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La città sonora

Date post: 08-Mar-2016
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Libro fotografico dedicato alla città sonora di Pinuccio Sciola. Fotografie di Attila Kleb.
140
SCIOLA PINUCCIO
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Istituto Italiano di Cultura di MadridPalazzo di Abrantescalle Mayor, 86 - Madrid

SCIO

LAPINUCCIO

CUEC EditriceVia Basilicata, 57/59Cagliari

Euro 15,00

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La città sonora

Pinuccio Sciola

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Esposizione

ASSICURAZIONE LLoyd’s - Progress Insurance Broker S.R.L.

Progresse Fine Art, Roma

STAMPA Grafiche Ghiani S.R.L.

Catalogo

EDIZIONE Istituto Italiano di Cultura di Madrid

CUEC Editrice Cagliari

GRAFICA Antonio Pita

TESTICarmelo Di Gennaro Roberto Favaro Adolfo Pérez Esquivel Moni Ovadia Renzo Piano Arturo Carlo Quintavalle Raffaella Venturi

FOTOAttila Kleb Giorgio Dettori Fabrizio Fiori

Con il patrocinio di

DIRETTORE

Carmelo Di Gennaro

Istituto Italiano di Cultura di Madrid

ASSISTENTE DI DIREZIONE

Alessandra PiconeCOLLABORANO

Silvia Lavina Francesca Sabatini

ISBN: 978 88 8467 667 2

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Istituto Italiano di Cultura di MadridPalacio de Abrantescalle Mayor, 86 - Madrid

CUEC EditriceVia Basilicata, 57/59Cagliari

La città sonoraSCULTURE

Pinuccio Sciola

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La rivoluzione della pietra nell’arte

Spesso ci chiediamo quale sia la funzione e il ruolo dell’arte e, ancor di più, la funzione degli artisti, ovvero di coloro che producono l’arte (e non utilizzo questo verbo casualmente).Le risposte possibili sono certamente moltissime, ma esiste un punto, credo, che non viene sufficientemente sottolineato. Sono convinto che l’essenza del ruolo dell’artista consista principalmente nel compiere una sorta di rivoluzione estetica (pertanto etica, come già affermò Nietzsche) che implichi anche un cambiamento nel modo di pensare e di vedere le cose.

Questa è, in definitiva, la rivoluzione dell’arte; in questo consiste il lavoro dell’artista. Pertanto Pinuccio Sciola è un’artista in sommo grado, anche (ma non solo) secondo la categoria di cui parlavo prima; per questo le sue pietre che suonano, opere d’arte persino in senso estetico (ma principalmente etico), sfatano una serie di luoghi comuni sulla pietra; rivoluzionano non solamente il linguaggio ma anche il

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significato, rimuovendo insomma la statica, inerte relazione tra significante e significato.

In che senso, dunque, Pinuccio Sciola lavora la pietra della sua terra, la Sardegna? Un esempio ci aiuterà a comprendere. Quante volte abbiamo ascoltato o abbiamo affermato con convinzione assoluta: la pietra è muta oppure essere muto come una pietra, stabilendo in questo modo una relazione univoca tra la non-sonorità e la pietra (elemento senza alcuna vibrazione acustica)?

Sciola rompe con la categoria di Kant dell’als ob (ovvero del “come se”) dimostrando che le pietre non solo non sono mute, bensì possiedono una voce propria, unica, che solo l’artista può evocare.

Come scrisse Luigi Pestalozza, le pietre di Sciola sono effettivamente un organismo naturale e lo sono anche in senso umano, grazie all’immediata evidenza nella loro immagine del lavoro dell’uomo, di Sciola.

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Questo è ciò che le pietre comunicano immediatamente quando “suonano”, oltre alla ribellione del vero artista ai luoghi comuni, a ciò che stabiliva e determinava a livello linguistico e concettuale la supposta “mutezza” della pietra.

La pietra sciolana non è muta, suona e vibra in assoluta libertà, priva anche del condizionamento, del tutto umano e tecnicamente feticista, del temperamento, portandoci ad una sonorità ancestrale che stava dentro la pietra, muta solamente per chi non sapeva ascoltarla, per chi ancora non aveva compreso che era possibile “estrarre” dalla pietra quel suono unico e incomparabile con quanto si aveva conosciuto fino ad allora.

Sciola, con le sue opere artistiche, ci conferma che solamente l’arte può demolire le certezze lingiustiche e concettuali poiché non è condizionata da pregiudizi (e potrebbe ricoradrci persino Parsifal nell’opera di Wagner) cercando ciò che sembrava, a prima vista, impossibile da trovare.

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Si potrebbe continuare a parlare delle rivoluzioni implicite nell’arte di Sciola; per esempio, è stato detto e scritto che non è possibile estrarre sangue da una pietra, mentre lui ci dimostra che le sue pietre sanguinano, con una colata di basalto che sembra quasi sintetizzare la sofferenza della pietra lavorata.

In conclusione, Pinuccio Sciola cambia le nostre certezze, ci obbliga a cosiderare vicine quelle categorie che fino ad oggi ritenevamo lontane o, ancor peggio, incompatibili; destabilizza radicalmente le nostre categorie mentali, così come radicale è la durezza della magnifica pietra che lavora.

Carmelo Di GennaroDirettore dell’Istituto Italiano di Cultura di Madrid

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Estimado amigo, vivimos una época donde la aceleración del tiempo marca la vida de la humanidad; el ser humano tiene poco tiempo para meditar, volver su mirada hacia el interior de su ser y el equilibrio consigo mismo, con el prójimo, con la Madre Tierra, nuestra Pachamama, el Cosmos y con Dios.

Volver a las fuentes es parar el cuerpo para que lo alcance el alma y encontrar la energía de la vida en aquello que San Francisco nos enseñó de reconocernos como parte de la Creación. Tu obra artística, la exposición de tus es-culturas que hoy presentas en Asís son Semillas de la Paz, aquello que debe permanecer en la mente y el corazón de toda la humanidad; un mensaje de esperanza frente al avance de la violencia y la aceleración del tiempo donde no quieren dejar margen para pensar y asumir el desafío de detener la mirada en lo esencial de la vida.

Toda semilla guarda su memoria que va transmitiendo de generación en generación. Todo pueblo conserva su

I SEMI DELLA PACEAl maestro Pinuccio Sciola

Un fraterno abrazo de Paz y Bien

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memoria, no para quedarse en el pasado, sino para que le ilumine el presente y desde ahí poder generar y cons-truir la vida.

Tu obra escultórica que presentas en Asís con las Semillas de la Paz tiene la fuerza convocante y permanencia en la conciencia y es un desafío encontrar caminos que lleven a la Paz y solidaridad entre las personas y los pueblos.

Estimado amigo te envío un fuerte abrazo deseándote mucha fuerza y esperanza.

Adolfo Pérez EsquivelPremio Nobel per la Pace 1980

Buenos Aires, 19 de octubre del 2008

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L’incontro con l’arte suprema è una delle esperienze fondanti dello statuto di autentico essere umano a cui aspiriamo da che ci siamo riconosciuti come creature dotate di libertà, consapevolezza ed universalità. Eppure un tale incontro è ancora privilegio di pochi. Gli uomi-ni che per povertà, per violenza o per malaeducazione sono privati della ricchezza che promana dall’esperienza estetica subiscono una violenza grande, non minore o accessoria. Nella nostra epoca asservita al danaro, intos-sicata dalla ridondanza del volgare e del banale siamo istintivamente portati a credere che la grande arte ap-partenga ormai al passato. Non è così. Anche nel mara-sma del pletorico e del truffaldino che informa di sé la globalizzazione, discosti e ritratti dal viavai frenetico e balordo degli incontri mondani e modaioli si possono incontrare artisti supremi. Io, quasi inavvertitamente, nel mio tempo recente, non più degli ultimi due lustri, ho incontrato Pinuccio Sciola. L’ho incontrato a San Spe-rate a pochi minuti di auto da Cagliari. Se non ci siete stati, andateci e portate anche i vostri ragazzi e i vostri

L’INTIMO CANTO DELL’ORIGINE

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bimbi. Pinuccio è un artista prodigioso ed instancabile. Ha l’aspetto di un contadino perché è un contadino, cammina a piedi nudi nella terra cruda dei suoi giardini di pietra come se fosse emerso da quella terra e da quella pietra. Quando incrociate i suoi occhi irradiano verso di voi luce, sorriso e forza interiore. Sia chiaro Sciola è artista colto, ha studiato con grandi maestri del novecen-to ed è un rivoluzionario nel senso migliore e più alto del termine. I Murales di San Sperate lo testimoniano con immediatezza. Ma la sua arte e la sua anima sono molto di più. Pinuccio Sciola è un grandissimo mistico. Togliete a questa parola ogni riferimento alla religio-ne, ogni compiacimento esoterico e pensate piuttosto alla scienza pura, al sapere che trascende l’ovvia logica formale senza per questo fare riferimento al divino. I maestri della Cabala ebraica sostengono che l’universo fu creato per l’urgenza e la voluttà di ascoltare un can-to, lo deducono dalla prima parola ebraica della genesi bereshit (in principio). Essa può essere anagrammata nelle due parole ebraiche taeb shir voluttà di un canto. Dunque in principio era la voluttà di un canto. Il più grande studioso della cabalà del secolo scorso Gershom Scholem sosteneva che la Rivelazione è fenomeno acu-stico. Creazione e Rivelazione si manifestano attraverso il suono. Che sia come quello di un’esplosione primige-nia o il suono intensissimo di miriadi di violini il suono è l’espressione dell’origine dell’universo comunque essa

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abbia avuto luogo: per opera del Creatore o per il sublime estro creativo del caso. Pinuccio Sciola per mezzo di un originalissimo percorso artistico lo ha scoperto e provato. Guardate le sue arpe di pietra poi ascoltatele, cantano, basta sfiorarle perché vi regalino il canto primigenio, il basalto ha intessuto il suo canto con il suono dell’ele-mento fuoco che lo ha formato e la pietra calcarea ha fatto lo stesso con il suono dell’elemento acqua che l’ha aggregata. Il canto delle sculture di Pinuccio Sciola è potente ed ammaliante come il canto delle sirene che sconvolse Ulisse ma benigno come la voce di una madre che culla il figlio che ha ancora nel grembo. Guardate e ascoltate le arpe del Maestro Sciola, lasciate alle spalle i pregiudizi, accogliete lo stupore forse intuirete il valore intrinseco dell’arte e sicuramente scoprirete che la nostra origine e l’origine dell’universo che ci circonda cantano.

Moni Ovadia

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C’è un patto tra Pinuccio Sciola e le pietre di Sardegna, tant’è vero che assomigliano l’uno alle altre come due gocce d’acqua.

Deve essere la ragione per cui le pietre si lasciano fare di tutto, da lui: tagliare, perforare, frammentare.

Riesce persino a farle suonare. Fantastico.

Renzo Piano, Aprile 2011

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LA CITTÀ SONORA

ScultureIstituto Italiano di Cultura di Madrid5 maggio – 1 giugno 2011

Opere esposte

Installazione Semi di Pietra, 2011Basalto

Installazione Sculture della cittá sonora, 2011Calcare bianco

Pietre Sonore, 2008 – 2011Basalto

VideoSciola. Oltre la pietraRegia: Franco FaisGiugno 2007

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LA CITTÀ SONORA

In una pagina di Eupalino o l’architEtto, Paul Valéry domanda: “Dimmi, poiché sei così sensibile agli effetti dell’architettura, non hai osservato, camminando nella città, come tra gli edifici che la popolano taluni siano muti e altri parlino, mentre altri ancora, che son più rari, cantano?” Le pietre sonore di Pinuccio Sciola, prese nella loro individualità plastica o assunte nella loro aggrega-zione moltiplicata fino a divenire intere “città che suona-no”, riuniscono e sommano in sé, esemplarmente, tutte le diverse possibilità di essere musicale di uno spazio, di una scultura, di un manufatto architettonico. E al tempo stesso, queste pietre-città spingono il suono e la musica a ricordare, valorizzandola, la propria implicita, dirompente spazialità. Questa esibizione concentrata ammette e ricor-da peraltro anche l’eventualità opposta, frequente nelle arti visive, plastiche, o architettoniche, che uno spazio, un edificio, una scultura non suonino per nulla, restando materia muta e acusticamente inerte, o più precisamente trattenendo imprigionati o inespressi, dentro e fuori di sé, i tanti possibili modi di essere musicale di uno spazio.

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Ogni singola pietra, dunque, è tante volte sonora, è cioè musicale in tanti modi possibili. Ed è manufatto plastico in diverse eventualità, secondo diverse prospet-tive spaziali presenti allo stesso tempo. Certo, assunta primariamente nella proposta di questa mostra che ne trasla la natura scultorea alla dimensione dell’agglome-rato urbano, la pietra è già edificio, come quelli così rari visti e ascoltati da Valéry, che popolano la città e che cantano. Ma è anche, la pietra, una scultura in senso stretto, dalle fattezze formali e morfologiche ben carat-terizzate, seducenti, antropologiche e modernissime al tempo stesso. E poi è però anche strumento musicale, cioè un artefatto progettato e costruito per produrre suo-no, per essere eseguito, per stimolare la composizione. Ma verrebbe da andare più a fondo, osservando che già ogni pietra è di per sé un’articolazione aggregata di sin-goli, più minuti edifici, di volta in volta sonanti, di volta in volta scultorei, di volta in volta architettonici. Dunque ognuna di queste pietra, a ben vedere, appare come un mondo, un microcosmo urbano, una più minuta città polimorfica e polifonica. Solo che poi si innesta in un tessuto che viene subito da riconoscere come urbano, e dunque l’edificio riacquista subito, allargando lo sguar-do, la propria natura singola e unitaria, si coniuga con altri edifici singoli, separati da vie di comunicazione e transito, da vuoti che concorrono a delineare la forma completa e complessa della città. Ma anche qui, singole

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sculture che appartengono a un più vasto progetto scul-toreo, singoli strumenti musicali che si articolano in uno smisurato organismo orchestrale.

Quali modi, allora, quali possibilità di essere musicale di una pietra, di tutte le pietre di Pinuccio Sciola? Un modo spontaneo, innanzitutto, che è proprio della ma-teria e del suo interagire con gli elementi atmosferici, con la natura, con la realtà. La pietra suona già di suo, prima e a prescindere dall’azione dell’artista, nell’incon-tro con il vento che ne sfiora gli spigoli o le rotondità, con la pioggia che ne percuote le superfici, con la vege-tazione che ne accarezza il corpo, con l’uomo o l’ani-male che ne fanno usi casuali, o funzionali alla vita, talvolta perfino alla sopravvivenza. Altri modi di essere musicale, poi, si aprono con l’azione dello scultore: la musica della pietra mentre viene lavorata, cioè eseguita attraverso gesti che mentre danno forma alla materia, ne cavano fuori la voce profonda, in una corrispondenza intima, irripetibile del suono esclusivo dello scolpire con il segno impresso, con la nuova morfologia, con le aper-ture e i nuovi spazi definiti dal progetto architettonico; la “musica pietrificata” poi, per usare la definizione che Goethe dà dell’architettura, la musica da leggere, la mu-sica per gli occhi, da solfeggiare visivamente ricavando dalle linee, dai ritmi, dalle prospettive, dai chiaro-scuri, dai pieni e dai vuoti dell’oggetto spaziale, una sorta di

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notazione ascoltabile mentalmente, una musica conge-lata, appunto pietrificata in un’immagine istantanea e stabile; infine, la musica vera e propria della scultura-architettura-strumento, che risuona attraverso l’esecu-zione con un timbro molteplice, ricchissimo di tutte le frequenze, rifrazioni, riverberazioni, multifonicità prima intrappolate dentro la materia e ora rese possi-bili e udibili dall’opera dello scultore-architetto-liutaio Pinuccio Sciola. Dicevo che ogni edificio è già città in sé. E che ogni edificio concorre a definire la più va-sta dimensione urbana. Così le molteplici voci di ogni casa si aggiungono, non sommandosi ma moltiplican-dosi esponenzialmente, all’immensa coralità polifonica della città.

Ma dicevo che ogni pietra è qui un edificio. E questo ci deve far pensare non solo che ogni strumento musicale ha le potenzialità di un manufatto scultoreo o archi-tettonico, in fondo di una casa o di un’abitazione, ma che anche ogni vera casa, quella che abitiamo, quella in cui siamo nati e cresciuti, quella che abiteremo forse un giorno, quella che sogniamo ma non abiteremo mai, ha le stesse potenzialità sonore e musicali di uno stru-mento: non solo perché è la cassa armonica della vita intima e l’amplificatore dei suoni della coscienza, ma anche perché suona proprio di suo, con i suoni della materia, della struttura, degli impianti, dei dispositivi

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domestici, dell’abitare, dell’abitante, della natura, degli elementi, dello spazio di fuori, dello spazio di dentro. E poi ogni vera casa, come quelle della città sonora di Sciola, è anch’essa musicale per il disegno, la geometria, i piani, i ritmi, le armonie visive e plastiche. Ancora, in ogni casa (come nelle case di Sciola) entra, può entrare una musica vera, eseguita da strumenti, trasmessa da una radio, penetrata dal di fuori, dalla porta, da una finestra aperta. E poi ogni vera casa è, può essere spesso, immersa in una città, collegata ad altre case che sono a loro volta strumenti e che insieme costituiscono lo smi-surato strumento-città, lo strumento-mondo che vedia-mo anche qui articolarsi come grande città-orchestra, come sorta di illimitata orchestra-mondo.

Guardando e ascoltando la “Città sonora” di Pinuccio Sciola, così archetipica e così moderna al tempo stesso, viene in mente il mito di Anfione, che centra tantissimo con la città e con la musica, e tanto più con questa so-nante città dell’artista sardo. Così lo racconta Filostrato nelle sue Immagini: “Seduto, Anfione batte il tempo col piede, mentre la mano destra pizzica col plettro le cor-de, che preme con la sinistra. […] Che fanno le pietre? Accorrono in gran numero, attratte dal canto. Ascoltano, e si compongono per innalzare la muraglia. Alcune han-no già preso posto nella costruzione, altre stanno salen-do, altre ancora si aggiungono senza sosta. Sono pietre

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davvero gentili, che fanno a gara per meglio obbedire, come mercenari, agli ordini della musica. Il muro avrà sette porte, quante sono le corde della lira”. Risalirebbe a Omero l’ipotesi secondo cui la città di Tebe sarebbe stata fondata da Anfione e Zethos (figli di Antiope e di Zeus), i quali avrebbero eretto, per ragioni di difesa, le mura cittadine con le sette porte. La tradizione mitologi-ca tramanda inoltre che Hermes avrebbe dato l’ordine ai due fratelli di recarsi alla polis di Kadmos e, consegnata ad Anfione (come dono suo e di Zeus) una lira, gli avreb-be impartito l’ordine di suonare lodi agli dei. L’armonia determinata dalle sette corde della lira starebbe dunque alla base dell’armonia costruttiva delle mura, dell’unione reciproca delle pietre, infine della determinazione delle sette porte. Se si tiene fede a questa visione mitologica, si ricava che per mezzo della musica si agisce sull’esistente prima destrutturandolo (cioè sottraendo pietre e alberi dalla loro originaria collocazione) e riedificandolo sotto forma di città e di mura, cioè di un nuovo elemento co-struttivo presente ora nella realtà e nel cosmo. La musica origina la città e agisce sul reale, inducendo e perfino guidando l’architettura a realizzare il proprio progetto di armonizzazione dello spazio della polis.

La città che suona di musica propria o di suoni immes-si nello spazio urbano, così tanto più anche la “Città sonora” di Pinuccio Sciola nel suo senso più completo,

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può essere allora ricondotta a questo mito fondativo non solo delle origini della città “dallo spirito della musica”, ma del rapporto complessivo tra musica e architettura. Il suono della città, liberato dal suo stesso esistere in quanto polis, sarebbe già implicito e imprigionato (pie-trificato) dentro la sua essenza materica e geometrica, propiziata, come ci dice il mito di Anfione, dai suoni armonizzati della lira donatagli da Hermes. Ritorna la questione del suono della pietra, della sua musicalità, originata in Sciola fin dal gesto esecutivo della creazione scultorea, che in quanto tale suona di musica vera, gene-rata dagli strumenti di lavoro, dal battere sulla materia, dalla percussione, dallo sfregamento, da azioni destinate a propiziare armonicamente la forma e la sostanza della città sonora stessa.

A chi visita questa città, viene lo stimolo fortissimo ad ascoltare e a guardare, o forse proprio ad ascoltare la voce di ciò che guarda, aprendo a infinite riverberazioni di senso. Come scrive Italo Calvino nel suo Un re in ascolto, “la città trattiene il rombo d’un oceano come nelle volute della conchiglia, o dell’orecchio: se ti con-centri ad ascoltarne le onde non sai più cos’è il palazzo, cos’è città, orecchio, conchiglia. Tra i suoni della città riconosci ogni tanto un accordo, una sequenza di note, un motivo: squilli di fanfara, salmodiare di processioni, cori di scolaresche, marce funebri, canti rivoluzionari

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intonati da un corteo di dimostranti, inni in tuo onore cantati dalle truppe che disperdono il corteo cercando di coprire le voci degli oppositori, ballabili che l’altopar-lante d’un locale diffonde a tutto volume per convincere che la città continua la sua vita felice, nenie di donne che piangono un morto ucciso negli scontri. Questa è la musica che senti”.

Roberto Favaro

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Pinuccio Sciola ha scelto di far crescere i semi di pietra dentro la terra, a San Sperate me li ha fatti vede-re relativamente piccoli, larghi da un palmo a due o tre o poco più, e adesso sono cresciuti: nella piazza davan-ti al Sacro Convento ce ne sono un centinaio, enormi alcuni, anche più di un metro e mezzo di lunghezza, altri un poco meno grandi. E questi semi hanno una ca-ratteristica singolare, all’esterno sono sassi, pietre, sono basalti, dunque rocce ignee, cercate e trovate da Sciola nei campi, negli spazi dilatati della sua Sardegna, vicino o lontano da San Sperate, dove sta di casa. Ma queste superfici rugose, come arrotondate dal tempo, dall’usura del tempo, sono state tagliate, un diedro netto che affon-da all’interno della pietra e mostra la sua vena, mostra un solido grigio che sporge, tagliente, con qualche venatura, qualche concrezione; l’interno della pietra ci parla delle pressioni ignee, del progressivo raffreddarsi del magma dentro la terra. Credo che Sciola voglia dire qualcosa con queste pietre e credo anche che la loro presenza sulla piazza del Sacro Convento abbia un significato che tra-

I SEMI DELLE ORIGINI

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scende la vicenda soltanto storico-artistica, ma, per ca-pire, conviene riflettere un momento anche nei termini della storia dell’arte.

Dunque chi raccoglie i frammenti del naturale, e chi raccoglie i frammenti di quello che naturale non è, è pa-rente in qualche modo della ricerca di Pinuccio Sciola? Mi vengono in mente alcuni nomi, quelli che vengono fuori dalla cultura dadaista prima di tutto, e dunque Man Ray piuttosto che Calder, oppure Ettore Colla oppure la Nevelson, e mi domando se essi davvero abbiano qualche rapporto con Sciola. Non credo, l’oggetto trovato, i resti della nostra civiltà dell’uso e della scarsa durata, come an-che i Merzbau di Kurt Schwitters gli sono estranei, Sciola punta ad altre ricerche, ad altri referenti. E uno forse si potrebbe ricordare, Henry Moore, il cui dialogo con la natura, le cui passeggiate sulle rive dell’Atlantico sono le-gate alla ricerca di sassi, rami, frammenti insomma che il mare ha levigato, arrotondato, trasformato e che gli servo-no non come sculture ma come mezzo per capire a fondo il naturale, quindi il tempo e la durata.

Quando Sciola vuole spiegare il proprio lavoro, quando vuole spiegare il proprio dialogo con la pietra lo fa uti-lizzando delle immagini, quelle dei bambini che pensa-no che da un solo sasso possa nascere una montagna, o quelle degli Inca che dicono le pietre la spina dorsale del

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mondo, le Ande appunto, come altrove le Montagne Roc-ciose. Ma tutto questo non basta per capire le ragioni del-le scelte di Sciola, le scelte appunto dei sassi come semi del mondo. Eppure queste due indicazioni mitiche, dei bambini o degli inca, servono a fare comprendere come, anche nel caso della definizione della pietra e della sua possibile funzione quasi animata, di crescita, pietra come spina dorsale del mondo, pietra come generatrice e dun-que pietra come figura fecondatrice del naturale, come Sciola abbia ricercato le origini, abbia voluto risalire ai miti, abbia voluto recuperare nei miti stessi una ingenua ma umanissima saggezza. Insomma, c’è qualcosa che

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colpisce nella ricerca di Sciola, la volontà di ritornare alle origini, anzi all’originario, e quindi la volontà di leggere la propria ricerca attraverso il mito. Ma quale mito?

Dietro i sassi che crescono sotto la terra stanno le me-morie della creazione, le pietre gettate alle spalle che fanno crescere giganti o draghi, e quindi proprio attor-no alle pietre esiste un sistema mitico dalla antica Gre-cia in poi; ma le pietre sono anche molto altro, adora-vano pietre i Nabatei e le vediamo lungo il percorso di avvicinamento a Petra, all’interno del grandioso canale scavato nella roccia; le pietre poi diventano figura asso-luta, un modello anche in epoche più recenti, e fino ad oggi se ricordiamo la scoperta del monolito nero alla fine di “2001 Odissea nello spazio” (1968) di Stanley Kubrick. Ma allora che pietre sono queste di Sciola, di che pietre si tratta? Se noi osserviamo la forma delle pietre tagliate di netto in sezione a “V”, dal cui interno sporge un grigio prisma, comprendiamo che dentro la pietra si cela una forma assoluta, una forma geometrica, un cristallo, una specie di solido regolare che potrebbe alludere ai cinque solidi platonici, dunque alla purez-za, al modello trascendente. Sciola è troppo raffinato e colto per ignorare tutto questo, ma a lui basta sugge-rire una potenziale forma, una potenziale immagine, e questa immagine geometrica, tagliente, netta, allude dunque alla perfezione, allude al sublime.

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Proviamo quindi a riflettere un momento su queste im-magini: fuori la superficie glabra, scavata, della natura, una superficie che rimanda direttamente all’Informale; dentro lo spazio dell’Hard Hedge, lo spazio del taglio net-to, lo spazio di un ordine che significa assoluta purezza ma che vuole dire anche intervento dell’uomo e quindi storia. Proviamo a riflettere sul come Sciola raccoglie queste pietre: certo, nei campi, dalle parti della sua San Sperate, ma, per capire, si deve seguirlo da vicino, sentire quello che dice. Quindi le pietre sono scelte sulla base della loro forma, devono essere dei semi, devono essere già uscite dal mondo del naturale in modo da proporsi appunto come semi; le pietre devono essere dunque giun-te a un preciso livello di trasformazione geologica. Quan-do le pietre sono scelte il dialogo è con i proprietari del terreno, che a volte non vogliono cedere i sassi, per loro certo ingombranti e inutili, ma Sciola, con l’aiuto dei pa-stori, scopre pietre nuove e le porta a casa, al laboratorio, dove saranno tagliate, direi quasi ferite dall’intervento della cultura. Come a dire che il mondo della pastori-zia, il mondo delle tradizioni più antiche aiuta a sceglie-re, contribuisce a scegliere le pietre della memoria del passato che la cultura nuova inciderà enucleando il loro nuovo racconto di rinascita. Ma anche in questo caso la spiegazione che abbiamo dato sembra inadeguata. Sciola non cerca solo i semi che crescono dentro la terra ma qualcosa che va oltre la loro esistenza, cerca un equilibrio

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diverso, forse, fra invenzione e quindi funzione dell’arti-sta e mondo. Per questo penso si debba riflettere ades-so sui suoi progetti, sui suoi modelli, sulle indagini che ha condotto prima di questa. E chiedersi prima di tutto perché, proprio nella piazza del Sacro Convento sia stata presentata anni or sono una splendida, imponente serie di pietre cantanti, cioè di quelle pietre, calcari in gene-re, che vengono tagliati da Sciola e organizzati in modo da produrre, appena sfiorati, dei suoni, delle note che vengono dall’interno di una storia di milioni di anni, un suono che non ha confronto con quelli che si producono di solito dagli strumenti umani. Sciola ha inventata una raffinatissima tecnica di taglio, di proporzionamento, di distribuzione delle sue lamine o dei suoi parallelepipedi di calcare, ma alla fine quei suoni escono dall’interno delle pietre e sono un novità assoluta, che deve avere un significato che va al di là della scoperta, che pure è indub-bia. Che cosa insomma vuole dire con questa ricerca e perché essa è stata esposta proprio davanti al Sacro Con-vento? Un progetto di Sciola, un progetto che egli vuole realizzare ci aiuta forse a capire. Sciola pensa di tagliare una serie di colonne di largo fusto, come se fossero dei veri e propri tronchi, ma dei tronchi pietrificati, come le foreste pietrificate con gli alberi che sono diventati carbo-ne. Ebbene, Sciola vorrebbe uno spazio ampio, almeno 4 o 5 ettari, dove collocare questi resti, questi rocchi di alberi della preistoria, e poi far crescere vicino a questo

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spazio, simbolico della morte, qualche pianticella verde, nel segno della rinascita. Oltre a questo vorrebbe mettere dei sensori così che, quando la gente si avvicina, davanti a questi alberi spogli si senta il fruscio, lo stormire delle fronde, il canto degli uccelli, oppure anche, avvicinando-si di più, il suono dell’incendio che ha ucciso, appunto, la foresta. Dunque natura che è vita, rinascita e anche morte. Un altro caso, un altro progetto, questo in parte già realizzato, riguarda ancora delle rocce, rocce come dei sarcofagi, forate all’interno esse quindi hanno spazio dentro per contenere un corpo del quale fuoriescono alle

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estremità la testa e i piedi, come a dire che la pietra con-tiene i corpi, ma questi in parte emergono, sono visibili, sono il segno di una presenza. Questo racconto, questa messa in scena, sembra importante perché prefigura un vero happening con le persone vere che escono dalle pietre e si mettono a danzare nella vibrante fiamma del fuoco mentre dovrebbe suonare la musica di Giacomo Manzoni. Ma allora che cosa vogliono dire questi proget-ti, e l’ultimo in particolare, con l’idea stessa della morte e della resurrezione? Sciola pensa di collocare in una piaz-za di Parigi, appena dedicata ai desaparecidos argentini, un gruppo di queste sepolture vuote, vuote perché quei corpi non ci sono più, e non perché distrutti, scompar-si, ma perché risorti. Alla Biennale di Venezia del 1976

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Sciola presentava una serie di corpi scolpiti nei tronchi, opere di una tensione e di una violenza espressiva senza confronto e che ancora impressiona; pochi ne sono rima-sti e Sciola li conserva a San Sperate. Ebbene, questo dia-logo con la morte, che era allora la guerra e la violenza, appare una costante nella ricerca di Sciola, ma, rispetto a quei tronchi scolpiti che erano un omaggio a Heckel e Kirchner, adesso Sciola ha raggiunto una diversa idea del naturale. Ricordo bene l’orrore che esce da quei vec-chi tronchi scavati e ricordo sopra tutto fra quei tronchi anche un Cristo di una tensione quasi duecentesca nella sua sublime violenza.

Sciola adesso dice “Vorrei scrivere dall’interno la storia di una pietra”: capite, dall’interno, dunque è lui che si iden-tifica con la pietra. Ma questa affermazione non basta; Sciola ci viene in aiuto e detta la sua carta di identità che dobbiamo leggere con attenzione:

“Quando non ero e non era il tempo Quando il caos dominava l’universo Quando il magma incandescente colava il mistero della mia formazione Da allora il mio tempo è rinchiuso da una crosta durissima Ho vissuto ere geologiche interminabili Immani cataclismi hanno scosso la mia memoria litica Porto con emozione i primi segni della civiltà dell’uomo Il mio tempo non ha tempo.

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Le prime due righe fanno pensare a una iscrizione, che era prima una dolcissima, amarissima poesia di Paul Klee, scolpita adesso sulla sua tomba, dove Klee si dice prossimo ai non nati, e si propone nel segno di un ritorno profondo alla terra.

Ecco il passo kleiano ora scolpito sulla sua tomba: Io sono inafferrabile. Mi trovo bene sia vicino ai morti Che accanto ai non nati. Sono vicino al cuore della creazione Più di quanto è solito. E tuttavia non quanto vorrei

In fondo proprio Klee aveva saputo costruire i propri quadri come germinazioni, come luoghi di nascita e di rinascita, luoghi dunque della lunga durata. Insomma la memoria di Sciola è una memoria densa di storia, e densa di arte, ma con significasti anche diversi, ulteriori, che vanno compresi. La sua distanza infatti da tutto quanto viene prodotto oggi in scultura, sia quella astratta che di ogni altro tipo, è totale; Sciola poi ha un’altra qualità, quella di conoscere splendi-damente la scultura di tipo naturalistico e di praticarla, per via del porre, non più del levare,. Sciola modella la creta e la cuoce sopra tutto nelle sere di inverno quando è impossibile andare per pietre, cercare le pietre da scavare come tombe, da tagliare per farle suonare, da tagliare per segnare in esse la nascita di un ordine diverso. Ma allora come si colloca

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Sciola nell’ambito della scultura contemporanea, e come si colloca ad esempio proprio in relazione a queste sue scultu-re di tipo naturalistico? La qualità anche di queste è molto alta: qui Sciola sembra rifarsi alla tradizione che da Rodin arriva a Medardo Rosso, ma anche alle pitture di Scipione e, in genere, alla Scuola Romana fra anni Venti e Trenta, per non parlare poi di Arturo Martini e di certi delicati pro-fili di Fausto Melotti. Insomma anche nel figurativo Sciola percepisce bene il nuovo e gli spazi del nuovo.

Ma perché queste pietre, questi semi sulla piazza del Sacro Convento? Nel Cantico delle creature Francesco leva la lode al mondo, al creato, chiave per comprendere la divinità di Dio; ebbene, allora Francesco combatteva contro i Cata-ri e la loro eresia, contro la idea che il mondo è peccato, è

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male; Sciola scopre invece, nell’eternità delle ere geologiche, l’idea stessa della nascita, della crescita, delle origini. Per lui, per Sciola, la materia è viva e gli elementi della tradizione, terra, aria acqua e fuoco, sono i mezzi attraverso i quali egli stesso intende rappresentare questa vitalità. Dunque, se nella mostra con le pietre cantanti vogliamo cogliere un significa-to ulteriore rispetto a quello letterale, esso deve essere perce-pito come scoperta della armonia dell’universo. Sciola stesso del resto ricorda che alcuni scienziati della Università di Pisa gli hanno dato delle registrazioni dei suoni nello spazio che stranamente somigliano a quelli che Sciola stesso ricava ca-rezzando le sue bianche pietre. Come a dire che macroco-smo e microcosmo coincidono. E anche le tombe scavate e vuote sono un segno, si possono leggere come allusive alla resurrezione, e quindi ancora come attenzione al mistero dell’esistenza. Ma allora in che cosa è nuovo, diverso da tutti i suoi contemporanei Sciola? Prima di tutto nella idea della durata, la scultura per lui è lunga durata, non nel senso berg-soniano ma in quello geologico delle ere. La natura per lui è sempre rinascita e il mito degli elementi, terra aria acqua e fuoco, alla fine viene sempre riproposto nelle sue opere, ed anche nei semi la cui cavità è stata riempita, proprio davanti alla basilica di San Francesco, di acqua.

Sciola ama scoprire storie nuove, ogni volta che lo in-contri ha l’entusiasmo del neofita, ha scoperto un nuovo racconto che illustra sorridendo, quasi pensando che alla

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fine quello che lui propone è certo una fiaba ma con una morale che chi ascolta dovrebbe subito capire, e magari non intende. A volte è serio, concreto, dice che vuole che i cittadini conoscano le pietre, che non hanno in real-tà mai visto, toccato, sentito, ma allude anche ad altro, allude a un processo di conoscenza che non riguarda i cittadini piuttosto che gli abitanti della campagna, allude a un processo di presa di coscienza del mondo che per

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lui è irrinunciabile. Scoprire il mondo vuole dire scoprire l’ordine del mondo, scoprire il mondo vuole dire intuire qualcosa che lo trascende, non importa se Sciola è laico o religioso, per un laico è la dimensione dell’universo stes-so che reca meraviglia, che fa scoprire tempi e dimensio-ni non commisurabili, per un religioso il senso di queste sculture è quello del Cantico delle creature, per cui tutte, ed insieme con esse ogni spazio della terra, ed ogni crea-zione umana, sono riflesso del divino.

Così Pinuccio Sciola concentra, nelle sue sculture, una dimensione del tempo che non trova confronto in nes-sun altro artista e propone anche una sintesi nuova fra spazio della scultura Informale, come prima si scriveva, e scultura astratta, naturalismo insomma e geometria, una singolare sintesi che peraltro è intrinseca al natura-le, come lo sono i cristalli dentro le rocce magmatiche. Dunque Pinuccio Sciola ci propone il mito della creazio-ne, ma questa volta attribuendo all’artista una funzione, di scoprire nuove strade per fare comprendere all’uomo, a tutti, non semplicemente il naturale, ma quella sintesi del naturale che nasce soltanto da una consapevole ca-pacità creativa. Sciola, ricordatevelo, è un artista estre-mamente colto; se mai si volesse pronunciare un nome che possa essere a lui affine, forse si potrebbe suggerire quello di Brancusi con la sua Colonna infinita, quasi un albero anch’essa, ma insieme dimensione assoluta, nuova

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scala di Giacobbe al cielo delle geometrie. Quella stessa dimensione assoluta che Sciola percepisce in qualche sua pietra dispersa nei campi di San Sperate.

Forse, dentro questi semi che non a caso Sciola battezza semi della pace, dobbiamo cogliere la geometria come ordine e quindi creazione dell’arte e lo spazio del na-turale come luogo della contrapposizione, sul filo della eterna durata. Fuori dei semi quindi il tempo cosmico, dentro quello della mano dell’uomo, dunque il tempo della storia. Sciola quindi si colloca, solo, su questo diffi-cile crinale, quello dell’artista mediatore, avrebbe scritto Klee, fra terra e cielo.

Arturo Carlo Quintavalle

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La Città Sonora ha ombre lunghe da sole raden-te. Ombre tagliate da intersezioni di luce, un penta-gramma libero e infinito. E suoni che arrivano come pioggia, quando vogliono loro, come vogliono loro. La Città Sonora è l’utopia di un architetto di suoni, di uno scultore di musica. Blocchi bianchi di calcare sezionato in verticali e orizzontali, specchi replicanti all’infinito, blu di Klein come colore apotropaico, do-minante di energia, che crea sinapsi fra i vari elementi architettonici. La Città Sonora pensa che sull’umanità possa di nuovo posarsi un’Età dell’oro. E si compone, come Tebe al suono della lira di Anfione, secondo un ordine naturale, secondo natura, come dovremmo vi-vere. Si compone prima di tutto per farci ascoltare la natura, anche quella apparentemente più muta, come la pietra. Trovo commovente - prima che bello, po-etico, magico - che Pinuccio Sciola abbia liberato il suono dalla pietra. Va in giro per campagne e monta-gne con un martelletto, lo batte su blocchi di basalto o calcare, capisce i blocchi che hanno la voce dentro e

L’UOMO CHE SUSSURRA ALLE PIETRE

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quelli che sono sordi, o muti. Trova ed estrae il suono dalle pietre come un minatore non dannato al buio ma eletto all’armonia. Entra nella roccia, la ascolta, la accarezza, la fende e le chiede scusa. La materia ri-sponde, ogni volta in maniera diversa. E ogni maniera non si ripete mai. La musica che genera è libera, non codificabile, non trascrivibile in nessun pentagramma. Appartiene a pentagrammi scultorei, alla grammatica fisica che quest’uomo che sussurra alla pietra ha codi-ficato una volta per sempre. L’Età dell’oro della Città Sonora è il silenzio sulle nostre case, sulle nostre città, come un incantesimo che le ammanta. Da lì si gene-ra l’ascolto e si scopre che tutto ha un suono, come diceva John Cage. Il sole che scalda i pannelli solari ce l’ha. Il tarlo che rosicchia il legno di un mobile ce l’ha. Si scopre che i suoni naturali rispondono a un ordine segreto. Quell’attimo –anche molto lungo– di sospensione e stupore che genera assistere alle tante voci della Città Sonora è un’esperienza estetica che va oltre la fruizione della scultura, investendo in un ab-braccio che pareva impossibile il silenzio della pietra e il suo canto più profondo. Raffaella Venturi

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Pinuccio Sciola nasce a San Sperate, un Paese nel sud della Sardegna, nel 1942. Compie i suoi studi artistici a Cagliari, Firenze e all’Accademia Nazio-nale di Salisburgo. Conosce Kokoscka, Minguzzi, Manzù, Kirchner, Vedova, Moore e visita le più im-portanti città d’Europa. Dal 1967 al 1968 frequenta in Spagna l’Università della Moncloa: visita tutti i centri d’arte romanica e studia le opere della grotta rupestre di Altamira. Nel maggio del 1968 è a Parigi e nello stesso anno inizia la sua attività di muralista con l’obiettivo di trasformare San Sperate in un “Pa-ese museo”.

Nel 1973 lavora con Siqueiros a Città del Messico. Dal 1968 al 1986 insegna modellato al Liceo Artistico di Cagliari. Lavora a pietre di grandi dimensioni e parteci-pa a una mostra itinerante in sette città tedesche.

Nel 1976 partecipa alla Biennale di Venezia e negli anni successivi espone in numerosi musei e città d’Europa. A Kirchheim Unter Teck viene collocata una delle sue sculture come prima pietra del Parla-mento Europeo.

PINUCCIO SCIOLABiografia

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PINUCCIO SCIOLABiografia

Dal 1990 al 1996 insegna scul-tura all’Accademia di Belle Arti di Sassari; contemporaneamente viaggia in Africa, Perú, Chile, fino all’Isola di Pasqua. Fa parte dell’Associazione Arte e Natura e partecipa a numerose attività internazionali. È promotore della Scuola internazionale di Scultu-ra a San Sperate.

Nel 2003 realizza una scultura per la Città della Musica di Roma in collaborazione con l’architetto Renzo Piano. Nello stesso anno, ed in seguito anche nel 2008, le sue sculture sono esposte nella Piazza della Basilica Inferiore di Assisi.

Nel 2010, oltre ad essere nomina-to Presidente della Commissione Regionale per il Paesaggio e la

qualità architettonica della regione Autonoma di Sarde-gna, partecipa alla Triennale di Milano e nuovamente alla Biennale di Venezia. Oggi le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private e sono esposte in piaz-ze, parchi e luoghi pubblici di tutta Europa.

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Istituto Italiano di Cultura di MadridPalazzo di Abrantescalle Mayor, 86 - Madrid

SCIO

LA

PINUCCIO

CUEC EditriceVia Basilicata, 57/59Cagliari

Euro 15,00


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