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IPOGEO DEI VOLUMNI
L'ipogeo si trova 5 km a sud est dal centro di Perugia
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TECNICA dell’AFFRESCO
La pittura a fresco, comunemente conosciuta come affresco, viene chiamata così perché si esegue su un
intonaco fresco, cioè appena steso e quindi saturo d'acqua.
Il colore viene completamente inglobato, nell'intonaco che asciugando, si combina con l'anidride
carbonica dell'aria e forma il carbonato di calcio, acquistando, particolare resistenza all'acqua e al tempo.
Nella pittura a fresco, poiché l’intonaco assorbe immediatamente il colore, la lavorazione deve essere
veloce ed eseguita senza errori, perché non è possibile apportare correzioni o ritocchi, se non a secco,
cioè ad intonaco asciutto.
Per ovviare a questo problema, normalmente l'opera si realizza in piccole porzioni, provvedendo di volta
in volta ad applicare l'intonaco sulla parte che deve dipingere.
Vediamo quali sono le fasi principali
di esecuzione.
Per prima cosa bisogna procedere al
rivestimento del muro, che avviene in
tre fasi:
1. Rinzaffo
2. Arriccio
3. tonachino.
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Prima dell'ultima fase, occorre però riportare il disegno sulla parete. Ma vediamo i particolari.
1) RINZAFFO
La prima fase è la stesura sul muro del rinzaffo. Questo viene preparato con uno strato di calce e sabbia,
si presenta molto ruvido e grossolano per permettere una buona adesione allo strato successivo. Questo
strato, ha la funzione di rendere il muro regolare ed omogeneo.
2) ARRICCIO
In seguito viene disteso un secondo strato di intonaco più fino (arriccio) dalla superficie leggermente
arricciata, ruvida, ma meno irregolare del rinzaffo. Su questo strato, si esegue il disegno.
3) RIPORTARE IL DISEGNO SULLA PARETE
Quando l'arriccio è sufficientemente asciutto, ma non ancora secco, si riporta il disegno sulla parete.
Vediamo quali sono i principali metodi.
a) Metodo dello Spolvero
Si esegue il disegno su un foglio (CARTONE PREPARATORIO) della dimensione dell'opera che si vuole
produrre, poi le linee vengono forate con una punta, si appoggia il foglio sul muro. Attraverso i fori, viene
fatto passare un pigmento, come la polvere di carbone, contenuto in un sacchetto di garza chiuso, che
lascia la traccia dei punti. Si toglie il foglio e con un pennello bagnato, si uniscono i punti per avere un
segno continuo.
b) Incisione indiretta o ricalco
Si utilizza un foglio più spesso rispetto a quello da spolvero, si appoggia alla superficie e il disegno viene
ripassato con uno stiletto metallico. La traccia che viene lasciata si evidenzia e si procede alla fase
successiva.
c) Sinopia
Consiste nel disegnare con della terra rossa un abbozzo preparatorio per l'affresco. Si esegue subito dopo
l'arriccio. Il nome deriva da una località sul mar nero (Sinope) dalla quale proveniva la terra rossa usata
nel procedimento.
4) TONACHINO
Si applica quindi l’intonaco o tonachino che è lo strato che riceverà il colore: questo strato (sabbia fine,
polvere di marmo e calce) fine e trasparente, viene tenuto umido per tutto il tempo della pittura.
Si stende il tonachino SOLO SULLA PORZIONE DI INTONACO CHE IL PITTORE PENSA DI POTER
DIPINGERE IN BREVE TEMPO (MASSIMO 1 GIORNO) PER EVITARE CHE ASCIUGHI.
Su questo strato, il pittore ripassa con un pennello, il disegno della sinopia (che si intravede attraverso
l'intonaco).
Si procede quindi alla pittura di questa porzione di intonaco e quando si è ultimato, si procede a stendere
il tonachino su una porzione contigua e si dipinge quest'altro pezzo. Si prosegue così fino a quando tutta
l'opera è ultimata.
5) CARBONATAZIONE
Quando si dipinge sul tonachino, la calce si combina con l'anidride carbonica dell'aria e forma il carbonato
di calcio che salda fra loro i granelli di sabbia della malta ed i pigmenti di colore, che così indurisce e
acquista resistenza.
Questo processo chimico si chiama carbonatazione ed è quello che rende l'affresco una delle pitture più
stabili e resistenti nel tempo.
TOMBA DELLE LEONESSE
La Tomba delle Leonesse è una tomba situata nella necropoli etrusca di Tarquinia (provincia di Viterbo) nella
necropoli di Monterozzi.
La tomba è databile intorno al 520 a.C. e l'anno del suo rinvenimento fu il 1874.
Questa tomba appartiene alla
serie "arcaica" delle tombe della
Necropoli di Monterozzi ...
ovvero quando a Roma c'erano
ancora i Re.
La tomba è costituita da un'unica
camera funeraria con al centro
sulla parete di fondo una piccola
nichhia.
Il soffitto è a doppio spiovente
con spioventi dipinti con motivo
a scacchiera quadrati rossi e
bianchi e con columen
anch'esso dipinto come gli
spioventi.
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Sul timpano si vedono le due leonesse da cui
la tomba prende il nome.
Ma è, come al solito, la parete di fondo a
presentare la scena principale.
Sulla destra vediamo un uomo
(probabilmente il defunto) nudo atletico e
biondo con in mano un grosso vaso alla sua
sinistra una giovane donna dai capelli neri
con indosso una veste trasparente.
Al centro due suonatori, uno di cetra e l'altro di doppio flauto suonano sia
per la coppia di destra e sia per una donna vestitissima con lunga tunica
afiorellini ed un ampio mantello, che danza da sola alla sinistra.
I soggetti sono colti nell’atto di slanciare la
gamba facendo pressione sull’ arto sinistro,
per questa ragione i muscoli vengono
riprodotti esageratamente gonfi: tale
accorgimento viene detto espressionista.
ESPRESSIONISTA.
Tomba della Caccia e della Pesca è una tomba situata nella necropoli etrusca di Tarquinia (provincia di
Viterbo) nella necropoli di Monterozzi.
Questa tomba, databile al
530 a.C. circa, è stata
scoperta nel 1873 ed è
composta di due camere in
asse tra loro con copertura
a doppio spiovente, alle
quali si accede tramite
scalinata costituita da sei
gradini.
All’interno della sepoltura sono stati rinvenuti i resti di un corpo femminile, mentre le ceneri di un defunto erano
contenute nell’urna posta in una nicchia.
La grande importanza riconosciuta a questa tomba si deve al ricco nucleo pittorico che decora le sue pareti, nelle
quali viene dato grande importanza al tema marino.
Sul frontone della seconda stanza trova spazio la raffigurazione di un banchetto con una coppia al
centro adagiata sul kliné ed è evidente la tensione amorosa che li lega, con l’uomo che cinge in un abbraccio la sposa coprendole il fianco con una gamba e la donna che a sua volta sta per porgli sul capo una corona.
L’uomo è raffigurato col torso nudo, la pelle abbronzata e una folta barba; nella mano sinistra libera dall’abbraccio tiene una patera in argento sbalzata.
La donna ha il corpo interamente coperto, fatta eccezione per il volto e le braccia, rese di un candore latteo. Numerosi gioielli ornano le sue orecchie, le braccia e il collo; sul capo porta inoltre il tipico berretto etrusco, il tutulus. Mentre la mano destra è impegnata a porgere la ghirlanda al suo uomo, il braccio e la mano destri sono invece tesi fino a toccare il petto del compagno.
Nel registro centrale delle pareti della seconda stanza si snodano scene di caccia e di pesca; con la descrizione di un mare dalle cui onde guizzano delfini; mentre dalle barche vengono tese lenze, arpioni, reti e stormi di uccelli vengono cacciati con arco, frecce e frombole.
Al centro della parete di fondo c'è una barca
con quattro uomini, quello a prua intento a
pescare con la lenza, mentre a destra, su uno
scoglio, un cacciatore è in atto di colpire un
uccello con la fionda.
Sulla parete di sinistra una barca con tre pescatori accanto ad un
grande
scoglio da cui si tuffa con slancio acrobatico un giovane nudo.
Il tema del tuffo è strettamente connesso a quello dell’aldilà in
quanto è un’azione che valorizza il ruolo dell’acqua come
elemento di passaggio e di purificazione.
I CANOPI
Nella scultura etrusca è molto diffuso una forma di ossuario (vaso destinato
a contenere i resti cremati del defunto) antropomorfo chiamato dagli
studiosi canopo, per la somiglianza con i canopi egizi.
Nell'Antico Egitto tuttavia i canopi erano utilizzati per conservare le viscere
estratte dal cadavere durante la mummificazione e rappresentavano una
caratteristica funebre egizia.
Invece il canopo etrusco è strettamente legato al
rituale funerario più diffuso nell'area, cioè
l'incinerazione.
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Il vaso, sovrastato da un coperchio che allude alla forma di una testa
umana, era prodotto sia in metallo sia in terracotta ed era frequentemente
associato ad una sorta di sedia o trono sul quale veniva posizionato; i primi
esempi rinvenuti sono databili al secondo quarto del VII secolo a.C.
La caratteristica più significativa di tali contenitori è data dal fatto che i loro
artefici (come si può notare, in modo
alquanto schematico e rozzo, per via
dell’influenza dei modelli stilistici
greco-arcaici) conformarono sia i
manici (anse) che i coperchi, alle
caratteristiche formali delle persone
defunte, le cui ceneri erano in essi
contenute.
Nella zona di Chiusi (Toscana) inoltre sono stati ritrovati dei canopi
realizzati in bucchero che è un tipo di ceramica nera e lucida. La integrale
monocromia nera è la caratteristica più evidente di questa tipologia di
ceramica e la colorazione veniva ottenuta mediante una cottura particolare.
La Chimera di Arezzo
Il mito di Chimera
Chimera è una creatura della mitologia greca che sputava fuoco, con il corpo e la testa di leone, con un serpente
al posto della coda e anche una testa di capra sulla schiena. Chimera per lunghi anni terrorizzò le coste della Licia
(l'attuale Turchia), seminando distruzioni e pestilenze. Fu Bellerofonte, eroe da molti ritenuto figlio del dio
Poseidone, a fermare le scorribande del mitico mostro. Con l'aiuto di Pegaso1, Bellerofonte riusci a sconfiggere
Chimera con le sue stesse, terribili, armi, infatti l’eroe immerse la punta del giavellotto nelle fauci della belva e il
fuoco che ne uscì sciolse il piombo che uccise l'animale.
La Chimera d'Arezzo (bronzo, h 65 cm, Museo archeologico
nazionale di Firenze)
Capolavoro in bronzo della scultura etrusca (V-IV sec.a.C.). Fu
scoperta nel 1553 nelle campagne di Arezzo, fu conservata per
un periodo in Palazzo Vecchio dove Cosimo I dei Medici la volle
accanto al proprio trono, fu poi spostata nella villa medicea di
Castello perchè la sua presenza in Palazzo Vecchio era ritenuta
funesta. L'originale è adesso conservato al Museo Archeologico
1 Pegaso era un mitico cavallo alato. Sua madre era Medusa, la Gorgone famosa, in gioventù, per la sua bellezza, in particolare per le chiome fluenti, che andò in moglie a Poseidone, dio del mare e dei cavalli. Sfortunatamente, l'unione fra Medusa e Poseidone avvenne nel tempio della dea Atena (dea della saggezza, della guerra, delle arti e della giustizia), che, furibonda per l'oltraggio subìto dal suo tempio, trasformò Medusa in un mostro con la testa ricoperta di serpenti, il cui sguardo trasformava gli uomini in pietre. Quando Perseo decapitò Medusa, dal suo collo uscirono magicamente Pegaso, il cavallo alato e Crisaore un guerriero armato di spada.
di Firenze mentre sono visibili due copie bronzee leggermente piu' grandi, collocate nella prima metà di questo
secolo ad ornare le due fontane in piazza della Stazione ad Arezzo.
La Chimera di Arezzo, sulla zampa
anteriore destra, ha inciso l’iscrizione
tinsvil (donata al dio Tinia) , supremo
dio etrusco corrispondente a Zeus e
ciò fa supporre che fosse collocata in
un luogo di culto.
L’opera presenta una grande vivacità
espressiva. Il bronzo, infatti, riesce a
rendere estremamente credibile la
ferocia e la terribilità dell’animale
fantastico. La schiena inarcata, sulla
quale il pelo si rizza quasi a formare
una cresta, la criniera esageratamente
irta, con il pelo raccolto in ciuffi
appuntiti che incorniciano la testa, le fauci spalancate in un ruggito, i muscoli gonfi, le zampe anteriori
nervosamente puntellate contro il terreno, come se stesse per spiccare un balzo, sono altrettanti mezzi attraverso
i quali anche un mostro immaginario diventa verosimile e, in un certo senso, reale.
La Chimera che è un ex voto, testimonia dunque di una ricerca tutta etrusca verso una resa realistica che non
vuol significare imitazione della natura (reale o immaginaria che sia) ma interpretazione ed esaltazione di alcuni
suoi aspetti caratterizzanti.
L’Apollo di Veio
Si tratta di una statua in terracotta con tracce originali di policromia, a grandezza
naturale, rappresentante il giovane dio Apollo (Aplu per gli Etruschi) nell’atto di
ricondurre a sé una cerva dalle corna d’oro (la cerva Cerinea2) precedentemente
sottrattagli da Eracle. L’Apollo, rinvenuto nel 1916, è il meglio conservato fra i
personaggi fittili3 che costituivano i dieci acroteri4 posti sul colmo del tetto del
tempio del Portonaccio, a Veio.
La raffinata esecuzione di alcuni elementi della statua di Apollo, quali:
1. la ricercata acconciatura dei capelli
2. la presenza del cosiddetto sorriso arcaico
3. gli occhi a mandorla
4. il complesso panneggio ornamentale della veste
5. il sostegno decorativo, con palmette e doppie volute accostate (che
contribuisce a sorreggere la statua stessa) hanno fatto ritenere che l’opera potesse
essere stata realizzata da un artista greco. Oggi, però, tutta la critica è ormai
concorde nell’attribuirla a mani etrusche (probabilmente VULCA) in quanto,
nonostante la forte connotazione ionico-attica, la statua presenta nel suo insieme,
un’espressività del modellato tipica dell’arte etrusca.
2 La cerva di Cerinea era un animale sacro ad Artemide, la dea della caccia e della luna. La sua cattura costituisce la quarta delle 12 fatiche di Ercole. 3 Fittile: fatto di terracotta. 4 Acroterio: statua che ornava il colmo del tempio etrusco.