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La Marmaglia n.7

Date post: 23-Mar-2016
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Il nuovissimo numero della rivista studentesca piacentina!
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Page 1: La Marmaglia n.7

La MarmagliaRivista studentesca indipendente

[email protected]

www.lamarmaglia.it

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La Marmaglia

Ho il timore che il grande quadro dell’arte italiana e il più piccolo di quella piacentina siano “di-

pinti” in maniera inesperta dall’opinione comune. Questo “pittore”, sì, è bravo, ma insomma usa un po’ troppo colori spenti, bui. Della luce non c’è neppure l’ombra! Il nostro “artista” rabbuia tutto con tagli a fondi destinati alla cultura, con la perce-zione che non ci siano abbastanza spazi per far arte, dipingendo le ombre lunghe di tanti politici che considerano la cultura soltanto una perdita di tempo. Riflettiamo un secondo: è proprio questo il quadro che vogliamo commissionare? Non so voi, ma a me dipinti così scuri non piacciono; io adoro le opere di Caravaggio, dove la luce squarciando le tenebre illumina i volti dei protagonisti e carica di emozione le scene. Luce di giovani innovativi che, nonostante la cultura sia tenuta in ombra, continuano a creare, ad esprimere le loro emozioni e i loro sentimenti nell’arte.

Purtroppo oggi non abbiamo più Caravag-gio, ma ci troviamo un “pittore” che non sa dipingere il chiarore. E allora tocca a noi prendere in mano il pennello e dare luce a chi lo merita. Insieme possiamo creare un capolavoro, di quelli giocati sul chiaro-scuro, con il buio della lotta alla cultura e all’arte (p.3), della crisi della musica colta (p.4) rischiarato da giovani artisti che si im-pegnano ogni giorno di più per rendere la nostra realtà un posto migliore. Quest’ul-timi sono tantissimi anche in una piccola città come la nostra, a volte considerata superficialmente “morta” (p.6). Non ci cre-dete? Ecco le storie di alcuni di loro. C’è Camilla (p.7), che suona il pianoforte in Conservatorio e Alessandro (p.8), che con qualche accordo e un po’ di voce dimostra a tutti che i giovani sanno ancora sognare. Perché non parlare dei RoverHeart (p.9), che insieme a tante altre band fanno cre-scere la musica piacentina? Oppure di Laura (p.10), la pittrice e fotografa che è tornata da Bilbao carica di spirito artisti-co? E l’arte a Piacenza non si esaurisce qui: c’è chi realizza graffiti (p.11), chi scrive (p.12) e chi trasforma la propria passione in un’opera d’autore, dallo sport (p.14) alla cucina (p.15).

Insomma la luce non manca, dobbiamo solo aiutarla ad emergere dalle tenebre. ■

EDITORIALE

di Mattia Pinto

Ridipingiamoci...

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La Marmaglia - Rivista studentesca indipendente - Anno 1 - Numero 1 - Marzo 2011 - Proprietario: Associazione di promozione sociale “La Marmaglia”, codice fiscale 91100220333, partita iva 01594690339 - Direttore responsabile: Stefano d’Onofrio - Sede: Stradone Farnese 81, Piacenza - Stampato presso la Cooperativa Sociale Eredi Gutenberg, via Scalabrini 116b - Registrazione presso Tribunale di Piacenza n.699 del 18/02/2011

[ COVER CONTRIBUTOR ]Giovanni BonafedeEx studente del Liceo Cassinari, frequenta il corso di grafica all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Finiti gli studi vorrebbe entrare nel mondo dell’anima-zione. La copertina e le illustrazioni alle pagine 12 e 13 sono opera sua.Dice di sè: <<Sono sempre rimasto incantato dal di-segno e, pur prediligendo un segno più figurativo che astratto, mi piace ricercare un punto di unione nei di-versi modi di comunicare un messaggio. È questo che ho cercato nel disegno in copertina, provando a far dialogare tradizione e tecnologia, figurativo e astratto. Ho preso spunto dal simbolo per eccellenza della nostra città e l’ho rielaborato con i criteri di Mondrian per rafforzare il senso decorativo e grafico.>>.

La Marmaglia nasce nel febbraio 2009 da un’idea di quattro studenti del Liceo Gioia: loro obbiettivo è smuovere la situazione dei giovani della loro città, troppo spesso apatici o indifferenti, creando una rivista studentesca alternativa al giornale d’Istituto della loro scuola e libera dall’influenza di professori, movimenti o partiti. Col passare del tempo il progetto si evolve e La Marmaglia diventa la prima rivista italiana inter-scolastica e indipendente: la redazione è completamente autogestita e ne fanno parte ragazzi provenienti da svariate scuole ed università del piacentino. Nel marzo 2011, due anni circa dopo la nascita, La Marmaglia vanta già sei “numeri”, distribuiti clandestinamente, una proficua collaborazione col quotidiano Libertà, del quale ha redatto quattro pagine a tema, e tantissimi contatti sul sito www.lamarmaglia.it. Da qui l’esigenza di “fare il grande passo”, di costituire una testata giornalistica per poter meglio diffondere la rivista tra tutti i giovani di Piacenza. Il 25 novembre 2010 si costituisce l’associazione di promozione sociale “La Marmaglia”, il cui scopo è incentivare la partecipazione dei ragazzi piacentini nella società, nonché sostenere progetti di informazione giovanile e indipendente; il 18 Febbraio 2011 viene finalmente registrata la testata presso il Tribunale di Piacenza. Quello che state leggendo è il nostro primo numero ufficiale, stampato senza alcun finanziamento pubblico o di partito, ma soltanto grazie ai fondi dell’associazione e agli sponsor. Verrà distribuito davanti alle principali scuole piacentine, in diversi locali e bar e in occasione di eventi come Tendenze. Speriamo che possa piacervi, interessarvi e che, soprattutto, vi venga voglia di partecipare al nostro progetto: la redazione è aperta a tutti i giovani piacentini dalla prima superiore all’università, quindi … fatevi sentire!

www.lamarmaglia.it: qui trovate tutti gli articoli, le pubblicazioni, gli arretrati … e sempre qui potete commentare il nostro lavoro facendoci sapere tutte le vostre critiche, proposte, idee, impressioni, insulti …

[email protected]: qui potete contattare la redazione, mandare lettere minatorie, farci proposte indecenti … insomma, spammateci!

La Marmaglia (on Facebook): iscrivetevi al gruppo, alla fan page o diventate nostri amici se volete avere tutte le notizie in tempo reale su quello che stiamo combinando …

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La Marmaglia

In copertina

Questo infatti sembra emergere se guardiamo alle ultime ten-denze: i famigerati tagli alla

Cultura, le proteste nei teatri, nei cine-ma, nelle Accademie… un Governo che sembra disinteressarsi come non mai del sostegno allo sviluppo culturale e artistico del nostro Paese. Del resto l’hanno detto senza pudori: con la cultu-ra non si mangia. Tanto più in periodo di crisi. E così, nel quasi completo disinte-resse, la Cultura italiana viene lasciata ad agonizzare, come un animale malato. Di fronte ai problemi della crisi economi-ca è il settore (insieme all’Istruzione e alla Ricerca) più sacrificato sull’altare delle politiche economiche del Ministro Tremonti; del resto come aspettarsi, da un simile Governo, un sostegno a quella parte del Paese che tradizionalmente è più ostile alla destra e difficile da stru-mentalizzare? Si sa, la cultura fa paura: perché instilla dubbi nelle persone, per-ché non è mai serva, perché insegna a ricercare il bello e il buono, a farsi delle domande. E questo, anche in una de-mocrazia, è pericoloso.

Il problema vero, però, non sono i ta-gli del Governo. Siamo di fronte ad una crisi che tocca diverse componenti della nostra società, e non solo l’economia. La crisi è politica, istituzionale, etica.

Ma è anche e soprattutto una crisi cul-turale che ha radici molto lontane nel tempo e che arriva ad intaccare tutto il fermento di cui si è sempre potuto vantare il nostro Paese; da molti anni infatti il panorama artistico italiano langue, l’Italia sembra aver perso quel primato di avanguardia che aveva tra-dizionalmente occupato per ripiegarsi sempre più su sé stessa e sul suo pas-sato. Questo almeno se guardiamo alle apparenze. Perché se indaghiamo più a fondo (e speriamo, con questa rivista, di aver contribuito a farlo), ci accorgiamo che senza guardare troppo lontano pos-siamo trovare tantissimi giovani artisti dall’incredibile talento, con tante idee e tanta voglia di metterle in pratica. Eppu-re non riescono ad emergere. E la colpa non è solamente del Governo: è special-mente di tutti noi, che siamo diventati ormai indifferenti, passivi di fronte a una bella musica o a un bel quadro.

La nostra società digitale, nella quale ogni cosa, ogni sentimento è standardiz-zato e uniformato dalla grande centrifu-ga della Rete, e dove ognuno si trova ri-dotto al ruolo di semplice telespettatore di una realtà virtuale, ci spinge sempre più lontano dalla capacità di cogliere la bellezza e l’arte. Siamo lobotomizzati da media che ci trascinano ad un livel-

lo sempre più basso di civiltà, ci stiamo progressivamente disumanizzando. E il fatto che non siamo più in grado di sop-portare forme d’arte che non si possa-no proiettare su di uno schermo è solo uno dei segnali più allarmanti. Nel libro Fahrenheit 451 lo scrittore Ray Bradbu-ry prospettava una società in cui i pom-pieri, invece di spegnere gli incendi, li appiccavano per bruciare i pochi libri rimasti. A soppiantarli era stata proprio la televisione. E non c’era stato bisogno di usare violenza: erano stati gli uomini stessi ad essersi stufati della cultura. Lo Stato interveniva solo contro quei pochi che osavano ribellarsi alla cultura domi-nante. Purtroppo, oggi questa profezia sembra avverarsi.

Il problema allora è che dovremmo renderci conto di quello che ci sta acca-dendo, e aprire gli occhi. Ci lamentiamo dei tagli alla Cultura? E allora facciamo vedere che la vogliamo, questa Cultu-ra. Ritorniamo a leggere dei bei libri, a visitare le mostre, ad ascoltare musica d’autore. Usiamo i nostri soldi per so-stenere giovani artisti, musicisti, registi bravi e innovativi. Impieghiamo il nostro tempo in maniera diversa dal consu-marsi di fronte ad uno schermo o dal-l’ubriacarsi in discoteca. Incominciamo a dipingere, a suonare, a scrivere tutto quello che non ci hanno ancora detto in televisione. Facciamo vedere che esiste un’altra Italia, che non è ancora stata narcotizzata dai reality show. Tocca a noi giovani fare tutto ciò. E’una partita disperata, ma non possiamo perder-la. Ne va della nostra vita, e del nostro Paese.■

Francesco Marini

Questo non è un paese per artisti. Sembrerebbe paradossale: la patria di Dante, Michelangelo, Raffaello, la culla del Rinascimento, da sempre punto di riferimento per i movimenti artistici di tutto il mondo, vuole definitivamente chiudere i conti col suo passato. E voltare pagina.

Senza cultura non c’è futuro

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Nonostante le opportunità che abbiano creato le mo-derne tecnologie, quali la sintesi elettronica del suo-no, le sperimentazioni sono rimaste tali e limitate

alla sottile cerchia degli “adetti ai lavori”.Eppure tutto il periodo del XX secolo è stato teatro di un

incessante desiderio di rinnovamento formale e tecnico, gal-vanizzato dalla volontà di superare l’allora vetusto sistema to-nale basato sul temperamento equabile. Sostanzialemente le due semplici tonalità maggiore e minore, con le loro relative derivate, avevano raggiunto un tale livello di sperimentazione che l’ulteriore passo avanti era semplicemente l’eliminazione delle stesse. E così fu.

Vediamone alcuni passi fondamentali. Gli avanguardismi novecenteschi affondano le loro radici nelle ultime sperimen-tazioni del sistema tonale di Bramhs, Debussy e Wagner, quest’ultimo co-nosciutissimo per quel famoso accor-do del “Tristano e Isotta” che è tuttora considerato come il non plus ultra della musica tonale occidentale. Negli anni ‘20 Schonberg intuisce la possibilità di oltrepassare le ultime concezioni di fi ne Ottocento, per giungere ad un sistema completamente atonale chiamato dode-cafonia (ogni nota è considerabile come tonica). Numerosi compositori seguiran-no le sue orme in Europa ed in America.

Contemporaneamente, in Romania e Ungheria si diffonde un dilagante interesse verso la musica tradizionale, capeggia-to da Bartok e Brăiloiu.

Nel secondo ‘900 vediamo l’estremizzazione dei processi compositivi precedenti e l’incontro della fi losofi a con la mu-sica: sono in molti che seguono la corrente dell’indetermini-smo di John Cage, caratterizzata dalla volontà di estirpare dalla composizione ogni processo umano, oppure quella del minimalismo americano che sostiene un ritorno alla sempli-cità formale. A partire da questi anni vediamo l’avvicinarsi di

alcuni compositori (Georges Lygeti e in Italia Berio e Nono) alla sintesi elettronica del suono, che negli anni 80 verrà poi ripresa in chiave commerciale.

A partire da questa data non è più riscontrabile nel mon-do occidentale una scuola o un comune denominatore che possa essere assoggettato ad una corrente artistica: tante piccole realtà proseguono nel loro intento senza aggiungere alcunchè di essenziale. Nel territorio italiano è sicuramente riscontrabile una certa ostilità alla musica novecentesca, do-vuta anche al fatto che ci si ostina a riproporre i soliti autori da 100-150 anni.

A questo punto, non è che voglia attaccare con spirito futu-ristico e disilluso tutto ciò che appartenga al passato, ma in-tendo fermamente sottolineare che, se non avviene un qual-che sviluppo in un qualsiasi ambito artistico, il rischio è che si perda con esso la percezione di noi stessi.

Il rifugiarsi nel passato della musica occidenatale dà si-curamente una certa sicurezza, rispetto alla variabilità e all’asprezza musicale novecentesca, ma la ragione fonda-mentale è anche dovuta all’incompatibilità che esiste tra il sistema dodecafonale e la percezione umana dei suoni: tutte le civiltà nelle loro concezioni di musica riconoscono quei rap-

porti matematici (su cui ci basiamo an-che noi contemporanei) già scoperti da Pitagora: il diapason (2/1) il diaperion (3/2) e il diatessaron (3/4), che proprio gran parte della musica novecentesca rinnega.

E’ scientifi camente riconosciuto che la natura ha organizzato particolari forme viventi, come i vegetali, seguen-do la geometria frattale e molto proba-bilmente Pitagora, nello scoprire quei determinati rapporti, non ha fatto altro che trovare qualcosa che esisteva già

in natura. D’altronde alcuni esperimenti scientifi ci americani confermano che la musica noventesca infl uenzerebbe nega-tivamente la crescita delle piante.

Un altro punto a sfavore della musica moderna consiste nella sua struttura artistica: il tecnicismo ha completamente soppiantato quello che dovrebe essere il vero signifi cato del-l’arte, puro convolgimento emotivo. Il futuro consiste dunque nel ricercare il nuovo, ma senza dimenticare questa impor-tantissimo punto di partenza.■

L.F.

Musica colta in tempi di crisi

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“Non è che voglia attaccare con spirito futuristico e disilluso tutto ciò che appartenga al passato, ma intendo fermamente sottolineare che, se non avviene un qualche sviluppo in un qualsiasi ambito artistico, il rischio è che si perda con esso la percezione di noi stessi.”

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L’odierna crisi interiore che accompagna l’uomo occidentale da ormai un trentennio ha generato le sue conseguenze anche nella musica colta. O meglio, non ne ha assolutamente generate, vista la totale mancanza di innovazione a livello tecnico-compositivo negli ultimi anni.

Musica

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A questo proposito mi sembra importante citare Martin Hei-degger. Il fi losofo tedesco vede

nell’opera d’arte l’aprirsi delle verità. L’arte instaura essa stessa cate-gorie di compren-sione, principi concettuali, defi -nizioni che orien-tano l’esistenza. Per questo l’arte viene prima della verità, poiché, fondando un certo lin-

guaggio, defi nendo un certo orizzonte, è l’origine della verità.

L’arte, per Heidegger, è inoltre coin-volta in un confronto diretto con lo spa-

zio. Come ripor-tato, infatti, nel suo libro “L’arte e lo spazio”, <<Il modo in cui lo spazio sorregge e attraversa l’opera

d’arte resta per ora nell’indetermina-to>>. Una volta ammesso che l’arte sia

il porre in opera la verità e che verità signifi chi “non occultazione dell’esse-re”, ne consegue allora che nell’opera d’arte fi gurativa sia lo spazio vero ad assegnare la misura. Rifl ettendo sul-l’argomento si può inoltre constatare che un’artista, nella rappresentazione della sua opera, non solo la raffi gura, evidenziandone i particolari più signifi -cativi, ma in verità egli raffi gura anche ciò che in quell’opera è propriamente invisibile. Mi spiego meglio. Prendiamo come esempio uno scultore: quando modella la testa della sua opera egli sembra che riproduca solamente la superfi cie visibile, ma in realtà mette in evidenza anche il modo in cui que-sta testa guarda al mondo e, come dice Heidegger, <<come soggiorna nell’aspetto dello spazio, coinvolta da uomini e cose>>. Possiamo quin-di affermare che l’artista traspone in un’ immagine quel che essenzialmen-te è invisibile e che ogni volta mostra qualcosa di nuovo, che non era stato visto.■

Jacopo Ghillani

Chiedersi cosa sia l’arte è un po’ come chiedersi cosa sia la vita: tanto grande è l’estensione concettuale e pratica delle attività artistiche. Arte signifi ca creare, dare vita a qualcosa attraverso i materiali che più ci piacciono. Essa nasce dal bisogno di comunicare, di esprimersi. L’arte è quindi il messaggio del nostro sentire. Oscar Wilde sostiene che “la vita imita l’arte molto di più di quanto l’arte non imiti la vita”. Si può dire che un’opera d’arte sia una rappresentazione molto signifi cativa di qualcosa che l’artista vuole trasmettere, mettendo in luce le sue impressioni e il suo modo di essere.

L’Arte e lo Spazio secondo Heidegger

Arte e Filosofi a

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“L’arte instaura essa stessa categorie di comprensione, principi concettuali, defi nizioni che orientano l’esistenza. ”

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CHI - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Martin Heidegger (1889-1976), fi losofo tedesco, è stato uno tra i principali interpreti dell’esisten-zialismo. La sua attenzione era soprattutto con-centrata sul rapporto fra l’essere e l’esistente. La sua opera fondamentale è Essere e tempo, 1927.

CHE COSA- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Ne “L’arte e lo spazio”, un’opera tratta da una conferenza tenuta dal fi losofo nel 1964, Heideg-ger presenta una serie di considerazioni che si muovono intorno all’esperienza dello spazio nel-la scultura.

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Assessore, qual è la situazio-ne artistica a Piacenza, a livello giovanile, e quali po-

tenzialità sono presenti?<<Parlare di giovani artisti risulta

sempre difficile, perché si tratta di una realtà molto complessa e variegata. Si va da ragazzi di 15 anni che si affaccia-no per la prima volta sul mondo dell’ar-te ad artisti già esperti, di trenta e più anni. Vi sono quindi esperienze, com-petenze e potenzialità molto diverse a seconda delle individualità, ma certo a Piacenza abbiamo diversi artisti che si possono definire assai promettenti e altri già noti in un contesto nazionale ed europeo>>.

In quale rapporto con il Comune sono i giovani artisti?

<<Proprio a causa della varietà del fe-nomeno è impossibile per il Comune agi-re in maniera “mono-direzionale”. Stia-mo cercando di offrire a questi ragazzi più occasioni possibile, muovendoci in prevalenza in tre direzioni: l’informa-zione, fornendo loro tutte le notizie e il supporto per partecipare a mostre, bandi e concorsi; la formazione, per cui a prescindere dall’età vengono fornite agli aspiranti artisti occasioni di incon-tro e di apprendimento da “maestri” del settore; infine la promozione, attraver-so mostre ed eventi di qualità aperti alla cittadinanza. In quest’ottica, abbiamo rivitalizzato il progetto GAP (Giovani Ar-tisti Piacentini), che da un lato vorrebbe fornire ai più giovani quelle competenze utili a fare un “salto di qualità” e a svi-luppare un’autonomia artistica, dall’al-tro vorrebbe mettere in contatto gli ar-tisti già esperti con aziende, istituzioni ed associazioni che potrebbero essere interessate ad una collaborazione. In breve stiamo cercando di formare un movimento culturale ed artistico, tuttora ancora disomogeneo, che riceva l’ade-

guato riconoscimento dei suoi meriti e che contribuisca appieno allo sviluppo di questa città>>.

Quali altri progetti sono in corso oltre al GAP?

<<A differenza del passato, vorremmo invertire la tendenza di un Comune che propone iniziative “dall’alto” a giovani passivi. Questa concezione proviene da un tipo di società miope e superficiale, che guarda ai giovani con sufficienza e che purtroppo è stata fino ad ora im-perante. Invece dobbiamo ascoltare le idee e i progetti (spesso eccezionali) dei ragazzi e fare tutto il possibile affinché essi li mettano in pratica, fornendo loro tutti gli strumenti e gli aiuti possibili e rispettando sempre e comunque la loro autonomia e indipendenza, non omolo-gandoli. E in questo senso sono diretti, oltre al GAP, lo “Spazio 4” e ancor più il progetto del futuro “Spazio 2”, un nuovo centro aggregativo che vorrebbe essere addirittura completamente autogestito dai gruppi giovanili (La Marmaglia ha aderito al progetto ndr). Non per i gio-vani, ma con e da parte dei giovani: è questa la mia idea di Politiche Giovanili. In più, significativa è stata la “conces-sione” del sottopassaggio di Piazzale Marconi ad un team di writers, che ne hanno affrescato interamente le pare-ti. Si tratta di una vera e propria opera d’arte, e se ne rendono conto persino gli anziani che si fermano stupiti a guar-dare; eppure il movimento dei graffiti è stato da sempre svilito e confuso con il vandalismo. Iniziative come queste contribuiscono a formare tra i cittadini una coscienza ed una consapevolezza artistica, oltre a valorizzare il lavoro dei giovani>>.

Eppure secondo molti Piacenza ri-mane una “città morta” …

<<Ecco, queste cose mi fanno vera-mente incazzare. Ho già discusso di que-sto con i fondatori del gruppo-Facebook “Piacenza è morta”, che ha raggiunto in breve un numero incredibilmente alto di iscritti: è evidente che non è la stessa città quella di cui parliamo. Se infatti questi signori avessero la volon-tà di guardare alle molteplici occasioni culturali ed artistiche indirizzate proprio

ai giovani (i contest Tendenze e Male d’Amore, locali come Baciccia, Medley, Fillmore, il nuovo Loft 51, le mostre e iniziative al Quartiere Roma…) si ac-corgerebbero che ogni giorno ci sono tantissime opportunità per divertirsi e fare cultura. Bisogna però smetterla di lamentarsi, aprire gli occhi e iniziare ad apprezzare quello che già abbiamo: tan-ti giovani che si impegnano in progetti che non sempre vengono degnati della giusta attenzione, nonostante l’elevata qualità. D’altra parte siamo la società della superficialità e dell’omologazione, vittime di vent’anni di berlusconismo e di tv-spazzatura: bisogna rompere que-sti schemi che ci vogliono soltanto dei telespettatori passivi e riprenderci la cultura>>.

C’è chi dice, però, che “con la cul-tura non si mangia …”

<<E io non sono d’accordo. La cultu-ra e l’arte sono per l’uomo un bisogno primario, come il cibo o l’acqua. Certo, l’uomo può vivere anche senza arte; però gli verrebbe a mancare qualcosa di fondamentale, che lo distingue dagli animali: l’aspirazione al bello. Ed allora sarebbe un po’ come morire…>>.■

Francesco Marini

“Piacenza non è morta!”PArLA // GiovANNi cAStAGNetti

L’assessore al Futuro del Comune di Piacenza, Giovanni Castagnetti, ci aiuta a capire un po’ meglio lo stato di salute del movimento artistico giovanile della nostra città …

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Musica a Piacenza

Camilla Ferdenzi (nella foto) suona il pianoforte da otto anni, <<mi rilassa quando i nervi saltano>>,

dice, <<è una passione e un piacere per-sonale, e una buona dose di cultura>>. Camilla è una delle ragazze e dei ragaz-zi apparentemente anonimi, che altrove, lontano dal portone verde del liceo Cassi-nari, conducono una seconda vita di libri. Libri di canto, di strumento, di solfeggio, ma anche di storia, storia della musica ovviamente. Tra poco dovrà affrontare il quinto anno di liceo: voti, crediti, prove, tesi e la leggendaria interrogazione orale. Poi, solo quando sarà già da tempo tra-scorso il solstizio, l’estate tanto sospirata. E dopo l’estate l’università, per chi se la potrà permettere. Ma Camilla già frequen-ta l’università: infatti il Conservatorio, in seguito alle future modifiche della riforma (parliamo di mesi), è considerato percorso parallelo ad una facoltà tradizionale, che rilascia pur sempre un attestato di livello universitario.

Vorrei che provaste a immaginare: è mattina, e la mattina si va a scuola (quel-la “normale”). Preparate lo zaino, non canticchiate l’ultimo Bach sul pullman per non sembrare dei deficienti, arrivate a scuola e per vostra fortuna siete pianisti, perché chi suona il piano non se lo porta da casa (il Conservatorio occupa a volte le ore direttamente successive a quelle di scuola). Bene, io fossi in voi schiaccerei un sonnellino per essere sicuro di raggiunge-

re un adeguato grado di attenzione, ma io non suono al Conservatorio, perciò prose-guiamo. Certo non tutti i giorni si corre da scuola a lezione di musica, <<ma se non sono dal maestro e la scuola mi concede fiato suono spesso a casa>> ammette Ca-milla, riconoscendo che questo non fa di lei un’eroina, quanto una persona decisa a seguire le proprie passioni, <<come altri possono esserlo per i loro interessi>>. Ag-giungo che, nonostante la scuola conceda a questi studenti double-face la possibilità di assentarsi per un certo numero di ore alla settimana per motivi di studio, Camil-la non ha fatto richiesta agli insegnanti di usufruire di questa riduzione di carico.

E’anche vero che la musica piacentina non si esaurisce in via Santa Franca, ma ci sono molte altre belle idee, nuove e di qualità. E ci sono anche molti problemi. Pur non potendo assistere alla maggior parte dei concerti, posso affermare con certezza che un problema non da poco è la penuria di locali dove potersi esibire, e di questo risentono soprattutto i musicisti più giovani. Sono rari, infatti, i locali che chiedono qualità e cercano di offrirne, e basta dare un’occhiata fuori dalla provin-cia per capire quanto Piacenza sia limita-ta sotto questo aspetto. Ci sono eccezioni, come ho detto: mi viene in mente Loft51 (il collettivo della balena nel muro), il nuo-vo spazio di via Roma aperto tre giorni a settimana e retto da volontari, che offre un ambiente adatto al’ascolto di musica

dal vivo, nonché mostre fotografiche, in-stallazioni artistiche, buffet letterari. E poi i musicisti non sono tutti “emergenti” come Camilla, ci sono tanti gruppi che hanno ottenuto fama italiana e internazio-nale, un esempio ne sono gli Haulin’Ass.

Qualunque sia la situazione della città, sono convinto che la musica piacentina stia crescendo, e di conseguenza non penso che ci si possa reggere ancora a lungo sulle sole risorse del Conservatorio o dei Giardini Sonori, che per di più sono poli vicinissimi, sfavorendo ulteriormente l’ambiente non direttamente circostante. A Piacenza c’è chi ha deciso di riesumare la canzone degli anni trenta, o di ricalcare il genere cantautorale di quarant’anni fa, piuttosto che spingersi in ambienti nuovi, nuovi effetti, nuovi strumenti e accosta-menti. La speranza è che la novità non investa soltanto i musicisti, ma anche i titolari dei locali, il pubblico, i produttori, le scuole.

Chissà se Camilla porterà a buon termi-ne il percorso di studi al Conservatorio e chissà dove andrà a finire, se diventerà uno zoppo Beethoven che si srotola dalla finestra di un appartamento di via San-t’Eufemia, piuttosto che un Tschaikowsky in legno abbandonato ad una soffitta stantia. Chissà se sarà felice di aver cono-sciuto la musica. ■

Alessandro Colpani

Gli appartamenti dove si srotolano i tanti Beethoven, le soffitte polverose dei Tschaikowsky in legno, o più semplicemente i Giardini Sonori per i ragazzi del centro, i bar più intraprendenti, gli ultimi locali, lo studio Mofo, le feste popolari... L’ho dimenticato: il Conservatorio.

Largo ai Beethoven piacentini!

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My Space:http://www.myspace.com/alessandrocolpaniFacebook:Alessandro Colpani cantautore (gruppo)

Tutto è cominciato con le canzoni che suo papà gli cantava prima di andare a letto o quando andava in vacanza. È bastato

poco perché la musica entrasse nel cuore del ra-gazzo: ad undici anni si è iscritto al conservatorio; tempo di conoscere l’ambiente e già forma la sua prima band. <<Quindi ho cominciato a entrare nell’ottica di suonare per un progetto staccato dal Conservatorio>>, mi racconta.

Ma è sempre grazie al padre e soprattutto ai suoi cd che Ales-sandro scopre i cantautori italiani: quasi per gioco un giorno prova ad emulare De Gre-gori e si accorge che gli riesce assai bene. Prima con il computer di un amico e poi in un piccolo studio de-cide di provare a registrare i suoi pezzi.

<<Ho realizzato il mio primo cd - mi dice – insieme ai fonici Mirko e Massi-mo Ferdenzi in un piccolo studio chia-mato Smokers, quasi un garage, vicino alla Galleana.>> L’apprezzamento è immediato: in poco tempo Alessandro inizia ad esibirsi in varie serate portan-do sul palco anche sinceri tributi ai più celebri cantautori.

Sorridendo si ricorda che la prima volta che si è recato in studio non aveva assolutamente idea di cosa volesse dire creare un cd, collaborare con un fonico o provare nuovi suoni, ma aggiunge che l’esperienza è stata assolutamente positiva in vista delle realizzazioni successive. Così quan-do gli chiedo cosa suggerisce ai giovani musicisti che hanno scritto qualche pezzo, afferma pronta-mente: <<Consiglio di provare a registrare: è suf-fi ciente realizzare un piccolo cd di 4 o 5 canzoni, giusto per dare l’idea di che cosa si suona e di-stribuirlo nei vari locali per farsi conoscere…>>.

Negli ultimi mesi ha confermato pienamente le sue qualità con la pubblicazione di due album, “Ciao Ragazzo” e “Opera Povera”.

Il primo è un cd “standard”, nel senso che segue la tipica linea del cantautore italiano con chitarra e voce. Completamente realizzato da lui, tratta temi abbastanza vari, dalla canzone di protesta a quella più leggera e disimpegnata, anche se, come dichiara lui stesso, <<è prevalentemente un cd di “denuncia sociale”, se mi è consentito

usare parole un po’ forti…>>. L’arrangiamento è fl uido, pulito e coinvol-

gente, i testi per nulla banali. “Confessione di un prete”, forse il brano più impegnato, esprime ad esempio una posizione di critica nei confronti della Chiesa. Presentata come racconto di un prete che antepone alla reli-gione i propri vizi, <<la canzone - rivela Ales-sandro - prescinde dal contesto religioso e vuole metter in luce il distacco tra un sacer-

dote e una persona che non crede>>. “ciao ra-gazzo”, titolo del cd, vie-ne ripreso nella canzone più toccante di tutto il cd, che racconta il lutto per un ragazzo morto l’anno scorso a Piacen-za. <<Ho scelto questo pezzo come titolo per metterlo abbastanza in risalto, proprio perché non so quanto lo suone-

rò live>>. Quando gli chiedo di farmi ascoltare dal vivo una sua canzone, prende la chitarra e intona “Gli eroi”. Adora suonare, si vede dal sorriso e dalla passione che quasi ti travolge…

Mi racconta poi del suo <<esperimento>>, “Opera Povera”, un album di solo pianoforte che cerca di esprimere alcune sue impressioni. <<L’idea è nata dopo aver ascoltato la colonna sonora del Favoloso Mondo di Amelie di Yann Tiersen. Chiunque conosca quest’opera si può facilmente accorgere di alcune somiglianze a li-vello stilistico con “Opera Povera”: le composizio-

Sorridendo si ricorda che la prima volta che si è

non crede>>gazzo”ne ripreso nella canzone più toccante di tutto il cd, che racconta il lutto per un ragazzo morto l’anno scorso a Piacen-za. pezzo come titolo per metterlo abbastanza in risalto, proprio perché non so quanto lo suone-

rò live>>. Quando gli chiedo di farmi ascoltare dal

Musica a Piacenza

“I miei ideali a suon di chitarra”

Nel nostro lungo tour alla ricerca di giovani artisti piacentini non potevamo non incontrare Alessandro Colpani, diciotto anni appena compiuti, ormai per molti il “ragazzo cantautore”.

suon di chitarra”

registrare i suoi pezzi.

gente, i testi per nulla banali. di un prete”esprime ad esempio una posizione di critica nei confronti della Chiesa. Presentata come racconto di un prete che antepone alla reli-gione i propri vizi, sandro - vuole metter in luce il distacco tra un sacer-

iNFo

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ni sono poco didattiche, quasi “povere” o da strada e rappresentano situazio-ni di vita quotidiana, non esposte ad alcun ambiente esterno>>. Anche se quest’album colpisce meno di quello precedente, le qualità di Alessandro emergono tutte. La sua particolarità infatti sta qui: nel non ripetersi, ma nel cercare sempre di migliorarsi attraver-so nuovi suoni e sperimentazioni.

Alessandro Colpani ama la musica e le dedica tempo e passione. Forse que-sto ha a che fare col fatto che quando gli chiedo quale sia il panorama della musica a Piacenza, mi guarda e dice: <<Ci sono buone idee: nuove e di qua-lità. Tuttavia i locali dove poter suona-re sono pochissimi. Sono i soliti, che non richiedono qualità e non cercano di offrirla, a parte qualche sporadica eccezione>>. E le eccezioni? Loft 51, un nuovo spazio in via Roma <<dove si suona e si ascolta, ci sono mostre fo-tografi che e spazi per installazioni>>, e qualche band come gli Haulin’Ass <<che si sono creati da sé un pubblico più vasto, anche fuori da Piacenza e perfi no dall’Italia>>.

Certamente Alessandro Colpani con il suo apporto tanto contribuisce alla crescita della musica piacentina. Forse non è un gran innovatore e qualcuno lo ascolta per nostalgia dei cantauto-ri di quaranta anni fa, ma certamente i suoi testi parlano di cose nuove: le idee, le critiche, i sogni di un ragazzo di diciotto anni che, come tutti noi, vuole far sentire la sua voce. E allora quale metodo migliore che una semplice chi-

tarra e qual-che verso in musica?■

Mattia Pinto

I RoverHeart sono un quintetto Hard Rock piacentino attualmente composto da cinque baldi e valenti giovani: Lorenzo Caravaggi (Electric Guitar & Vocals), Dario Moretto (Electric Guitar), Lorenzo Moretto (Hammond Organ), Denis Cas-

si (Electric Bass), Giuseppe De Guida (Drums). Ho incontrato proprio Lorenzo Cara-vaggi, voce e chitarra del gruppo.

Allora Lore, come descriveresti la vostra musica? Suoniamo Hard Rock psichedelico, rifacendoci a sonorità fi ne anni ‘60 - inizio ‘70,

avendo a modello gruppi storici come Pink Floyd, Deep Purple, Cream o Led Zeppelin e con l’intenzione di modernizzare e personalizzare il tutto. Cerchiamo di proporre un connubio tra Hard e Progressive avvolto da un’atmosfera psichedelica fortemen-te caratterizzata dall’organo Hammond, coniugando il tutto con un impatto sonoro importante, più “pesante” rispetto a quello tipico degli anni ‘70.

Da quali altri generi siete infl uenzati, quali sono gli artisti di riferimento?Altre infl uenze importanti e facilmente riscontrabili nei nostri pezzi possono essere

ricondotte anche a band più “contemporanee”, per esempio i Tool per quanto riguar-da la versatilità della batteria, che esce dai tradizionali schemi dell’Hard Rock, e ci ispiriamo anche a Kyuss, Wolfmother, Witchcraft, alla musica folk di stampo nordeu-ropeo, al funk e al jazz.

Cosa volete comunicare con la vostra musica?L’obiettivo è quello di parlare alla sfera emozionale dei nostri ascoltatori, di toccare

direttamente l’animo di chi ci ascolta risvegliando in lui sensazioni ancestrali e nel frattempo di rendere piacevole l’ascolto!

Per comporre i vostri testi attingete a qualche modello letterario? Quale è il vostro universo culturale di riferimento?

Riprendiamo spesso temi cari alla Beat Generation o tipici del Romanticismo: uno su tutti quello del viaggio, del vagabondare senza meta; poi il richiamo a sentimenti universali e mistici … collegati alla everyday-life.

Perché l’inglese?Componiamo i testi in lingua inglese perché la musica che suoniamo è originaria

del Nord America e della Gran Bretagna, dove a metà degli anni ‘60 si è diffuso il rock blues. La composizione in italiano inoltre risulta notevolmente più diffi cile; un altro motivo è la maggiore fruibilità da parte di un pubblico straniero e inoltre questa lingua è molto più funzionale al richiamo delle atmosfere che ho prima descritto.

Quali sono state le vostre esperienze dal vivo?Suoniamo in giro per il Nord Italia ormai da un anno e mezzo, e vantiamo fi no ad ora

circa cinquanta concerti. Abbiamo suonato a Tendenze e abbiamo aperto ai Woolly Bandits (Los Angeles) allo Spazio 4. In Giugno suoneremo a Rovigo al Trecentallora Biker Festival, aprendo il concerto a Freak Antoni (Skiantos)... E stiamo anche pro-gettando il nostro primo tour all’estero (Inghilterra e nord della Francia)!

...c’è dell’altro?Abbiamo registrato 2 Ep e pensiamo di realizzare a breve il primo album uffi ciale,

sotto etichetta. Nel frattempo potete ascoltare alcuni dei nostri brani su www.myspa-ce.com/RoverHeart e prendere nota dei prossimi concerti in zona … Stay Tuned!!!■

di Pietro Mocchi

RoverHeart, la carica del “rock ancestrale”

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Ciao Laura, spiegaci un po’ che cosa fai …

<<Come artista mi muovo su più campi. Ho utilizzato per lo più la forma classica dell’olio su tela, mentre recentemente mi sono appassionata alla tecnica dell’incisione: in pratica si incidono sottilissime lastre di metallo, vi si spalma sopra del colore e poi si appli-cano, pressandole con un tornio, a fogli di cotone. Il risultato è una linea grafi ca molto sottile e delicata, che utilizzo per le mie composizioni. E’una tecnica che ho appreso in Accademia e che mi ha su-bito affascinato. Mi piace la discordanza tra il procedimento “duro” e il risultato che è molto tenue e delicato, il contrasto tra il metallo e la carta di cotone. Ho an-che composto alcuni “libri d’artista” e mi sono dedicata alla fotografi a, anche se quello, a dire il vero, lo vedo più come un hobby che come un mestiere>>.

Quali sono i temi, le ispirazioni del-le tue opere?

<<Premettendo che faccio un tipo di arte completamente astratta e informa-

le, un tema conduttore delle mie opere è senz’altro l’orizzontalità e l’idea di oriz-zonte. Sono sempre stata affascinata dal confi ne tra terra e cielo, in particolare da quando, da pendolare, potevo osservare quotidianamente dal treno l’immensa Pianura Padana. E’stato da qui forse che ho tratto l’ispirazione per i miei quadri, dalla pianura e poi dai magnifi ci pano-rami di Bilbao e dell’Oceano Atlantico. Oltre a questo sto cercando di inserire nelle mie opere anche frammenti di fra-si, di pensieri spesso intimi che affi orano inconsciamente alla mia mente quando magari guardo un paesaggio. Mi affasci-na l’idea di unire qualcosa di puramente astratto come la mia pittura ad un codice scientifi co come può essere la scrittura o una mappa geografi ca. Diciamo che sono in continua ricerca di spunti e me-todi…>>.

Cosa signifi ca essere un’artista nell’Italia di oggi?

<<L’Italia sta vivendo un brutto momen-to dal punto di vista artistico, mi sembra che ci sia poco fermento a livello giovanile

e che, d’altro canto, lo Stato non garanti-sca il supporto e i fi nanziamenti adeguati a chi è bravo e vuole emergere. Questo mentre altri stati europei, come la Spa-gna o la Germania, fanno davvero moltis-simo per valorizzare il futuro dell’Arte; in questo senso ho lo sguardo aperto all’Eu-ropa, che può offrire veramente tanto ai giovani artisti italiani>>.

E a livello piacentino? Che cosa bi-sognerebbe fare?

<<A dire la verità non conosco benis-simo la situazione piacentina, essendo stata “fuori sede” praticamente fi no a quest’anno… So però che esiste il G.A.P. (Giovani Artisti Piacentini), con il quale ho anche collaborato, che mi sembra essere un’esperienza utilissima e che bi-sogna portare avanti. Sarebbe bello an-che avere un centro culturale nel quale i giovani potessero esporre le loro opere, si era parlato dei bastioni di Porta Bor-ghetto...>>.

Cosa diresti ad un ragazzo che non sa se intraprendere la “carriera” ar-tistica?

<<Gli direi di ascoltare la sua passio-ne: se è davvero forte e non può farne a meno, deve coltivarla. Bisogna tenere conto però che la strada per diventare un artista “di professione” è assai complica-ta, in primis a livello economico, e che si tratta di una professione molto instabile e faticosa. Bisogna avere molta determi-nazione e, secondo me, anche una forte auto-disciplina. Non pensate che gli arti-sti siano tutti disordinati: io stessa tendo a fi ssarmi degli orari ferrei di lavoro, è un’esigenza che forse proviene dalla no-stra indipendenza e libertà>>.■

Francesco Marini

Laura Bisotti ha �5 anni, ed è una pittrice e fotografa piacentina. Dopo il Liceo Artistico ha frequentato l’Accademia di Belle Arti a Bologna, poi, grazie al progetto Erasmus, si è trasferita nel centro artistico di Bilbao, dove ha anche vinto una borsa di studio. Da circa un mese è ritornata a Piacenza, dove la incontro proprio nel suo studio, che condivide con un’altra giovane artista.

Terra, cielo e orizzonte...PArLA // LAUrA BiSotti

Sito web: http://laurabisotti.blogspot.com

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È proprio seduti ad un tavolino del suo bar, la cui ambientazione e installazione “metafi sico - fanta-

scientifi ca” è pensata e creata da Filippo stesso, che gli ho potuto sparare tutte le pallottole del mio caricatore, e le pallot-tole del giornalista sono le domande.

Di cosa ti occupi, in particolare, quan-do dici di fare arte?

<<Il mio ambito è il vasto orizzonte del-la pittura e il mio eclettismo mi permette di spaziarlo a suffi cienza, il mio operare varia dallo spray all’acrilico su muro, tela o compensato. Oggi come oggi pratico arte contemporanea.

Agli albori invece pensavo solo in ter-mini di spray e muri bianchi, infatti sono stato sostanzialmente un “writer” (colui che esegue graffi ti sui muri) fi n dalla se-conda media.

Poi il dipinto accademico che ho im-parato al Liceo Artistico, l’infl uenza del padre, nel cui laboratorio fi n da piccolo fi ccavo sempre il naso, e l’esperienza precoce della street-art sono diventa-te le linee guida della mia arte, che è il punto di convergenza di tutte e tre.

Ho lavorato anche per installazioni te-matiche e ambientazioni in locali e stan-ze, ma mi esprimo per la maggiore con i quadri (anche con spray). I soggetti che li popolano sono enti metafi sici o umani con i quali gioco tramite scomposizioni e ricomposizioni di organi interni, oppure cerco la simbologia razionale scientifi co-matematica contrapponendola a sfi de alle leggi della fi sica e del mondo, come le fl uttuazioni degli oggetti>>.

Esiste a Piacenza un centro d’aggre-gazione o associazione aperta a tutti dove si possa imparare, sviluppare ed esprimere l’arte dei graffi ti e quella del-la libera rappresentazione pittorica?

<<No. Però per chi desiderasse fare graffi ti e mantenersi nei confi ni della le-galità esiste la possibilità, offerta dal Co-mune, di esprimersi su muri e spazi pub-blici adibiti e stabiliti per quello specifi co uso. La cosa non è così immediata ma è possibile chiedendo appunto allo Spazio Giovani del Comune di Piacenza.>>

Senza volerti accusare di plagio, qua-li grandi o piccoli artisti, o intere cor-renti o secoli di storia dell’arte infl uen-zano maggiormente il tuo stile?

<<Sicuramente la grande squadra d’ispirazione è tutto il ‘900, capitana-to dal grande pittore olandese Escher insieme con De Chirico. Un altro stile che mi affascina (e di conseguenza mi infl uenza) molto è la pittura fi amminga che cura incredibilmente i dettagli. Tra tutti vorrei sottolineare Bosch (che non è quello degli utensili tedeschi) poiché nonostante avesse le doti per una pittu-ra realista si destreggiava nell’immate-riale, nel metafi sico e nel trascendente. E infi ne (the last but not the least) mio padre Ezio Garilli che, anche se sono di parte, vorrei collocare tra grandi ar-tisti.>>

Cosa diresti a chi storce i naso alla vista di graffi ti in luoghi pubblici?

<<Che per la maggior parte dei casi la ragione, per lo meno quella giuridica, sta dalla sua parte.

E infatti anche la mia coscienza con-danna la street-art illegale, specie quel-la sui treni, a maggior ragione da quan-do il Comune offre la possibilità di spazi appositi, ma il mio senso estetico non condanna affatto: cento volte meglio un graffi to (se ben fatto) che un pallido muro bianco>>.

Veniamo alla domanda tanto profon-da quanto scontata: che senso ha per

te fare arte?<<Producendo, svuoto i sentimenti che

abitano il mio “interno” e mi fa sempre bene ciò. Inoltre tutto questo è coadiu-vato dalla soddisfazione personale, che deve venire prima di tutto da me stesso, e poi dagli amici e dal pubblico. Voglio dire, se non mi piacesse quello che creo avrei già smesso da tempo di fare arte anche se la gente, magari, vorrebbe comprare lo stesso le mie opere

Inoltre gli scopi dell’arte, specie di quella pittorica, sono edonistici, meta-storici, metafi sici e si adempiono sotto il segno della grazia del gusto, sono ca-rismatici insomma. È per questo che do la priorità a certi soggetti e situazioni anche se non sono quelle della moda attuale o quelle richieste dal mercato, solamente perché sono quelle che pre-diligo io. Anche se, lo ammetto, sarebbe il massimo poter raggiungere presto un sodalizio tra la passione per dipingere e il procurarsi da vivere. Per ora è un sogno, ma che non dovrà mai compro-mettere il mio stile, che è la diretta con-seguenza della mia persona e dei miei sentimenti>>.■

Giacomo Cantù

Filosofi camente writerPArLA // FiLiPPo GAriLLi

Per una porta a misura di Hobbit, sita in viale Bevorora � si va non nell’eterno dolore e nemmeno tra la perduta gente, ma nel pittoresco bar di un giovane artista: Filippo Garilli, ventotto anni, fi glio d’arte (suo padre Ezio, infatti, è uno tra i più rinomati pittori e scultori del piacentino) e molto creativo.

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FreeStyle

FreeTimeFREESTYLE ■ CUCINA ■ SPORT

C’erano questi due che scappavano, stridore di gomme e tutto il resto, su una Lincoln nera, forse una Tipo K, però non vi saprei dire. Pote-

vano essere a New York, o magari dall’altra parte della Costa, non lo so e in fi n dei conti non è nemmeno im-portante.

E’ chiaro che i due tizi, vestito gessato, marrone per uno, l’altro grigio mi pare, comunque cappello a tesa larga per entrambi, scappavano da qualcosa. Siamo in un noir, o meglio un hard boiled, e gli stereotipi si ri-spettano, cascasse il mondo. I due gangster - per forza, con quei gessati mica potevano fare i gelatai - scappa-no da qualcuno. E se sei un gangster, in un hard boiled, con un gessato marrone e una Lincoln, puoi scappare solo da due cose: un altro gangster o la polizia. Poco da fare. Per amor di cronaca dirò che i due scappavano dalla polizia. Anche gli sbirri hanno i loro tratti caratte-

ristici, come tutto ciò che in un hard boiled si rispetti. Credo fossero a bordo di una Cadillac, di quelle lunghe e nere, sul fi anco NYPD o forse era LAPD, comunque non è importante. E’ più importante sapere che erano due, ben irreggimentati nelle loro giacche scure. Uno mi pare avesse anche una stella appuntata sul petto. Proprio una macchietta, uno stereotipo ambulante. An-che loro facevano fi schiare le gomme.

E a pochi centimetri dalla donna che spingeva la car-rozzina sul marciapiede. Che cosa poi diavolo ci faces-se in giro a quell’ora con un neonato...vallo a sapere. Sta di fatto che la mancarono, di poco, ma la manca-rono.

Così, a occhio, direi che tra le due auto c’erano quat-tro o cinque metri, non di più. Una cosa che ho dimen-ticato di dire è che era piovuto. E quando piove, si sa, dai tombini esce quel fumo leggero, che forse è vapore. Non lo so. Comunque non ci importa poi tanto, perché la Lincoln volatilizzò la nuvoletta sfrecciandoci in mez-zo a qualche decina di miglia orarie, non poi troppe, ma suffi cienti. E la polizia sempre dietro.

Chissà perché li inseguivano. Sicuramente qualcosa di grosso, perché il poliziotto di destra estrasse la sua Colt e si sporse dal fi nestrino per prendere la mira. Non si spara a qualcuno da un’auto in corsa per una mela rubata a Little Italy, vi pare? Era un tizio piuttosto gros-so, avrebbe potuto chiamarsi Joe, tanto era grosso. Tra-guardò, mi pare si dica così, attraverso la tacca di mira ed esplose un colpo. E anche questo ce l’abbiamo.

Le gomme che fi schiano, le seicolpi che sparano e direi anche la donna che si portò le mani al volto, urlan-do. Fece clamorosamente fi asco. Il nostro potenziale

C’era tutto quello che serviva. I gangster, i poliziotti, le Lincoln, le Chrysler, le seicolpi e i bar dei falchi della notte di Hopper. Insomma tutto quello che fa un noir, o un hard boiled, come vi piace, quello che è.

“Cartacce”di Sebastiano Lommi

MEMENTO Potete trovare tanti altri racconti e articoli sul nostro sito web

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FreeStyleJoe mancò un’auto da cinque metri. E non un’auto pic-cola, nossignore, una Lincoln Tipo K, cinque metri per tre di lamiera. Imprecò. Poco da dire, era una mezzase-ga e lo stava dimostrando a tutti. E pensare che quello con la stella era lui. L’altro era uno giovane, coi baffetti e l’aria smorta. Era lì che armeggiava col grosso volan-te a tre razze e si capiva che ci sapeva fare, lui. Però non stavano giocando solo i poliziotti, c’erano anche i gangster e pure loro erano armati e cattivi. Quello se-duto al posto del passeggero, gessato grigio per capir-ci, tirò fuori il suo cannone e si sporse per rispondere al fuoco. Mancò di un soffi o il faccione baffuto di Joe, baffi spessi e rossicci, doveva essere irlandese.

Si andò avanti così per qualche decina di secondi e nessuno dei due che volesse mettere a segno il colpo decisivo, o così almeno sembrava. Finché successe una di quelle cose che non succedono mai. Due pallottole, esplose da due pistole, colpirono simultaneamente due pneumatici. Non una roba facile da far succedere, ma successe. Gessato grigio colpì in pieno la gomma degli sbirri mentre Joe, miracolosamente, sgonfi ava quella della Lincoln come un souffl é mal riuscito.

Da lì in poi fu questione di attimi. In cinque, massi-mo sei righe, le due auto impazzirono completamente sbandando lungo l’avenue. Anche gessato marrone era un driver in gamba, così riuscì ad evitare il carretto degli hot dog, il proprietario del carretto degli hot dog e anche un mangiatore di hot dog. Il poliziotto coi baffetti serrò la presa sul volante, ma la Cadillac non sembrava intenzionata a mantenere una traiettoria rettilinea. Joe e gessato grigio si ritirarono nelle rispettive automobili come tartarughe nel guscio, ma non servì poi a molto.

Quasi contemporaneamente, le due macchine cion-dolarono penosamente su un lato, poi sull’altro, fi nché non si appoggiarono di fi anco, pattinando leggere sul-l’asfalto bagnato. La Lincoln fi nì dentro la bottega, al momento chiusa, di un barbiere italiano, mentre la Ca-dillac fermò la propria corsa contro un lampione. Che si spense di botto.

Allora immaginate voi: fi no a un secondo prima c’era-no due auto che correvano in una nuvola di scoppi, spa-ri, rombi, fi schi e quant’altro, poi silenzio. Silenzio vero. E buio. Le due auto si erano fermate nell’area coperta dal lampione messo fuori uso dalla polizia. Un gran bel-l’incidente, non c’è che dire. E da un incidente così, non ti aspetteresti che i quattro uomini escano illesi, a parte quel brutto taglio sul labbro di gessato mar-rone, cui era scoppiato il parabrezza davanti al naso. Ci fu qualche istante di silenzio e qualche luce accesa alle fi nestre lì vicino. Nessuno però fece una mossa, fi no a quando, sbuffando come locomotive a vapore, i quattro uscirono dai rispettivi abitacoli. L’unica cosa sensata , a questo punto, sarebbe che i quattro ci des-sero dentro coi loro cannoni. Ed era proprio quello che avevano in mente di fare.

Poi all’improvviso successe una di quelle cose che non penseresti mai potrebbero succedere. Gessato grigio, il poliziotto coi baffetti, gessato marrone e Joe restarono lì impalati, con le pistole in mano, i vetri rotti sotto i piedi e i cappelli in testa. Guardavano verso l’al-

to, ma non solo loro, anche il mangiatore di hot dog, il proprietario del carretto degli hot dog, la donna della carrozzina, anche il neonato, se avesse potuto, si sa-rebbe voltato a guardare. Perfi no Dashiell Hammet, che si trovava a passare di lì, sembrava perplesso. E lui avrebbe dovuto saperne di hard boiled. Ma questo non l’aveva proprio previsto. Insomma cosa avevano tutti da guardare verso l’alto, verso uno spicchio di cielo? Una cosa strana, in effetti. Il cielo si stava sem-plicemente accartocciando. Accartocciate un giornale e guardatelo; ecco, questo è ciò che videro gessato grigio, il poliziotto coi baffetti, gessato marrone, Joe, il mangiatore di hot dog, il proprietario del carretto degli hot dog, la donna della carrozzina e Dashiell Hammett. E il bimbo, se avesse potuto. E tutti pensarono: “Vivre-mo senza cielo”, e qualcuno scrollò persino le spalle. Il problema è che non si stava accartocciando solo il cielo, ma anche i palazzi, le strade, i lampioni, l’asfalto, la bottega del barbiere e tutto il resto. Sembrava una malattia che si stesse diffondendo a tutto e tutti. E poi si accartocciarono anche loro: gessato grigio, il poliziot-to coi baffetti, gessato marrone, Joe, il mangiatore di hot dog, il proprietario del carretto degli hot dog, la don-na della carrozzina e Dashiell Hammet. Si accartocciò anche il pupo. E su questo mondo a palla di giornale si sentì una voce, altra e sconosciuta, invisibile: “Che sciocchezza... un hard boiled senza detective! Non sono nemmeno sicuro che i gangster ci fossero, negli hard boiled…”.

E il mondo a palla di giornale volò nel cestino. ■

Illustrazioni a cura di Giovanni Bonafede (vedi p. 2)

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Sport

Parkour, l’arte dello spostamento

Oggigiorno è relativamente sem-plice recuperare informazioni su praticamente qualsiasi argo-

mento attraverso internet, televisione o riviste. Ogni giorno sempre più materia-le viene condiviso su ogni cosa e spesso non ne rispecchia la vera forma, o ancor peggio ne distorce il significato renden-dola sempre più difficile da trasmettere in modo corretto. Ciò che rende difficile la giusta diffusione del parkour è la sua mancanza di una forma fissa, la man-canza di una definizione definitiva.

Il parkour è una disciplina in costante mutamento, una disciplina che si evolve e migliora ad ogni generazione integran-do nuovi metodi e correnti di pensiero. Il nome stesso della disciplina varia da paese a paese, da persona a persona: Parkour, Freerunning, Art Du Deplace-ment, Street Movement… la sostanza non cambia, la disciplina rimane sem-pre la stessa, cambia solo il modo di viverla da persona a persona.

Cercherò quindi di spiegarvi che cosa è il parkour nel modo in cui è stato trasmesso a me, soffermandomi sugli aspetti che hanno influenzato la mia vita, cambiando il mio modo di vivere la città o di affrontare i problemi che la

vita mi presenta.Il parkour è l’arte dello spostamento,

consiste nel riuscire a muoversi in qual-siasi ambiente urbano o naturale nel modo più veloce, fluido e sicuro possi-bile, oltrepassando in modo elegante ed efficiente ogni ostacolo utilizzando unicamente il proprio corpo. Risulta quindi fondamentale sottoporsi ad un allenamento lungo ed estenuante che ha come obiettivo rendere il corpo più funzionale e resistente. Il fisico non è tuttavia l’unica cosa che deve essere allenata; per poterlo sfruttare al meglio bisogna infatti rendere la mente con-sapevole di quello che si sta facendo, riducendo così al minimo i rischi che si possono incontrare durante la pratica. Sarebbe stupido dire che il parkour non è una disciplina pericolosa, ma la è solo se non si è fisicamente allenati e non si usa la testa. Il rischio viene minimizzato se si procede a piccoli passi nella prati-ca, rispettando sempre il proprio corpo. Questo concetto, per quanto mi riguar-da, si racchiude in una breve frase: es-sere per durare.

Spesso la gente ci vede come ragazzi-ni irresponsabili, che agiscono in modo spericolato per farsi vedere e per attira-

re l’attenzione. Il parkour in sé può risul-tare spettacolare, e in effetti è questo il motivo per cui iniziai a praticarlo, ed è quindi normale che il primo pensiero sia quello di un gruppo di esibizionisti. Ma non è così, ci alleniamo ogni giorno per avere coscienza dei nostri limiti e poterli superare; non è uno sport estre-mo e non siamo in cerca di adrenalina o rischi inutili, ci muoviamo in vista di un miglioramento e non per la ricerca di attenzione.

Ciò che ho scritto è ovviamente solo una minuscola parte del “mio” parkour e credo fermamente che l’unico modo per iniziare a capire realmente sia pro-vare. Il parkour può dare tanto alle per-sone, aiuta ad aprire la mente a cose nuove ed a rendersi conto che c’è molto da imparare intorno a noi. L’allenamen-to non si ferma “dopo aver saltato” ma continua mentre vivi nuove esperien-ze o mentre leggi un libro a casa. Con il tempo si acquisisce sicurezza in sé stessi e in quello che si fa, si diventa consapevoli delle proprie capacità e della propria indipendenza. Nel parkour nessuno ti presta ossigeno per correre o forza per saltare, ciò che fai è merito delle tue sole forze. Impari ad affrontare i problemi della vita di tutti i giorni con la stessa determinazione con la quale af-fronti un muro che pensavi insuperabile e che poi riesci finalmente a saltare. Se questo breve testo ha destato la vostra curiosità non vi resta che mettervi in gio-co. Là dove gli altri vedono un ostacolo, noi vediamo un modo per migliorarci.■

Gruppo Parkour Piacenza

È difficile spiegare cosa sia il parkour, specialmente attraverso un articolo. Poche persone sono a conoscenza della filosofia e della disciplina che stanno alla base di questa “arte”, in particolar modo dopo la confusione generata da alcuni casi mediatici degli ultimi tempi.

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Cucina

In questi tempi di festeggiamento per l’Unità d’Italia, ho pensato di proporvi l’incontro con l’esperta

“cuciniera” Francesca Cattaneo. Cuoca per diletto, vanta un cognome esposto nella galleria dei grandi pensatori del nostro Risorgimento nazionale. Tuttavia, la signora Cattaneo (la cui misteriosa identità coincide con quella della nonna di chi scrive…) anziché tenere un oppor-tuno, ma tediante, seminario sulle idee federali dell’intellettuale liberale Carlo Cattaneo, ci invita a sederci a tavola, chini su di un insolito piatto di Gnocchi alla Parigina.

Prima di svelare il segreto della loro preparazione mi sembra doverosa un’ul-teriore puntualizzazione: la “nonna” pro-pone questi gnocchi francesi non perché sia proselita di una sorta di setta di ul-tramontanisti all’incontrario, o perché sia mossa da un profondo amore per i transalpini, ma perché ha ereditato la ricetta da un ramo francese del nostro albero genealogico.

Ed ecco il saporito cimelio della mia bis-bis-bis-nonna, Stefanie Gailleau, che gelosamente conserviamo tra i patrimo-ni di famiglia:Ingredienti per 4 persone:

250g di farina, 4 uova, 150 g di burro, ½ l di latte, 100g di panna, besciamella, pan grattato, parmigiano, noce mosca-ta, sale.Esecuzione: 1. Mettere sul fuoco una pentola medio/bassa con burro, latte, sale nelle quanti-tà sopraindicate

2. Al momento dell’ebollizione, togliere la pentola dal fuoco, aggiungervi farina e mescolare (per evitare grumi)3. Rimettere sul fuoco per 5 minuti cir-ca4. Lasciar raffreddare5. Aggiungere alla pentola uova intere, noce moscata, parmigiano: ecco pronto l’impasto6. Far bollire un’altra pentola d’acqua senza coperchio7. Nel frattempo, fare degli gnocchetti con l’impasto8. Versare gli gnocchetti nella pentola d’acqua bollente e salata9. Quando gli gnocchi emergono porli in una teglia da forno, precedentemente imburrata e cosparsa di pan grattato10. Preparare a parte la besciamella alla quale aggiungerete la panna e 2 cucchiai di parmigiano11. Versare il miscuglio del punto 10 su-gli gnocchi nella teglia12. Mettere in forno a gratinare13. Et voilà (per dirlo da francofono): gnocchi pronti!

E’ opportuno che, visti il lungo prologo e gli onerosi passaggi della ricetta, ora decurti almeno un poco la parte conclu-siva. Non la ometto però al fine di non privarvi dell’estasi dell’animo, oltreché del gusto, siccome abbiamo imparato nella “puntata precedente” (per chi di voi l’avesse letta) che il gusto e l’animo non viaggiano mai su binari paralleli, nè tantomeno sghembi. Come promesso abbrevio la chiusa, limitandomi a ringra-ziare mio nonno che ha adempito al ru-stico, ma saggio detto contadino: “Don-na cuciniera pigliala a moliera!”. ■

L’ANGOLOCOTTURAdi Giacomo Cantù

Gli gnocchi alla parigina

Caffè e aperitivo... equi & solidali

Via Taverna, 255 29121 Piacenza - Tel. 0523 490692

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Opportunità di Lavoro

Hai mai pensato di associarti ad un’organizzazione che…

... sia un punto di incontro dove l’atten-zione è rivolta verso le lingue straniere intese come cultura, paesi, civiltà che parlano lingue diverse dalla nostra…... offra opportunità differenti per ap-profondire la conoscenza di una lingua straniera…... dia a tutti gli associati la possibilità di trovare una soluzione più adatta alla proprie esigenze per confezionare un progetto linguistico su misura per le ne-cessità di ognuno…... possa organizzarti un soggiorno al-l’estero confezionato su misura per te…... ti tenga informato sulle certificazioni che contano e che ti possano essere utili nel mondo del lavoro…

…Se sì allora…

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