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L’ Oratorio - Radiocleb - Home PageEco di Gennaio 2015.pdf · 2015-01-13 · L’Oratorio nasce...

Date post: 15-Feb-2019
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Periodico della parrocchia di S. Anselmo di Lucca Anno 5 - Numero 1 – 12/017/15 L’ Oratorio L’Oratorio nasce dalla Comunità Parrocchiale come strumento per la formazione umana e cristiana delle giovani generazioni. In quanto radicato nella Comunità, è uno dei modi in cui la Parrocchia esprime la propria sollecitudine nei confronti degli indi- vidui e dei gruppi in fase formativa. L’Oratorio si pone accanto alla famiglia. Con essa costruisce un rapporto di dialogo e di fiducia, a volte di sostegno e di aiuto. La famiglia, a sua volta, trova nell’Oratorio un fedele alleato nel gravoso impegno di crescere ed educare i propri figli. La Comunità Parrocchiale esprime una forte predilezione verso i ragazzi, gli adole- scenti: l’Oratorio coinvolge i giovani, le coppie appena formate, le famiglie da poco costituite e, soprattutto, gli ultimi, i poveri. Nella convinzione che tutto può parteci- pare al bene della crescita e della vita futura. L’Oratorio deve condurre alla Comunità Parrocchiale. Non si tratta di realizzare un’isola autonoma nella parrocchia, ma di aiutare i più giovani ad entrare nella vita parrocchiale ordinaria. Ogni attività dell’Oratorio va considerata in questa prospetti- va. Ad esempio: la S. Messa domenicale dei ragazzi in oratorio deve educare ad un linguaggio ed a uno stile di vita, deve accompagnare i giovani a vivere bene l’Euca- ristia dovunque ed in particolare in Santuario; l’incontro con le famiglie ed i genitori serve ad avvicinarli alla vita ed alle attività della parrocchia; l’impegno a servizio dei più piccoli in oratorio deve poi diventare servizio nei confronti degli altri in parrocchia, mediante l’inserimento nei vari gruppi parrocchiali. L’obiettivo di crescita globale dei ragazzi viene perseguito dall’Oratorio mediante un’esperienza di vita coerente e che armonizza diversi elementi: la preghiera, il gioco, la cate- chesi, le esperienze caritative, il campeggio, l’oratorio estivo… L’Oratorio può essere visto come una palestra di vita cristia- na fondata sulla testimonianza umana e di fede.
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Periodico della parrocchia di S. Anselmo di Lucca

Anno 5 - Numero 1 – 12/017/15

L’ Oratorio

L’Oratorio nasce dalla Comunità Parrocchiale come strumento per la formazione umana e cristiana delle giovani generazioni. In quanto radicato nella Comunità, è uno dei modi in cui la Parrocchia esprime la propria sollecitudine nei confronti degli indi-vidui e dei gruppi in fase formativa.L’Oratorio si pone accanto alla famiglia.Con essa costruisce un rapporto di dialogo e di fiducia, a volte di sostegno e di aiuto. La famiglia, a sua volta, trova nell’Oratorio un fedele alleato nel gravoso impegno di crescere ed educare i propri figli.La Comunità Parrocchiale esprime una forte predilezione verso i ragazzi, gli adole-scenti: l’Oratorio coinvolge i giovani, le coppie appena formate, le famiglie da poco costituite e, soprattutto, gli ultimi, i poveri. Nella convinzione che tutto può parteci-pare al bene della crescita e della vita futura.L’Oratorio deve condurre alla Comunità Parrocchiale. Non si tratta di realizzare un’isola autonoma nella parrocchia, ma di aiutare i più giovani ad entrare nella vita parrocchiale ordinaria. Ogni attività dell’Oratorio va considerata in questa prospetti-va. Ad esempio: la S. Messa domenicale dei ragazzi in oratorio deve educare ad un linguaggio ed a uno stile di vita, deve accompagnare i giovani a vivere bene l’Euca-ristia dovunque ed in particolare in Santuario; l’incontro con le famiglie ed i genitori serve ad avvicinarli alla vita ed alle attività della parrocchia; l’impegno a servizio dei più piccoli in oratorio deve poi diventare servizio nei confronti degli altriin parrocchia, mediante l’inserimento nei vari gruppi parrocchiali.L’obiettivo di crescita globale dei ragazzi viene perseguito dall’Oratorio mediante un’esperienza di vita coerente e che armonizza diversi elementi: la preghiera, il gioco, la cate-chesi, le esperienze caritative, il campeggio, l’oratorio estivo… L’Oratorio può essere visto come una palestra di vita cristia-na fondata sulla testimonianza umana e di fede.

Il dovere di trovare la fiducia perdutaMolti leggono la crisi attuale come crisi di fiducia in campo finanziario, economico e politico ma, più in profondità, a livello culturale ed etico. È la diagnosi che emerge anche dall’indagine “Gli italiani e lo stato” condotta da Demos per Repubblica e commentata da Diamanti su queste pagine. Ritengo perciò che, all’apertura di un nuovo anno, valga la pena riflettere ancora sulla fiducia: sentimento, atteggiamento ed esperien-za che appare decisiva nell’esistenza di ogni persona così come nella vita sociale della polis. Non possiamo vivere senza porre la fiducia in qualcuno né senza ricevere fiducia da qualcuno, dagli altri. Ognuno di noi è nato perché sentiva questa spinta ad avere fiducia nella vita, in chi lo portava in grembo, in chi lo poteva accogliere. E ciascuno è venuto al mondo proprio grazie alla fiducia originaria posta nei genitori o in chi ci ha accompagnato nella nascita. Parimenti le nostre storie d’amore sono possibili solo quando uno sa mettere la fiducia in un altro, in un’altra e da questi riceverla. La fiducia è la realtà che rende possibile il vivere e il vivere in relazione: nell’amicizia, nell’amore, nel rapporto maestro-discepolo, nella relazione medico-paziente... Se una persona non riesce a fidarsi di nessuno, è condannata all’isolamento, imprigionata in una situazione mortifera.È proprio la fiducia che può creare il legame sociale e generare la comunità: a livello politico la mancanza di fiducia ge-nera una stanchezza nella democrazia e quindi ne mina la credibilità, aprendo lo spazio alla barbarie. Se la fiducia oggi difetta lo si deve in particolare a un triplice disincanto, sul piano economico, politico e identitario. Il senso del vivere in-sieme è compromesso dalla logica del mercato che privilegia l’interesse particolare e nega l’istanza di solidarietà; la vita politica offre il triste spettacolo di uno scollamento rispetto ai cittadini e di una autoreferenzialità elettiva che genera diffidenza e inaffidabilità; l’identità collettiva è smarrita e regredisce in un appiattimento su comunanze di tipo tribale.Dobbiamo allora porci una domanda: come mai siamo precipitati in questa situazione in cui si afferma che è meglio diffidare, diffidare sempre, diffidare di chiunque? Quali sono i fattori che hanno minato la fiducia che si era creata sulle macerie della seconda guerra mondiale? Quella fiducia sociale che ci aveva dato la possibilità di una convivenza capace di assumere un progetto comune e di condividere una speranza?Tra i fattori decisivi va annoverata l’illegalità crescente che si è espansa come un’epidemia, dalla quale nessun potere e gruppo sociale è restato immune. L’illegalità macroscopica, quasi sempre impunita, ha autorizzato un’illegalità quoti-diana e minuta, che sembra rispondere al “così fan tutti”. Questa illegalità ha minato il senso di sicurezza e il bisogno di protezione dei cittadini, immettendo in loro una sfiducia e tentandoli, seducendoli fino a condurli a non darsi pena della collettività, a scambiare l’etica con il “fare i moralisti”, a lasciar correre... Insieme ai fattori ricordati di autoreferenziali-tà e di mancanza di senso del bene comune e del servizio alla polis, l’illegalità ha reso inaffidabili molti soggetti politici e le stesse istituzioni di rappresentanza democratica. I cittadini si sentono sempre più lontani dalla politica e finiscono per non partecipare più all’edificazione della polis che sembra invece sequestrata dai partiti, da forze o gruppi di potere sovente nascosti e dunque viene valutata come non possibile, ormai preda dei corrotti.Qualcuno sostiene che viviamo già nell’epoca della post-democrazia e, a causa di questa debolezza della politica, si affermano il populismo, il sorgere del “salvatore” di turno, la smobilitazione dei corpi sociali, il conformismo e la de-gradazione dell’etica incapace di competere con illusioni che catturano le masse. La consapevolezza di essere cittadini di una polis comune ha ceduto il passo alla rassegnazione di essere consumatori in un mercato dopato, in cui la libera concorrenza è divenuta corsa alla sopraffazione, al dominio del più forte o del più furbo. E in questo precipitare della qualità della convivenza politica, vanno in frantumi e sono calpestate la solidarietà, l’attenzione ai deboli e alle vittime della storia. Così i cittadini-consumatori continuano a credere ad annunci e promesse dei soggetti politici, nono-stante non se ne vedano le condizioni e tanto meno i segnali di attuazione. Paure e illusioni sono fabbricate un giorno, esasperate quello successivo e dimenticate o mutate il giorno dopo ancora. Le persone sono sempre meno capaci di cri-tica, il dibattito ragionato viene considerato una perdita di tempo e sostituito da urla tra sordi, l’incalzare di sondaggi di ogni tipo e qualità ha rimpiazzato il faticoso delinearsi di una “opinione pubblica”: così si passa d’inganno in inganno, perdendo sempre più il contatto con la realtà. Fino a quando? Sì perché, come ci insegna la storia, a un certo momento sopraggiunge un punto di rottura in cui all’incapacità di indignarsi e di impegnarsi segue la reazione irrazionale di chi si nutre di violenza. Allora, che fare? Si tratta ora più che mai di rischiare la fiducia a partire dalle nostre relazioni personali, di ribadire la necessità della fiducia come fondamento della vita sociale. “Camminando si apre cammino”, così avendo fiducia si fa crescere la fiducia. I dati dell’inchiesta commentata da Diamanti dovrebbero suonare per tutti come un allarme: l’assuefazione alla sfiducia nelle istituzioni, negli altri, nel futuro non fa che asfaltare la strada alla barbarie e alla violenza. Sta a noi aprire un percorso diverso, resistendo, mettendo fiducia in noi stessi, esercitandoci con convin-zione ad avere fiducia negli altri e a non tradire la loro, a partire da chi ci sta accanto. Il primo passo per amare gli altri come se stessi consiste proprio nell’avere fiducia negli altri almeno come in se stessi. La fiducia va cercata alla sorgente: nelle modalità dei nostri rapporti con noi stessi, con gli altri, con il futuro, con la storia, con il fatto stesso di vivere. Sì, la fiducia nella vita è ancora possibile, è un dovere e una promessa di cui siamo debitori verso gli altri e verso noi stessi.

DOMENICA 1 FEBBRAIO - ORATORIO S.ANSELMO in FESTABicentenario della nascita di S.Giovanni Bosco

Gemellaggio con l’Oratorio di Poggio Grande di S.Pietro Terme (BO)

L’Oratorio nasce dalla Comunità Parrocchiale come strumento per la formazione umana e cristiana delle giovani generazioni. In quanto radicato nella Comunità, è uno dei modi in cui la Parrocchia esprime la propria sollecitudine nei confronti degli individui e dei gruppi in fase formativa.L’Oratorio si pone accanto alla famiglia.Con essa costruisce un rapporto di dialogo e di fiducia, a volte di sostegno e di aiuto. La famiglia, a sua volta, trova nell’Oratorio un fedele alleato nel gravoso impegno di crescere ed educare i propri figli.La Comunità Parrocchiale esprime una forte predilezione verso i ragazzi, gli adolescen-ti: l’Oratorio coinvolge i giovani, le coppie appena formate, le famiglie da poco costitu-ite e, soprattutto, gli ultimi, i poveri. Nella convinzione che tutto può partecipare al bene della crescita e della vita futura.L’Oratorio deve condurre alla Comunità Parrocchiale. Non si tratta di realizzare un’isola autonoma nella parrocchia, ma di aiutare i più giovani ad entrare nella vita parrocchiale ordinaria. Ogni attività dell’Oratorio va considerata in questa prospettiva. Ad esempio: la S. Messa domenicale dei ragazzi in oratorio deve educare ad un linguaggio ed a uno stile di vita, deve accompagnare i giovani a vivere bene l’Eucaristia dovunque ed in particolare in Santuario; l’incontro con le famiglie ed i genito-ri serve ad avvicinarli alla vita ed alle attività della parrocchia; l’impegno a servizio dei più piccoli in oratorio deve poi diventare servizio nei confronti degli altriin parrocchia, mediante l’inserimento nei vari gruppi parrocchiali.L’obiettivo di crescita globale dei ragazzi viene perseguito dall’Oratorio mediante un’esperienza di vita coerente e che armonizza diversi elementi: la preghiera, il gioco, la catechesi, le esperienze caritative, il campeggio, l’ora-torio estivo… L’Oratorio può essere visto come una palestra di vita cristiana fondata sulla testimonianza umana e di fede. Chiesa di Poggio Grande L’AccoglienzaTutti vengono accolti con disponibilità, atteggiamento di servizio, apertura generosa a partire dai piccoli e dai poveri.Lo stile dello stare insieme“Stare insieme” significa educare ed educarsi alla vita fraterna e di gruppo, all’amicizia sincera, ai rapporti onesti, agli “scontri” costruttivi: tutti elementi che concorrono alla disposizione per unvivere in modo sano nella società, per essere “sale della terra e luce del mondo”. Una sorta di rodaggio, insomma, che amplia e completa quello famigliare.Accoglienza e stare insieme sono finalizzati alla formazione di uomini cristiani: Gesù è il riferimento per imparare a “vivere e ad amare come Lui”. Questo è ciò che ci caratterizza come cristiani. La nostra fede dovrà trasparire dalle nostre relazioni e dal nostro modo di agire.In Oratorio, dunque, si sta insieme per: - Formazione umana e spirituale: incontri formativi, catechesi, proposte culturali confronti, vita di gruppo. - Aggregazione e proposte per il tempo libero: animazione del tempo libero, sport, conferenze, gite, feste, proposte estive. - Iniziazione cristiana: preparazione ai sacramenti, catechesi settimanale, incontri di preghiera, ritiri, pellegrinaggi.

Trampolino di lancioL’oratorio è trampolino di lancio verso la Parrocchia in primo luogo, ma anche verso la società civile. Dopo la fase dell’accoglienza e dell’accompagnamento iniziale, durante la quale i ragazzi vengonoeducati ai valori della vita cristiana, l’Oratorio può diventare un vero e proprio trampolino di lancio per la vita di un giovane. L’Oratorio aiuta a diventare testimoni ossia “Buoni cittadini e ottimi cristiani”. (D.Bosco) Si vuole, dunque, che la vita in famiglia, lo sviluppo dell’affettività, la scoperta della propria vocazione, lo studio, il lavoro, il volontariato, lo svago, la carità, l’impegno civile, il sevizio all’uomo, lo sport e tutte le altre dimensioni della persona portino alla maturità della persona.

La giustizia del pane spezzato con gli altriAffermare che “il cibo siamo noi” suggerisce due approfondimenti complementari. Da un lato significa che se noi, come ogni essere animale, “siamo quello che mangiamo”, in quanto umani “siamo” però anche “come mangiamo”: la cura con cui ci procuriamo e cuciniamo il cibo e le modalità in cui lo consumiamo costitui-scono parte integrante del nostro nutrimento e ne influenzano il conseguente metabolismo. Pensare e vivere il cibo come alimento condiviso significa comprendere in profondità che ciò che ci fa vivere è il rapporto con l’altro, il dare e il ricevere il cibo, non il semplice appropriarsene e consumarlo. Oggi più che mai abbiamo consapevolezza della dimensione globale legata alla condivisione o all’accaparramento degli alimenti: ne conseguono istanze di giustizia e di solidarietà, a cominciare dall’indispensabile rispetto per tutti gli uomi-ni e le donne che lavorano nella filiera alimentare primaria e per i loro diritti inalienabili. Quanti coltivano, raccolgono, trasformano e cucinano gli alimenti che ogni giorno arrivano sulla nostra tavola non sono e non devono essere estranei: sono infatti il “prossimo” che rende il cibo “vicino” a noi, alla nostra portata. Per questo il momento dell’assunzione del cibo dovrebbe sempre rivestire un carattere culturale, essere accom-pagnato da un ringraziamento per quanto ricevuto e da una concreta condivisione della gioia del pasto. Non è vero nutrimento ciò che viene ingurgitato come semplice carburante, senza consapevolezza, in una frettolosa solitudine, senza parole, gesti, silenzi ricchi di senso.D’altro lato, se “il cibo siamo noi”, allora ognuno è anche alimento dell’altro, lo nutre, lo fa vivere: è la pri-ma esperienza che ciascuno di noi compie e fa compiere appena nato. Se per il poppante il corpo della madre è il cibo, per la madre la fame del bambino, il suo corpicino che cresce è alimento ed energia vitale. Ma dive-nendo adulti, anche il reciproco legame vitale che unisce tra loro gli esseri umani conosce le patologie comu-nemente legate all’alimentazione: la bulimia e l’anoressia. Bulimia di chi, nel trarre nutrimento dall’altro, lo divora, lo consuma, ne nega l’alterità, ne cancella i diritti e la dignità, lo “assimila” senza rispettarne l’identi-tà. Anoressia di chi rifiuta di considerare l’altro come alimento ed elemento vitale per la propria esistenza, di chi deliberatamente riduce al minimo o addirittura azzera completamente l’assunzione del “cibo” che l’altro è per lui, si rinchiude nell’autosufficienza ignorando il sapore dello scambio, la sapidità della provocazione da parte del diverso, il gusto dello stare insieme.Le testimonianze di quanti hanno vissuto nei campi di concentramento o di prigionia ci ricordano come in tempi di dura carestia, lo scarsissimo cibo mangiato dall’uno era un sottrarre all’altro – anche senza furto – il minimo vitale e condannarlo a morte. Oggi, nei nostri paesi dell’abbondanza viviamo un paradossale capo-volgimento: noi sottraiamo a quanti patiscono la fame – vicini o lontani da noi – non il cibo che mangiamo, bensì quello che sprechiamo. Li condanniamo a morte non perché, attanagliati dall’istinto di sopravvivenza, mangiamo noi soli il cibo destinato anche a loro, ma perché buttiamo via quanto ci è superfluo e potrebbe sfamarli. Ecco allora l’attualità della parafrasi del Padre nostro: come in ogni autentica invocazione, quando il credente chiede a Dio di realizzare qualcosa, in realtà contestualmente si impegna davanti a Dio a contri-buire a tale realizzazione. Quindi “Da’ a loro il nostro pane quotidiano” significa “mi impegno a dare a chi è nel bisogno il mio pane quotidiano”, quel pane di cui non conosco più il sapore di condivisione che lo lega al “com-pagno”, al mio fratello e alla mia sorella in umanità, quel “Pane” che i prigionieri di guerra scrivevano con la lettera maiuscola nelle loro drammatiche missive ai familiari, quel pane che noi quotidianamente e colpevolmente gettiamo ogni giorno a quintali in discarica.L’espressione “pane quotidiano” o, meglio ancora, “pane di ogni giorno”, contiene anche l’idea della “mi-sura”: mensura cibi, come recitano le regole monastiche. Sì, c’è una quantità stabilita e limitata di pane da mangiare, proprio perché lo si possa spezzare e condividere così che tutti ne abbiano. Oggi, in tempo di opu-lenza, non siamo più sensibili alla “misura”, se non per ra-gioni dietetiche; ma in tempo e in luoghi di miseria a troppi poveri manca la possibilità di avere la “misura” necessaria di cibo. Capiamo allora perché il pane è sempre “nostro”, non è mai “mio”. Ora, se è “nostro” è anche “loro”, perché appartiene a tutti: alla tavola del mondo tutti sono convoca-ti per mangiare e bere insieme. Mai senza l’altro a tavola, perché essa è la vita, è convivio, luogo del con-vivere.

Perchè domandare significa vivereIn noi, umani, abitano molte domande, cioè sentiamo una pul-sione a conoscere, a sapere,a comunicare, che ci spinge a porre domande. È significativo che i bambini, non più infanti, pongano continuamente domande, per conoscere il mondo in cui sono giunti. I genitori lo sanno bene: più domande che affermazioni...L'umano è un essere che interroga e si interroga, quindi cer-ca una risposta. Ma le domande sono molto più decisive delle possibili risposte, che non sempre emergono per soddisfarle. Se Platone facevadire a Socrate che «il più grande bene dell'uomo è interrogarsi su se stesso, e indegna di essere vissuta è una vita senza tale attività (Apologia di Socrate 38A), potremmo estendere questa considerazione a tutte le domande fondamentali che ri-guardano la condizione umana.Rainer Maria Rilke, non ancora trentenne, scriveVa il 6 luglio 1903 in una splendida lettera al giovane poeta Franz Kappus: Caro signore, Lei è così giovane, e si trova com al di qua di ogni inizio, e io vorrei, meglio che posso, caro amico, pregarLa di avere pazienza con tutto ciò che è irrisolto nel suo cuore, e di tentare di amare le domande stesse, come se fossero delle stanze chiuse a chiare, o dei libri scritti in una lingua straniera. Non ricerchi ora le risposte che non possono esserLe date,perché non sarebbe in grado di viverle... Ora viva le domande.Forse, così, un giorno lontano, a poco a poco, senza accorgersene, si troverà a vivere la risposta... Il nostro compi-to è difficile, ma quasi tutto ciò che è serio è difficile, e tutto è serio.Rilke dà come consiglio al giovane di amare le domande - oserei specificare - più che le risposte, perché a volte le risposte non ci sono o non sappiamo trovarle, ma le domande sorgono, ci abitano, ci muovono, ci fanno cercare. E ci sono domande che ci vengono rivolte dagli altri, dall'Atro,che noi possiamo ascoltare o, al contrario, uomo o donna, che ci porge il suo volto.Il volto, che nella specie umana è unico, è distintivo della persona, e che i nostri occhi vedono, incontrano, leggo-no, conoscono o riconoscono, è una domanda,come sapeva sottolineare con maestria Emmanuel Lévinas. Permettetemi qui di ricordarvi anche un altro grande autore, per me un vero maestro: Edmond Jabès, che non a caso ha scritto Le Livre desQuestions (1963), Il libro delle domande, nel quale questo intellettuale ebreo pone domande e cerca di risponder-vi, ma solo attraverso frasi brevi, sintetiche, quasi degli aforismi, in modo che la domanda resti aperta, risuoni ancora e ancora...Si, il nostro cuore umano è abitato da domande: da dove vengo? Dove vado? Chi sono io? Ciò che mi circonda è reale? E tra tutte le domande, la più grave: perché la morte mi attende? E' dal profondo,dall'intimo di noi stessi, da quell'organo immaginario e simbolico che chiamiamo «cuore», senza ben sapere dove collocarlo, che emergono pensieri buoni e pensieri malvagi, da cui procedono i desideri, il volere, l'operare.C'è un'affermazione del profeta Geremia che mi ha sempre intrigato: «Il cuore dell'uomo è complicato e malato; chi lo pub conoscere?» (Ger 17,9). La fonte delle nostre domande è complicata e malata, perché veniamo al mon-do da un uomo e da una donna che già hanno conosciuto complicazione e malattia, e nessuno di noi nasce «senza bagagli»... La nostra esistenza è tributaria verso la nostra radice, verso chi ci ha preceduto e ci ha generato, ed è plasmata anche dalla nostra storia, dal nostro vivere in un tempo e in un luogo precisi.Le domande, dunque, generano un humus complesso e diverso per ciascuno di noi, ed è in questo terreno che la nostra personale volontà può decidere il bene e il male, può discernere le domande e scegliere se impegnarsi in una risposta o lasciarle cadere. Il nostro cammino di umanizzazione dipende innanzitutto da questo personale

discernimento, dal nostro impegno nel vivere in una logica di bene comune e di resistenza alla philautia, all'amore di sé, all'egoismo di chi vive senza gli altri o addirittura contro gli altri.Le domande che abitano in noi determinano dunque la qualità della nostra vita e della nostra convivenza. Ricordavo prima le domande che ogni essere umano degno di questo nome si pone, ben espresse dallo «gnostico» Teodo-ro alla metà del II sec. d.C.: «Chi sono io? Da dove vengo? Dove vado? A chi appartengo? Da cosa posso essere salvato?» (cf. Clemen-te Alessandrino, Estratti da Teodoto 78; PG9,696).Anche nella Bibbia sono testimoniate domande, sia rivolte a Dio dall'uomo sia all'uomo da Dio. Contina a pag. 6

segue da pag. 5 In questo dialogo tra l'uomo e l' Altro -che chiamiamo Dio-, in questa relazione che dall'inizio dell'umanità continua nella storia, vi sono molte domande. Va riconosciuto che le domande dell'uomo si riducono, pur nelle loro diverse espressioni, a una sola: «Ci darai la salvezza, ci libererai dalla morte, o Dio?». Le domande che Dio fa all'uomo, invece, sono diverse. La prima è quella testimoniata nel libro della Genesi, dove Dio cerca l'uomo che si è allontanato da lui, e lo chiama: «Adamo, dove sei? Terrestre, umano, adam tratto dalla adamah, dove sei? (Gen 2,9)». Domanda che interpella l'uomo in tutti i tempi e in tutte le generazioni: dove sei? Che significa: a che punto del cammino di umanizzazio-ne ti trovi? Sei un uomo che ogni giorno vince l'animalità che ti abita, oppure sei su un cammino di barbarie, di disumanizzazione, di bestialità? O ancora, citando il commento di Martin Buber in quel vero e proprio gioiello che è in cammino dell'uomo: «Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi...: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?» (QiqaJon, Magnano 1990, p.18).Creando l'uomo, Dio aveva detto: «Facciamo l'uomo» (Gen 1,26), dove il «noi» - dicono i rabbini significa che Dio e l'uomo insieme devono fare l'uomo, perché l'uomo si fa più uomo solo con l'aiuto dell'altro, e dell' Altro con la «a» maiuscola, Dio. Qui mi preme in modo bruciante dire una parola franca e necessaria. Quando, a proposito di Auschwitz, di Dachau, dei gulag, o del massacro delle minoranze etniche e religiose in Iraq o in Siria da parte degli jihadisti, sentiamo porre la domanda: «Dov'era, dov'è Dio?», dovremmo provare vergogna e chiederei inve-ce: «Dov'era, dov'è l'uomo? Dov'era, dov'è la nostra umanità?», senza imputare a Dio ciò che Dio stesso aborrisce!

Un'altra domanda posta da Dio- attenzione, non all'inizio cronologico della storia, ma all'inizio di ogni vita umana responsabile - è: «Dov'è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9). Dopo la domanda al tu che riguarda ogni umano, dunque ognuno di noi, se stesso, vi è la domanda che concerne l'altro, gli altri, quelli legati a ciascuno di noi dal vincolo della fraternità. «Dov'è Abele, tuo fratello?», significa: «Che rapporto hai con l'altro uomo? Che responsabilità senti verso di lui? Che cura ne hai? Oppure lo neghi, dunque lo misconosci, lo uccidi?». Anche questa è una domanda inesauribile, che ogni giorno si rinnova per ciascuno di noi.

Sono parole rivolte a tutti noiUno dei vantaggi del diventare anziani consiste nel potersi concedere lo sfizio di essere sinceri, a costo di apparire brutali. Il discorso di auguri, si fa per dire, nel quale Bergoglio ha mazzolato senza ritegno la Curia vaticana ricorda nei toni quello con cui Napolitano ringraziò, si fa sempre per dire, i parlamentari che lo avevano rieletto al Quirinale. Una sequela di giudizi sprezzanti e drammaticamente veri a cui i politici reagirono da par loro, spellandosi le mani nell’ap-plaudire colui che li andava definendo inetti e incapaci. Poiché vantano un tasso lievemente inferiore di faccia tosta e di masochismo, cardinali e prelati si sono limitati a ostentare maschere impassibili e sguardi terrei. Del resto il Papa è andato molto oltre Napolitano, rinfacciando ai suoi sottoposti ogni malattia etica concepibile, dalla freddezza di cuore alla brama di potere, con un linguaggio insolito in quegli ambienti felpati, abituati a esprimersi per allusioni. Tanto per gradire, Bergoglio ha accusato gli interlocutori di «Alzheimer spirituale» e «schizofrenia esistenziale». E ha definito la Curia «un’orchestra che produce chiasso», infestata di «esibizionisti, calunniatori, diffamatori, terroristi delle chiacchiere e omicidi a sangue freddo della fama dei propri colleghi». Dietro l’impassibilità delle vittime di tanta furia verbale si può leggere un’antica abitudine all’autocontrollo e alla dissimulazione, o forse la propensione umana a considerare le critiche come rivolte al vicino di banco e mai a se stessi. Finché a un certo punto Bergoglio se l’è presa con i traslochi sontuosi e lì nessuno – nemmeno l’interessato – ha potuto fare a meno di pensare a un nome e a un cognome. Quelli del cardinal Tarcisio Bertone, ratzingeriano in disgrazia prela-tizia ma non edilizia, che si è da poco installato in un superattico con vista sulle due stanzette francescane del Papa. Scorrendo la lista delle reprimende pontificali, si avverte un confortante senso di appartenenza, quasi di familiarità. Quando condanna l’invidia, la pigrizia mentale e il servilismo, il Papa sta parlando anche a noi, peccatori laici. Ma che a esserne così pesantemente afflitti siano gli uomini di Chiesa induce a nutrire qualche perplessità sull’efficacia della reli-gione (almeno di quella che si trasforma in una professione) come ispiratrice di condotte morali, nonché sulle difficoltà che ogni istituzione umana incontra nel selezionare i migliori anziché i più ammanicati. Lo sfogo del Papa voleva essere una sferzata, ma si è rivelato anche una confessione di impotenza. Se il leader di una organizzazione parla male dei collaboratori il giorno della sua nomina, si presume stia annunciando una rivoluzione. Se lo fa dopo che ha cominciato a comandare già da un pezzo, il suo lamento sa un po’ di resa. Come quando i nostri presi-denti del Consiglio in carica da mesi o addirittura da anni si indignano per l’eccesso di tasse e di burocrazia. Nella mia ingenuità mi domando: dopo averli presi a male parole, perché un Papa libero e forte come Bergoglio non può spedire i pretoni di curia a ripassare le ragioni della loro fede in qualche lontana e disagiata missione, sostituendoli con quei pretini di periferia intrisi di amore e tenacia che tengono in piedi le parrocchie e la Chiesa?

C'è un'Italia che vorremmoLibera, coraggiosa, giusta, buona, aperta, pacifica e pacificata. Direte che sogniamo a occhi aperti. Noi preferiamo scommettere sui nostri sogni che svelano il seme di Dio che è stato piantato in noi. Un seme che è la radice del nostro umanesimo. Un seme morto a Gerusalemme, lanciato nel cuore dell'Europa e in quella terra prediletta che è l'ItaliaNel passaggio da un anno all’altro è giusto sognare. Così come è giusto sperare. Purtroppo l’anno che abbiamo alle spalle è stato durissimo e tante nostre famiglie hanno sofferto. Ma in tanti abbiamo saputo resistere e costruire, nonostante tutto.Ma ora, in barba ai “purtroppo” e ai “nonostante”, proviamo a sognare l’Italia che vorremmo. L’Ita-lia che amiamo e che conta su di noi, cittadini e credenti. Noi sogniamo un’Italia libera. Dai suoi vizi (o peccati?), dagli inaccettabili silenzi omertosi, dagli orizzonti culturali ristretti, dai tic del “politicamente corretto”, dalle invidie sociali, dalle restrizioni mentali, dalle reazioni sociali stereotipate, dalle fughe consolatorie e assolu-torie nel “così fan tutti”, dalle reazioni irrazionali alle emergenze. Dunque, un’Italia libera di testa. Noi sogniamo un’Italia coraggiosa. Capace di dare un calcio alle proprie paure, di tornare a rischiare come ha fatto in tanti frangenti dolorosi della propria storia civile ed economica, di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, di guardare più lontano dei prossimi tre mesi, di in-travedere un orizzonte comune. Dunque, un’Italia di donne e uomini consapevoli delle proprie forze e dei propri talenti. Noi sogniamo un’Italia giusta. Dove i giovani abbiano la parte che spetta loro di diritto, dove il futuro non sia una lotteria sociale, dove l’ascensore sociale sia rimesso in moto, dove la giustizia degli uomini sia tale da rendere meno pesante il fardello dei cittadini, dove tutti pa-ghino la giusta dose di tasse perché tutti ne traggano beneficio, dove i diritti basilari siano garantiti a tutti senza distinzione alcuna di sesso razza cultura e religione. Insomma, un’Italia in cui la giustizia sociale sia cercata e praticata. Noi sogniamo un’Italia buona. Nella quale i buoni non siano considerati fessi, in cui gli onesti meritino il rispetto di tutti, in cui i disonesti siano oggetto della riprovazione sociale, in cui il volontariato sia stimato, in cui lo sguardo non sia sempre velato dall’ombra del sospetto, in cui sia ancora possibile tendere la mano a chi sta un passo indietro, in cui camminare e crescere insieme sia la norma. Dunque, un’Italia in cui il bene sia considerato un vantaggio compe-titivo rispetto al male. Noi sogniamo un’Italia aperta. All’Europa e al Mondo. All’accoglienza senza retropensieri razzisti e malmostosi. Alle intelligenze più vive e giovani. Alle forze fresche che ven-gono su dai territori. Ai suoi giovani eternamente in panchina. Ai suoi vecchi che giorno dopo gior-no sono considerati un peso insostenibile. Ai figli che tardano a venire. Insomma, un’Italia aperta al futuro. Noi sogniamo un’Italia pacifica e pacificata. Che rifiuti la violenza in ogni sua forma, sappia contenere l’esasperazione sociale causata dal disagio, gestisca la protesta dentro i cardini del rispetto reciproco, non alimenti lo scontro di classe e il conflitto sociale, sappia portare in tutti i consessi internazionali la voce di chi ama la pace e rifiuta la guerra come forma di solu-zione dei conflitti tra i popoli. Un’Italia, dunque, che scelga la pace per sé e per gli altri, senza se e senza ma. Direte che sogniamo a occhi aperti. Noi preferiamo scommettere sui nostri sogni che svelano il seme di Dio che è stato piantato in noi. Un seme che è la radice del nostro umanesimo. Un seme morto a Gerusalemme, lanciato nel cuore dell’Europa e in quella terra prediletta che è l’Italia. A noi tutti, italiane e italiani, credenti e non credenti, la responsabilità di farlo rifiorire. L’umanesimo…

Sotto lo stesso cielo... 'Europa che verràFra crisi ed egoismi nazionali occorre tornare al principio di solidarietà indicato dai "padri" della Comunità. Il ruolo essenziale dei giovani.“Viviamo sotto il medesimo cielo, ma non abbiamo lo stesso orizzonte”. Il pensiero preoccupato del cancelliere tedesco Konrad Adenauer risale agli inizi del percorso comune europeo e riaffiora in tutta la sua attualità mentre la crisi accompagna il passaggio da un anno all’altro. Spesso un’immagine riassume ed esprime una realtà o un problema meglio di molte parole. E questa richiama, in particolare, la fragilità della “solidarietà di fatto” sulla quale, nel pensiero dello statista francese Robert Schuman, avrebbe dovuto fondarsi, fin dalla nascita, l’Europa del futuro, l’Europa uscita dall’odio e dalla distruzione della seconda guerra mondiale. In realtà all’inizio del processo di integrazione si partì con il piede giusto, ma appare oggi evidente il rischio di cedimento del fondamento primo della “casa comune” europea perché dentro la solida-rietà si racchiudono culturalmente tutti gli altri valori. La crisi economica mondiale dapprima, gli egoismi degli Stati che non hanno voluto e non intendo-no cedere parte della loro sovranità all’Unione, e una finanza selvaggia, hanno trasformato l’Europa solidale nell’Europa degli interessi nazionali che l’hanno confinata in orizzonti temporali chiusi, costringendo gli europei di alcuni Paesi a forti sacrifici mentre altri difendono l’orticello dei propri interessi convinti che questa sia la via della salvezza, della crescita, del benessere. Si è incrinato il principio comunitario secondo cui ogni Paese avverte la responsabilità di contri-buire, proporzionalmente alla propria ricchezza, al bene comune europeo e, di conseguenza, alla autorevolezza dell’Ue nel mondo. Un’altra “solidarietà” sta prendendo piede ed è quella degli egoismi. Gli egoismi tra di loro solidali ostentano sempre più i loro slogan, le loro ideologie. E raccolgono consensi. Le analisi e le diagnosi attorno al fenomeno abbondano. Manca però una terapia efficace per guari-re un’Unione europea la cui precaria salute è messa ancor più a repentaglio dal pessimismo e dallo scetticismo. A entrambi non si risponde con la polemica ma con un nuovo e grande pensiero euro-peo da cui possano nascere figure lungimiranti, capaci di portare l’Unione europea fuori dal campo delle schermaglie sui vincoli di bilancio, sui debiti sovrani, sugli indebitamenti. E qui sono attesi so-prattutto i giovani europei che amano l’Europa più di quanto si scriva e si pensi. L’Europa ha biso-gno di riprendere quota non solo per se stessa, ma perché venendo meno un’Europa politicamente e culturalmente forte nella sua unità verrà a mancare un luogo del tutto originale dove territori piccoli e grandi, antichi e nuovi si incontrano sul grande tema della dignità delle persone e dei popoli. Papa Francesco lo ha ricordato a Strasburgo il 25 novembre indicando nella cultura dell’incontro la via maestra per la rinascita di un continente vecchio e stanco. L’Europa si salverà se tornerà la stagione della pazienza e dell’intelligenza di chi guarda più in alto e più lontano, consapevole che ci sono appuntamenti con la storia ai quali non si può arrivare in ritardo. “Se l’Europa non si fa oggi - scriveva Alcide de Gasperi nel 1954 - la si dovrà fare tra qualche lustro, ma cosa passerà tra oggi e quel giorno Dio solo lo sa”. Sessant’anni dopo, questa riflessione può essere letta come la conferma di un fallimento oppure come un invito a correggere errori e un incoraggiamento a costruire responsabilità, competenze e fiducia. Le parole di De Gasperi sono un appello ai giovani. L’Europa, in cui continuano a credere, è nelle loro mani, nel loro pensiero, nel loro impegno. Mai come in questo passaggio da un anno all’altro si avverte l’urgenza del protagonismo europeo delle nuove generazioni perché sotto lo stesso cielo non ci siano tanti orizzonti diversi oppure un orizzonte unico e monocolore ma ci sia un orizzonte comune e multicolore.

Mi autoscatto dunque sono, perché trionfa il selfieGente qualunque e potenti, tutti ossessionati dalla foto da condividereE alla fine arrivò l’imprimatur dello Zingarelli. Dicasi selfie, recita il dizionario, una «foto scattata a se stessi special-mente con uno smartphone o una webcam per lo più per condividerla sui social network». La definizione ricalca quella già pubblicata dall’Oxford Dictionary e conferma quanto uniforme sia la tendenza in tutto il mondo e consacra il 2014 come l’anno delle fotine. Scattate dovunque e comunque, anche quando non si potrebbe, vedi Daniel Barenboim con gli ultimi giorni da direttore musicale alla Scala terremotati dai flash inopportuni del pubblico. Ma soprattutto scattate a sé medesimi, in contesti tra i più vari, dal party aziendale al weekend a Bardonecchia, dal Capodanno in Times Square al fronte di guerra. Ai funerali, e c’è cascato pure Obama, ed era quello di Nelson Mandela. A casa propria in posa sexy e, se sei famoso, con possibile rischio di selfie leaks, come dimostra l’episodio che ha coinvolto la molto irritata Jennifer Lawrence. Con la celebrity colta al volo, dal Papa a Cristiano Malgioglio, passando per Matteo Renzi, Laura Pausini, i giudici di MasterChef. In solitaria, su sfondi di cui talvolta non si percepisce alcunché, basta che si intuisca che siano invidiabili: perché quel che conta è il nasone in primo piano del Soggetto, il suo ammicco, il suo esserci, e non è neanche detto che il nasone debba sembrare tale, da quando il selfie stick, in vendita su Amazon a una quindicina di euro e a molto meno dai venditori pakistani per strada, restituisce la giusta prospettiva. Un palcoscenico per narcisi? Un lodevole tentativo di autoaffermazione? Gli psicologi non hanno una risposta univoca. Gira in Rete un’infografica molto ben disegnata (ma sospettosamente priva di crediti scientifici precisi), che mette in relazione diretta i sintomi della sindrome narcisistica (ascolto unilaterale, incapacità di accettare le critiche, rifiuto di assumersi responsabilità, tendenza a sentirsi al di sopra delle regole) con la compulsione ai selfie: e insomma più sei preoccupato per la tua identità e per il tuo aspetto fisico, più cerchi consenso; dunque la fotina deformata non è che un amo da gettare nel mare dei social network, pescando complimenti, «mi piace», cuori, retweet che puntelleranno il tuo ego periclitante. Autoscatto e autostima. Posti un frammento del tuo io in cerca di conferme, basta perfino la suola rossa di una Loubou-tin, un tatuaggio, una manicure appena stesa, e sulla bacheca si affacciano i turibolanti: «Bella! », «amore!», «lovvo!». La diagnosi psicologica vien voglia di farla a loro più che ai selfisti. Renato Troffa, psicologo della comunicazione all’Università di Cagliari, che sui selfie ha diretto una ricerca, spiega che «in questi casi s’instaura un meccanismo di scambio, per cui apprezzi pubblicamente il selfie altrui, perché il tuo venga a sua volta apprezzato. Dal nostro studio emerge però che l’autoscatto degli altri spesso è considerato ridicolo, addirittura disdicevole». Vogliamo parlare di ipo-crisia sociale? «La definirei piuttosto desiderabilità, desiderio di piacere. Un elemento fondamentale è però la necessità di uniformarsi al gruppo: lo faccio anch’io perché così fan tutti, dunque mi sento più accettato. Ma, siccome questa esigenza cozza con la voglia di lasciare tracce salienti del proprio passaggio, ne scaturisce un andamento dinamico, alla ricerca di un equilibrio tra quello che è il comportamento comune, codificato, e uno sforzo di originalità». Famolo strano, insomma, ma non troppo. I potenti e i famosi, invece, cercano di farlo il meno strano possibile, perché l’obbiettivo è quello di sembrare perso-ne normali. «È l’eterno meccanismo del venditore di pentole», ironizza Troffa, «che quando ti entra in casa dice: ma lo sa che ho una cucina identica alla sua? ». Ecco i selfie dei politici, tutti, ed ecco per esempio il successo planetario del selfie dell’Oscar, il contenuto mediale più condiviso della storia. Se andassimo noi mortali alla notte delle stelle quello faremmo, no? Un bell’autoscatto. Per questo il più simpatico lì dentro non risulta Ellen DeGeneres o Angelina Jolie o Bradley Cooper ma lo scono-sciuto Peter Nyong’o. Fratello di Lupita e imbucato dell’anno.

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parrocchia la

“Tazza del

50esimo”

15 MODI DIVERSI PER ROVINARE UN FIGLIO1. NON PARLATE MAI DI SENTIMENTI IN FAMIGLIA.2. DATE IMPORTANZA ALLE COSE SOLIDE. 3. NON FATE ASSOLUTAMENTE MANCARE NULLA AI VOSTRI FIGLI.4. CERCATE DI PROTEGGERE I VOSTRI FIGLI IL PIU’ POSSIBILE DALLE DUREZZE DELL’ESI-STENZA. 5. EDUCATE I FIGLI AD ESSERE VINCENTI. 6. NON PARLATE MAI DEI VOSTRI PUNTI DEBOLI. 7. NON TEMETE DI UMILIARE I VOSTRI FIGLI. 8. RICORDATE CHE LE LODI SONO INUTILI E CONTROPRODUCENTI. 9. MANTENETE IL POTERE SUI VOSTRI FIGLI. INSEGNATE AI VOSTRI FIGLI AD AVERE PAURA DEL MONDO. 11. NON DIMENTICATE CHE I FIGLI VI APPARTENGONO. 12. NON PREOCCUPATEVI DI COINVOLGERE I VOSTRI FIGLI NEL CONFLITTO CONIUGALE. 13. PRETENDETE SEMPRE IL MASSIMO DAI VOSTRI FIGLI. PUNTATE ALLA PERFEZIONE CHE E’ UN IDEALE EDUCATIVO STI-MOLANTE. 14. NON PRENDETE SUL SERIO I BAMBINI. 15. NON RIFLETTETE MAI SULLA VOSTRA COERENZA.

Attenti a non diventare cristiani tiepidi, comodi o dell’apparenza. mattutina a Casa Santa Marta. Il Papa ha sottolineato che i cristiani devono sempre rispondere alla chiamatadi Gesù alla conversione, altrimenti da peccatori diventano corrotti. Il servizio di Alessandro Gisotti:Convertirsi è una grazia, “è una visita di Dio”. Papa Francesco ha preso spunto dalla liturgia delgiorno, un passo dell’Apocalisse di Giovanni e l’incontro tra Gesù e Zaccheo, per soffermarsi sultema delle conversioni. Nella prima lettura, ha osservato, il Signore chiede ai cristiani di Laodicea diconvertirsi perché sono caduti “nel tepore”. Vivono nella “spiritualità della comodità”. E pensano:“faccio le cose come posso, ma sono in pace che nessuno venga a disturbarmi con cose strane”.Chi vive così, ha affermato, pensa che non “manca niente: vado a Messa le domeniche, pregoalcune volte, mi sento bene, sono in grazia di Dio, sono ricco” e “non ho bisogno di nulla, stobene”. Questo “stato d’animo – ha avvertito – è uno stato di peccato: la comodità spirituale è unostato di peccato”. E a questi, ha rammentato, il Signore “non risparmia parole” e gli dice: “Perché seitiepido sto per vomitarti dalla mia bocca”. Tuttavia, ha proseguito, gli dà il consiglio di “vestirsi”,perché “i cristiani comodi sono nudi”.Poi, ha soggiunto, “c’è una seconda chiamata” a “quelli che vivono delle apparenze, i cristiani delleapparenze”. Questi si credono vivi ma sono morti. E a loro il Signore chiede di essere vigilanti. “Le apparen-ze – ha detto il Papa – sono il sudario di questi cristiani: sono morti”. E il Signore li “chiama alla conversione”: “Io sono di questi cristiani delle apparenze? Sono vivo dentro, ho una vita spirituale? Sento lo Spirito Santo, ascolto lo Spirito Santo, vado avanti, o …? Ma, se tutto appare bene, non ho niente da rimproverarmi: ho una buona famiglia, la gente non sparla di me, ho tutto il necessario, sono sposato in chiesa … sono ‘in grazia di Dio’, sono tranquillo. Le apparenze! Cristiani di apparenza … Sono morti! Ma, cercare qualcosa di vivo dentro e con la memoria e la vigilanza, rinvigorire questo perché vada avanti. Convertirsi: dalle apparenze alla realtà. Dal tepore al fervore”.La terza chiamata alla conversione è con Zaccheo, “capo dei pubblicani e ricco”. “E’ un corrotto - ha detto ilPapa - lavorava per gli stranieri, per i romani, tradiva la sua Patria”: “Era uno come tanti dirigenti che noi cono-sciamo: corrotti. Questi che, invece di servire il popolo, sfruttano il popolo per servire se stessi. Alcuni ci sono, nel mondo. E la gente non lo voleva. Questo, sì, non era tiepido;non era morto. Era in stato di putrefazione. Corrotto, proprio. Ma sentì qualcosa dentro: ma, questo guaritore, questo profeta che dicono che parli tanto bene, io vorrei vederlo, per curiosità. Lo Spirito Santo è furbo, eh! E ha seminato il seme della curiosità, e quell’uomo per vederlo anche fa un po’ il ridicolo. Pensate a un dirigente che sia importante, e anche che sia un corrotto, un capo dei dirigenti – questo era capo – ma, salire su un albero per guardare una processione: ma pensate questo. Che ridicolo!”Zaccheo, ha detto, “non ha avuto vergogna”. Voleva vederlo e “dentro lavorava lo Spirito Santo”. E poi “la Parola di Dio è entrata in quel cuore e con la Parola, la gioia”. “Quelli della comodità e quelli dell’apparenza – ha sottolineato – avevano dimenticato cosa fosse la gioia; questo corrotto la riceve subito”, “il cuore cambia, si converte”. E così Zaccheo promette di restituire quattro volte quanto rubato: “Quando la conversione arriva alle tasche, è sicura. Cristiani di cuore? Sì, tutti. Cristiani di anima? Tutti. Ma, cristiani di tasche, pochi, eh! Pochi. Ma, la conversione … e qui, è arrivata subito: la parola autentica. Si è convertito. Ma davanti a questa parola, l’altra parola, di quelli che non volevano la conversione, che non volevano convertirsi: ‘Vedendo ciò, mormoravano: ‘E’ entrato in casa di un peccatore!’: si è sporcato, ha persola purezza. Deve purificarsi perché è entrato in casa di un peccatore’”.Sono “tre chiamate alla conversione”, ha ribadito, che lo stesso Gesù fa “ai tiepidi, a quelli della comodità, aquelli dell’apparenza, a quelli che si credono ricchi ma sono poveri, non hanno niente, sono morti”. La Parola di Dio, ha detto il Papa, “è capace di cambiare tutto”, ma “non sempre abbia-mo il coraggio di credere nella Parola di Dio, di ricevere quella Parola che ci guarisce dentro”. La Chiesa, ha concluso, vuole che in queste ultime settimane dell’Anno liturgico “pensiamo molto, molto seriamente alla nostra conversione, per-ché possiamo andare avanti nel cammino della nostra vita cristiana”. E ci dice di “ricordare la Parola di Dio, fa appello alla memoria, di cu-stodirla, di vigilare e anche di obbedire alla Parola di Dio, perché noi incominciamo una vita nuova, convertita”.

Un «cuore pentito» che sa riconoscere i propri peccati è la condizione fondamentale per incamminarsi sulla «strada della salvezza». Allora il «giudizio» del Signore non farà paura, ma darà «speranza». E le due letture del giorno, sulle quali si è soffermata la riflessione di Papa Francesconella messa celebrata a Santa Marta martedì 16 dicembre, hanno proprio la «struttura di un giudizio».La prima, tratta dal Libro del profeta Sofonia (3, 1-2. 9-13) addirittura comincia «con una parola di minaccia: “Guai alla città ribelle e impura». Ecco già il giudizio: «alla città che opprime», la città che «non ha ascoltato la voce, non ha accettato la correzione. Non ha confidato nel Signore, non si è rivolta al suo Dio». Per costoro c’è la «condanna» che si esprime nel termine «guai». Per gli altri, invece, c’è una promessa: «Io darò ai popoli un labbro puro», scrive il profeta. E prosegue: «Da oltre i fiumi di Etiopia coloro che mi pregano mi porteranno offerte. In quel giorno non avrai vergogna di tutti i misfatti commessi contro di me».Di chi parla Sofonia? Di chi — ha spiegato il Papa — si avvicina «al Signore perché il Signore ha perdonato». Sono questi «i salvati»; gli altri invece sono «i superbi, che non avevano ascoltato la voce del Signore, che non hanno accettato la correzione, non hanno confidato nel Signore».Ai pentiti, che sono stati capace di riconoscere: «Sì, siamo peccatori» — ha sottolineato Francesco — il Signore ha riservato il perdono e ha rivolto «questa parola, che è una di quelle piene di speranza dell’Antico testamento: “Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero, confiderà nel nome del Signore”».Qui si individuano «le tre caratteristiche del popolo fedele di Dio: umiltà, povertà e fiducia nel Signore». Ed è proprio questa «la strada della salvezza». Gli altri, invece, «non hanno ascoltato la voce del Signore, non hanno accetta-to la correzione, non hanno confidato nel Signore», perciò «non possono ricevere la salvezza»: si sono «chiusi, loro, alla salvezza».Lo stesso, ha precisato il Pontefice, accade oggi: «Quando vediamo il santo popolo di Dio che è umile, che ha le sue ricchezze nella fede nel Signore, nella fiducia nel Signore; il popolo umile, povero che confida nel Signore», allora incontriamo «i salvati», perché «questa è la strada» che deve percorrere la Chiesa.Simile dinamica si incontra nel Vangelo del giorno (Matteo, 21, 28-32) nel quale anche Gesù propone «ai capi dei sacerdoti, agli anziani, del popolo», a tutta quella «“cordata” di gente che gli faceva la guerra», un «giudizio» su cui riflettere. A loro presenta il caso dei due figli ai quali il padre chiede di andare a lavorare nella vigna. Uno risponde: «Non vado per niente al campo. Non ne ho voglia». Ma poi va. L’altro invece dice: «Sì, papà», ma poi riflette: «Il vec-chio non ha forza, io faccio quello che voglio, non potrà punirmi». E quindi «non va, non obbedisce».Gesù chiede ai suoi interlocutori: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Il primo, quello che aveva detto di no», quel «giovane ribelle» che poi «ha pensato al suo papà» e decide di obbedire, oppure il secondo? A questo punto arriva il giudizio: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Loro «saranno i primi». E spiega perché: «Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia e non gli avete creduto. Voi non avete ascoltato Giovanni: il battesimo di penitenza... I pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi al contrario avete visto queste cose ma poi non vi siete nemmeno pentiti». Cosa «ha fatto questa gente» per meritare tale giudizio? «Non ha ascoltato — ha spiegato il Papa — la voce del Signore, non ha accettato la correzione, non ha confidato nel Signore». Qualcuno potrebbe chiedere: «Ma padre, che scandalo che Gesù dica questo, che i pubblicani, che sono traditori della patria perché ricevevano le tasse per pagare i Romani», proprio loro «andranno prima nel regno dei cieli?». E lo stesso avverrà per «le prostitute che sono donne di scarto»? Da qui la conclusione: «Signore tu sei impazzito? Noi siamo puri, siamo cattolici, facciamo la comunione quotidiana, andiamo alla messa». Eppure, ha sottolineato Francesco, proprio loro «andranno primase il tuo cuore non è un cuore pentito». E «se tu non ascolti il Signore, non accetti la correzione enon confidi in lui, tu hai un cuore non pentito». Il Signore, ha continuato il Pontefice, «non vuole» questi «ipocriti che si scandalizzavano» di quello che «diceva Gesù sui pubblicani e sulle prostitute, ma poi di nascosto andavano da loro, o per sfoga-re le loro passioni o per fare affari». Si consideravano «puri», ma in realtà «il Signore non li vuole».Questo giudizio su cui «la liturgia oggi ci fa pensare» è comunque «un giudizio che ci dà speranzaquando guardiamo i nostri peccati». Tutti infatti «siamo peccatori». Ognuno di noi conosce bene la «lista» dei propri peccati, però — ha spiegato Francesco — può dire: «Signore ti offro i miei peccati, l’unica cosa che possiamo offrirti».Per far comprendere meglio questo, il Pontefice ha richiam ato la «vita di un santo che era molto generoso»

e offriva tutto al Signore: «Il Signore gli chiedeva una cosa e lui la faceva». Lo ascoltava sempre e seguiva sempre la sua volontà. Eppure il Signore una volta gli disse: «Tu non mi hai dato ancora una cosa». E lui, «che era tanto buono», rispose: «Ma Signore cosa non ti ho dato? Ti ho dato la mia vita, lavoro per i poveri, lavoro per la catechesi, lavoro qui, lavoro là...». Di contro il Signore lo incalzò: «Tu non mi hai dato ancora qualcosa». Ma «che cosa Signo-re?», ripetè il santo. «I tuoi peccati» concluse il Signore.Ecco la lezione che ha voluto sottolineare il Papa: «Quando noi saremo in grado di dire al Signore: “Signore, questi sono i miei peccati, non sono di questo, di quello... Sono i miei. Prendili tu. Così io sarò salvo», allora «saremo quel bel popolo, popolo umile e povero che confida nel nome del Signore».

Un gioco di società saluta il futuro

Altro che relegati in qualche angolo della stanza dei bambini, mandati in pensione da console ipertecnolo-giche, videogame dalla grafica sempre piu accurata e applicazioni per smartphone. I giochi di societa sono piu vivi che mai. Е pro prio durante le feste hanno il loro momento di massimo splendore. Е soprattutto а Capodanno diventano protagonisti.Роро il brindisi, le chiacchiere languono, nessuno si sogna di uscire di casa e tanto meno di festeggiare il 2015 in pista? Un escamotage per restare svegli е tirare, se non fino al mattino, almeno un ро' piu tardi, соте vuole la tradizione di San Silvestro, е mettere sul tavolo un bel gioco di societa. Il preferito? Sara anche per una questione di longevita, visto che nell’аппо che sta per cominciare compira 80 anni, ma e sempre «Monopoly», che ha insegnato а generazioni di provetti imprenditori l’artе della contratta-zione. Da quando è stato inventato si calcola che siano state costruite sei miliardi di casette verdi e oltre due di alberghi rossi. 1п attesa che — come si vocifera — Ridley Scott racconti la sua nascita in un film, Hasbro celebra le feste con «Му Моnоро1у», l’ultima versione tutta personalizzabile, dove imprevisti e probabilita le creano i giocatori. Ма la notte di San Silvestro guai а dimenticare le carte da «Uno», ideale se si e in tanti. Al gioco creato nel 1971 da Merle Robbins e prodotto da Mattel ci si puo sfidare fino а un massimo di 10 concorrenti. Mai pro-vato? Lasciatevi trascinare. Giocando si impara. Lo sanno bene anche i bambini. Соn il tempo, infatti, non soltanto sono nati i modelli junior delle scatole piu famose, ma ne sono state pensate ргоргio per i piu piccoli. Un esempio? «Otto il maialino che fa il botto». L’obbiettivo è sfamare il protagonista. Occhio, pero, а non esagerare: potrebbe fare indigestione e la sua cintura esplodere. Della serie: educazione alimentare si apprende anche tirando i dadi e muovendo le pedine. Е alla fine pure gli adulti ne sono conquistati. Соme succede per l’2А11еgro chirurgo», lanciato da Milton Bradley nel 1965, е «Idovina chi?», un classi-coper i bambini degli Anni 90, mа che ha visto la luce, molto prima, пеl 1969, per intuizione di Theo e Ora Coster. Oggi e disponibile anche in versione elettronica e continua а essere uno dei piu amati dai circa 50 mila giocatori italiani. Таnti sono stati i visitatori dell’ultima edizione della Settimana del gioco in scatola organizzata da Hasbro. Secondo le ultime ricerche si роса, in media 150 ore all’аппо, tra amici e in famiglia. Il segreto del suc-cesso? lе confezioni funzionano а tutte le età. Е се n’е una per ogni gusto. Stanchi di stare seduti? Provate «Twister» е assumete le posizioni sul tappetino соте indica la tavoletta. Vi piace la strategia? «Risiko», distribuito in Italia da Editrice giochi, е perfetto. Nostalgici dell’infanzia? Riecco evergreen «Subbuteo», il сатро da calcio da tavolo di Giochi preziosi. Amate l’adrenalina? «Taboo» е il gioco delle parole proibite da indovinare prima che si esaurisca la clessidra. Appassionati di Agatha Christie e Sir Arthur Conan Doyle? Diventate detective per una sera con «Cluedo». Amate i quiz? «Trivial Pursuit», adesso in versione «Party» con 1200 domande, fa per voi. Senza dimentica-re il gioco che unisce nonni е i nipoti: la tombola. Il divertimento e assicurato. Di piu: si sta anche meglio. I giochi di società stimolano concentrazione e memoria. Uno studio dell’associazione Mensana lo conferma.

Nel mese di Febbraio conpiranno gli anni:

Abissino Gianluca 22-febAzzolini Angelo 6-febBajrami Christian 20-febBari Maria Grazia 16-febBarilli Riccardo 18-febBaroncini Gaia 12-febBassoli Alessandro 27-febBassoli Cecilia 27-febBauzone Lucia 7-febBecchi Gabriele 2-febBecchi Mattia 9-febBedogni Laura 6-febBenfenati Sofia 28-febBernieri Gabriele 3-febBerti Giorgia 15-febBertolani Azeredo Luca 4-febBertoni Elisa 2-febBianco Elia 10-febBigi Alberto 8-febBocedi Agatha 24-febBondavalli Gaia 3-febBoughlal Myriam 1-febBraglia Giulia 24-febBregu Jesmina 25-febCafaro Veronica 2-febCamellini Alice 16-febCampani Celeste 28-febCamurri Francesca 15-febCaniparoli Denis 20-febCarretti Maddalena 25-febCasarini Chiara 14-febCoccorullo Luciano 23-febCodeluppi Chiara 24-febColombi Giulia 25-febCornali Andrea 22-febCorradini Luca 10-febCostantini Adriano 17-febCostantino Flavia 22-febCosti Elena 28-febCrescente Angela 25-febCresto Miseroglio Lorenzo 18-febCurecheru Dan 22-febDavoli Stefano 5-febDe Marchi Riccardo 15-febDel Viscio Emanuela 6-febDi Paola Jacopo 24-febDi Salvatore Lorenzo 25-febDiletto Giusy Francesca 5-febDungaran Analyn Baile 6-febFathi Issa Hammad Asmaa 20-febFava Alessandro 15-febFerrari Michele 15-febFerretti Alice 9-feb

Fontanesi Marco 25-febFontanili Luca 17-febFormentini Sara 6-febFornaciari Ferretti Doris 9-febForti Alessia 17-febFoschi Gaia 10-febFranzi Pietro 3-febFranzoia Enrico 4-febFroio Pietro 1-febGalasso Esmeralda 12-febGallo Emanuele 24-febGatti Federica 13-febGavesi Emanuele 22-febGenitoni Ilaria 29-febGhiselli Ricci Alice 7-febGiannini Leonardo 12-febGira Noemi 28-febGolia Consiglia 17-febGrilli Eric 22-febHolopainen Agnese 4-febHoxha Kristel 12-febIncerti Elena 7-febIsufi Iris 12-febKakaliashvili Giorgio Luca 26-febKuqi Arjola 18-febLammens Carlotta 28-febLanciotti Matteo 12-febLeone Giorgia 6-febLisi Davide 19-febLosi Ludovico 18-febMacarone Palmieri Antonio 2-febMagna Irene 23-febManna Valentina 14-febMarchesi Filippo 25-febMarchi Laura 23-febMariani Sofia 9-febMaringola Carmine 23-febMarmiroli Martina 27-febMazzini Chiara 15-febMenozzi Sara 23-febMereanu Tatiana 23-febMessori Giulia 7-febMilano Federico 8-febMocan Ion 15-febMocerino Sara 16-febMorini Lucia 8-febMorselli Flavio 9-febMorsiani Fabio 3-febMussini Luca 7-febNeagoe Ionela Monica 24-febNocera Carmine 10-febNsia Paolo 17-febNyantakyi A. Samuel 25-febOrefice Roberto 23-feb

Owusuwaa Priscilla 3-febPanciroli Alice 3-febPanella Roberta 2-febPellegrini Lorenzo 3-febPeterlini Greta 19-febPilastri Silvia 10-febPontorno Asia Karima 20-febPuglia Andrea 2-febPuoti Ferdinando 15-febRagni Riccardo 14-febRicco’ Panciroli Luca 28-febRimmaudo Nicolo’ 7-febRinaldi Jenny 25-febRossi Enrico Virgilio 20-febRumyantseva Anna 27-febRusi Viola 24-febRuzzarin Andrea 18-febSalamini Giorgia 8-febSalsi Marta 12-febSchiavone F. Paolo 15-febScolari Luca 16-febSerra Alessia 7-febSeveri Christian 28-febSignoriello Luca 17-febSpanu Niccolo’ 24-febSpattini Ludovico 12-febSpezzani Luca 3-febSpina Iris Maria 17-febStellato Leonardo 19-febStenaj Francesca 21-febTacchini Marco 5-febTafuro Giulia 15-febTasselli Eric 11-febTerenziani Andrea 11-febTerenziani Elisa 5-febTinica Daniela 8-febTomaiuolo Carmen 13-febTorreggiani Sofia 11-febTresca Nicolo’ 27-febTufo Giuseppe 27-febVaccari Simone 11-febVezzosi Annalisa 8-febViani Alberto 4-febViani Andrea 18-febViani Marco 4-feb

Gesù ci rende misericordiosi verso la gente, mentre chi ha il cuore debole perché non fondato su Cristo rischia di essere rigido nella disciplina esteriore, ma ipocrita e opportunista dentro: è quanto ha detto il Papa nell’omelia mattutina a Casa Santa Marta. Il servizio di Sergio Cento-fanti: Al centro dell’omelia del Papa il Vangelo del giorno, in cui i capi dei sacerdoti chiedono a Gesù con quale autorità compia le sue opere. E’ una domanda – spiega – che dimostra il “cuore ipocrita” di questa gente: “a loro non interes-sava la verità”, cercavano solo i loro interessi e andavano “secondo il vento: ‘Conviene andare di qua, conviene andare di là…’ erano banderuole, eh, tutti!Tutti. Senza consistenza. Un cuore senza consistenza. E così negoziavano tutto: negoziavano la libertà interiore, negoziavano la fede, negoziavano la patria, tutto, meno le apparenze. A loro importava uscire bene dalle situazio-ni”. Erano opportunisti: “approfittavano delle situazioni”.Eppure – ha proseguito il Papa – “qualcuno di voi potrà dirmi: ‘Ma padre, questa gente era osservante della legge: il sabato non camminavano più di cento metri - o non so quanto si poteva fare – mai, mai andavano a tavola senza lavarsi le mani e fare le abluzioni; ma era gente molto osservante, molto sicura nelle sue abitudini’. Sì, è vero, ma nelle apparenze. Erano forti, ma al di fuori. Erano ingessati. Il cuore era molto debole, non sapevano in cosa credevano. E per questo la loro vita era, la parte di fuori, tutta regolata, ma il cuore andava da una parte all’altra: un cuore debole e una pelle ingessata, forte, dura. Gesù al contrario, ci insegna che il cristiano deve avere il cuore forte, il cuore saldo, il cuore che cresce sulla roccia, che è Cristo, e poi nel modo di andare, andare con prudenza: “In questo caso faccio questo, ma…” E’ il modo di andare, ma non si negozia il cuore, non si negozia la roccia. La roccia è Cristo, non si negozia!”:“Questo è il dramma dell’ipocrisia di questa gente. E Gesù non negoziava mai il suo cuore di Figlio del Padre, ma era tanto aperto alla gente, cercando strade per aiutare. ‘Ma questo non si può fare; la nostra disciplina, la nostra dottri-na dice che non si può fare!’ dicevano loro. ‘Perché i tuoi discepoli mangiano il grano in campagna, quando camminano, il giorno del sabato? Non si può fare!’. Erano tanto rigidi nelle loro discipline: ‘No, la disciplina non si tocca, è sacra’”.Papa Francesco ricorda quando “Pio XII ci liberò da quella croce tanto pesante che era il digiuno eucaristico”:“Ma alcuni di voi forse ricordano. Non si poteva neppure bere un goccio d’acqua. Neppure! E per lavarsi i denti, si doveva fare in modo che l’acqua non venisse ingoiata. Ma io stesso da ragazzo sono andato a confessarmi di aver fatto la comunione, perché credevo che un goccio d’acqua fosse andato dentro. E’ vero o no? E’ vero. Quando Pio XII ha cambiato la disciplina – ‘Ah, eresia! No! Ha toccato la disciplina della Chiesa!’ - tanti farisei si sono scandalizza-ti. Tanti. Perché Pio XII aveva fatto come Gesù: ha visto il bisogno della gente. ‘Ma povera gente, con tanto caldo!’. Questi preti che dicevano tre Messe, l’ultima all’una, dopo mezzogiorno, in digiuno. La disciplina della Chiesa. Equesti farisei erano così – ‘la nostra disciplina’ - rigidi nella pelle, ma, come Gesù gli dice, ‘putrefatti nel cuore’, deboli, deboli fino alla putredine. Tenebrosi nel cuore”.“Questo è il dramma di questa gente” e Gesù denuncia ipocrisia e opportunismo: “Anche la nostra vita può diventare così, anche la nostra vita. E alcune volte, vi confesso una cosa, quando io ho visto un cristiano, una cristiana così, col cuore debole, non fermo, non saldo sulla roccia – Gesù – e con tanta rigidità fuori, ho chiesto al Signore: ‘Ma Signore buttagli una buccia di banana davanti, perché faccia una bella scivolata, si vergogni di essere peccatore e così incontri Te, che Tu sei il Salvatore’. Eh, tante volte un peccato ci fa vergognare tanto e incontrare il Signore, che ci perdona, come questi ammalati che erano qui e andavano dal Signore per guarire”.“Ma la gente semplice” - osserva il Papa - “non sba-gliava”, nonostante le parole di questi dottori della legge, “perché la gente sapeva, aveva quel fiuto della fede”. Il Papa conclude con questa preghiera la sua omelia: “Chiedo al Signore la grazia che il nostro cuore sia sem-plice, luminoso con la verità che Lui ci dà, e così pos-siamo essere amabili,perdonatori, comprensivi con gli altri, di cuore ampio con la gente, misericordiosi. Mai condannare, mai condannare. Se tu hai voglia di condannare, condanna te stesso, che qualche motivo avrai, eh?”. “Chiediamo al Si-gnore la grazia che ci dia questa luce interiore, che ci convinca che la roccia è soltanto Lui e non tante storie che noi facciamo come cose importanti; e che Lui ci dica – Lui ci dica! – la strada, Lui ci accompagni nella strada, Lui ci allarghi il cuore, perché possano entrare i problemidi tanta gente e Lui ci dia una grazia che questa gente non ave-va: la grazia di sentirci peccatori”.

Quando il corpo parlail valore del corpo e dei gesti

Il nostro corpo е nobile, е lo strumento che ci permette di entrare in rapporto con gli altri, di dare loro 1'affet-to attraverso i "segni" di amore: lo sguardo, il sorriso, le premure, lа stretta di тапo, la carezza, l’аbbгасс1о, il bacio, il rapporto coniugale. Per essere autentici questi "segni" devono essere proporzionati аl grado di impegno reciproco: con la loro intensità e qualità indicano i rapporti esistenti tra lе persone.La tenerezzaLа tenerezza e necessaria. Е bello volersi bene e riuscire ad esprimere i propri sentimenti. Е anche Dio, si commuove al vederci scambiare gesti di amore. Il Dio della tenerezza, ci ha creati, anche per questo: per amare gli altri attraver-so gesti semplici, ingenui, quasi infantili. In tanti casi, la tenerezza е соmе l’azione di grazie сhе crea un supplemento d’anima una crescita di forze per affrontare avversità, dolore.I gesti teneri non sono scontati nemmeno per gli innamorati; с’е il rischio di oltrepassare in fretta la tenerezza e passare subito а soddisfare l’attrazione fisica.Lo sguardo

Nessuno di noi può guardare la ргорriа faccia. Non saprò mai соте sia la mia faccia dal vivo. Eppure ho una visione di me stesso. Que-sta immagine mi è data dagli altri che mi guardano e mi comunicano con lo sguardo “ciò che sono per loro”. Dall’esterno mi svelano chi sono. Lo sguardo che ti rende oggettoС’е un modo di guardare gli altri che li riduce a semp1ici ogget-ti: quando si guarda senza incontrare qualcuno; quando si ha uno sguardo superficiale che, pur guardando, non vede mai nessuno; quanto poi uno sguardo evidenzia semplicemente un particolare per

giudicarlo; о quanto altri sguardi ti riducono а puro oggetto del loro desiderio о della loro preoccupazione, guardandoti per se stessi e riflettendoti addosso la preoccupazione che sei рeг 1ого. Lo sguardo di benedizione Lо sguardo benedicente rende libero, autonomo, incoraggia la. crescita personale е 1’autonomia. Е’ lо sguardo affettuoso di chi si compiace di te. Comunica approvazione e importanza anche quando teme che ti succeda qualcosa di male, ma diventa preoccupazione per te. Lo sguardo benedicente compie il miracolo di riflettere lа tua realtà senza ridurti a un oggetto: ti contempla е, contemplandoti, gioisce. Lo sguardo di predilezioneLо sguardo di predilezione comunicaа non solo la tua importanza, ma 1а tua unicità, scova verità е capacita insite nel tuo profondo e che nemmeno tu conoscevi. Lо sguardо di predilezione, attraverso1е emozioni che sprigiona. fa crescere 1’empatia, cioè la capacità di intuire е capire1’amato, senza parole, per condividere sentimenti, gioie e dolori. le раго1е d’ amoreNon è sempre facile dire “Ti voglio bene”, “Ti amo” e riuscire ad esprimere tutto quello che passa dentro al cuore. Tnato più, in questa capacità, bisogna distinguere tra maschi e femmine.Anche nell’amicizia possiamo imparare a dirci parole di be-nevolenza. E’ liberante dire ad una persona amica “Ti voglio bene”. E’ riconoscere il valore dell’altro, sia quando merita il nostro apprezzamento, sia quando ne ha bisogno.

La stretta di manoE’ forse il gesto di affetto più diffuso, tanto che si rischia di non considerarlo neanche tale. Nel dare la mano si possono scorgere delle sfumature: si dà la mano per iniziare una relazione, per rappacificarsi, per aiutare, per trasmettere calore e vicinanza, per formalità

La carezza Lа carezza manifesta tenerezza sfiorando dolcemente

l’altro. Е’ип movimento del corpo verso1’altro: il bisogno di uscire da se stessi e aprirsi. La carezza riconosce il valore dell’altro, il suo essere importante. Dare e ricevere una carezza ha il significato di togliere le difese reciproche e costruire famigliarità. С’е lа carezza tra innamorati che indica 1’«aver caro» е che sarebbe falso e dan-noso ridurre а preludio sessua1e. 1n questo si роssоno creare malintesi perche si scontrano due modi diversi di vivere e rapportarsi.

Nel fidanzamento, la carezza ha una funzione insostituibile, ma deve rimanere nell’ambito dell’amore dei fidanzati, ciòè le parti del corpo accarezzate non devono far parte di quelle interessate direttamente dall’ecci-tazione sessuale.L’abbracctoL’abbraccto esprime ип desiderio profondo di comunione realizzato strin-gendo а se la persona arnica о amata: racchiude il senso profondo dell’amo-re: donarsi ed accogliersi. Fa vibrare di gioia tutto le dimensioni dell’es-sere. Nе11’amicizia non è sempre facile superare i blocchi che rendono difficile abbracciarsi: tra persone desso genere с’è е disagio; tra maschi e femmine si può essere fraintesi о non riuscire а distinguere il confine tra tenerezza e attrazione fisica. Servono verità e conoscenza del valore della purezza.

П bacioCon il bacio si da e si riceve contempora-neamente: si scambiano sentimenti, sensazioni, affetto, si parla senza usare 1е parole: соn un bacio trasmetto те stesso e quanto sento dentro... se dentro sono vuoto, non trasmetterò nulla. Il bacio non e una ginnastica delle labbra: deve esprimere amore e trasmettere tutto quello che le parole non sono in grado di dire. La qualità del bacio dipende, quindi dai significato che gli si sttribuisconoIl bacio nel fidanzamentoIl bacio e un gesto di amore proprio del fidanzamento. Solo in esso ha il suo vero ed autentico significato. Con il bacio si incontrano due vite che decidono

di proseguire vicine. Con il bacio si dice аll’altra persona: «Tutto ciò che sei, tutto ciò che fai mi piace, mi dona serenità». Con il bacio si crea vicinanza.Il rapporto sessualeЕ il dialogo di due cuori е di due anime attraverso i corpi. Е’ la ma-nifestazione più forte dell’amore tra due creature, che porta un senso molto intenso di comunione. Е anche un gesto che risponde аl richiamo della vita, che è destinato а tramandare. Е il gesto unico tramite il quale l’иото е la donna si donano reciprocamente ciò che hanno di più intimo, ma anche il più sacro: le conti della vita. La chiesa insegna che l’inti-mità sessuale ve riservata al matrimonio perche il rapporto “significa” qualcosa di molto speciale: rappresenta il livello più elevato di intimità e di dono di se сhe due persone pos-sano condividere. Serve а dimostrare 1’uno all’altra la fedeltà costante agli impegni derivanti dal matrimo-nio, dove l’аmоге è esclusivo, totale e per sempre. Al di fuori del matrimonio il sesso non riflette un amore che genera impegni reciproci, fecondo е сарасе di иnire profondamente un иотo е una donna. П piacere dell’unione intima è una cosa positiva, та nоn è la felicita: sfuma presto e può portare а11’egoismo, a pensare solo а se stessi e a fare dell’altro un oggetto da sfruttare. Quando l’amore è autentico dono, il piacere e dato in sovrappiù.


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