la sensibilità ci dia, con le sue sensazioni ordinate dalle intuizioni pure di spazio e di tempo un dato molteplice sensibile. Successivamente che l’intelletto, con le sue categorie, coordini questo molteplice in vari schemi. Se manca il dato sensibile il concetto non può formarsi! Orbene la metafisica tratta di oggetti che non ci sono dati da nessuna esperienza sensibile. Tali oggetti sono:1) L’anima come sostanza pure ed incorporea2) Il mondo come causa della nostra esistenza e della nostra conoscenza3) Dio come realtà assoluta e non causata.Queste tre idee sono trascendenti perché ad esse non possono applicarsi né le intuizioni pure né le categorie. Ebbene come è possibile allora che l’uomo ha formulato queste tre idee e ricerca attraverso la filosofia una risposta a tali quesiti?

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Kant da la seguente spiegazione del problema. Oltre alla sensibilità che raccoglie il molteplice sensibile e all’intelletto che lo coordina e nel quale si conclude la conoscenza vera e propria vi è in noi, nella struttura del nostro pensiero, la ragione. In questa vi è il meccanismo con cui elaboriamo le varie conoscenze.

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Nella sensibilità e nell’intelletto si esplicava un’azione piuttosto automatica secondo uno schematismo trascendentale. Nella ragione si esplica un’azione più creativa! Ciò avviene secondo Kant perché in essa esistono tre idee. Tali idee sono forme proprie della ragione così come lo erano spazio e tempo per la sensibilità e le categorie per l’intelletto. Le tre idee della ragione rappresentano dei punti limite verso i quali si proietta tutto ciò che conosciamo. Le tre idee sono: “l’idea psicologica”; “l’idea cosmologica”; “l’idea teologica”.

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L’idea psicologica ci pone l’esigenza di un soggetto assoluto al quale fare riferimento in rapporto ai nostri giudizi. Ogni nostro pensiero, ogni nostra conoscenza, ogni nostra sensazione, tende a riferirsi ad un “io” che la sottende! Così ad esempio: “io penso che questi alunni siano somari e disinteressati allo studio”. “L’io penso che” è sottinteso ad ogni mio pensiero, ad ogni mio giudizio. Orbene tale soggetto di ogni mio giudizio è il presupposto dell’insieme delle sensazioni e dei concetti che vengo elaborando nella mia attività di pensiero. La proposizione: “credo di amare Santippe” mi appartiene! Ma debbo riferirla logicamente a qualche soggetto che la pensa o che la dice. Dunque L’io penso è un presupposto logico di tutte le mie proposizioni o dei miei giudizi come li dice Kant. Ebbene la ragione opera un imbroglio che è, in realtà, un suo modo di procedere: pesca dalle categorie dell’intelletto la “sostanza” e la “durata” e trasforma un presupposto logico-dialettico (vale a dire discorsivo) in una realtà che chiama anima. Il problema è che usa le categorie dell’intelletto in modo trascendente e non trascendentale, vale a dire non come operatori di senso per un dato dell’esperienza ma come valide in se stesse. Insomma l’idea dell’anima non ha alla sua base un giudizio sintetico apriori perché manca il dato sensibile che è all’origine di ogni nostra conoscenza scientifica. Le categorie vengono adoperate in modo illegittimo perché esse non hanno realtà in se ma attingono la loro condizione di validità dall’essere applicate a dati dell’esperienza.

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L’idea cosmologica ci proviene dal fatto di dovere necessariamente supporre che fuori di noi esista un mondo causa delle sensazioni che abbiamo e luogo della nostra stessa sussistenza. Tuttavia analizzando attentamente questa idea di mondo ci accorgiamo che questa ci appare contraddittoria e oppositiva. Infatti il mondo fuori di noi ci appare non definibile in modo sicuro e contraddittorio. Esso dovrebbe essere illimitato perché non si comprende cosa potrebbe limitarlo; ma anche limitato in qualche modo perché nel nostro intelletto abbiamo la categoria del limite che non ci permette di capire ciò che non ha un limite.

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Semplice perché scindendo la sua complessità si dovrebbe pervenire ad una unica sostanza che sta alla base di tutto; composto perché essendo nello spazio avrà una sua globale complessità ed essendo nel tempo un suo divenire. Libero perché risalendo di causa in causa nelle varie successioni dobbiamo pensare ad un cominciamento spontaneo; causato perché tutto ciò che conosciamo ci si presenta come causato da qualche cosa. Necessario perché la sua origine non può che essere voluta: come ogni cosa che ha un cominciamento; Casuale perché non tutto ciò che esiste è necessario ed il mondo potrebbe essere il frutto di una pura casualità.

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Queste quattro coppie di contraddizioni che Kant rileva riguardo all’idea cosmologica egli le definisce antinomie. Le antinomie sono in realtà dei ragionamenti legittimi ma opposti nelle soluzioni. Come è possibile una simile contraddizione? Kant da la seguente spiegazione: la nostra esperienza del mondo comincia con le intuizioni empiriche (sensazioni) che vengono ordinate dalle intuizioni pure di spazio e di tempo; successivamente l’intelletto con le categorie opera la formazione dei giudizi. Ma tanto le intuizioni empiriche quanto le categorie sono trascendentali: ci descrivono il mondo come appare al nostro apparato cognitivo, il mondo dei fenomeni, ma non ci dicono come il mondo è in se, nella sua essenza noumenica. Ed è per questo che noi non possediamo conoscerlo tutto in una volta, nella sua essenza e nella sua finalità. Pertanto esso può apparire libero perché potrebbe non avere una necessità e potremmo non vedere questa necessità; ma anche causato perché dentro di noi, nel nostro intelletto, agisce la categoria di causa e non sappiamo immaginare un qualche cosa che non sia causato! Dunque anche per l’idea cosmologica la ragione impiega in modo illegittimo le categorie dovendole usare per i suoi ragionamenti in modo trascendente e non trascendentale.

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L’idea teologica infine ci propone l’esigenza di un “ideale” nel quale si assommano tutte le perfezioni che mancano nell’ambito della realtà che ci circonda. Così ad esempio esistono vari livelli di bontà, di bellezza, di intelligenza etc. Orbene l’idea teologica ci indica che tali valori che a noi appaiono relativi possono avere un valore assoluto, possono essere in grado massimo! Se applichiamo a tali ideali della ragione le categorie dell’intelletto in modo trascendente, ad esempio la categoria di sostanza, relazione e causalità, potremmo immaginare che “esista” veramente una dimensione di valori assoluti come il bello, il buono etc. Ebbene, afferma Kant, anche questa idea è come l’io penso, è cioè un’idea limite che ha a suo fondamento l’uso illegittimo delle categorie dell’intelletto che vengono assolutizzate come se fossero trascendenti anziché trascendentali. L’idea teologica assomma tutte le idee di

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perfezione in modo assoluto, come se fossero vere indipendentemente da qualsiasi esperienza empirica, e le unifica nell’idea di una perfezione totale ed assoluta che chiama dio. Alla radice di questo processo vi è appunto l’impiego trascendente delle categorie dell’intelletto che vengono pescate dalla ragione ed usate come se fossero trascendenti e non trascendentali. Così le categorie di possibilità, esistenza e necessità vengono applicate senza che alla base dei giudizi vi sia un’esperienza sensibile. Dunque la ragione usa in modo dialettico, discorsivo, le sue tre idee costruendo un mondo che non ha nessun fondamento reale, empirico.

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Una conoscenza metafisica è dunque impossibile perché in questa non SI POTRANNO MAI FORMULARE GIUDIZI SINTETICI APRIORI, GIUDIZI CHE ABBIANO UNA INTUIZIONE EMPIRICA A LORO FONDAMENTO. E’ per questo motivo che la metafisica come scienza dell’essere ultimo, dell’essenza noumenica della realtà non potrà mai avere un “universale consentimento” da parte della comunità dei filosofi e degli uomini in generale così come avviene nelle discipline matematiche e nelle scienze della natura. La metafisica non usa giudizi sintetici apriori perché non fonda i suoi processi conoscitivi sull’esperienza empirica.

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Riassumiamo brevemente l’insieme delle riflessioni Kantiane svolte fino a questo punto. Il problema cruciale della filosofia egli ritiene che sia la metafisica, cioè la capacità che si arroga la ragione di conoscere l’intima essenza della realtà. Tuttavia nota acutamente Kant mentre alcune discipline hanno un universale consentimento sui loro risultati e sugli statuti scientifici che impiegano e tutti gli studiosi concordano sui loro risultati conoscitivi. La metafisica che vorrebbe essere la regina di tutte le conoscenze non ha ancora prodotto una teoria sui cui risultati la comunità dei filosofi e degli uomini consenta universalmente. Ebbene come si spiega questo fenomeno? Secondo il Nostro la prima operazione da eseguire è quella di mettere sotto processo la ragione per interrogarla sulle sue possibilità e sui suoi limiti. Quando avremo stabilito queste possibilità e questi limiti, marcando i confini, potremo sapere perché la metafisica non ha ancora ottenuto il consentimento della comunità dei filosofi e di tutti gli uomini. Ebbene come funziona il pensiero: quando noi esplichiamo l’attività del pensare cosa succede realmente? Kant afferma che l’attività del pensiero consiste nel formulare “giudizi”: pensare è giudicare! Ebbene i nostri giudizi possono non essere fecondi, come nel caso dei giudizi analitici nei quali il predicato non aggiunge nessuna conoscenza che non sia già contenuta nel soggetto. Così ad esempio quando diciamo che “l’oro è un metallo giallo” esprimiamo un giudizio sterile perché è già implicito nel soggetto oro essere un metallo dal normale colore giallo. Con i giudizi analitici non ampliamo la nostra conoscenza ma ci limitiamo ad esplicitare dei contenuti. Sui giudizi analitici non possiamo costruire alcuna forma di conoscenza.

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Tuttavia vi sono anche altri giudizi che ampliano le nostre conoscenze. Ad esempio: alcuni corpi sono pesanti; questo vino è secco; questa casa è sporca etc. Tali giudizi sono costruiti in modo tale che il predicato aggiunge al soggetto un nuovo contenuto: essi sono giudizi sintetici. I giudizi sintetici sono fecondi perché amplificano il contenuto espresso nel soggetto. Comunque prosegue Kant i giudizi sintetici possono essere aposteriori come nel caso precedente: vale a dire costruiti attraverso l’esperienza e certamente soggettivi. Infatti un oggetto che si rivela pesante per me può non esserlo per un individuo forzuto ed allenato a portare pesi. Un vino può avere gusto secco per me ed apparire piuttosto dolciastro per un altro individuo. Etc. Insomma ci troviamo in presenza di giudizi soggettivi (sintetici aposteriori) sui quali non possiamo fondare una conoscenza oggettiva,universale e condivisa da tutti.Affinchè si possa avere una conoscenza oggettiva, condivisibile da tutti, occorre formulare giudizi sintetici apriori, cioè che abbiano un elemento valido per chiunque e che derivino dall’esperienza! Ebbene tali tipi di giudizio esistono in forme di conoscenza che hanno un consentimento da parte di tutti: nella matematica pure e nella scienze della natura o fisica. Il giudizio matematico 7+5=12 non è analitico: il valore di 12 non è infatti implicito nella somma di 7+5. Tale valore lo si ottiene eseguendo materialmente la somma. Ma per eseguire materialmente la somma dobbiamo contare ricorrendo così all’esperienza empirica! Tale operazione di somma è possibile se esiste uno spazio ed un tempo nei quali possiamo materialmente eseguire l’operazione. Dunque spazio e tempo sono le modalità con cui possiamo eseguire le operazioni della matematica e della geometria. I giudizi sintetici apriori sono possibili nella matematica e nella geometria perché a fondamento di questi giudizi vi sono le intuizioni pure o trascendentali di spazio e di tempo. Il nostro apparato sensoriale struttura tutte le nostre sensazioni ordinandole spazialmente e temporalmente. Tali sensazioni ordinate nello spazio e nel tempo transitano nell’intelletto che mette in movimento i concetti puri o categorie. Il meccanismo delle categorie coordina, secondo un suo schema, i dati sensoriali: determina cioè i concetti che sono relazioni stabili e necessarie tra le sensazioni. Il meccanismo è automatico! Si genera così una conoscenza sicura, scientifica ed oggettiva perché applichiamo alla conoscenza dei fenomeni della natura delle strutture che sono in tutti gli esseri umani, vale a dire le categorie, e che rendono possibile a tutti di accettare il fatto che ogni fenomeno ha una causa e che, se per caso ci si presenta un fenomeno non causato, diciamo che è un miracolo. La rappresentazione che abbiamo del mondo è dovuta alla nostra capacità di decodificarlo attraverso strutture oggettive perché comuni a tutti gli esseri umani ma non possiamo dire che il mondo in se, nella sua essenza, è come noi ce lo rappresentiamo. Come esso sia in sé, al di là delle nostre rappresentazioni sensibili ed ordinate dalle nostre categorie, non possiamo saperlo!!!!!! Noi possiamo conoscere il mondo solo come appare alle nostre capacità rappresentative: questo mondo è quello dei fenomeni; il mondo nella sua essenza è quello dei noumeni.

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Nella METAFISICA non si possono dare giudizi sintetici apriori perché le idee della ragione non operano attraverso i dati empirici sensoriali e percettivi ma usano le categorie dell’intelletto in modo trascendente, come se fossero schemi corrispondenti alla realtà e non

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forme nostre di rappresentarci il mondo. La metafisica non è e non sarà mai una scienza razionale, cioè condivisa da tutti nei suoi risultati, perché in essa non sono possibili i giudizi sintetici apriori. Le idee di dio, del mondo e dell’anima sono teoreticamente indimostrabili.

LA CRITICA DELLA RAGIONE PRATICA

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Dal momento che nella metafisica non si possono formulare giudizi sintetici apriori questa è una scienza impossibile! Una conoscenza razionale, per pura ragione, DEGLI OGGETTI DELLA METAFISICA è IMPOSSIBILE! Tuttavia gli esseri umani non si limitano solo a conoscere le cose: agiscono pure! Orbene alle loro azioni, ed in particolare ad alcune di queste, danno anche un valore morale. Così ad esempio: “bisogna sempre dire la verità”; “tradire la fiducia dell’amico è sbagliato”; “non si deve mai uccidere” etc. rappresentano esempi di proposizioni che assumono una norma su ciò che è lecito fare oppure no. Ebbene dirà Kant: “che cosa è la morale e donde deriva? E quale è la sua realtà?”

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Nella sua seconda opera fondamentale, La critica della ragion pratica, Kant affronta il problema della morale e dell’azione che ne deriva!

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Secondo Kant anche la morale deve avere, per essere oggettiva, un elemento apriori. Tale elemento deve essere presente nella nostra ragione e Kant lo definisce l’imperativo categorico. Tale elemento apriori viene definito “imperativo” perché si presenta sotto forma di legge. Categorico perché “incondizionato”, non subordinato a nessuna condizione né ad alcuna esperienza.

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L’imperativo categorico viene distinto e specificato come apriori perché non è condizionato da alcun fine. Infatti se noi diciamo: “studia le varie materie curriculari se vuoi essere promosso”; oppure: “guida in modo prudente se non vuoi avere incidenti” noi enunciamo imperativi di tipo ipotetico: se vuoi ottenere questo devi agire in tale modo. Vale a dire devi agire in un dato modo per ottenere un certo fine. Quando noi agiamo in modo da conseguire un fine agiamo secondo un imperativo ipotetico: se vuoi devi operare nel seguente modo….. ecc!

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Lasciamo parlare un poco Kant. “ La rappresentazione di un principio oggettivo in quanto è costrittivo per una volontà si definisce un comando della ragione e la formula del comando si chiama imperativo. Tutti gli imperativi sono espressi dal verbo dovere ed indicano con ciò il rapporto di una legge oggettiva della ragione con una volontà che, secondo la sua costituzione soggettiva, non è necessariamente determinata da essa……………… Ora tutti gli imperativi comandano o ipoteticamente o categoricamente. Gli imperativi ipotetici rappresentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per raggiungere qualche altra cosa che si vuole o che è possibile volere. L’imperativo categorico sarebbe quello che rappresentasse una azione come necessaria per se stessa, senza relazione a nessun altro scopo, come necessaria oggettivamente………. Ora se l’azione è buona unicamente come mezzo per altro l’imperativo è ipotetico; se l’azione è rappresentata come buona in sé, quindi come necessaria in una volontà in se conforme alla ragione, come principio di tale volontà l’imperativo è categorico. L’imperativo ipotetico indica dunque che l’azione è buona rispetto ad uno scopo possibile e reale……..L’imperativo categorico che dichiara l’azione come oggettivamente necessaria per sé stessa, senza relazione ad un qualsiasi scopo o ad un qualsiasi altro fine, vale come un principio apoditticamente (necessario) pratico.” ( Kant: Fondazione della metafisica dei costumi; Loffredo editore; pag.30,31,32 et seg.). Kant enuclea diversi tipi di imperativi ipotetici quali quelli dell’abilità e della prudenza. Ma oltre a questi imperativi vi sono gli imperativi della moralità: questi sono tutti categorici. Infatti gli imperativi della moralità non riguardano la materia dell’azione e ciò che essa deve conseguire ma la forma ed il principio da cui tale azione deriva e ciò che è essenzialmente buono in lei consiste nell’intenzione, qualunque siano le conseguenze. Questo imperativo si può chiamare l’imperativo della moralità.

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Kant da diverse formulazioni dell’imperativo categorico; tuttavia quella più complessiva è la seguente: “opera sempre in modo che la massima della tua condotta possa valere come norma di una legislazione universale”. Se agiamo in tale modo ogni nostra azione avrà un contenuto oggettivo, comune a tutti e possibile per tutti. Se tale legge è oggettiva, in ogni nostra contingenza possiamo agire in modo da dire: “ chiunque, in un caso come questo, può agire così”. Così ad esempio se decido di rubare perché ho fame ed immagino che chiunque al mio posto agisca

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allo stesso modo mi accorgo che la convivenza civile, compresa la mia esistenza, sarebbe precaria e caotica. Dunque, per sfamarmi, non posso rubare perché la mia azione non potrebbe valere per reggere una legislazi9one universale. Dovrò non farlo e trovare un’altra soluzione!

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Appare allora nel campo dell’agire un valore che non esisteva nel campo del conoscere: IL DOVERE!

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Tale dovere è una SINTESI tra la sensibilità, che mi da il contenuto dell’azione e la RAGIONE che mi impone la scelta di farlo in modo da costruire una legislazione universale, cioè un modo oggettivo di agire.

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Ma il dovere non è l’unico valore nuovo che appare nel campo morale: se la ragione mi comanda di agire in modo oggettivo ciò vuole dire che io posso farlo, ovverosia che sono LIBERO di agire in quel modo! Così, accanto all’idea di dovere si profila l’idea di libertà. Tale idea era del tutto assente ed ignota alla conoscenza fenomenica!

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Ebbene la libertà non è un’idea limite: è un presupposto pratico dell’agire. Se essa non fosse in noi concretamente non potremmo agire perché non potremmo OPTARE di seguire l’oggettività della legge morale che ci viene presentata dalla ragione: dovremmo agire NECESSARIAMENTE facendo solo il nostro interesse ed il nostro tornaconto. La scelta, l’opzione di conformarci alla legge morale,si determina come libertà perché possiamo agire in

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modo da superare il nostro interesse soggettivo ed egoistico ed accettare i dettami della ragione.

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E tuttavia la libertà che ci permette di conformarci ai dettami della ragione noi non possiamo conoscerla direttamente dal momento che non è un dato dell’esperienza ma solo un contenuto dell’idea di dovere che rende possibile l’azione. Ciò significa che presupponendola almeno capace di rendere possibile l’azione come adesione alla legge morale, razionale ed oggettiva, noi ci avviciniamo a quel mondo noumenico che in sede di conoscenza teoretica era inattingibile. La ragione teoretica ci permette di formulare giudizi sintetici apriori a partire dalle intuizioni sensibili: ciò che noi conosciamo è il mondo dei fenomeni, di come il mondo appare al nostro apparato rappresentativo. In tale mondo fenomenico ogni effetto ha una causa ed una necessità: una penna che scivola dal banco deve cadere verso terra perché esiste una legge di gravità; tale legge è universale perché permette il mantenimento delle leggi gravitazionali dell’universo. Ma quando noi agiamo per aderire all’imperativo categorico che ci prescrive il dovere di operare andando anche contro il nostro interesse personale, scopriamo una dimensione, quella della libertà di agire secondo l’imperativo categorico, che non presuppone cause ed effetti necessari, ma autonomia e libertà. Il mondo noumenico, delle cose al di là delle nostre rappresentazioni, viene sfiorato dal fatto che il nostro agire non è determinato. Forse nel mondo noumenico può esservi una libertà che noi sperimentiamo come presupposto pratico del nostro agire: non comunque come operazione del nostro conoscere.

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Se la ragione può determinare le nostre azioni indipendentemente o addirittura contrariamente ai dati dell’esperienza, vale a dire il mio interesse soggettivo, ciò significa che l’io penso non è soltanto un presupposto logico. Essendo dotato di una sua autonomia perché è libero di scegliere sarà anche una sostanza. Almeno nell’ambito della sua relazione con il mondo. L’io non appare più come un presupposto logico descrittivo del mondo fenomenico ma come un qualche cosa che comanda la perfetta adeguatezza della volontà alla legge morale.

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Se nel campo teoretico, della ragione pura, dire “io penso….” non ci autorizzava a dire “io sono un essere pensante” perché l’idea di sostanza non veniva recuperata passando da nessuna esperienza empirica, nel campo dell’agire dire “io sono libero di seguire la legge morale che mi pongo” significa presumere l’esistenza di questo io indipendentemente dal mondo fenomenico perché la sua affermazione di libertà NON rientra in quel mondo. E tuttavia so con certezza che deve esistere un mondo nel quale posso agire liberamente: vale a

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dire che ha delle regole sue proprie che non sono solo i fenomeni che conosco. L’io che agisce liberamente, indipendentemente dal mondo fenomenico, ha una sua sostanza determinata ma mostra anche una perfezione rispetto al mondo fenomenico della necessità. Ciò significa che esistono gradi di perfezione! Dunque se l’esistenza di questo io poggia su una libertà morale che lo conduce verso una perfezione sempre maggiore ciò presuppone l’esistenza di una perfezione assoluta: cioè di Dio.

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Ed ecco che le tre idee della ragione che apparivano nella prima critica idee assolutamente limite, presupposti logici di cui la conoscenza non garantiva alcuna esistenza, nella Critica della ragion pratica appaiono come presupposti pratici dell’azione cui deve corrispondere un’esistenza reale. L’anima come io che segue una legge morale! Il mondo come libertà! Dio come estrema perfezione!

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Nelle due critiche non vi è nessuna contraddizione. Infatti il mondo dei fenomeni è conoscibile attraverso la ragione teoretica, vale a dire attraverso gli schemi che sono in possesso di tutti gli esseri umani. Tuttavia gli oggetti della metafisica, vale a dire l’anima, il mondo e Dio restano inconoscibili perché i giudizi sintetici apriori non sono possibili in tale disciplina dal momento che la ragione non formula i suoi giudizi metafisici a partire dal dato empirico, dall’intuizione empirica come la definisce Kant. Viceversa, nell’ambito della ragion pratica, le tre idee della metafisica si presentano come presupposti della libera possibilità di agire da parte dell’uomo. Ma questo non significa affatto che tali idee siano conoscibili: risultano reali e vere come presupposti pratici. Nulla di più! Sotto l’aspetto conoscitivo come sia il mondo in se, noumenico; oppure come sia l’anima; od infine come sia Dio non ne sappiamo assolutamente niente.

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CRITICA DEL GIUDIZIO

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Il vero problema era piuttosto un altro! La natura restava un campo di fenomeni che apparivano collegati nello spazio e nel tempo, muniti di senso attraverso le categorie, ma sostanzialmente qualche cosa di estraneo all’uomo. Occorreva gettare un ponte tra la necessità meccanica, teoretica e gnoseologica, e l’esperienza dei fini che la natura mostra di possedere. Così ad esempio possiamo considerare teoreticamente un filo d’erba come una sostanza, situata in uno spazio ed in un tempo, causata dallo sviluppo di un piccolo seme, in relazione con il mondo vegetale etc. Tuttavia resta il fatto che il filo d’erba ha una sua ben definita forma a cui tende. Tale forma a cui tende tutto il regno della natura provoca in noi delle sensazioni emotive: posti davanti a quel filo d’erba possiamo provare delle sensazioni che ci commuovono ricollegando, ad esempio, quel filo d’erba ad un nostro importante ricordo di infanzia. Di cosa si tratta dunque?

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E’ questo il così detto problema estetico, vale a dire le “emozioni” che gli oggetti della natura provocano in noi. E non solo gli oggetti della natura: ma anche gli oggetti che ci circondano. Tale problema Kant lo affronta nella sua terza opera: la Critica del giudizio.

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Cominciamo con un esempio concreto. Molti dei nostri giudizi sono costruiti subordinando un particolare ad un universale! Così ad esempio: “la rosa è un fiore”; “il leone è un felino”; “l’uomo è un mammifero”. In questi esempi si nota che i giudizi subordinano un particolare, rosa, leone, uomo ad un universale: fiore, felino, mammifero

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Orbene se io dico:”la rosa è bella” l’universale bello non è dato al pari del particolare rosa. Il particolare “rosa” mi viene dato da un contenuto dell’esperienza! Ma l’universale “bella” non è un contenuto dell’esperienza.

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Nel caso del giudizio “la rosa è un fiore” abbiamo un giudizio “determinante” perché l’universale è espresso ed il giudizio mi da la conoscenza di qualche cosa.

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Nel giudizio “ la rosa è bella” si ha un giudizio “riflettente” perché l’universale in esso contenuto NON mi è dato dall’esperienza ma mi porta ad una “riflessione”, cioè a stabilire un rapporto tra me e l’oggetto della natura.

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Ebbene il vero problema è: come è possibile il giudizio riflettente?Kant da la seguente spiegazione: il giudizio riflettente può avvenire perché alla base della sua costituzione vi è un elemento apriori che subordina l’oggetto dato ad un fine da conseguire: “IL SENTIMENTO”. La bellezza della rosa esprime un mio “interesse” per questo particolare effetto della rosa stessa. Questo effetto è “il mio sentimento” verso quell’oggetto!

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Numerosi e diversificati possono essere i sentimenti! Ma hanno tutti in comune che la loro forma apriori consiste nella loro subordinazione ad un fine. Un fine che ci attrae verso di sé se

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la conoscenza che ci da il sentimento è piacevole; un fine opposto se la conoscenza che ci da il sentimento ci respinge.

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Il giudizio ”riflessivo” può essere di due specie: “teleologico” se considera la finalità propria dell’oggetto. La bellezza della rosa è una sua qualità. Ma tale giudizio è illusorio perché la finalità della rosa non è necessariamente quella di essere bella! Non lo sappiamo perché nelle cose il valore estetico non è un fatto oggettivo.

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Il secondo tipo di giudizio riflessivo è quello “estetico” che considera la finalità del bello dentro noi stessi. E’ rispetto alla nostra soggettività che la rosa è bella. Quando dico “che mia figlia è bella” il mio sentimento subordina al fine del mio affetto il suo essere bella.

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Alla base del giudizio estetico stanno i due sentimenti del “bello” e del “sublime”. La bellezza non è una qualità dell’oggetto ma deriva da una relazione tra le intuizioni sensibili e l’intelletto senza che nessun interesse ci leghi con l’oggetto conosciuto: è bello ciò che piace senza alcun interesse, per la sola sua forma.

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La bellezza non ha nulla a che vedere con il piacere sensibile o con la soddisfazione di avere compiuto una buona azione morale: il bello è un’intuizione della pura forma! Il senso del bello deriva da una relazione tra “l’intuito” e “l’intelletto”. Il senso del “sublime” deriva da un rapporto tra “l’intuizione” e “la ragione”.

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Mentre il sentimento del bello è una relazione armonica, il sentimento del sublime non lo è! Appare piuttosto come un sentimento disarmonico. Esso si fonda su uno “scarto”: l’intuizione

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si sente impotente ad accogliere le idee della ragione! L’intuizione sensibile non è capace di tradurre in immagini le idee limite verso cui si spinge la ragione. Così ad esempio uno spettacolo della natura come il mare in tempesta, oppure un tramonto dorato, o l’infinita vastità della volta stellata mi appaiono nella loro bellezza! Questo è un sentimento privo di fine, compiuto e svolto in se e per se. Nel momento in cui percepisco la bellezza di tali scenari mi assale anche un senso di angoscia perché esiste uno scarto tra la grandezza e l’infinità di quello spettacolo, di cui ci sfugge il limite, e il piacere estetico che esso ci sollecita.

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La verità è che il sentimento del sublime non è nella natura; esso è in noi perché siamo noi che abbiamo proiettato all’infinito quella bellezza. Tuttavia anche se questo sentimento è in noi possiamo anche immaginare che nella natura vi è un finalismo che genera appunto il sublime.

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Attraverso il giudizio estetico Kant ha determinato quel ponte tra la realtà fuori di noi e il finalismo che si intravede nella natura attraverso i nostri sentimenti.

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Per concludere questo riassunto semplificato del grande sistema filosofico Kantiano possiamo eseguire qualche riflessione di carattere particolare e interdisciplinare. Innanzi tutto possiamo subito riflettere che la concezione kantiana cerca di risolvere un problema molto avvertito dalla comunità dei filosofi: perché la filosofia non è giunta, nell’ambito della metafisica, a conclusione certe così come è avvenuto nelle scienze fisico-matematiche e sperimentali in generale. La matematica, la fisica, hanno costruito insiemi teorici sui quali la comunità degli studiosi concordano in gran parte. Attualmente anche altre discipline, come l’informatica, la medicina, la psicologia, la sociologia, l’economia, il diritto, la linguistica e via di seguito hanno costruito sistemi di conoscenza nei quali si riconoscono moltissimi addetti ai lavori: la comunità scientifica appunto. Invece della filosofia si dice che pone problemi ma non li risolve in modo tale che la comunità dei filosofi vi si riconosca; soprattutto nell’ambito dei problemi della metafisica. Dunque il problema sollevato da Kant è attualissimo anche per noi! Kant ha praticamente dato delle risposte convincenti a tale problema affermando che nella metafisica non possono formularsi giudizi sintetici apriori: dunque la metafisica è una scienza impossibile. Se per scienza intendiamo una forma di conoscenza condivisa nei suoi risultati, verificabile e riproducibile o, come direbbe Kant, fondata sui giudizi sintetici apriori, la metafisica

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è veramente impossibile come scienza teoretica, vale a dire razionale. Le idee dell’esistenza di un mondo oggettivo e delle sue leggi essenziali, di un io scisso dal corpo e che sopravvive a questo, nonché di un essere perfetto che chiamiamo Dio, non possono essere dimostrate attraverso procedimenti razionali che prendano spunto dall’esperienza e, pertanto, tentativi di soluzione non potranno avere alcun consentimento generale da parte della comunità dei filosofi e delle persone in generale. Il nocciolo della questione, molto convincente e condivisibile, è che noi esseri umani conosciamo attraverso strutture sensoriali, percettive, ma anche cognitive, ben determinate ed invalicabili, anche se uguali per tutti gli esseri umani. Pertanto un essere della specie umana non potrà mai osservare le molecole o gli atomi per il semplice fatto che il nostro apparato percettivo e cognitivo non recepisce gli atomi o le molecole di cui sono fatte le cose. Insomma siamo limitati e possiamo sperimentare e conoscere le cose solo nell’ottica dei nostri apparati percettivi e cognitivi. Quando ci spingiamo “più in avanti” rischiamo di dire cose che non reggono alla struttura della nostra razionalità. Se teoreticamente la metafisica è una scienza impossibile tuttavia, nel campo dell’agire umano, Kant nota un elemento che non fa parte del mondo fenomenico: la libertà. La ragione infatti ci suggerisce l’idea di agire secondo un dovere che nasce dal pretendere che, al nostro posto, tutti si possano comportare in un certo modo e di trattare i nostri simili come fini e non come mezzi. Se tutti decidiamo di non rubare una legislazione universale potrebbe essere costituita su tale massima: dunque la ragione mi suggerisce di agire sempre come se ogni mia azione potrebbe fondare una legislazione universale. Tale dovere al quale posso conformare la mia condotta, così come possono farlo tutti gli uomini che sono dotati delle mie stesse possibilità razionali, implica che sono libero di seguire la legge morale e che, dunque, il mio “io” non è obbligato ad agire in modo soggettivo: per interesse o per un fine. Il mondo fenomenico mi appare retto dalla categoria di causa e gli eventi sono necessari: nell’ambito dell’agire appare l’orizzonte della libertà che era escluso dall’universo dei fenomeni. Ciò può significare che nel mondo noumenico vi è lo spazio della libertà negato alla conoscenza razionale. La libertà del mio agire mi permette di pensare che esiste un “io” come sostanza non fenomenica, perché dotato di autonomia, e che possa sussistere indipendentemente dal mio corpo fenomenico; ed essendo la libertà una forma di perfezione posso pensare che esista una perfezione assoluta che chiamerò Dio. Comunque queste idee non sono teoreticamente dimostrabili: si lasciano intravedere come condizione della mia libera scelta di adeguarmi alla legge universale che mi presenta la ragione. Il mondo che conosciamo è il mondo dei fenomeni vale a dire come il mondo viene letto ed interpretato dalle nostre strutture conoscitive: nulla di più! Al di la delle nostre strutture conoscitive il mondo può essere come è: ma noi non possiamo che conoscerlo come esso ci appare. Nel giudizio estetico il mondo della natura ci appare nel rapporto con la nostra sensibilità, con la nostra capacità di provare sensazioni, sentimenti, attraverso le cose. Secondo l’idea che dell’estetica ha Kant l’infinito percepito dal Leopardi non è un elemento presente nella natura, né proviene da questa. Sono le intuizioni empiriche che mi provengono da tale spettacolo che vengono proiettate dalle idee della ragione verso un limite che, in natura, può anche non esservi. Nello scarto che avviene tra le categorie dell’intelletto dotate del “limite” e le idee della ragione che non tengono conto di tale barriera si crea il sentimento contraddittorio dell’angoscia davanti a tale spettacolo: il sublime appunto. Dall’angoscia di tale sentimento scaturisce comunque un senso di elevazione per la coscienza che avverte come il nostro pensiero si proietti “oltre” le intuizioni empiriche e tale cognizione ci permette di pensare che, anche nella natura, può esservi un finalismo che esprime appunto il senso del sublime.

Serafino BusaccaDocente di Filosofia e scienze umane presso l’Istituto Statale

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Giuseppe Lombardo Radice di Catania.

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