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Le notizie e i video di politica, cronaca, economia, sport - D La...

Date post: 01-Aug-2020
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DOMENICA 30 MARZO 2008 D omenica La di Repubblica « C ara, hai fatto pipì fuori dal vaso!», scrisse Um- berto Nordio alla nobildonna sua amica che gli aveva spedito un biglietto segnalando al- quanto seccata che nella prima classe del vo- lo AZ600 dell’Alitalia tra Roma e New York le posate d’argento con le quali le hostess in di- visa disegnata dalle sorelle Fontana le avevano servito caviale Be- luga e Salmone selvaggio bianco del Baltico erano annerite per in- sufficiente uso di Argentil e olio di gomito. Correvano gli anni Set- tanta e Nordio, distinto gentiluomo genovese di bell’aspetto, modi squisiti e passione per il golf, specialità nella quale spesso si eserci- tava a Roma sul campo dell’Acqua Santa con una baronessina von Thyssen, era assiso alla presidenza della Compagnia di bandiera sulla poltrona che dalla fondazione, il 5 maggio del 1947, aveva ospi- tato a lungo il conte Niccolò Carandini. E, per periodi più brevi, Bru- no Velani e Giorgio Tupini, quest’ultimo un politico democristia- no alto, disinvolto e aitante, al contrario di quasi tutti gli “amici” di partito segnati inequivocabilmente dall’odore della parrocchietta. (segue nelle pagine successive) Q uesta è la storia del tempo irripetibile delle professioni nuove, stilizzate prima da un sorriso sicuro, poi dalle divise e dal trucco leggero e perfetto, nonché dall’ac- conciatura impeccabile, quando le ragazze più volon- terose e brillanti annunciavano che avrebbero fatto le hostess, fra gli sguardi di intimorita ammirazione del- la famiglia: eh sì, volare, oh oh, in quel cielo dipinto di blu, quando Alitalia era il simbolo del rinato orgoglio italiano, e le funzionarie del cielo, vestite dalle sorelle Fontana, con gli abiti confezionati dal- la Lanerossi, rappresentavano un altro, e innovativo, ideale di don- na: lontano dalla tradizione, fatto di sobrietà nelle maniere e tutta- via anche di improvvisa e consapevole modernità. Tutto così stilizzato, l’universo umano del volo all’italiana, un si- gillo di innovazione come a suo tempo era stato il Settebello, ma ancora di più, più in alto, con maggiore coscienza dell’italianità po- sitiva balzata fuori dai Trattati di Roma, dal miracolo economico, dalle suggestive Olimpiadi del 1960, quelle di Livio Berruti, e anche dal vivacissimo ambiente di via Veneto e della Dolce vita. (segue nelle pagine successive) ALBERTO STATERA EDMONDO BERSELLI FOTOTECA ALITALIA C’era una volta l’Alitalia La compagnia di bandiera, che fu il simbolo di un Paese in crescita, oggi è diventata il simbolo della crisi cultura La sfida amara delle single di guerra NATALIA ASPESI la lettura William Buckley, il selvaggio bianco GIANNI CLERICI i sapori Viaggio intorno al Barolo, re dei vini GIORGIO BOCCA e LICIA GRANELLO il racconto Martin Luther King, santo americano VITTORIO ZUCCONI l’attualità Convertiti, una vita sottotraccia T. BEN JELLOUN, J. MELETTI e A. PARAVICINI BAGLIANI Repubblica Nazionale
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DOMENICA30MARZO2008

DomenicaLa

diRepubblica

«Cara, hai fatto pipì fuori dal vaso!», scrisse Um-berto Nordio alla nobildonna sua amica chegli aveva spedito un biglietto segnalando al-quanto seccata che nella prima classe del vo-lo AZ600 dell’Alitalia tra Roma e New York leposate d’argento con le quali le hostess in di-

visa disegnata dalle sorelle Fontana le avevano servito caviale Be-luga e Salmone selvaggio bianco del Baltico erano annerite per in-sufficiente uso di Argentil e olio di gomito. Correvano gli anni Set-tanta e Nordio, distinto gentiluomo genovese di bell’aspetto, modisquisiti e passione per il golf, specialità nella quale spesso si eserci-tava a Roma sul campo dell’Acqua Santa con una baronessina vonThyssen, era assiso alla presidenza della Compagnia di bandierasulla poltrona che dalla fondazione, il 5 maggio del 1947, aveva ospi-tato a lungo il conte Niccolò Carandini. E, per periodi più brevi, Bru-no Velani e Giorgio Tupini, quest’ultimo un politico democristia-no alto, disinvolto e aitante, al contrario di quasi tutti gli “amici” dipartito segnati inequivocabilmente dall’odore della parrocchietta.

(segue nelle pagine successive)

Questaè la storia del tempo irripetibile delle professioninuove, stilizzate prima da un sorriso sicuro, poi dalledivise e dal trucco leggero e perfetto, nonché dall’ac-conciatura impeccabile, quando le ragazze più volon-terose e brillanti annunciavano che avrebbero fatto lehostess, fra gli sguardi di intimorita ammirazione del-

la famiglia: eh sì, volare, oh oh, in quel cielo dipinto di blu, quandoAlitalia era il simbolo del rinato orgoglio italiano, e le funzionariedel cielo, vestite dalle sorelle Fontana, con gli abiti confezionati dal-la Lanerossi, rappresentavano un altro, e innovativo, ideale di don-na: lontano dalla tradizione, fatto di sobrietà nelle maniere e tutta-via anche di improvvisa e consapevole modernità.

Tutto così stilizzato, l’universo umano del volo all’italiana, un si-gillo di innovazione come a suo tempo era stato il Settebello, maancora di più, più in alto, con maggiore coscienza dell’italianità po-sitiva balzata fuori dai Trattati di Roma, dal miracolo economico,dalle suggestive Olimpiadi del 1960, quelle di Livio Berruti, e anchedal vivacissimo ambiente di via Veneto e della Dolce vita.

(segue nelle pagine successive)

ALBERTO STATERA EDMONDO BERSELLI

FOTO

TEC

A A

LITA

LIA

C’erauna voltal’Alitalia

La compagniadi bandiera,

che fu il simbolodi un Paese in crescita,

oggi è diventatail simbolo della crisi

culturaLa sfida amara delle single di guerra

NATALIA ASPESI

la letturaWilliam Buckley, il selvaggio bianco

GIANNI CLERICI

i saporiViaggio intorno al Barolo, re dei vini

GIORGIO BOCCA e LICIA GRANELLO

il raccontoMartin Luther King, santo americano

VITTORIO ZUCCONI

l’attualitàConvertiti, una vita sottotraccia

T. BEN JELLOUN, J. MELETTI e A. PARAVICINI BAGLIANI

Repubblica Nazionale

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

la copertinaC’era una volta

Alitalia, dal decollo al declino

Nell’Italia delle prime Fiat 600 e delle Vespe fu creatala nostra compagnia di bandiera. I comandanti degli aereierano considerati tra i migliori del mondo, le assistentidi volo erano popolari come veline. Sfogliamo quest’albumdi famiglia, fino ad arrivare all’oggi che tutti conosciamo

(segue dalla copertina)

Il fascinoso campione golfistache si fregiava della “coda trico-lore”, che consegnava una targacol nome inciso nell’argento aiprimi soci della “Freccia alata”,valeva allora in patria e nel mon-

do più di qualunque ambasciatore del-la Repubblica italiana, incarnava lecredenziali dell’Italia del miracolo.Credenziali che purtroppo oggi, ai tem-pi del declino e della vergogna caseariaai confini nazionali, vanno sotto un’al-tra ingiuriosa sigla, MMA: “monnezza,mozzarella e Alitalia”.

All’inizio, nell’Italietta del dopoguer-ra che usciva fervida, ingenua, campa-gnola, ma ottimista dalle sue aie, dallesue risaie, dai suoi riseminati campi digrano e che vedeva prendere coscienzala “classe operaia”, l’Istituto Luce cele-brava il Paese che risorgeva solcando fi-nalmente i cieli a bordo del Fiat AlcioneG12. Lo illustravano le immagini di unabambina dalle treccine bionde e unmazzo di fiori in grembo. Dieci anni do-po, tra le prime Fiat 600 e le prime Vespeche sfrecciano intorno a Fontana diTrevi, troviamo una tonicissima GinaLollobrigida che getta la monetina, rac-coglie in un’anfora l’acqua capitolina,la consegna al sindaco, che a sua volta lapassa a un comandante dell’Alitalia, al-to, aitante, stretto nella sua divisa blu eincaricato di consegnarla al sindaco diJohannesburg. “Half beer”, li chiama-

vano allora i nostri piloti, presentati co-me tra i migliori del mondo e anche qua-si astemi. “Half sola”, “mezza sòla” allaromana li chiamano oggi, dopo chehanno assai contribuito a perpetrarel’omicidio-eutanasia della loro compa-gnia. Fino a ieri giuravano che non c’e-ra altra salvezza che l’Air France di Jean-Cyril Spinetta, ora sponsorizzano lacordata-fantasma di Silvio Berlusconi,quell’ectoplasma composto di volon-tari alquanto riottosi che non possono

scontentare il presunto futuro capo delgoverno.

Un torello che arriva dall’America de-stinato al Santo Padre, la signora BrunaJustoni milionesima passeggera, le ho-stess in divisa, il mestiere cui quasi tuttele ragazze aspiravano, come oggi aspi-rano a fare le veline, la banda dei carabi-nieri che s’imbarca sull’aeromobileGioacchino Rossini alla volta dell’Ame-rica. Un album di famiglia semplice esfocato che vira ormai all’hard-thriller.La prossima pattuglia dei carabinieri, se

una qualche giustizia esiste ancora, for-se andrà prima o poi a cercare chi in que-sti giorni ha fatto aggiottaggio oltre ognilimite di decenza sui titoli dell’ex com-pagnia di bandiera.

A quando risale l’inizio della fine? Sevogliamo trovare un elemento simbolicodell’iniziale splendore, del successivodeclino e dell’odierno disastro finale,questo più che nell’aria è nell’acqua. Dal-l’anfora di Gina Lollobrigida all’acquasanta delle basiliche romane e della De-mocrazia cristiana, fino all’ampolla diacqua del Po di Umberto Bossi, visto cheil saldo finale di quella che è stata l’iconadella rinascita e della modernità italianadiventando via via una succursale del Va-ticano, delle corporazioni, dei sindacati edelle segreterie dei partiti, va oggi anchesul conto della Lega Nord.

Quando Romano Prodi, regnante a Pa-lazzo Chigi Ciriaco De Mita, diventa perla prima volta presidente dell’Iri, azioni-sta di controllo dell’Alitalia, prende subi-to in ubbia quel presidente così diversoda lui, mondano, sicuro, alquanto arro-gante. È vero che Papa Paolo VI aveva gra-tificato Nordio di una «particolare bene-dizione apostolica»: «Vi meritate la con-suetudine con gli spazi sconfinati del cie-lo», gli aveva detto, ricevendolo con i suoidirigenti, «e la possibilità di prendere ledistanze dall’aiuola che tanto ci fa fero-ci». Ma a Prodi non bastò e lo fece fuori,nonostante bilanci apparentemente inattivo, pur con il consistente aiutino maimancato del pubblico denaro, che allorafluiva senza tanti complessi. Non che ilgolfista fosse il massimo della sana am-

ministrazione, nonostante incarnasse ilruolo di ambasciatore dell’italica piccolagrandeur, dell’orgoglio nazionale e delpapato. Quando se ne andò si scoprironotanti altarini, i favori, i privilegi, gli oneriimpropri. Uno dei suoi principali diri-genti, per dire, aveva affittato la villa del-la moglie a canone d’affezione per collo-carvi la Scuola allievi piloti dell’Alitalia.Un collaboratore tra i più intimi si scoprìessere uno dei principali reclutatori del-la Loggia P2 di Gelli e Ortolani. L’altro re-

clutatore, un giovanotto particolarmen-te introdotto nella banca vaticana dovericiclava denaro non proprio santo, è pe-raltro ancora in servizio permanente ef-fettivo presso alti dignitari bancari, del-l’industria ex pubblica e della politica.

Ma quel che venne dopo superò ogniperversa immaginazione. Morto in unincidente stradale dopo una breve presi-denza l’uomo di Prodi Carlo Verri, s’ina-nellò una teoria infinita di amministra-tori, di cui ormai pochi ricordano persi-no i nomi, tutti scelti nei sottoscala dei

partiti, ciascuno dei quali cercò di farepeggio del predecessore: Principe, Bisi-gnani, Riverso, Schisano, Cempella,Mengozzi, Cereti, Bonomi, Zanichelli,Cimoli… E chissà chi altri. Ma il ruolochiave di Antifolo scespiriano con tanteparti in commedia tocca a Giuseppe Bo-nomi. Ex deputato leghista amico di Ma-roni, catapultato alla presidenza dellaSea, fu lui ad inaugurare tra non pochi“contrattempi” l’aeroporto di Malpen-sa, l’hub del Nord, l’icona del padanismoche voleva bruciare il Colosseo, restau-rare l’orgoglio lombardo nel luogo tra-sformato in cult del meneghino serio elaborioso contro il romano insopporta-bile cicalone, ladrone e arruffone come ilmarchese del Grillo. Peccato che conMalpensa Antifolo riuscì a completarel’opera che in cinquant’anni non era riu-scita del tutto al potere democristiano:farla precipitare su Malpensa senza pa-racadute, secondo l’iperbole un po’scontata dell’Economist.

Malpensa è un aeroporto nato vec-chio, disfunzionale, senza collegamenti,senza treni veloci, senza autostrade, ir-raggiungibile da Torino e, per di più, conla nebbia. Quando Bonomi lo inaugurònel 1998, l’Alitalia, i cui conti in un modoo nell’altro erano ancora attivi, aveva sol-tanto 30 aerei a lungo raggio, di cui lametà obsoleti. Ma, come gli esperti pre-dicano, per fare un vero hub ci voglionoalmeno 80 aerei a lungo raggio e non civogliono vicini due scali come Linate eOrio al Serio, i cui traffici sono cresciuti inpochi anni rispettivamente del 50 e del250 per cento. Il bello è che il campione

ALBERTO STATERA

“Meritate”, dissePaolo VI ai manager,“la consuetudinecongli spazisconfinati del cielo”

Favori, privilegi,oneri impropri,furono lasciatiin ereditàdalla gestione Nordio

CANTAREMina salutamentre salea bordoAlitaliaesportanel mondoil megliodel made in Italy

CAPI DI STATOGiovanniLeonee DonnaVittoriasulla pista

con FarahDibah

e Reza Pahlevi

JUMBOIl primo B747entrain servizioil 5 giugno 1970,sulla rottada Romaa New Yorke ritorno

BOOMI decenniSettantae Ottantasono quellidell’aumentodella flottae delle trattenel mondo

Le primedivisedisegnatedalle sorelleFontana

1950DeliaBiagiotti:tailleurcartada zucchero

1964Mila Schönaccorciala gonnae introduceil verde

1969Tita Rossi:fresco lanablu, bottonidorati, spillasul cappello

1966

FlorenceMarzotto:tailleurrossomelograno

1975Lebole:divisaper hostessdi terracon foulard

1980Balestravestele hostessdegli scaliitaliani

1986Sempredi Leboleil grembiuleper servizioa bordo

1980

PIONIERII pionieridel primo voloAlitaliada Milanoa BuenosAires nel 1948su un aereoLancastrian

ROTTAIl trimotoreG12 utilizzatoper il volodell’Alitaliasulla nuovarottaTorino-Romanel 1949

COMFORTSi cercanonuovi clientiattirandolicon il comfortIl primo filmè proiettatonel 1929dalla futura Twa

PASTOIl primo pastoa bordofu introdottoda Lufthansa nel 1928Sull’Alitaliafu servitodal 1950

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA30MARZO2008

del padanismo aeroportuale lo ritrovia-mo sulla scena aeronautica qualche tem-po dopo. Immaginate dove? Alla presi-denza dell’Alitalia, dove si segnalò so-prattutto per la sponsorizzazione delmondiale di equitazione indoor salto aostacoli di Assago, cui partecipò in sellaad un baio, e per i costosi festeggiamentia New York di Silvio Berlusconi, nomina-to statista dell’anno dalla Anti Defama-tion League. Al suo fianco, Marco Zani-chelli, un ex lobbista di area prodianache, fatto il salto della quaglia, Gianfran-co Fini pretese di collocare nella carica diamministratore delegato e che, non con-tento dei risultati, pare che adesso vogliaspedire alle Poste. A onor del vero, GiulioTremonti, ministro dell’Economia, av-vertì Bossi e Fini: giù le mani dall’Alitalia,bambole non c’è una lira. Ma non ci fuverso. Il vicepremier gli rispose: lasciaperdere, me ne occupo io. E Tremonti simise ad aspettare il cadavere sulla riva delfiume. Intanto cresceva nella miglioretradizione dei partiti padroni il numerodi tratte ad personam: se nella prima Re-pubblica l’antico ministro democristia-no Carlo Bernini aveva preteso per sé ilvolo Roma-Treviso, nella seconda Clau-dio Scajola, di Forza Italia, impose il Ro-ma-Albenga e Mario Tassone, sottose-gretario ai Trasporti dell’Udc ignoto aipiù, il Roma-Crotone.

L’opera di Bonomi e Zanichelli fucompletata da Berlusconi e Letta chenel 2004, visti gli straordinari risultatiottenuti alle Ferrovie, trasferirono nelgrattacielo della Magliana quel Gian-carlo Cimoli che prima delle corti dei

politici si occupò della sua corte perso-nale, ad esempio collocando supersti-pendiata alla guida della rivista azien-dale Ulisse la signora Stella Locci, cheriuscì a far ridere per la sua performan-ce editoriale, oltre ai passeggeri, lecompagnie aeree di mezzo mondo. Co-sto finale del decennio berlusconian-finian-bossiano all’Alitalia cinque mi-liardi secchi di euro, che naturalmentenon pagano né Bossi, né Fini, né Berlu-sconi, né i sindacati che hanno parteci-pato con vigore all’incredibile intrec-cio politico-corporativo incistatosi inun trentennio. Pagano gli italiani tutti.

Nonostante la «consuetudine con glispazi sconfinati del cielo», forse nean-che il padre eterno avrebbe più potutoevitare che il cielo si oscurasse esprofondasse nell’aiuola dantesca. Manella vicenda della vendita di quel cheresta dell’Alitalia il governo Prodi hadato tutt’altro che la sensazione dellaprontezza di riflessi che sarebbe statanecessaria di fronte al disastro lunga-mente annunciato e ormai nei fatti.Comunque finisca — e pochi credonoche potrà finire bene — la Lollo, la bim-ba bionda coi fiori in grembo, i nobilipresidenti ambasciatori nel mondo, itorelli per il Papa, gli eleganti “halfbeer”, rimangono nell’Italiona post-in-dustriale l’indimenticabile fotografiasfocata di quell’Italia piccola piccola econtadina che si affacciava con grintaall’industria, all’auto, alle autostrade ealla modernità. Come diceva Leo Lon-ganesi, «questo è il Paese delle inaugu-razioni, non delle manutenzioni».

EDMONDO BERSELLI

Piloti e hostess, gli italiani nuoviCosì il Paese prese il volo

(segue dalla copertina)

Ossia quando Roma, grazie anche alle “vacanze”di due semidei come Audrey Hepburn e Gre-gory Peck, con annessa la meravigliosa Vespa

della Piaggio, era tornata a essere caput mundi, il luo-go di Cinecittà, delle star americane, dei kolossal, deideliranti peplum, dei cacciatori di dive, dei paparaz-zi, dei playboy miliardari (e pure squattrinati, spes-so). Quando le donne di famiglia leggevano degliamori di Liz Taylor sui rotocalchi, e si chiedevano concomplicità femminile: «È di Dior il suo vestito?». Unintreccio di tutto ciò che è popolare, e nello stessotempo esclusivo e aristocratico, tanto è vero chel’euforia planetaria del jet set si univa nei luoghi ca-nonici di Roma allo stile della classe dirigente di allo-ra, con i vertici aziendali che comprendevano nomicome Carandini e Libonati: con un che di europeo, dipannunziano, di “Amici del Mondo”, di “liberal”, dimodernizzante.

Un alone di successo, di velocità, di eleganza nellostesso tempo lontana, astratta, effettivamente aerea,e nello stesso tempo ferma e cortese, sperimentabilenei gesti del comandante e dei piloti: italiani di tipospeciale, dal momento che l’abitudine alle trasferte,prima interne e poi sulle rotte internazionali, da Osloa Buenos Aires e Rio de Janeiro, modellava anche unalingua particolare, esente dalle inflessioni regionali:una novità assoluta pure questa, il tipo italiano che sidifferenzia dai personaggi dei film di genere, dai ruo-li dialettali, dalla macchietta, e diventa un caratterestandardizzato su moduli non provinciali.

Esempio irresistibile di connazionale nuovo, bello,di successo; anche capace di fare da tramite, nei fil-mati Luce, fra una Lollobrigida ai tempi dello splen-dore e la destinazione lontana del Sudafrica, per con-giungere la Fontana di Trevi con i suoi riti propiziato-

ri, monetine comprese, alla realtà di una Johanne-sburg prima di allora inafferrabile e ora invece im-provvisamente disponibile, pronta ad accogliere ilmagnifico equipaggio italiano, in un tripudio di loca-le e globale, anticipando festosamente i tempi del-l’integrazione mondiale. E di lì a poco sarebbero arri-vate le immagini dell’Italia trionfante in America, conSophia Loren sulla scaletta a New York.

Era naturalmente, il mito Alitalia, un altro degli ef-fetti indotti dalla prima modernizzazione, quando ilPaese sembrava davvero decollare, allorché il boomaveva modificato in profondità anche l’autoperce-zione degli italiani “nuovi”, che si affacciavano sulproscenio del benessere: da un lato con la cialtrone-ria disinibita di Vittorio Gassman nel Sorpasso, l’ita-liano provvisorio alla rincorsa di espedienti per potersuperare il weekend, dall’altro la stilizzazione supre-ma degli equipaggi, la professionalità sicura, l’orgo-glio che vibra nelle voci degli speaker del telegiorna-le quando pronunciano l’espressione “compagnia dibandiera”, come se tra lo sfrecciare degli aerei si po-tesse avvertire qualche nota dell’inno nazionale, e in-travedere nel gas di scarico qualche traccia tricolore.

Si può immaginare un pilota nelle fattezze di Mar-cello Mastroianni, come nel film di Marco Ferreri Lagrande abbuffata, oppure, in una versione più nazio-nalpopolare nei panni di Domenico Modugno, quan-do l’interprete di Volare virò verso le lacrime di Pian-ge il telefono. E comunque, sempre con la sicurezza dichi controlla sistemi complessi, con la ferma elegan-za della competenza, e il Bulova che occhieggia dalpolsino, regalo e indizio insieme di classe, di preci-sione, di meccanismi perfetti. Sempre con l’idea, infondo, che l’eccellenza di un’Italia così “successful”portava prestigio, un’immagine completamente di-versa da quella di sempre: ed era il ritratto forse irri-petibile di un paese in volo.

ASSUNZIONILe primehostesssono assuntedalla BoeingAT nel 1930Sull’Alitaliaarrivanonel 1950

GRIFFATEUna sfilatadi hostessvestiteda Mila SchönGli “angelidell’aria”sono sinonimodi eleganza

PASSERELLAMaria Callassu un aereoAlitalianegli anniCinquantaLa scalettadiventapasserella

DRINKNegli anniSessantaa bordovenivanotrasportate900 bottigliedi vinoe liquori

VOLAREDomenicoModugnoimprovvisasulla scalettail suo Nel bludipinto di bluQuasi un innodi bandiera

TIMONIEREUmbertoNordio,amministratoredelegatodal ’77 all’88,chiude in utiledieci annisu dodici

CRISINegli anniNovantaAlitaliatrasporta28 milionidi passeggerima iniziala crisi

AIR FRANCENel 2006il governodecidedi privatizzarela compagniaA oggi l’unicocandidatoè Air France

PARALISINegli ultimianni Alitaliaha attraversatodecinedi sciopericontroi pianidi risanamento

Divisaper hostessdi terracon gilete tracolla

1969Mila Schönintroducela divisarosso“Manciuria”

1972AlbertoFabiani:divisaper hostessdi terra

1973Sempredi Fabianila mantellacolorbluette

1973CorinneCléryindossala divisainvernale

1975

LE IMMAGINILe foto che corredano queste pagine sono in partedella Fototeca Alitalia e in parte sono tratte dal libro Le ragazze volanti. Cinquant’anni di Hostess Alitalia1950-2000 a cura di Cesare Flessi e GherardoLazzeri (Logisma editore, 112 pagine, 18,08 euro) con la collaborazione del Museo Gianni Capronidi Trento, che allestì anche una mostra in varie cittàitaliane per il cinquantenario delle hostessIn copertina, due hostess vestita da Delia Biagiottisi sporgono da un aereo (Fototeca Alitalia)

SempreBalestra:camiciae gonnaregimental

1986La divisacompletacon giaccablu e pullverde

1991La “divisanon divisa”firmataGiorgioArmani

1991Mondrianritornaai coloriclassici:verde e blu

1998Il classicotailleurMondriancon giaccaverde

2001

MEZZE BIRREI piloti Alitalia,gli “half beer”,consideratitra i miglioridel mondo,duranteuno scioperoa Fiumicino

Repubblica Nazionale

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BOLOGNA

Imuri hanno più di mille anni. Nella sagre-stia del monastero di Santo Stefano sem-bra di essere in una catacomba. «Sì, hobattezzato un musulmano. È stato lui a

cercare me. Voleva conoscere meglio Gesù Cri-sto. Io gli ho detto: se vuoi diventare cristiano, ilcammino sarà lungo e difficile ma io sarò al tuofianco. Chi vuole diventare cattolico deve infattiseguire il Rica, rito di iniziazione cristiana degliadulti. Dura tre anni. Io, per cautela, gli ho fattoseguire il rito per quattro anni. Ora Omar è un cri-stiano felice e, come tutti gli ex musulmani chehanno scelto la Chiesa di Roma, pieno di paura».Omar è un nome inventato e anche il padre be-nedettino olivetano preferisce non dire il pro-prio nome. «Sa, quelli non scherzano. Anche chibattezza un musulmano può essere indicato co-me un nemico. E attraverso di me potrebbero ar-rivare al convertito. Io ho fatto di tutto per man-tenere il segreto sulla sua identità e continuerò afarlo. Con l’apostasia non si scherza. In tanti pae-si arabi è prevista la pena di morte. Ci possono es-sere ritorsioni e vendette anche sulla famiglia delconvertito, nel paese di origine».

L’ex musulmano Omar vive in un paese delVeneto. «Ero attratto dal profeta Gesù, volevo co-noscerlo meglio. Per questo ho cercato il mona-co benedettino. Lui mi ha detto subito che dove-vo riflettere bene ma che la Chiesa è aperta a chichiede di entrare con buone intenzioni». Quat-tro anni di colloqui in chiese e monasteri lonta-ni da casa. «Assieme al monaco ho letto il Vec-chio e Nuovo Testamento, ho studiato i precettidella Chiesa. Ho capito che Gesù è il figlio di Dio.Il padre benedettino ha detto che ero pronto e haorganizzato la cerimonia del battesimo. Nessu-no a casa sapeva della mia scelta. Anch’io sonostato battezzato il Sabato Santo, come gli altri ca-tecumeni. Assieme a me c’erano italiani che nonavevano ricevuto il sacramento da bambini. So-lo io ero un ex musulmano e nessuno lo sapeva.Insomma, mi hanno mescolato agli altri così

nessuno poteva riconoscermi. L’emozione èstata grande. In una sola notte sono stato battez-zato, cresimato e ho fatto la Prima Comunione.La confessione dei peccati non era necessaria: ilbattesimo cancella ogni peccato». Ora Omar fre-quenta chiese diverse, tutte lontane dal suo pae-se. «Fino ad oggi ho provato una sola delusione:credevo che i cristiani fossero più preparati, checonoscessero meglio i punti fondamentali diquella che oggi è anche la mia religione. E chefossero più coerenti».

Forse è più facile trovare pentiti di mafia chemusulmani convertiti. Le curie di Torino, Pado-va, Venezia fanno sapere che «forse fra i catecu-meni c’è qualche ex musulmano che però non hanessuna intenzione di apparire». Nell’Arcidio-cesi di Milano «al momento non c’è nessun mu-sulmano nel percorso del catecumenato». In unanno sarebbero appena trenta i musulmani chesi convertono alla Chiesa cattolica, ma la richie-sta di chiarimenti non ottiene risposte. «Per que-ste informazioni — dicono all’ufficio catechisti-co nazionale della Conferenza episcopale italia-na, che pure coordina i sacerdoti diocesani chesi occupano di catecumeni — bisogna rivolgersiall’ufficio nazionale per le comunicazioni socia-li». «La contatteremo appena possibile», la solarisposta ricevuta da questo ufficio. Anche se po-chi, i musulmani che bussano alla porta cattoli-ca creano comunque problemi. Per questo a set-tembre la Cei organizzerà un convegno nazio-nale per discutere come accogliere chi vuol la-sciare l’Islam.

Anche alla Chiesa evangelica italiana in un an-no approdano «qualche decina di musulmani».«A chi si presenta — dice Francesco Maggio, me-diatore interculturale al servizio di questa Chie-sa — io dico subito che il convertito dovrà subiresolitudine, isolamento, abbandono e anche mi-nacce più pesanti. Qui in Italia non è possibile lapena di morte per apostasia ma chi lascia l’Islamviene abbandonato da tutti. Nella fase di con-versione su di lui c’è una pressione fortissima.Parenti o amici chiamano la famiglia di origine,in Africa o Asia, e raccontano che il loro figlio o ni-pote si è messo a leggere la Bibbia e guarda in te-levisione le trasmissioni di noi evangelici. I pa-

renti telefonano, mandano lettere e se necessa-rio arrivano in Italia per riportare a casa chi ri-schia di perdere la fede islamica. Proprio ieri hosaputo che a Verona un convertito è stato butta-to fuori casa dalla famiglia e che altri hanno per-so il lavoro. Nell’emigrazione — come succede-va a noi italiani — si cerca l’aiuto dei connazio-nali che già sono nel nuovo paese. Se ti converti,non riesci più a trovare un punto d’appoggio.Verso gli ex musulmani partono anche dellefatwe che per fortuna non si concretizzano, al-meno nel nostro paese, ma che hanno l’effetto diterrorizzare i neofiti o almeno di escluderli dallacomunità islamica».

La Chiesa Evangelica non vuole avere con l’I-slam rapporti conflittuali. «Noi diciamo sempreche convertirsi al Cristo non significa passare dauna cultura a una cultura migliore. Che non vuoldire scegliere «la parte dei sionisti» e nemmenopassare da una religione all’altra. Si passa inveceda una religione al Cristo vivente, e noi cristianiabbiamo il dovere di accogliere chiunque vengaal Salvatore. Ma per togliere tensione è necessa-rio che istituzioni come la Consulta islamica av-viino un programma di rieducazione delle mo-schee: queste, invece di instillare il terrore, deb-bono insegnare la tolleranza e il rispetto di chiviene giudicato “diverso” dopo avere lasciato l’I-slam per il cristianesimo».

Pieni di numeri, e di voglia di raccontare, sonoinvece i cattolici italiani convertiti all’Islam. «So-lo qui a Bologna — dice Andrea Abu Yassin Meri-ghi, quarant’anni, della moschea An-nur — dal1998 ad oggi almeno mille ex cattolici, praticantie no, hanno fatto la shahada, la testimonianza difede. Io sono musulmano dal 1997 e non sono un“convertito”. Noi non usiamo questo termine.Secondo l’Islam tutti nascono musulmani poimagari praticano il cristianesimo, il buddismo,eccetera, per ritrovare poi la fede in Allah, il soloDio. Noi parliamo di ritorno, non di conversio-ne». Un primo incontro con studenti musulma-ni, lo studio dell’arabo… «Provi la preghiera e ildigiuno e in un certo momento ti senti musul-mano. Allora vai alla moschea e fai la shahada,davanti ai testimoni. Da noi non ci sono preti, il

rapporto con Dio è diretto. Io anche prima eroconvinto dell’esistenza di un essere superiore manon sapevo che si chiamava Allah». È così che An-drea diventa Abu Yassin. «In famiglia ci sono sta-ti stupore e sconcerto, poi mi hanno compreso.Certo, tanti amici li perdi, e soprattutto tante ami-che. Da buon musulmano puoi frequentare solola fidanzata o la moglie, non altre donne. Le festecattoliche come il Natale? Fanno parte del passa-to e basta. Ora mia moglie fa ancora le lasagne, masenza maiale. Sono buone».

Daniele Mohammed Nadir Parracino, cin-quant’anni, ha incontrato l’Islam in Egitto, doveera andato a montare celle frigorifere. «Io sonostato in collegio dai Salesiani, facevo anche ilchierichetto con la cotta e il girello. Non mi pia-ceva la confessione, non mi piacevano i preti chepredicavano bene poi facevano tutt’altro. Il ri-torno all’Islam per la mia famiglia è stato undramma. Mia madre, la prima volta che mi ha vi-sto prostrato a terra in preghiera, mi ha detto:“Spero che tu muoia proprio mentre preghi”. Iole ho risposto: “Magari. Chi muore pregando vain paradiso”. Adesso i tempi sono tornati sereni.Mia madre dice che ero bravo prima e adesso so-no ancora più bravo. Nell’Islam ho trovato il ve-stito della mia misura. In Egitto, quando ancoraero cattolico, discutevo con un ragazzo musul-mano. Per partito preso non gli davo mai ragio-ne. Lui mi spiegava che un musulmano che va aletto a stomaco pieno e non ha diviso il suo cibocon i poveri commette peccato. A me veniva inmente che anche mia madre, all’ora di cena, mimandava nelle case di vicini più poveri a portarecibo. Capivo che anche noi in fondo eravamomusulmani. Ho lasciato il mio orgoglio e ho da-to ragione al ragazzo egiziano».

La paura dei musulmani convertiti al cattoli-cesimo? «Tutta invenzione. Non sono come ipentiti di mafia che possono spifferare chissàcosa. La loro non è conversione, è un passo in-dietro. Forse la Chiesa cattolica ha dato diretti-ve perché dichiarino questa loro paura. Ma nonc’è caccia al rinnegato». Nella moschea An-nurle certezze abbondano. «Chi fa il passo indietro,ne siamo sicuri, non era musulmano nemme-no prima».

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

l’attualitàCaso Allam

Un’inchiesta su cristiani e musulmani che cambiano fedefa luce su due metà del campo del tutto asimmetricheGli ex cristiani si mostrano e hanno voglia di raccontarsi,gli ex musulmani sono di fatto clandestini e hanno paura:“Certo qui non è applicabile agli apostati la pena di morte,ma chi lascia l’Islam viene abbandonato da tutti”

JENNER MELETTI

Conversionitra fatwae tolleranza

JEAN-MARIELUSTIGERCardinale,arcivescovodi Parigi dal 1981al 2005, membrodell’AcadémieFrançaise,era nato ebreonel 1926 e si eraconvertito nel ‘40La madre morìad AuschwitzÈ morto nel 2005

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA30MARZO2008

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Nel cristianesimo, forse più che in altre religioni, il concetto di con-versione è fondamentale. Lo dice lo stesso Vangelo: «Convertite-vi ché il Regno di Dio è vicino» (Mt 4, 17 e Mc 1, 49). E lo dimostra

la conversione di San Paolo, a Damasco. Ma anche l’affermazione poli-tica del cristianesimo è segnata da una conversione, quella di Costanti-no (morto nel 337), che sarà per secoli il modello di ogni sovrano cristia-no. La nuova Europa nata sulle ceneri dell’Impero romano è un susse-guirsi di conversioni, di sovrani (Clodoveo, primo re dei Franchi) e di po-poli (dai Franchi ai Sassoni e così via). Insomma, l’intera storia del cri-stianesimo è scandita da conversioni il cui ricordo è rimasto vivo nellamemoria collettiva, da quella, celebre fra tutte, di Sant’Agostino, che siconcluse con il solenne battesimo celebrato a Milano da Sant’Ambrogio(387), fino alle conversioni che hanno lasciato una traccia nella storia let-teraria moderna (Manzoni, Huysmans, Chesterton...).

Nelle sue Confessioni(libro VIII), Agostino racconta a lungo la sua con-versione, che avvenne nel giardino annesso alla sua abitazione, dove co-nobbe «il tumulto del cuore» e vide come «una luce, quasi, di certezza pe-netrare nel suo cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono». In Ago-

stino, la conversione è un conflitto interiore, e come tale di-venne paradigma di ogni conversione cristiana, influenzan-do per secoli la cultura europea, basti pensare alla rinascitanell’autobiografia nel XII secolo (Abelardo) e al racconto diPetrarca sull’ascesa del Monte Ventoux, mirabile metaforadi conversione spirituale intrisa di modernità.

Con San Francesco la conversione diventa totale e radi-cale cambiamento di vita, che si esprime con l’abbandonodi ogni bene e il desiderio di mortificare l’amor proprio perincontrare l’amore di Dio. Ma è in quel periodo che inizianell’Europa cristiana un nuovo rapporto con gli ebrei fon-dato proprio sulla conversione. Dapprima in Spagna, do-menicani organizzano predicazioni forzate (1242) otte-nendo il permesso di entrare nelle sinagoghe, malgrado leresistenze degli ebrei, ed in pieno contrasto con il rispettodel culto ebraico che era stato sancito da papa Gregorio Ma-gno (590-604) e riaffermato nel XII secolo dalla bolla di pro-

tezione degli ebrei, la Sicut Iudei. Seguirono alla fine del Trecento(1391) le prime grandi conversioni di massa. La «conversione degliebrei divenne così parte integrante della dinamica politica in Spagna»(Anna Foa,Gli ebrei in Europa, Bari, Laterza, 2004). Le conversioni for-zate si estesero ad altre regioni europee. Si è calcolato che a Roma, traSei e Settecento, gli ebrei convertiti ed accolti nella Casa dei neofiti fu-rono circa duemila, una cifra alta rispetto alla popolazione di allora(Marina Caffiero, Battesimi forzati, Roma, Viella, 2004).

Anche cristiani si convertirono nel Medioevo all’ebraismo, comel’arcivescovo di Bari Andrea, nel IX secolo, attratti anche dalla grandeconoscenza che gli ebrei avevano della Scrittura. Ed anche l’Islam af-fascinò molti cristiani nel periodo delle Crociate, con motivazioni eco-nomiche e sociali, ma anche squisitamente religiose. Non sempre lerelazioni tra le grandi religioni del Mediterraneo erano dunque vissu-te in modo conflittuale. L’imperatore Federico II (1194-1250) ebbe al-la sua corte scienziati ebrei e arabi di grande levatura intellettuale, co-me maestro Teodoro e Jacobi Anatoli. E San Francesco d’Assisi volle eriuscì a predicare davanti al sultano Mail al-Kamil, dissuadendo nellostesso tempo i suoi correligionari crociati dal combattere...

Quando San Francescopredicò davanti al Sultano

AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI

Mentre l’Islam accoglie sempre più convertiti, non tollera cheun musulmano si converta a un’altra religione. È semplice-mente vietato. È detto nel Corano che «il convertito deve es-

sere ucciso» («Al murtad yuqtal»). Ovviamente questa sentenza eravalida al tempo in cui il profeta Maometto si batteva contro nemiciche cercavano con ogni mezzo di essere d’ostacolo alla rivelazioneche aveva ricevuto. Tra questi c’erano i politeisti, che Maometto do-veva, per missione, portare ad adorare un unico Dio, il Dio dell’Islam.Quando un musulmano cedeva al politeismo o partecipava a uncomplotto contro il profeta, la sua condanna era la morte. Il profetanon tollerava né i politeisti né gli ipocriti. Il Corano dedica tutto uncapitolo agli «ipocriti», intesi come traditori.

Oggi il contesto non è più lo stesso. La diffusione dell’Islam nel mon-do continua a crescere e in tutti i continenti i convertiti ingrossano lefile dell’ultima religione monoteista rivelata. Un individuo di originemusulmana che cambia religione non rappresenta attualmente al-cun pericolo e fa parte di una minoranza esigua e trascurabile.

Tuttavia c’è chi la vede diversamente. Ricordo che quando ero bam-bino, a Fes, città tradizionalista e crogiolo di un Islam venuto dall’A-rabia, c’era una famiglia marocchina e musulmana che si era sentitadisonorata e tradita perché uno dei suoi figli si era convertito al catto-licesimo. Per evitare rappresaglie, più da parte della famiglia che di ungruppo o di un’associazione islamica, il giovane uomo si esiliò in Fran-cia dove diventò “Padre Abdeljali”. Nessuno ebbe nulla da rimprove-rare alla famiglia che, per sottolineare la sua profonda disapprova-zione, organizzò un funerale simbolico. Questo mi aveva colpito mol-to. Mi fu allora spiegato che, quando uno nasce musulmano, restamusulmano a vita e muore musulmano. È così. È una religione chenon si può né revocare né criticare. Il dogma è il dogma. È per questaragione che chi si è convertito da poco all’Islam diventa abbastanzafacilmente fanatico, intollerante e rigidamente osservante.

In generale, nessuna religione ammette di essere lasciata. Affer-mare pubblicamente il proprio ateismo è impossibile nella maggiorparte dei paesi musulmani di oggi. Si osa a stento parlare della laicità,che non è negazione o rifiuto della religione ma separazione della re-ligione dall’ambito pubblico e politico. Questo incoraggia in un cer-to qual modo i partigiani di un Islam puro e duro, un Islam interpre-tato alla lettera, senza sfumature, senza intelligenza, a voler fare i“giustizieri”. Per chi lascia l’Islam o non crede in Dio è raccomanda-bile agire con discrezione. Anche il cattolicesimo è passato attraver-so questa fase. Ha scatenato guerre, ha arso vivi miscredenti, è ricor-so all’Inquisizione per secoli.

Tra chi si converte all’Islam c’è un considerevole numero di uomi-ni che, per sposare una donna musulmana, sono costretti a diventa-re musulmani. Lo fanno con sincerità o per strategia? Altri si avvici-nano all’Islam per pura convinzione. Un mio amico, un francese diorigine polacca che per una decina d’anni ha diretto la Seuil, una ca-sa editrice fondata da cattolici, all’età di quattordici anni si è conver-tito all’Islam perché ha trovato in quella religione la spiritualità di cuiaveva bisogno. È diventato un grande specialista del poeta misticoIbn Arabi. Sono conversioni discrete, di cui non si parla. Ma avven-gono e non implicano nessuna provocazione. La fede si vive in silen-zio, non tra agitazione e spettacolo.

Traduzione di Elda Volterrani

Un funerale simbolicoper il traditore dell’Islam

TAHAR BEN JELLOUN

CASSIUS CLAYMOHAMMED ALIIl più celebrepugile di sempre,americano,tre volte campionemondiale dei pesimassimi, educatonella religionebattista, rivelònel 1964 di averaderito all’Islamradicale predicatoda Malcolm X

PAOLO DI TARSOIl più celebreconvertito

dell’antichità morìmartire a Roma

nel 67 d.C. Qui accanto, il dipinto

di CaravaggioLa conversione

di San Paolo

ANTHONYBLAIRPremier britannicodal 1997 al 2007,laburista, elettoper tre volte,ha atteso la finedel terzo mandatoper convertirsidal cristianesimoanglicanoa quello cattolico,la fede religiosadella moglie

CAT STEVENSYUSUF ISLAMCantautorebritannico,ha vendutooltre sessantamilioni di dischiNel 1977,al culminedella celebrità,si convertì all’IslamSolo 19 anni dopoha incisoun nuovo album

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la memoriaRicorsi storici

Dandy e playboy,dovette fuggiredall’Inghilterradopo aver uccisoun rivale in duelloe riparònel Continente

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

Il paese leader dell’economiamondiale è indebitato sino al-l’osso del collo. Anche perché icosti di una guerra iniziata cin-que anni prima sono lievitatispropositatamente. La sua ban-

ca centrale, in mano a un genio della fi-nanza, inventa un modo per prenderedue piccioni con una fava: consolidareil debito e stimolare l’economia. Ci rie-sce incoraggiando i consumi, moltipli-cando il credito che fa leva sull’aumen-to dei valori immobiliari e fondiari, so-stenendo un boom di ogni tipo di nuo-vi strumenti finanziari. Quando le cosecominciano ad andare male, si premu-ra di immettere liquidità a non finirenel mercato, arriva a finanziare diretta-mente il salvataggio di banche in diffi-coltà. Giostra coi tassi di interesse e ma-novra con tutti gli strumenti a disposi-zione per controllare il panico. Quasi cela fa. Poi la “bolla” gli scoppia in manoe tutto va a rotoli.

No, non parliamo di Alan Greenspan ePaul Bernanke, e della loro Fed. Ma del-l’uomo che quasi trecento anni fa, agliinizi del 1700, aveva già inventato non so-lo la politica monetaria delle banchecentrali, ma anche i subprime, i futures ei derivati. Si chiamava John Law. Nel suostudio sulle grandi crisi John K. Galbraithlo definisce come l’uomo che «seppemostrare, meglio di chiunque altro, quelche una banca può fare con la moneta, ealla moneta». Nella sua The Story of Mo-ney, pubblicata all’indomani del crollodel 1929, Norman Angell lo descrisse co-me «un gran mago nel giostrare con azio-ni, premi, rate ed emissioni di titoli». Jo-seph Schumpeter lo mette «ai primi po-sti tra i teorici della moneta di tutti i tem-pi». Antoin E. Murphy, autore di diversistudi su Law, lo considera «uno spirito ef-fervescente che fece fare balzi quantisti-ci alla teoria economica». Il vecchio KarlMarx, che pure era in genere così severocon gli economisti, caratterizza simpati-camente il personaggio come «un piace-vole misto di imbroglione e profeta».

In effetti Law era stato profeta di coseancora inimmaginabili ai suoi tempi. E inqualche modo anche della crisi che stia-mo attraversando. Nato nel 1671 a Edim-burgo, in Scozia, in una famiglia di orefi-ci, si sarebbe guadagnato fama di affos-satore dell’oro e dell’argento in favoredella moneta di carta e delle ricchezzevirtuali. Dandy e playboy, giocatored’azzardo accanito (ma “scientifico”,ferrato in matematica e calcolo delle pro-babilità, uno che gli hedge funds fareb-bero a gara ad assumere), era stato con-dannato a morte per avere ucciso nel cor-

so di un duello a Bloomsbury square unaltro noto damerino. Riparato sul conti-nente dopo una rocambolesca fuga dal-le prigioni londinesi, vi aveva studiato eappreso, dagli italiani e dagli olandesi, isegreti del come si gestisce una grandebanca. Non aveva neanche completatogli studi universitari, ma il suo esordio ènella teoria, prima ancora che nella suc-cessiva pratica da stregone finanziario,banchiere centrale e primo ministro.

Esattamente come Greenspan avevaesordito studiando i mutui immobiliari eBernanke studiando la grande depres-sione post 1929. C’è chi sostiene che Lawha anticipato Adam Smith nell’analizza-re i prezzi in termine di offerta e doman-

da, e Milton Friedman nel-l’analisi della “domanda dimoneta”. La sua propostapratica, nell’Essay on aLand Bank indirizzatoalle autorità inglesi enel trattato su Moneyand Trade Considered with aProposal for Supplying the Nation withMoney, indirizzato alle autorità scozzesi,è stimolare l’economia con emissione dimoneta garantita dalla terra. Così comeil “maestro” Greenspan era riuscito aprolungare il boom e i consumi Usa con imutui continuamente rifinanziati grazieall’aumento strepitoso del prezzo dellecase (col risultato che le banche si sono

tro-vate scopertee hanno cominciatoad andare sotto nel mo-mento in cui i prezzi del mattonehanno cominciato invece a scendere).Gli inglesi, che dal 1694 avevano già la lo-ro Bank of England, e gli scozzesi, cheLaw voleva aiutare ad uscire dalla lorocronica depressione economica, nonavevano capito di che si trattava e disse-ro no grazie. Law riuscì invece a convin-cere il duca d’Orleans, il Reggente diFrancia succeduto alla morte di LuigiXIV, con l’allettante promessa di istituire«un nuovo tipo di moneta, migliore del-l’oro e dell’argento», e, soprattutto, ca-pace di «ripianare i debiti della Corona».

La cosiddetta Guerra di successionespagnola, contro Austria, Olanda, In-ghilterra, Svezia e Savoia, aveva lasciatole casse vuote e portato il debito pubbli-co della Francia a oltre il cento per centodel prodotto lordo (cioè alla dimensioneitaliana di oggi). Gli interessi sul debitodissanguavano il Paese; il prelievo fisca-le lo soffocava, malgrado non bastassenemmeno a coprire il pagamento degliinteressi sul debito. Come se non ba-stasse, l’inefficacia del sistema di tassa-zione, l’evasione e la corruzione diffusaingoiavano fino a tre o quattro anni dientrate ancora a venire; le terribili puni-zioni contro gli evasori, i «rapinatori delpopolo» — la condanna a remare nellegalere non faceva meno orrore della tor-tura alla ruota, della gogna e della fusti-gazione pubblica — non aumentavanole entrate, semmai incupivano ulterior-mente la scena economica. Law inveceprometteva la salvezza a basso costo, eindolore: una banca finanziata da lui ealtri soci privati, che trasformasse il de-bito in pezzi di carta. Il Reggente gli ac-cordò il permesso di costituire la BanqueGénérale, che poco dopo sarebbe diven-tata la Banque Royale, in altri termini labanca centrale francese. E in segno di in-coraggiamento vi depositò parte dellapropria fortuna privata. Era solo il primopasso di un progetto ancora più audace.Testimonia lo stesso Law: «Ebbi l’onoredi dirgli che la mia idea di banca non eranemmeno la più notevole; ne avevo unaancora più straordinaria, con la quale gliavrei fornito cinquecento milioni (unquarto del debito nazionale) a costo ze-ro per il popolo».

SIEGMUND GINZBERG

I subprime trecento anni fa

La crisi economica innescata da titoli-spazzatura,il panico che dilaga, la banca centrale che correai ripari. È cronaca americana di oggi e, in parallelo,è un pezzo di storia della Francia dei Lumi. ProtagonistaJohn Law, avventuriero scozzese, che fu definitoda Marx “piacevole misto di imbroglione e profeta”

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Promise al Reggente,succeduto a Luigi XIV,“un nuovo tipo di moneta,migliore di oro e argento”e capace di “ripianarei debiti della Corona”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA30MARZO2008

Il capolavoro del banchiere scozzesefu l’invenzione di un sistema per trasfor-mare l’intero debito francese in cartastraccia, obbligazioni spazzatura. Lostrumento fu la creazione della Compa-gnia delle Indie, detta anche Compagniadel Mississippi, col monopolio dei dirittidi scambio con le colonie francesi inAmerica. La Compagnia si faceva caricodi una parte del debito pubblico dellaFrancia, coprendolo con le proprie emis-sioni azionarie. Le azioni erano garanti-te dalla ricchezza dei possedimenti ame-ricani. Il principio è esattamente quellodei mutui subprime: prestiti garantiti daipoteche sulla casa, che però diventanopura perdita se non sono esigibili o crol-lano i prezzi delle case. Paradossalmen-te la garanzia di Law era molto più validadi quanto possa esserlo oggi quella delreal estate Usa: non si trattava della solaLouisiana di oggi ma di mezza America,di tutto l’immenso territorio esploratodal chevalier de la Salle, il quale, partitodal Canada, era disceso lungo il fiume Il-linois, poi lungo l’intero Mississippi, sfo-ciando nel Golfo del Messico. Ancoraqualche secolo di pazienza e quei posse-dimenti avrebbero acquisito un valoremolto superiore al debito pubblico ditutta l’Europa. Ma in quel momento nonrendevano nulla.

All’inizio funzionò a meraviglia. Conuna serie di ingegnosi marchingegni fi-nanziari, Law trasformò la collocazionedelle azioni della Compagnia in un boomsenza precedenti. Le azioni, che nel 1717valevano centosessanta franchi, avevanooltrepassato quota diecimila nel gennaio1720. Gli investitori, affluiti da tutta Euro-pa, facevano follie per procacciarsele.Rue de Qincampoix, dove aveva sede ilquartier generale della compagnia, di-venne la Wall Street dell’epoca. Gli effettifurono moltiplicati dall’introduzione deifutures e dei derivati, cioè dalla possibilitàdi fare scommesse sulle scommesse. Leazioni si potevano comprare anche a ra-te, godendo subito dei privilegi. Law si ar-ricchì anche personalmente, ma ebbe so-

prattutto cura di arricchire i suoi amici eprotettori a corte. Lavorava per il be-

ne generale, non per le proprietasche. Ne era profonda-

mente, sinceramenteconvinto. Era fiero di esse-

re riuscito ad abbassare sostan-zialmente il tasso di interesse sul de-

bito, che strangolava l’economia, i conta-

dini e gli industriali.Ecco come parla dei successi nella sue

memorie: «Avendo la banca moltiplicatoi biglietti… ne fece il comune mezzo dipagamento, il che aumentò il prezzo deiterreni… I nuovi valori attiravano nelleprovince i biglietti di banca, che vi sidiffondevano dappertutto e liberavanola gente che gemeva sotto l’oppressione

dei debiti sovente contratti a usura…l’industria si riprese dappertutto… lecittà e le campagne furono ornate danuovi edifici, quelli vecchi furono ripara-ti, le terre incolte furono dissodate au-mentando di un terzo la superficie colti-vabile… arrivò in Francia gente da tuttaEuropa… si prelevarono i poveri dagliospizi per occuparli, il popolo veniva nu-

trito e vestito, aumentarono i consu-mi…».

Tutto vero, conferma la verifica di Ed-gar Faure, già ministro delle Finanze epremier francese negli anni d’oro (lestrente glorieuses) dell’ultimo dopoguer-ra, nella sua brillante ricostruzione stori-ca La Banqueroute de Law. Law avrebbefatto più e meglio di Greenspan ai tempinostri, favorendo i produttori e penaliz-zando i rentiers, stimolando la crescita,facendo fare alla Francia un balzo chestava portandola molto più avanti del-l’Inghilterra e ne fece l’America dei suoitempi. E il tutto al modesto prezzo di unpo’ di inflazione.

In realtà l’inflazione non era così mo-desta. Lo scoppio della bolla fu terribile.Le conseguenze molto dolorose. Tutti imolteplici, ingegnosi, e anche energicitentativi di controllare la discesa dei cor-si e il panico si rivelarono inefficaci. Le in-tenzioni saranno state ottime, ma il ri-sultato fu catastrofico. Lo shock fu taleche per secoli la bancarotta di Law sareb-be stata considerata come la peggiorecrisi finanziaria in Occidente, la Franciaavrebbe diffidato a lungo nei decenni avenire della cartamoneta, delle banche edelle Borse. E avrebbe ceduto all’Inghil-terra la supremazia nelle innovazioni fi-nanziarie e nella crescita.

Al povero John Law, fino a poco primaosannato come il genio finanziario delsecolo, fu dato bruscamente il benservi-to. Se non si fosse affrettato a varcare ilconfine, probabilmente sarebbe finitolinciato o in galera. Se ne andò a morire aVenezia. Fu costretto anche a fare marciaindietro sulla sua discussa e spettacolareconversione. Per poter fare il banchierein Francia si era dovuto convertire daprotestante a cattolico. Quando eranocominciati i suoi guai, e si era provato asostenere il corso forzoso della carta mo-neta con misure repressive dell’aggio-taggio in oro, argento e preziosi, l’amba-sciatore britannico a Parigi, lord Stair,aveva commentato con sarcasmo cheera impossibile dubitare della sinceritàdella sua conversione al cattolicesimo,visto che aveva ripristinato l’Inquisizio-ne, dopo aver dimostrato la propria fedenella transustanziazione col trasformaretanto oro in carta. Gli capitò persino didoversi riconvertire da cattolico ad an-glicano, nella speranza di ottenere unapensione da Londra.

DIAVOLOD’ARGENTOQui accanto,un dettagliodella stampain basso a destrache propagandala carta-monetacomponendoin figura di diavolole monetedi metallo pregiato

CARTAMONETANel medaglionenella paginaaccanto,John LawAttorno,le riproduzionidelle “banconote”createdal banchierescozzese

SUBPRIMECATTIVI DEBITORII subprime sonoprestiti concessia persone che nonpossono accedereai tassi di interessedi mercato perchésono consideratidebitori a rischio

CASE IPOTECATEI mutui subprimehanno prosperatograzie al valoredegli immobiliin costante crescita:molti, ipotecando la casa, ne hanno fattouna fabbrica di liquidità

BUSINESS LUCROSOLe banche hannoalimentato il business,per loro molto lucroso,continuando a offriremutui a famiglie dai redditi molto bassioppure già indebitatee insolventi

TITOLI-SALSICCIAQuesto complessodi crediti di bassaqualità è statofinanziariamentetriturato e ricompostoin “titoli-salsiccia”largamente vendutisul mercato

RISCHIO DI CRISILi hanno compratibanche, assicurazioni,fondi pensioniche, ora che la bollaimmobiliare in Usasi sta sgonfiando,rischiano il tracolloper sé e i loro clienti

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

il raccontoProfeti

Il 4 aprile del 1968 il paladino dei diritti dei neri fu uccisoa Memphis da un galeotto evaso di prigione. Aveva appenatrentanove anni. Come Lincoln, come John e poi RobertKennedy,quel colpo di fucile lo beatificò istantaneamente,proiettandolo nel pantheon.E rendendo immortaleil grande sogno sociale di cui si era fatto portavoce

WASHINGTON

Martin Luther King jrnacque il giorno in cuifu assassinato, il 4 apri-le del 1968. Fu alle ore

18 e 01 sul balcone della sua stanza di mo-tel a Memphis, quando un solo proiettileda caccia al cervo sparato dall’edificio difronte penetrò nella mandibola, deviònel collo e si fermò nella clavicola, il mo-mento nel quale morì un giovane trasci-natore di folle e attivista di appena tren-tanove anni e dai suoi resti si alzò il Mar-tin Luther King che conosciamo oggi: unsanto americano, per sempre beatificatodal proiettile di un fucile Remington.

Non ci sono faticose inchieste canonichenel processo di santificazione laica e istan-tanea nell’America della violenza politica,che soprattutto in quegli anni Sessanta pro-duceva martiri come un anfiteatro Flavionei suoi giorni migliori. Il colpo di pistolache trafisse Abramo Lincoln fece dimenti-care le sue esitazioni sulla questione deglischiavi e ne fece per sempre l’apostolo del-la emancipazione. I colpi del “Carcano mo-dello 91” sparati da Lee Harvey Oswald ste-rilizzarono la vita non esemplare di John FKennedy, immunizzandone il ricordo dallerivelazioni più sordide, così come le rivol-tellate che freddarono suo fratello Robertnell’hotel Ambassador di Los Angeles can-cellarono, nell’empireo della sinistra ame-ricana, il ricordo della sua attiva partecipa-zione al maccartismo. Nel Pantheon e nelmartirologio dei santi americani, il proces-so della assunzione al cielo del mito richie-de i pochi centesimi di secondo necessariperché una pallottola copra il percorso, avelocità supersonica, dalla canna dell’as-sassino al bersaglio.

E così è stato per King, per il figlio ed ere-de della chiesina battista di Atlanta guidatadal padre King senior e intitolata ad Ebene-zer, la «pietra della speranza» che il profetaSamuele piazzò in Palestina, secondo laBibbia. L’uomo che era stato costretto a tor-nare in fretta e controvoglia a Memphis,aveva guidato per quasi quindici anni l’alanon violenta, disobbediente ma non rivolu-zionaria, gandhiana, del fronte per il rico-noscimento di quei diritti civili e soprattut-to sociali ed economici che l’emancipazio-ne degli schiavi non aveva spostato di unpasso. Dall’appoggio e dall’organizzazionedel boicottaggio in favore di Rosa Parks aMontgomery, arrestata nel 1955 dalla poli-zia dell’Alabama perché aveva rifiutato disedere nei «posti riservati ai negri» sull’au-tobus, al suo “discorso del sogno” sulla spia-nata monumentale di Washington nel ‘63,l’autorità e la statura internazionale del dot-tore in teologia che aveva studiato in un col-lege di gesuiti a Boston, il Boston College,erano solide e confermate da un Nobel perla pace.

Ma autorità e prestigio non sono ancorasantità e lui lo sapeva. Non tutta l’America disangue africano lo venerava, nella concor-

anni di carcere, ma appena battuta la sen-tenza, ritrattò.

Se sul caso Kennedy rimane, ancora oggi,la domanda senza risposta del movente (chiaveva davvero interesse a ucciderlo? La Ma-fia? La Cia? I cubani, come pensava Johnson,per conto dei russi umiliati da lui con la cri-si del missili? L’apparato militare-indu-striale?), i possibili pretendenti al martiriodi King potevano essere legioni. Dall’Fbiche lo aveva giudicato «il peggior bugiardo eimpostore», nelle parole di Hoover che lovedeva come una marionetta dell’onnipre-sente congiura comunista; al mondo politi-co del Sud, che ancora tentava di resistereall’avanzata dell’integrazione; ai grandi“padroni del vapore” spaventati dalla piegasempre meno mistica e sempre più econo-micista che lui aveva preso, convinto ormaiche non ci sarebbe mai stata eguaglianza didiritti senza eguaglianza di reddito (avevaanche invitato i neri americani a negare itrenta miliardi di acquisti annuali alle gran-di multinazionali come la Coca Cola o allecompagnie di assicurazione, destinando iloro soldi ai commerci e alle imprese di gen-te di colore).

Al processo civile che trent’anni più tardiCoretta, la vedova, avrebbe intentato e pro-mosso, la giuria riconobbe che in quell’o-micidio c’erano ben altre impronte digitaliche quelle lasciate sul fucile da Ray. Agentidi polizia e vigili del fuoco di Memphis, sta-zionanti accanto al motel, rivelarono di es-sere stati misteriosamente ritirati dal quar-tiere per ordini superiori arrivati all’ultimomomento. L’arma del delitto fu collegata aun mafioso italiano proprietario di un risto-rante-taverna, Jim’s Grill, aggiungendo, co-me Jack Ruby a Dallas, il Fattore Cosa Nostraal complotto. Spuntarono doppiogiochisti,agenti della Cia, un misterioso «Raul», nomeispanico come quel «Ramon» che l’assassi-no aveva usato per il passaporto falso usatoper espatriare. E la famiglia King chiese edottenne cento dollari di danni punitivi con-tro la città di Memphis, somma simbolica.

Ma la causa vinta cadde nella totale indif-ferenza anche dell’America di colore (quan-do fu emessa, c’erano soltanto due giornali-sti in aula, un americano e l’inviata di ungiornale portoghese) non per scetticismoma per certezza. Tutti sanno, e dicono di sa-pere, che Martin Luther King fu sacrificatoperché la sua minaccia non violenta era in-finitamente più pericolosa delle grottescheazioni paramilitari delle Pantere Nere o deiguerriglieri della liberazione, facilmente ri-ducibili ad atti criminali e quindi reprimibi-li. E quarant’anni più tardi, di rivolte arma-te come quelle che incendiarono i centridelle metropoli americane dopo la notiziadell’assassinio nessuno parla più, mentreMartin Luther King jr è più vivo che mai.Non nelle autostrade, ma in quelle donne ein quegli uomini, da Colin Powell a Condo-leeza Rice fino alla campagna elettorale nonviolenta e messianica di Barack Obama, chedimostrano ancora una volta come ammaz-zare i santi sia sempre controproducente.

Luther King, santo americanodissero che se avessi starnutito sarei mor-to». «Ora sono a Memphis», disse in quel di-scorso della montagna, «e so che qualchenostro demente fratello bianco vuole attac-carmi. Mi piacerebbe vivere una lunga vita,la longevità può essere una buona cosa, maora non mi importa, voglio soltanto fare lavolontà di Dio». Coretta, la moglie, che te-lefonava da Atlanta, pianse quando le rife-

rirono di quel discorso e di quel presenti-mento.

«Il demente fratello bianco» era giàben sistemato alla finestra di un vecchioedificio delabré, un hotel a ore, propriodi fronte al Lorraine Motel dove semprescendevano i leader del movimentoquando erano a Memphis. Costavapoco, era dignitoso nella sua banalitàanni Cinquanta ed era nel cuore dellacittà nera. Il suo nome era James EarlRay, evaso dal penitenziario del Mis-sissippi, ricercato dallo Fbi e da tut-te le polizie. Non era un tiratore scel-to, come era stato Oswald, “cecchi-no” addestrato dai Marines, e il suofucile, un Remington 30/60, avevaun mirino telescopico che nonfunzionava. E se la distanza è as-sai breve, forse trenta metri fra il

motel e il lupanare, la precisione del col-po fu micidiale. Un proiettile in testa non la-scia scampo. King, un po’ vacillante sullagambe per la stanchezza, si era affacciato al-la balaustra con i suoi apostoli: Andy Young,Jesse Jackson, Ralph Abernathy, sul qualel’Fbi stava raccogliendo dossier enciclope-dici conditi di immancabili sospetti di sim-patie «comuniste». Il colpo, che qualcunovide arrivare da un cespuglio, abbatté King,ma non lo fece morire istantaneamente.Mentre gli altri chiamavano il centralinistadell’albergo, che non rispondeva, per do-mandare un’ambulanza, l’ormai quasi san-to martire fece a tempo a mormorare a unmusicista che era accorso dalle stanze: «Sta-sera suona l’inno Vengo da te, mio preziosoSignore e suonalo bene». Poi morì. L’ambu-lanza non arrivò perché il centralinista delmotel era morto anche lui, stecchito da uninfarto fulminante quando aveva sentito losparo. Ma non avrebbe fatto alcuna diffe-renza.

E cominciò lo stesso processo di sdoppia-mento che si era già visto con Kennedy, qua-si identico. La transustanziazione del reve-rendo ucciso fu quasi immediata. Il presi-dente Johnson, che già aveva dovuto segui-re il feretro di Kennedy assassinato, lo pro-clamò immediatamente eroe nazionale,creando un giorno della memoria per lui elanciando l’intitolazione di strade, auto-strade, edifici che oggi pullulano nelle città,assai meno nella campagne. Ma parallela-mente si aprì quell’abisso di sospetti e di“complottismi” che ancora non si è chiuso.Ray, «il fratello demente», fu subito identifi-cato, perché lasciò molto cortesemente unaborsa con i propri indumenti e il fucile stam-pato delle sue impronte digitali, ben cono-sciute alla polizia essendo un detenuto eva-so. Fu arrestato mesi dopo, mentre tentavadi passare la frontiera inglese, dunque ol-tremare, con un passaporto falso. Confessòsu consiglio dell’avvocato per risparmiarsila sedia elettrica in cambio di novantanove

renza crescente con i duri, come Malcolm Xgià assassinato e anche lui assurto al cielodegli intoccabili, le Pantere Nere, i Weather-men. Quando fu costretto a tornare aMemphis da Atlanta, due città distanti un’o-ra di volo tra le quali aveva fatto la spo-la per tutto il mese di marzo, Kingera un uomo distrutto dalla fati-ca, tormentato dai dubbi e de-presso dall’accanimento perse-cutorio con il quale J. Edgar Hoo-ver e l’Fbi cercavano di demolirlo,secondo il classico sistema già usa-to dallo stesso Hoover per attaccaregli odiati Kennedy: il sesso, un terre-no particolarmente caro al creatoredei G-men che si dilettava di indos-sare costumi da ballerina classica,con collane e tutù di tulle, per intrat-tenere il proprio collaboratore e brac-cio destro a fine lavoro.

Il compagno di battaglia, il reveren-do Abernathy, lo descriverà come unuomo «allo stremo della forza fisica».Jesse Jackson, che fu con lui quando ilproiettile da caccia grossa gli trapassò ilvolto e il collo, dirà che per la prima voltada quando lo conosceva lo aveva visto«spaventato». Non dalla morte, ma dal ti-more di fallire, di essere la vox clamantis indeserto, la voce di colui che grida a vuoto neldeserto dell’America violenta del 1968.«L’America è oggi la massima esportatricedi violenza e di guerra nel mondo», avevadetto pensando alla carneficina in Vietnamesplosa con la battaglia del Tet in febbraio, ealla brutalità interna di quel tempo. Paroleche ricordano assai da vicino le omelie diquel pastore nero di Chicago, Wright, ilmentore e consigliere spirituale di BarackObama, descritto dagli avversari come unfanatico anti-americano.

Gli costò un enorme sforzo fisico e di vo-lontà tornare a Memphis, dove i milletre-cento “operatori sanitari”, gli spazzini dellacittà, quasi tutti neri, erano in sciopero dagiorni per ottenere un aumento di stipendioda un dollaro e trentacinque a due dollaril’ora, docce per lavarsi e guanti per maneg-giare immondizia verminosa, nel climaumido e malsano del grande padre Missis-sippi, il fiume di Memphis. Le dimostrazio-ni degli spazzini erano degenerate in vio-lenza, soprattutto dopo la morte di due di lo-ro schiacciati da un camion-scopa; il sinda-co Loeb aveva respinto ogni compromessoproclamando che lui «non avrebbe mai fat-to accordi con un sindacato di negri», e inquesto suo ritorno alla Gerusalemme che loavrebbe crocefisso, King, portato di peso daicollaboratori nel Tempio della loggia mas-sonica per il discorso, vide la propria fine:«Sono stato sulla vetta della montagna e hovisto il panorama ai miei piedi della terrache ci è stata promessa».

Il suo volo da Atlanta era arrivato congrande ritardo, dopo che una telefonataanonima aveva annunciato una bomba abordo. Minaccia presa sul serio perché giàuna bomba era esplosa davanti alla suachiesa, un’altra era stata scoperta e disinne-scata in tempo, e lui era sopravvissuto allacoltellata di una donna, di colore, che lo ave-va pugnalato in una libreria sfiorandoglicon la punta l’arteria aorta: «I chirurghi mi

VITTORIO ZUCCONI

Io ho un sogno:che un giorno, sulle rosse colline della Georgia,i discendenti degli schiavie i discendentidei proprietari di schiaviriusciranno a sedereinsieme alla tavoladella fratellanza [...]Io ho un sogno:che i miei quattrobambinivivranno un giornoin una nazione in cui non sarannogiudicati per il coloredella pellema per il loro carattere

I have a dream

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LA COPERTINADI “TIME”Negli anni CinquantaKing raggiunge prestigionazionale, diventandoil leader del movimentoper i diritti civili. Nel 1957il settimanale Timegli dedica la copertina(nella pagina a fianco)

BATTISTANEL PROFONDO SUDMartin Luther King jrnacque il 15 gennaio1929ad Atlanta, GeorgiaSuo padre era un pastoredella Chiesa battistaIl figlio seguirà le ormepaterne, divenendoa sua volta pastore

DISCORSOPER UN SOGNOIl 28 agosto 1963,alla grande marcia su Washington per i diritti civili dei neri,King pronuncia(foto grande a sinistra)il celeberrimo discorso“I have a dream”

PREMIO NOBELPER LA PACEIl 14 ottobre1964 King(qui sopra, con la moglieCoretta), riceve il Nobelper la pace a Stoccolmaper la sua lotta politicanon violenta. A 35 anni,è il più giovane premiatodi tutti i tempi

ASSASSINIOIN TENNESSEEIl 4 aprile 1968 Kingè ucciso dall’ex galeottoJames Earl RayScoppiano disordiniin tutti gli Stati Uniti(qui sopra, una targacommemorativa)

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Nella Gran Bretagna degli anni Venti centinaia di migliaiadi ragazze furono marchiate con l’etichetta di “surplus women”:nel fango e nel sangue delle trincee della Grande guerra

avevano perso il marito o il possibile futuro compagno di vita. “Single Out”, un librodi Virginia Nicholson, ne racconta la solitudine ma anche la voglia di riscatto

CULTURA*42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

e donna. Davvero ci aspettava un’au-tentica lotta».

La Prima guerra mondiale, in cinqueanni, dall’estate del 1914 al novembredel 1918, aveva cancellato una interagenerazione di mariti o di giovani che,se avessero vissuto, lo sarebbero diven-tati. Sui campi di battaglia persero la vi-ta 2 milioni di tedeschi, 1.700mila rus-si, 1.358mila francesi, 1.100mila au-stroungarici, 761.213 inglesi, 480milaitaliani, 251.900 sudditi dell’imperobritannico, 114.095 americani. La sto-ria non ha approfondito uno dei dram-

matici effetti collaterali di quella carne-ficina: milioni di donne si ritrovaronosole, vedove o con nessun marito nel lo-ro futuro. Erano nate tra il 1885 e il 1905,come i giovani uomini perduti nel fan-go e nel sangue delle trincee: le aspetta-va una vita allora mutilata, quella delladonna non maritata, e il reclutamentonel desolato e disprezzato esercito diquelle che venivano chiamate, con fa-stidio o compatimento, zitelle.

Il censimento del 1921 contò che traGran Bretagna e Galles gli uomini erano

18.082.220, le femmine 19.803.022; cir-colavano nel paese 1.720.802 donne inpiù del necessario: e infatti furono subi-to chiamate ufficialmente «surplus wo-men», le donne in esubero, in eccesso,

quindi superflue se non dannose all’e-quilibrio della famiglia, della società,della nazione. Senza un marito, chiavrebbe garantito legalmente per loro,chi le avrebbe mantenute, protette, sor-

vegliate? Prive della indispensabile ma-ternità sarebbero impazzite? Abbando-nate a se stesse, si sarebbero date al me-retricio insidiando bravi padri di fami-glia, o sarebbero cadute nell’uranismo?Avrebbero preteso di mantenere il lavo-ro svolto durante gli anni di guerra in so-stituzione degli uomini al fronte e poimagari addirittura una pensione?Avrebbero accampato con più forza l’e-stensione del voto, (accordato nel 1918dal governo Asquith alle donne ultra-trentenni e possidenti), ingigantendo glieccessi delle suffragette? Oppure sareb-

bero diventate quelle fastidiose, misere-voli figurine della tradizione e dei ro-manzi, la famose “spinsters”, le zitellesopportate dalla famiglia nella veste dizie cui affidare le cure dei nipotini, o de-stinate a invecchiare sole, senza mezzi,ridicolmente abbigliate, con l’unicacompagnia di un gatto, rassegnate ep-pure ugualmente fastidiose?

Single Outsi intitola il libro di VirginiaNicholson, che racconta come le ragaz-ze inglesi senza marito degli anni Ventisopravvissero al loro destino funesto e

La sfida delle donne di troppoNATALIA ASPESI

Una mattina d’autunno del1917, la direttrice dellascuola per signorine diBournemouth High, In-ghilterra, radunò le allievedell’ultimo anno, quasi

tutte in lutto per la morte di un loro con-giunto ucciso sul fronte occidentale, perdar loro la più ferale delle notizie: «Solouna tra dieci di voi potrà sperare di trova-re marito. Non è una mia illazione, è unfatto certo. Quasi tutti gli uomini cheavrebbero potuto sposarvi sono morti.Sarete costrette ad imparare a cavarvelada sole: la guerra vi ha aperto molte piùopportunità di quanto ce ne fossero pri-ma. Ma dovrete affrontare il pregiudizio,dovrete lottare, dovrete combattere».

La diciassettenne Rosamund Essexper tutta la vita non dimenticò il fune-sto presagio, e si ritrovò tra le nove sudieci ragazze della scuola che rimaserosenza un uomo perché non ce ne eranoabbastanza per tutte. Nelle sue memo-rie, scritte sessant’anni dopo, ricorda:«Fummo obbligate ad affrontare il fat-to che la nostra vita non aveva che unsolo misero sbocco. Mai avremmo avu-to quel tipo di felicità domestica in cuinoi stesse eravamo state allevate. Nonci sarebbero stati né marito, né figli, nésesso, né un legame naturale tra uomo

La famiglia, dicevanoi politici, sarebbe

crollata per le troppetentazioni dei mariti

I giornali dell’epocapubblicavano vignettecongiovanotti in fuga

da torme di zitelle

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA30MARZO2008

ci d’alta moda. Che potevano dedicarsial miglioramento delle periferie degra-date, diventare attiviste politiche e mis-sionarie in Africa e Asia e aiutare bam-bini sofferenti e lebbrosi. La professio-ne in cui le donne sole trovarono rifugioma non sempre serenità fu l’insegna-mento, che divenne però il marchio del-lo zitellaggio: meglio tener nascosto adeventuali corteggiatori il proprio lavo-ro, meglio fingersi dattilografe e com-messe. I giornali: «Che peccato che i ge-nitori abbiano consentito alla figlia diinsegnare, non si sposerà mai!». Come

sempre, gli uomini erano sospettosi ditutto ciò che riguardava le donne (an-cora adesso!) e il fatto che dominasseronelle scuole pareva pericoloso: inse-gnanti zitelle, quindi affamate di sesso,non avrebbero corrotto alunni e alun-ne? O, in quanto nevrasteniche e frigi-de, non sarebbero state capaci di gestiinsani?

Del resto, se capitava che l’insegnan-te trovasse qualcuno disposto a sposar-la, veniva immediatamente licenziata.Solo nel 1961 la scrittrice Muriel Spark

diede nel suo Gli anni fulgenti di MissBrodie la descrizione dell’insegnantezitella tra le due guerre: sexy, romanti-ca, irriverente, come lei ne aveva cono-sciute. Le signorine si stavano liberan-do per sempre dalla vergogna e dall’e-sclusione. Le più coraggiose «saltaronoil fosso»: prima dei trent’anni bisogna-va liberarsi della verginità, dopo, si con-fidavano le amiche, sarebbe stato trop-po tardi. «I mariti scarseggiano ma gliamanti spuntano su ogni albero». Mol-te signorine scansarono la solitudineandando a vivere insieme, e figuriamo-ci che reazioni ebbero i benpensanti.Tra queste convivenze ce ne erano di in-nocenti, ma anche no: in ogni caso la re-lazione tra donne non poteva essere no-minata se non come pericolosa malat-tia e deviazione. Ma Radcliffe Hall, conilPozzo della solitudine, rese il lesbismoalla moda: quando nel 1928 il romanzofu processato per oscenità, Hall arrivòin tribunale elegantissima e fatale, di-ventando una diva internazionale. Il li-bro fu condannato alla distruzione di-ventando un bestseller clandestino. Lazitella stava diventando una donna incarriera, libera sessualmente e social-mente. Peccato che quella libertà, comecapita sempre nella storia delle donne,non durò molto. In Italia poco dopo fu ilfascismo a rinchiuderle nelle pareti do-mestiche a dare figli alla patria.

come molte di loro se ne servirono perliberarsi dalla sottomissione vittorianascoprendo i vantaggi della libertà, del-l’autonomia, della creatività, delle car-riere di successo. Ancora oggi, in unmondo invaso da single ambosessi, sidiscute se sia meglio avere o no fami-glia, e ci sono delle ardimentose chescelgono di loro volontà di non aver ma-rito: ma l’amore, l’amore, tutte lo vo-gliono sino a cent’anni e che dispera-zione se un reo destino glielo nega. Fi-guriamoci allora, anche in Italia, qualemarchio di desolazione fosse veder ne-

gato il proprio destino, l’unico assegna-to alle donne, di sposa, casalinga e ma-dre. «Dimenticata sullo scaffale», «vec-chia ragazza», «zitella assetata di sesso»erano i vari modi sprezzanti in cui veni-vano chiamate le donne surplus, che at-torno ai venticinque-ventisei anni en-travano nell’angosciosa e inesorabileprospettiva dello zitellaggio.

«La vita mi passa accanto, lasciando-mi piena di desideri segreti… Vorrei tan-to intravedere qualche possibilità di ma-trimonio futuro, per via dei figli, ma an-

che per il lato fisico…», ha lasciato scrit-to Alix Kilroy nel diario che Virginia Ni-cholson ha ricuperato, assieme ai tantialtri cui ha attinto per il suo libro. Allo ste-reotipo della donna dimenticata nellasua solitudine corrispondevano YvyCompton-Burnett e le sue cinque sorel-le e sorellastre, cui la guerra aveva di-strutto ogni possibilità di trovare un ma-rito e farsi una famiglia. Yvy morì nel1969, e negli anni della maturità era di-ventata una scrittrice venerata dagli in-tellettuali (Mariti e mogli,Madre e figlio),ma non abbandonò mai il suo aspetto“spinterish”, grigio e dimesso, da gover-nante anni Venti, per non dimenticare,né far dimenticare, tutto il dolore e il sen-so di sconfitta che avevano segnato lasua giovinezza.

Non tutte le surplus women però pa-revano disposte ad accettare una con-dizione di umiliante grigiore per il solofatto di non essere mogli e madri: in tan-te cominciarono ad agitarsi, riunirsi inassociazioni (come la potente NationalSpinster Pension Association), inviarepetizioni, pretendere di uscire dall’in-visibilità e dall’inutilità: diventando co-sì un problema sociale e addirittura po-litico, che non poteva più essere ignora-to. «Un milione di donne di troppo/co-mincia la caccia al marito» titolava ilDaily Mail del febbraio 1920, pubbli-cando vignette di giovanotti in fuga in-seguiti da un’orda di fameliche signore;oppure allarmava i lettori paragonandoi quasi due milioni di donne sole a un«disastro dell’umanità», «mignatte»

che si incollavano ai parenti, «rubapanea tradimento» perché lavorando occu-pavano posti destinati ai soldati smobi-litati. Politici e scienziati attaccavano: lafamiglia sarebbe crollata perché i mari-ti erano circondati da troppe donne so-le e disponibili. La tentazione avrebbeviziato e logorato gli uomini. Alcune zi-telle avrebbero potuto formare tra lorolegami particolari e vergognosi. Perchénon togliersele di torno mandandolenelle colonie, come in passato eranostati deportati prostitute e criminali? Isoldati scampati al macello tornavanoferiti nel corpo e nello spirito, e le ragaz-ze, in piena salute, pensavano solo aballare, a tagliarsi le gonne e i capelli, su-scitando esecrazione. Ma molte, colpe-volizzandosi, pubblicavano inserzionimatrimoniali del tipo: «Signora, fidan-zato ucciso, sposerebbe volentieri uffi-ciale cieco o con altra infermità causatadalla guerra».

Una gran quantità di donne super-flue scoprirono per la prima volta nellaloro storia che la solitudine poteva es-sere un privilegio; che non rinchiusenella supposta felicità domestica pote-vano diventare eminenti dottoresse, in-gegneri, entomologhe, esploratrici, ar-chitette, archeologhe come GertrudeCaton-Thomson, e persino indossatri-

Ma molte scoprironoper la prima volta

chestare sole potevaessere un privilegio

Alcune “signorine”decisero di vivere

insieme, con scandalodei benpensanti

IL SALUTOLe donne inglesiguardano angosciatedalla finestrai giovani soldatiche partonoper il fronteÈ il 1915, l’autoredello storicomanifestoè E.V. Kealey

LE FABBRICHENel posterla donna indossal’abito da operaiaper garantirela produzionedi munizioninelle fabbricheabbandonatedagli uomini chiamatia combattere

LA PROPAGANDAUn altro posterche propagandala necessitàdel lavoro femminileper rifornire gli uominiimpegnati al fronteSenza munizioninon si può vincerela Grande guerraSiamo alla fine del 1915

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LA ROYAL FORCEQui sopra, due immagini di donne impegnate come ausiliarie nella Royal Forcetra il 1916 e il 1918. Nella pagina accanto, le donne inglesi festeggiano in stradal’armistizio dell’11 dicembre 1918

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la letturaEroi per caso

Una spiaggia di sabbia candida, ragazzi appesi ai kite-surf,una battuta di spirito... Tanto basta a uno scrittore in vacanzaper ritrovare la traccia di una storia colorata di leggendaQuella di un galeotto inglese spedito nella baia di Melbourne,che fuggì, passò metà della sua vita tra gli aborigeni e poi tornòtentando di far capire le usanze di chi lo aveva salvato e accolto

La tribù lo scambiòper la reincarnazionedi un guerrierouccisoche, secondo un mito,sarebbe ritornatocon la pelle bianca

Guardavo con invidia am-mirata. Di fronte a quellameravigliosa spiaggiaaustraliana, all’uscita diun fiume, andavano sci-volando su acquatiche

tavolette dei fenomeni appesi a unaquilone. Avevo, più di una volta, am-mirato i surfisti, ormai comunissimi inacque continuamente frante da enor-mi onde. In un momento di audacia, mici ero addirittura provato, con risultatitragicomici. Ma questa, del surf con l’a-quilone, mi era del tutto nuova.

Così stavo a guardare, quando mitrovai di fianco due ragazzotti, che pre-sero a svolgere i loro strumenti. Mi av-vicinai, per saperne di più, e venni su-bito accolto con la disinvoltura tipica diun paese nel quale essere alla mano è laregola. «Ti piacerebbe, vero?», finì perdomandarmi uno dei due. E, al miocenno affermativo, l’altro sorrise, com-mentando: «You’ve got a Buckley’schance». Hai le probabilità di Buckley.«Buckley’s chance?», dissi io senza ca-pire. E l’altro ragazzo, come parlasse aun tonto: «Yes. Buckley, the white wildman». Il selvaggio bianco.

Così mi lasciarono, inoltrandosi nel-l’acqua con i loro strumenti, e non mirestò che attendere la sera, la cena che,come spesso avviene a Melbourne, di-vido con i miei amici David e Gideon.«Buckley, non conosci Buckley?», sisorpresero non poco i due, l’uno bi-bliotecario, l’altro giornalista. E prese-ro a raccontare.

Era l’inizio dell’Ottocento e, sulle ri-ve della baia di fronte al nostro risto-rante, la baia di Port Phillip, Melbourneancora non esisteva. Lungo una spiag-gia non lontana, dove ora sorge il vil-laggio chiamato Sorrento, le autoritàavevano pensato di stabilire una colo-nia penale, che precedesse i primi emi-granti. Tra i forzati, uno ce n’era che sidistingueva per la statura, vicina ai duemetri. Si chiamava Buckley, WilliamBuckley, e quando lo interrogarono sidichiarò innocente: in Inghilterra, ave-va acquistato un carretto di vestiti usa-ti, senza immaginare che fossero statirubati. Aggiunse che era nato nel Che-shire, contadinello dapprima, poi mu-ratore, infine arruolatosi con le truppeche, in Olanda, avevano combattuto ifrancesi. Buon artigiano com’era, si re-se utile a bordo della nave Calcutta, e,dopo il suo sbarco, fu intruppato in ungruppo di prigionieri incaricati di ini-ziare la costruzione di un villaggio. Nonpassarono due mesi che, insieme a trecompagni, William decise di fuggire.L’intenzione era di raggiungere Syd-ney, l’unica città allora esistente in Au-stralia, distante mille chilometri. Chi-lometri da percorrere a piedi, lungospiagge e foreste tropicali.

La fuga riuscì, ma solo per tre dei pri-gionieri, mentre il quarto fu abbattutodalla fucilata di una sentinella. Alla finedi una lunga corsa disperata, i tre si av-videro che nessuno li seguiva più, e so-starono per consumare una razione dicibo. Dopo un paio di giorni di marciaapparvero le prime difficoltà. Fiumi daattraversare, impresa rischiosa ancorpiù che per Buckley, per i compagni chenon sapevano nuotare. Apparizione diun gruppo di aborigeni, che Buckleymise in fuga sparando in aria un colpodel fucile che aveva rubato nell’accam-pamento. E, presto, difficoltà a nutrirsi,se non delle conchiglie che abbonda-vano lungo le rive.

Giunti all’estremità della baia di PortPhillip, i compagni dichiararono la lo-ro impotenza, e accesero fuochi nellasperanza di esser notati dall’equipag-gio della Calcutta, rimasta all’ancora.Dalla nave si staccò una scialuppa chepresto virò di nuovo per ritornare a bor-do. Pioveva, faceva freddo. I due com-pagni decisero che il rischio di moriredi fame e stenti fosse ancor più grandedi una pesantissima punizione e, comeBuckley rifiutò di seguirli, finirono persottrargli con la forza il fucile.

Privo di un’arma, William fu costrettoa passare le sue nottate in grotte marine,sommerso da un lato dal rumore delleonde, e dall’altro dagli ululii dei cani sel-vatici. Si trascinava, ormai, sinché giun-

se a salvarlo la scoperta di una grotta me-no disagevole di altre, vicina a una fontedi acqua dolce. Fu costretto a scacciarnei proprietari, strani animali dal muso ri-coperto di baffi e dotati di una curiosacoda. Bestie inoffensive, mezzi pesci,mai visti. Lì rimase qualche mese, nu-trendosi di conchiglie e di radici: trova-ta una selce, era riuscito, a prezzo di te-stardi tentativi, ad accendere il fuoco. Siera anche, in qualche modo, armato,dopo aver trovato una lancia infitta suun mucchio di terra smossa.

Sempre più spesso Buckley si doman-dava per quanto tempo avrebbe resistitonel condurre una simile vita solitaria, aimargini dell’inedia. Ma le alternative gliapparivano peggiori. Un ritorno di fron-te alla corte marziale, ed una probabileimpiccagione. O incontrare gli aborige-ni, e una ancor più probabile uccisione, oaddirittura — se erano vere le leggende —esserne mangiato.

Più di una volta aveva trovato traccedella loro presenza, mucchi di cenere,ripari improvvisati con cortecce e fron-de, e addirittura la carcassa di un can-guro arrostito. Ma si era affrettato a na-scondersi. Furono due donne a coglier-lo nel sonno, e a richiamare l’attenzio-ne dei loro mariti. Lo presero per lebraccia, lo alzarono e, tenendogli i pol-si, iniziarono a battere le mani alterna-tivamente contro i loro petti ed il suo.Mandavano al contempo grida entu-siaste, e si strappavano, di tanto in tan-to, i capelli. Terminata quella sorta dicerimonia, gli offrirono un cestello dibacche e, sempre tenendolo per mano,si avviarono verso l’accampamento, ri-volgendogli frasi incomprensibili, nel-le quali ritornava spessissimo la parolaMurrangurk.

Buckley avrebbe saputo in seguito leragioni di quel comportamento. Mur-rangurk altri non era che un guerrierodella tribù, da poco sepolto. Secondoun’antica tradizione, dopo un viaggiopost mortem i guerrieri sarebbero ri-tornati tra i vivi sotto un nuovo aspetto,contrassegnato dalla pelle bianca. Eraquesto il caso di Murrangurk, ucciso in-sieme a sua figlia dai nemici. E la provacertissima era rappresentata dal pos-sesso della sua lancia.

Buckley avrebbe impiegato moltotempo a spiegarsi l’accaduto. Quellanotte pensò più volte a fuggire, mentrele donne della tribù intonavano lamen-tose nenie, danzavano e si graffiavanosino a ferirsi. Al termine di simile ceri-monia, presero a decorarsi con argilla,accesero un grande fuoco, e mentre ilpoveretto già immaginava di essere ar-rostito, iniziarono un festino, allietatoda suoni tratti da pelli di opossum tesetra le gambe.

Dopo quell’inizio memorabile,Buckley sarebbe entrato a far parte del-la tribù, in qualità di parenteadottivo della donna chel’aveva per prima trova-to, di suo marito, e diun loro figlio. L’a-vrebbero munito diuna nuova lancia edi un’ascia, sorta ditomahwack. Via

GIANNI CLERICI

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

Buckley, selvaggio biancotra i cannibali d’Australia

IL PROTAGONISTAUna stampadel “selvaggio”William BuckleyA centro pagina:un’antica mappadi Indonesia,Australia e Sudestasiatico

LE SPECIEL’illustrazionedi un cangurovisto attraversogli occhidi un naturalistainglesedell’Ottocento

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via, sarebbe venuto a conoscenzadelle abitudini di chi, non tardò a ca-

pire, era simile ai nostri più remoti an-tenati, gli uomini della pietra. Nomadi,e talmente infissi nel presente che pare-va ignorassero qualsiasi possibilità nonsolo di coltivare, ma di conservare ciboper più di un giorno. Andavano vagan-do, legati alla maturazione di radici, dibacche, alla continua ricerca di animali,opossum, canguri, marsupiali; o topi,serpenti, a volte a due teste, e pesci, che

fiocinavano, o catturavano con sec-chielli costruiti in corteccia

come i tetti delle loro abi-tazioni, ricoperte di

rami, o intrichi di ro-vi, rampicanti, lia-

ne.Al di là delle

quotidiana ne-cessità di nu-trirsi, Buckleysi sorprese perun’aggressi-vità che gliparve, a tutta

prima, in con-trasto con la lo-

ro natura infanti-le, e spesso gaia. Si

facevano guerra adogni possibile occa-

sione, ma non solo per ilpossesso di una zona ricca di

cibo, una laguna, una piantagione sel-vatica. La ragione abituale di un con-flitto collettivo, di tutta la tribù, erano ledonne. Si rese conto, Buckley, che lastruttura sociale era basata sulla poli-gamia, ciascun uomo poteva possede-re più di una moglie, e ognuna di loroaveva diritto di partorire sino a sei figli.Superato quel limite, il successivo natoveniva ucciso, arrostito e mangiato.

La stessa sorte toccava ai nemici ab-battuti in combattimento, e Buckleydovette rendersene conto come scop-piò un conflitto e il fratello di Murran-gurk, al quale era stato affidato, vennetrafitto, insieme al figlio, e la moglie ra-pita. Simile vicenda non rimase impu-nita, e la tribù colpevole venne a sua vol-ta attaccata, un numero equivalente dinemici uccisi, e la donna recuperata.

Da simili continue guerricciole,Buckley riuscì a tenersi fuori, e per na-turale rifiuto e grazie al suo status direincarnato, che gli consentiva unacondizione di privilegio. Appreso nonsolo il dialetto della sua tribù, ma digruppi vicini, si forzò più di una volta adirimere le liti, sempre causate da sot-trazioni di cibo o di donne. Ma, ad unnuovo massacro, e alla vendetta deisuoi, non tenne più e, ottenuto il con-senso, andò a vivere solo, presso una la-guna, e un fiume ricco di anguille e pe-sci. Si costruì, pezzo a pezzo, una ca-panna di sassi, con un tetto in tronchiallacciati da liane. E, sul piccolo piazza-le antistante, approntò qualcosa chesomigliava ad una graticola. Come riu-scì a costruire una sorta di piccola digadotata di una rete intrecciata, pensò diessere alfine in grado di sopravvivereda solo, sinché Dio, che sempre avevapregato con fervore, glielo consentisse.

Aveva, intanto, perduto il senso esat-to del tempo, e gli pareva di esser rima-sto tra gli indigeni più di vent’anni.Pensava, sognava, nella loro lingua, efaticava sempre più nel richiamare allamente le equivalenti parole inglesi. Ri-cordava una storia simile alla sua, il Ro-binson Crusoe narrato da Daniel DeFoe, e quel che invidiava al suo simileera la Bibbia, per trascorrere le lungheserate solitarie, illuminate da una sortadi lucignolo che teneva lontani sciamidi zanzare e cavallette mordaci.

Grazie alla mirabile capanna, al mo-do di catturare pesci, alla capacità di vi-ver solo, la sua fama si era nel frattem-po tanto diffusa che gli amici della tribùritornarono alla carica, e lo rivollerocon loro. Gli fu offerta anche una giova-ne moglie, una vedova ventenne, ma laluna di miele fu breve, poiché Buckleyse la vide sottrarre da un gruppo di gio-vani di un’altra tribù. Per evitare l’abi-tuale ritorsione dei suoi, dovette pre-sentarsi e lagnarsi presso parenti e ami-ci della fedifraga. La quale, nel contem-po, già si era accoppiata ad un altro, sin-ché la sua infedeltà venne punita con

l’abituale colpo di lancia. Quest’ultima vicenda convinse viep-

più il nostro eroe a continuare la sua vi-ta senza mogli, occupandosi invece diun bambino cieco, e della sorellina, or-fani. Questo comportamento, tanto in-solito per i costumi degli indigeni, ac-crebbe ancora la sua autorità, e Buckleysi ritrovò innalzato ad un ruolo superpartes, e spesso chiamato a dirimere li-ti che avrebbero, altrimenti, condottoai soliti sanguinosi duelli.

Non pensava più ad un ritorno tra lasua gente, quando venne informatodell’arrivo, in una baia vicina, di unagrande nave a tre alberi. Dopo qualcheora, la Rebecca buttava l’ancora, men-tre, nella foresta dietro la spiaggia,Buckley teneva a freno i suoi amici ecci-tatissimi dall’ipotesi alterna di regali orazzia. Presto una scialuppa toccò terra,e ne scesero tre ufficiali, più che stupitinel vedersi accolti da un omone dallapelle bianca, ricoperto di pelli di opos-sum. Pareva che l’emozione gli impe-disse di esprimersi, ma, dopo che gli eb-bero rivolto frasi di benvenuto, qualco-sa dentro a lui si mosse e, insieme a unsinghiozzo, «english» riuscì a dire.

Parole confuse e rozze, ma indubbia-mente inglesi, gli uscirono di boccamentre mostrava un tatuaggio con lesue iniziali. Riuscì a spiegare che, a po-che decine di metri, si assiepava un’in-tera tribù, in attesa di regali, senza iquali avrebbero attaccato chi scendes-se a terra, per derubarlo. Invitato a sali-re sulla scialuppa, fece comprendereche preferiva aspettare l’arrivo dei do-ni, e gli ufficiali si affrettarono ad ascol-tarlo. Dopo meno di un’ora erano di ri-torno, in una scialuppa più grande, consacchi di pane e biscotti, coltelli, asce,acciarini, che si affrettarono a distri-buire a un centinaio di aborigeni ecci-tatissimi e festanti.

Mentre questi si affrettavano a portarvia i doni, gli inglesi fecero sapere aBuckley di chiamarsi Batman e Wedge,e di aver già intrattenuto amichevolirapporti con altri capi indigeni, avvian-do trattative per l’acquisto di una vastaestensione di terreno, che doveva dive-nire una sorta di dependance di PortPhillip, località ormai in pieno svilup-po. Buckley tentò di far capire ai suoiconnazionali che gli indigeni non ave-vano capitribù, e neppure la minimaidea del valore delle loro terre. Li misein guardia sulla possibilità di un attac-co improvviso, e li lasciò, con l’accordodi ritrovarsi il mattino seguente, per es-sere, forse, preso a bordo.

Passò la serata a parlamentare con iguerrieri della sua tribù, e riuscì a con-vincerli a desistere da una aggressione,quando i bianchi fossero ritornati a ri-va. Non dormì un istante, diviso com’e-ra tra la necessità di esser leale sia conla sua tribù che con i connazionali, e trail disperato desiderio di tornare a PortPhillip e il terrore di una condanna ca-pitale. Confessò, dunque, il suo passa-to agli inviati del Governatore del Vic-toria, Batman e Wedge, e, mentre la na-ve partiva per rifornirsi, rimase insiemeai due e a un drappello di marinai, percondurre le trattative di acquisizionedel terreno, esplorarlo, misurarlo. Lanave fu presto di ritorno, con una lette-ra di perdono, dopo trentadue anni diassenza: e la proposta di servire da in-terprete e mediatore.

Inizia di lì l’ultima fase della vita diBuckley, sollevato, dapprima, per unaormai insperata quotidianità. Presto de-luso dallo scontro tra una miope moraleprotestante, incapace di comprendere icostumi degli indigeni, e accettare le loromillenarie tradizioni. Tanto scoraggiato,povero Buckley, da abbandonare PortPhillip, e spostarsi in una città più ampiaquale Hobarth, nell’isola allora chiama-ta Van Diemen’s Land, la Tasmania.

Avrebbe raggiunto un suo tran tranaccettabile, sposandosi con una vedo-va, e accettando un umile lavoro di in-terprete, per una somma miserabile.Un terreno, offertogli in premio per lesue attività, non gli venne mai conse-gnato. Morì ad Hobarth, a settantaseianni. Ripeteva spesso ai curiosi di aver-ne passato la metà tra gli indigeni.

Non sapremo mai — terminarono diraccontare i miei due amici — quali fos-sero stati i più felici.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA30MARZO2008

GLI STRANIERIQui sopra: le prime immaginidegli aborigeni australiani che feceroil giro d’Europa una trentina di annidopo la spedizione di James Cooknella Terra Australis del 1769

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Martin Scorsese fa solouna fuggevole appa-rizione nel suo docu-mentario-rock Shinea Light, ma per il ses-santacinquenne regi-

sta newyorkese il film deve avere unqualche valore autobiografico. I branidei Rolling Stones con tutta la loro rau-ca energia accompagnano i film diScorsese, echeggiano in Mean Streets,Quei bravi ragazzi e Casinò. Il granderegista dichiara che la band ha avuto unpeso nella sua formazione. «Sono qua-rant’anni che filmo gli Stones», dice, equesta esperienza raggiunge oggi l’api-ce condensata in un documentario didue ore, Shine a Light.

Ultimo della nutrita serie di docu-mentari rock girati da Scorsese — col-laborò al montaggio di Woodstock pri-ma di cimentarsi nella regia di The LastWaltz (dedicato a The Band) e No Di-rection Home (omaggio a Bob Dylan) enella produzione della serie di telefilmdella PBS The Blues — Shine a Light èsemplicemente un film concerto cheinclude quasi un’intera esibizione dalvivo dei Rolling Stones. registrata nel-l’autunno 2006 con l’inserimento dibrani d’archivio. Il film è stato presen-tato al Festival del cinema di Berlino ri-scuotendo il plauso pressoché totaledella critica.

Quando si mettono comodi per par-lare del film, Scorsese e i suoi attori so-no una strana combriccola. Scorseseparla a raffica, un fiume di parole. KeithRichards si lancia in battute discutibili.Charlie Watts dà risposte pacate, misu-rate. Mick Jagger e Ronnie Wood, sonoirrequieti e litigiosi come scolaretti.

Scorsese e Watts indossano abiti co-

stosi, Richards e Wood invece hannoaddosso tutto l’armamentario rock. Lacapigliatura di Richards striata di blu èun’installazione artistica in miniatura,adorna di piume e gingilli metallici.Jagger, camicia bianca e pantaloni neriattillati, è una sorta di menestrello. Shi-ne a Light è frutto tanto della visione diJagger che di quella di Scorsese. I duehanno discusso vari progetti prima dioptare per filmare un’esibizione live. Ilrisultato è un documentario ben fatto,l’omaggio di Scorsese alla musica cheha improntato i suoi film. Di conse-guenza vediamo gli Stones per ciò chesono ai suoi occhi: diretti, provocanti,esotici e, soprattutto, straordinari.

Scorsese. La musica degli Stones miè stata di grande ispirazione e ha fattoda base a gran parte dei miei film daMean Streets fino a Toro Scatenato,Quei bravi ragazzieCasinò. La loro mu-sica per me è senza tempo, mi ha aiuta-to a creare le scene; l’energia e l’atmo-sfera della loro musica hanno stimola-to il mio immaginario.

Jagger. Credo che Shine a Light sial’unico film di Martin Scorsese in cuinon c’è Gimme Shelter! A parte glischerzi, Marty e io abbiamo discussovarie idee. Tutto è partito da un nostroconcerto a Rio de Janeiro, sulla spiag-gia. Ho chiesto a Martin se era dispostoa venire giù a girare un film Imax (ingrande formato), ovviamente, e in 3D.Ma disse che voleva filmare qualcosa dipiù intimo. Così abbiamo scelto il Bea-con Theatre a New York.

Scorsese.Abbiamo cercato di rende-re il più possibile l’energia di un’esibi-zione dal vivo. Per me gli Stones sonoenergia pura, ecco perché sono ancora

così attuali oggi. Inizialmente abbiamopensato di dare al film una strutturanarrativa. Abbiamo parlato di legare inqualche modo gli Stones e New YorkCity — avremmo potuto avere moltesceneggiature diverse — ma in tuttasincerità dopo quaranta-quarantacin-que anni e tanti grandi registi che han-no lavorato con gli Stones, cosa potevoaggiungere? Qualche notazione intelli-gente?

Watts. Del film apprezzo semplice-mente il fatto che non è noioso, comespesso accade per questo genere di pel-licole. È tutta questione di montaggio.Si vede che dietro c’è un regista, nonsemplicemente un operatore che ri-prende una band sul palco. Questo è unfilm. E penso che Mick sia la vera star.L’ho visto in azione con altre band e inqualche video, ma chiaramente non lovedo in concerto, quando suoniamoassieme, questa è la prima volta. Ed eraenergia pura. Per capirlo basta lo sguar-do di Lisa Fisher, la cantante, quandoballa con lui nel terzo brano. Mick simuove sul palco come Fred Astaire.

Richards. Charlie, Ronnie e io nonfacciamo altro che creare una rete di si-curezza per Mick. A volte è lontano, allimite del palco e sbaglia completa-mente ritmo, canta su una scala diver-sa, allora io e Charlie ci guardiamo,cambiamo ritmo e Mick rientra. Micksa rovinare qualsiasi canzone (ride).Senza scherzi, però dopo tutti questianni non so cosa farei senza di lui! Co-munque abbiamo suonato tutti benis-simo in Shine a Light.

Jagger.La lavorazione di un film con-certo non è molto diversa da quella diun film d’arte. Eravamo preparatissi-mi, Keith ci ha messi tutti seduti e ci haspiegato come si recita, lui ormai è unastar di Pirati dei Carabi! (ride).

Richards. Sì, ormai sono sempre inattesa di un bel ruolo (ride). Vedremo seJohnny Depp mi procurerà una partici-na nel prossimo episodio della serie.No, scherzo, in realtà non mi interessaquesto genere di cose.

Watts. E poi, lavorando con Marty,non serve prendere lezioni di recitazio-ne.

Wood. È vero, Marty è stupendo. Hoimparato moltissimo mettendomi nel-la sua prospettiva.

Jagger. Che cosa esattamente? Wood. Ho imparato che non sta tut-

to nelle riprese del concerto. È come ilmateriale viene visto e assemblato sot-to la direzione di Marty.

Scorsese. Il montaggio di David Te-deschi è fantastico. Il concerto diventauna coreografia, una danza, una scul-tura in movimento. Ma quello che ap-prezzo di più nel documentario comemezzo espressivo è l’immediatezza. Èimpagabile. Adoro il momento in cui ilproduttore spiega a Charlie che loaspetta un altro “meet and greet” concirca trenta persone. Charlie ribatteche è reduce da uno di questi incontricon i fan, e il produttore risponde: “No,hai incontrato il presidente, ora deviconoscere altra gente”. È divertentissi-mo.

Watts. Non so perché hanno inseritol’incontro con Clinton nel film. Era unpo’ idiota per me, perché quella non ègente da rock’n’roll.

Jagger. Beh, Clinton suona il sax (ri-de). Tutti i politici suonano uno stru-mento. Quell’Huckabee, l’ex governa-tore dell’Arizona, suona la chitarra.Non crede nell’evoluzione ma suona lachitarra! Si vanta sempre di aver evita-

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

Quei cinquebravi ragazzi

“Sono quarant’anni che li filmo”, dice il registadi “Godfellas” riferendosi alla band più longevadel rock. Tutto questo lavoro è diventato

un documentario-concerto, “Shine a Light”, che uscirà in quasi tuttoil mondo dal 4 aprile.Ecco che cosa accade e che parole si scambianoquando si incontrano un genio del cinema e quattro geni della musica

SPETTACOLI

WILL LAWRENCE

KEITH RICHARDSChitarrista

&ScorseseStones

CHARLIE WATTSBatterista

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA30MARZO2008

Richards. Sembra che Amy si sia ri-messa un po’ in sesto ultimamente, nesono felice.

Wood. Credo che con persone comeAmy e Britney, devi solo incrociare ledita e sperare che ne escano fuori.

Jagger. Non sembri molto partecipe,eh Ronnie? (ride). Sono cose che capi-tano, ma se fai il paragone con i nostritempi, la gente era poco informata sul-le droghe, non c’erano centri di recu-pero, o meglio c’erano ma io non ne homai sentito parlare.

Wood. Chi ci andava veniva presoper matto.

Jagger. Non c’erano gli strumentiche oggi sono disponibili, uno se la do-veva cavare da solo.

Wood. È buffo. Proprio l’altra seraparlavo con Neil Young di come sonoriuscito a sopravvivere. Mi chiedo co-me mai siamo ancora qui.

Jagger. Per sopravvivere si sopravvi-ve, almeno in genere, ma dipende dacome ne esci, in che condizioni.

Wood. Non so in che modo aiutareBritney, poveretta!

Jagger. È molto simpatica. Ricordoche la vedevo dappertutto quando fa-cevamo promozione. Sono molto sor-preso ma non mi preoccuperei e lasce-rei ascoltare ai miei figli Amy Winehou-se o Pete Doherty. Anche se, ripensan-doci, se ascoltassero Pete Doherty mipreoccuperei eccome!

Richards. Non posso dire di ascolta-re molti nuovi artisti. Non amo molto ildigitale. Non mi piace il sound. Sonomolto felice che ci siano molte band,che i ragazzi suonino assieme. I gruppisono tantissimi. Era più semplicequando c’eravamo solo noi e i Beatles!Ma penso che faremo un altro album.Una volta finita la promozione per que-sto film.

Watts. Credo che faremmo bene anon fare pause. Sembra che ogni voltache ci fermiamo io mi ammali. L’ultimavolta mi è venuto il cancro alla gola.Faccio attività fisica, non fumo, non be-vo, ma è venuto a me, non agli altri. Pen-savo che fosse la fine. Sono andato inospedale e otto mesi dopo Mick mi di-ce che c’è in programma un nuovo di-sco ma che si comincerà quando io saròa posto. Nel frattempo hanno cazzeg-giato, scritto canzoni, e quando sonoguarito abbiamo inciso A Bigger Bang.Poi una tournée di due anni...

Richards.Amiamo quello che faccia-mo, molto semplice. Ci siamo calmatirispetto a prima, siamo rocker con lerughe, ma io l’energia ce l’ho ancora.Credo che dipenda dal fatto che man-gio poco. E bevo molto. Mangiar poco efumare erba buona. Sinceramentecontinuerei a fare questo lavoro anchein sedia a rotelle.

Traduzione di Emilia Benghi (© 2008 The Times)

PRECEDENTI E PROGETTIScorsesenella sua carriera ha giratofilm come The Last Waltz(su The Band)e No Direction Home(su Bob Dylan)Ne ha in programmaaltri due, su Bob Marleye George Harrison

COLONNA SONORANei film di Scorsesela musica degli Stonesfa da colonna sonorain Mean Streets,The Departed, Casinò,Quei bravi ragazziTra le canzoni più usate,Gimme Sheltere Let It Loose

GUEST STARNel film compaiono comeguest star Bill e HillaryClinton, CristinaAguilera, Jack Whitee Buddy Guy. A spezzareil concerto, flashnel backstage e insertidi vecchie intervistea Jagger e soci

MARTIN SCORSESERegista

MICK JAGGERVoce

RON WOODChitarrista

LIVEShine a Light, presentatoin anteprima al Festivaldi Berlino, è il raccontodi due giorni di concertodegli Stones al BeaconTheatre di New Yorknel 2006. Uscirà negli Usail 4 aprile e l’11 aprilein Italia

to a Keith la galera per un’infrazionestradale in Arkansas.

Wood. Deve essere stato nel viaggioda Memphis a Dallas, ci hanno arresta-to per vagabondaggio. Keith guidava avelocità troppo bassa. Era fatto. Ci han-no tenuto in cella per un giorno!

Jagger.È buffo guardare i filmati vec-chi, ad esempio quando mi chiedevanose avremmo continuato a suonare e afare tournée a sessant’anni. Allora erogiovanissimo ma ho risposto “sì” senzaesitazione!

Watts. È strano però che dopo tuttoquesto tempo non ci siano tensioni nel-la band. Anche se, a dire la verità, me-glio non trovarsi in mezzo tra Mick eKeith! Sono come fratelli, quindi hannodegli scontri molto duri. Ma poi passatutto. Ronnie si impiccia sempre e ci ri-mette, ma è fatto così. Il segreto per an-dare d’accordo è stare alla larga gli unidagli altri per la maggior parte del tem-po. Anche quando ero un ragazzinoidiota, ho sempre considerato la mia vi-ta come una cosa a parte, indipenden-te dagli Stones.

Wood.Sì, cerchiamo di starci alla lar-ga fuori dal palco (ride).

Jagger. È vero. È la cosa migliore, no?Anche se Ronnie si è fatto la piscinanuova e quindi vado da lui più spesso,io non ce l’ho una così.

Richards. Siamo arrivati vicino ascioglierci, ma poi Mick è rinsavito e hafatto come gli dicevamo.

Scorsese. È fantastico che gli Stonessiano ancora assieme e faccianotournée. Per Shine a Light, abbiamo fil-mato due concerti, in due serate, e tut-te le riprese del concerto si riferisconoalla seconda serata. La scaletta è pres-soché in tempo reale, in particolarequando finisce l’esibizione di BuddyGuy e loro attaccano subito TumblingDice. Buddy Guy era sensazionale, co-me tutte le guest star di quella sera.

Richards. Buddy è stato straordina-rio. Gli ho regalato la mia chitarra, nonè stata una cosa programmata. È statotalmente bravo che quando ha finitosono andato da lui e gli ho detto: “Ami-co, prendila, è tua”. Ed è raro che io diavia qualcosa!

Jagger. Avevamo già suonato conBuddy Guy e pensavamo che fosse per-fetto come guest star. Quanto agli altriartisti ospiti, Jack White aveva già aper-to i nostri concerti in altre occasioni, loconoscevamo. È meglio se conosci giàle persone, solo Christina Aguilera po-teva essere una scommessa, ma ha unavoce fantastica.

Watts. Ho trovato Christina Aguilerastraordinaria, perché spesso le ragazzesi bloccano quando ballano con Mick.Abbiamo avuto altre bravissime arti-ste, tra cui la nostra cara Amy Wi-nehouse, anche se non penso fossemolto in forma, ma non sono mai statebrave come Christina.

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

i saporiGrandi rossi

Dicono sia nato da un’intuizione di Juliette, vedova del marchese Fallettidi Barolo, e amica di Cavour, che chiamò in Langa un celebre enologofrancese per affinare il vitigno Nebbiolo e ottenere un prodotto eccellenteDa allora ha fatto una carriera planetaria e il prossimo weekend saràal Vinitaly di Verona per essere assaggiato anche dai più scettici

Dicono sia tutto merito di una donna. Fino a metà Ottocento, con il Nebbiolo si rea-lizzavano vini lunatici, da bere in fretta, prima che si smarrissero del tutto. Gli in-verni langaroli umidi e freddi, le uve pigre a maturare, le fermentazioni incom-piute ne segnavano il destino mediocre. Ma la francese Juliette Vitturnie Colbertdi Maulévrier, vedova del marchese Falletti di Barolo, voleva bere bene anchenella sua terra d’adozione, e grazie all’amico conte di Cavour fece arrivare in Lan-

ga il connazionale Louis Oudart, enologo di fama. Grazie alle nuove tecniche di produzione, ilvino divenne così fine, complesso, maestoso, che le trecento botti mandate in dono a Carlo Al-berto spinsero il re a comprare le terre di Verduno. Alcuni anni più tardi, il figlio Vittorio Ema-nuele II convertiva in vigneti la tenuta di caccia di Fontanafredda. Il re dei vini divenne il vinodei re.

Non è semplice fare un grande Barolo: il Nebbiolo (che lo compone al cento per cento) è unvitigno esigente. I testi di enologia predicano la necessità di terreni calcarei, tufacei, esposti asud, sud-ovest, dove le gelate sono meno frequenti e l’ultimo sole autunnale accompagna i grap-poli fino alla vendemmia tarda, e un tempo piuttosto nebbiosa (da cui il nome). Peccato che ilsuccesso planetario abbia indotto a piantar vigne anche là dove non c’erano mai state, divo-rando campi e boschi, con il pessimo risultato di vini senz’anima, paesaggio rovinato e territo-rio privato delle sue naturali difese a fronte degli eccessi del maltempo. Il primo a lamentarse-ne è stato il vignaiolo-patriarca Bartolo Mascarello (quello del Barolo “No Barrique-No Berlu-sconi”, sequestrato dai carabinieri prima delle elezioni del 2001 dalla vetrina dell’enoteca Mar-chisio di Alba). Non l’ha ascoltato nessuno. Meglio sarebbe se gli undici comuni del Barolo po-tessero entrare nel consorzio di tutela, come per i “Comité Interprofessionnel”francesi, così darafforzare controllo e gestione di tanto, magnifico terroir.

Poi c’è la cura del vigneto. Il disciplinare permette di vinificare fino a ottanta quintali per et-taro. Molti lo applicano alla lettera. Ma gli estremisti del Barolo dimezzano le quantità, potan-do e diradando. È il caso di Roberto Voerzio, che ha imparato in Borgogna a intervenire sui sin-goli grappoli, tranciando via la parte inferiore per lasciare quella superiore libera di “respirare”sulla pianta senza pericolo di muffe e disomogeneità di maturazione.

In cantina altra polemica infinita, quella fra tradizionalisti e modernisti. I padri nobili del Ba-rolo non hanno dubbi: il Nebbiolo è un vitigno ossidativo— ovvero sensibile alle ossigenazioniintense — e quindi occorre far maturare il Barolo in botti grandi, che hanno una funzione “ri-duttiva” ed evitano ai tannini di scontrarsi con quelli del legno delle barriques, botti piccole (me-no di un terzo delle classiche) con un’ampia superficie di contatto con il vino. Al contrario, i gio-vanibarriquistiprivilegiano una maggiore e più rapida ossigenazione del vino, che regala mor-bidezza e accorcia i tempi dell’affinamento. Per placare il conflitto generazionale, alcuni pro-duttori, come la famiglia Grasso, hanno diviso la cantina: vino paterno in botti grandi, quellodel figlio nelle piccole, con pari dignità.

Per saperne di più, regalatevi un grande weekend vinoso al Vinitaly di Verona, dove assag-giare, chiedere, conoscere molto del meglio dei vini italiani, tra cui sono presenti duecentocin-quanta produttori di Barolo. Mentre siete in zona, spingetevi a Villa Boschi, Isola della Scala, do-ve troverete Teobaldo Cappellano e Giuseppe “Citrico” Rinaldi, barolisti puri, protagonisti del-la manifestazione “Vini Veri” (3-5 aprile). Ne Il compagno di Cesare Pavese, il protagonista Pa-blo viene ammonito così: «Tu sei giovane.... e non sai che tre nasi sono quel che ci vuole per be-re il Barolo». Fatene tesoro, prima di tuffarvi nel bicchiere.

Ne “I vinid’Italia 2008”dell’Espresso,i curatori ErnestoGentili e FabioRizzari premianocinque Barolicon voti soprai 18.5/20Fuori guidale ottime bottigliedi produttori storicicome Cappellano e Mascarello

RiservaLe Gramolere 2001Giovanni Manzone

Sostanza, carattere, impatto caldoe speziato, adesione alle virtùdel terroir: padre e figlio alla guidadi una piccola azienda monfortinaglorificano una delle sottozonemeno conosciute

al top RiservaVigna Rionda 2001Massolino

Famiglia tradizionale e classicissimoBarolo, realizzato con uvedella splendida Vigna Rionda e seianni di maturazione tra botte grandee bottiglia. Potente, concentrato,pieno, eppure ancora giovanissimo

Cannubi 2003Chiara Boschis

Stile e persistenza nelle bottigliedi una delle talentuose “Barolo girls”,con Teresa Mascarello e Anna Abbona, capaci di dareal Barolo un’impronta più femminile(fruttata nitida, armoniosa)e meno muscolare

Riserva Villero1999Boroli

Una famiglia di editori, vignaioli di nuova generazione, firmauna super Riserva, con otto annidi invecchiamento. Grande struttura(14,5 gradi) energia ed equilibro,ovvero la miglior espressione del cru di Castiglione Falletto

RiservaLe Rocche del Falletto 2001Bruno Giacosa

Tessitura finissima e sapore nobile,austero, complesso, per il superBarolo di uno dei vignaioli che hannofatto la storia dell’enologia langarolaElegante nel presente, ha davanti a sé un lungo futuro radioso

itinerari

Le bottiglie prodotteogni anno

11mln

Giovanni Bietti - compositore, pianista,musicologo dell’Accademia Nazionale di SantaCecilia di Roma - è un appassionato di BaroloSue le recensioni più creative nelle paginepiemontesi della guida dei vini Espresso

Barolo (Cn) Monforte (Cn)

Un terzo di tutto il Barolo vieneprodotto nelle terredel medievale “recintodel bestiame”, la murradei frati benedettini,appoggiato con i suoi bastioni su uno spettacolare belvederetra le Alpi e il Po. In piazzac’è il monumento al vignaiolo d’ltalia

DOVE DORMIRELA CORTE GONDINAVia Roma 100Tel. 0173-509781Doppia da 110 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIAREBEL SITVia Alba 17Tel. 0173-50350Chiuso lunedì serae martedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRARECANTINA COMUNALEVia Carlo Alberto 2Tel. 0173-509204

La Morra (Cn)

Barolo

Profumo di vignadall’anima antica

LICIA GRANELLO

Terra speciale per il Barolo,il monte fortificatoha tradizione cataraed è uno dei luoghi-simbolo della Langa partigianaLa piazza-auditorium,intitolata al pianista polaccoHorszowski (suo il concertoinaugurale nel 1986) ospitaun bel festival estivo

DOVE DORMIRELE CASE DELLA SARACCAVia Cavour 5Tel. 0173-789222Doppia da 130 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIARETRATTORIADELLA POSTALocalità Sant’Anna 87Tel. 0173-78120Chiuso giovedì e venerdì a pranzo, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREBAROLO BARVia Garibaldi 9/11Tel. 0173-789243

Il nome che firma il vinoitaliano più pregiato del mondo identificaun bel borgo appoggiatosu una piccola valle rialzata,contornata di rilieviLa medievale “Villa Barogly”,pur vivendo in simbiosicol vino, ha un’atmosferariservata e quieta

DOVE DORMIREIL GIOCO DELL’OCA Via Crosia 46Tel. 0173-56206Doppia da 60 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIARELOCANDADEL BORGO ANTICOPiazza Municipio 2Tel. 0173-56355Chiuso martedì e mercoledìa pranzo, menù da 45 euro

DOVE COMPRAREENOTECA DEL BAROLOCastello di BaroloPiazza FallettiTel. 0173-56277

L’appuntamentoAppuntamento numero 42 per il Vinitaly,la più importante fiera dedicata al vino,in programma a Verona dal 3 al 7 aprileSu www. vinitaly. it, il ricco calendariodi abbinamenti gastronomici, convegni, dibattiti,performance di grandi chef e assaggi “verticali”Spicca la degustazione del venerdì, quandol’ottimo Barolo Monfortino 1997 di GiacomoConterno si confronterà con undici grandi rossiitaliani della stessa vendemmia

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA30MARZO2008

ComuniIl disciplinaredella Docg,protezione europeaottenuta nel 1980,autorizzala vinificazionein undici comuni:Barolo,Castiglione Falletto,Serralunga,Roddi, La Morra,Monforte, NovelloVerduno, Cherasco,Diano d’Alba,Grinzane Cavour

CruI comuni del Barolo hannomappato quasi duecento“sottozone” pregiate, tra cuispiccano i cru di Brunate,Cerequio, Sarmassa, BussiaSoprana, Bricco Rocche,Ginestra, Vigna Rionda,Cannubi, Le Vigne, Costedi Rose, Bricco Viole

Il più gradito augurio di Pasqua è stato quello diBeppe Rinaldi, grande vignaiolo: un jéroboam diBarolo, un bottiglione di tre litri. Così come l’au-

gurio più gradito di Natale è quello che mi arriva, sem-pre da Barolo, dalla vedova di Bartolo Mascarello: itajarin più leggeri del mondo fatti con le uova dellegalline nere. Da Barolo sono sempre arrivati i donimigliori per i piemontesi di città, re, ministri, scritto-ri. Basta saperli chiedere con cortesia. Un giorno reCarlo Alberto si rivolse alla marchesa Giulia Falletti:«Marchesa, tutti decantano la qualità del vostro vino,il Barolo, quando avremo l’onore di assaggiarlo?».Pochi giorni dopo il centro di Torino fu occupato daun’interminabile fila di carri trainati da buoi. Diconofossero trecento: un carro per ogni giorno dell’annoesclusi i periodi di digiuno, e su ogni carro c’era unabotte, una “carrà” da sei ettolitri, lunga e piatta, checonteneva il vino di una particolare cascina, in prati-ca di un cru. Sua maestà trovò il vino di suo gradi-mento e acquistò subito la tenuta del castello di Ver-duno per garantire il rifornimento delle cantine rea-li. La marchesa Giulia Falletti poteva permettersi queldono, era parente del re di Francia; il marchese Fal-letti, suo marito, aveva un bilancio annuale di entra-te uguale a quello dei Savoia.

Mi piace andare per il mare dalle acque verdi-az-zurre, e mi piace andare per quel mare di colline chesono le Langhe. Da quanti anni ci vengo? Da quantoamo il vino di Langa? Ricordo un nebbiolo di Verdu-no, arrivato chissà come nella nostra casa di modestibevitori di Cuneo: sapeva di violetta e di primavera,aveva dentro il calore del camino, ma anche una fre-schezza di nebbia mattutina. Certe sere aspettavoche mia madre fosse andata a dormire, sfilavo la chia-ve della cantina senza far rumore, e scendevo all’ap-puntamento coi compagni di scuola; li facevo entra-re come cospiratori, a lume di candela ci scolavamotre o quattro bottiglie nel modo rituale: bere, passarela bottiglia secondo il giro dell’orologio all’amico checon la sua mano, non con la tua, pulisce la bocca del-la bottiglia, e avanti nel cerchio dionisiaco. Un matti-no la donna che veniva a fare le pulizie mi trovò ad-dormentato nell’armadio delle scope.

Nelle Langhe ho fatto la guerra, e all’Osteria delPonte di Monforte ho bevuto il mio miglior Barolo.L’oste, il vecchio Conterno, ogni tanto ci diceva:«Questo Barolo l’ho murato per il battesimo dei mieifigli, ma è meglio che ce lo beviamo noi piuttosto chei tedeschi». Sono tornato a Barolo negli anni Sessan-ta. Porto il mio amico Alfredo Todisco a conoscere leLanghe, ci fermiamo ad Alba per pranzare al Savona,e chiedo al vecchio Morra dove si trova del Barolobuono: «Provate dai Mascarello — dice — stanno nel-le prime case, di fronte ai Pira, di fianco ai Rinaldi, vi-cino ai Brezza». L’aristocrazia del Barolo sembra alcompleto. Andiamo al bivio per La Morra e svoltiamoa sinistra; la strada è in salita, ma fa delle curve così lar-ghe e dolci per i vigneti dei Cannubi che ti sembra diplanare, come quelle poiane che se le porta il ventocaldo. Le tendine bianche di casa Mascarello sonoabbassate, ma la porta si apre, esce il padre Masca-rello che è stato sindaco, un socialista di quelli veri daBarolo, non da Dolcetto come il Nenni, che fa le va-canze a La Morra. Mi presento e presento Todisco:«Quello del Mondo?», dice il Mascarello padre, Todi-sco non si è mai riavuto dallo stupore. Padre e figliohanno il bunet in testa, il cappello dei langaroli, Bar-tolo ha un volto pallido, affilato, da romano della «re-pubblica virtuosa». «Tu non sei un celta — gli ho det-to — tu hai una faccia da latino». «Non so se sono unlatino, ma sono uno dei cinque o sei che il vino lo fan-no ancora senza le barriques, senza il legno».

Il vecchio Mascarello se n’è andato da un pezzo,Bartolo da pochi anni. Negli ultimi tempi non ce la fa-ceva più a lavorare in vigna, passava le giornate allasua scrivania su cui erano sparse le etichette specialiper il suo Barolo, che disegnava a colori vivaci, stiliz-zate, secondo geometrie immutabili: triangoli, qua-drati e figure umane dentro la dolce curva delle colli-ne, la geometria degli uomini che faticano sotto il cie-lo azzurrino a cui alzano, come tutti ogni tanto, lapaura del nulla.

Anche per i contadini di Langa il mondo è cambia-to: a comprare il vino possono arrivare dal Giappone.Un giorno suonano alla porta di Bartolo, lui va adaprire e trova due giapponesi appena arrivati daTokyo. «Tu Mascarello? — fa uno dei giapponesi —noi comprare il tuo vino». «Come avete fatto a trovar-mi?». «Preso aereo a Tokyo, arrivati a Roma, preso ae-reo a Roma, arrivati a Torino, preso taxi a Torino, ar-rivati qui». Bartolo ha conosciuto negli anni Settantai miliardari che comperavano le terre del Barolo convalanghe di soldi, i Gancia pagarono seicento milio-ni per poche giornate di vigna dei Cannubi. Bartolomi ha fatto leggere la lettera che spedì al presidenteGancia: «Vedo che lei, seguendo i consigli di un pro-fessore che io caccerei con forche e forconi, ha fattofare un piccolo scasso, non vi curate delle erbe infe-stanti e invece di costruire i muretti rimboccate il ter-reno e sperate che l’erba lo tenga assieme». «Cosa tiha risposto Gancia?», gli chiesi. «È venuto a trovarmi,ha bevuto un bicchiere del mio Barolo, mi ha fatto icomplimenti e mi ha detto: “Vede Mascarello, lei haragione, ma io il mio Barolo lo farò lo stesso, e graziealla mia rete commerciale lo farò pagare il doppio delsuo”. Ha fatto esattamente così, e siccome i suoiclienti non sanno nulla di Barolo, lo hanno molto rin-graziato per averglielo fatto pagare il doppio del mio».

L’altro giorno ho anche scoperto che il Barolo è unaprova dell’esistenza di Dio. Eravamo a pranzo ad Al-baretto della Torre e vicino a noi c’erano dei preti tracui un reverendo centenario di Fossano, piccolo espelacchiato come un passerotto, che a un certo pun-to ci chiese di unirci a una sua preghiera: «Ringrazia-mo il buon Dio che ci ha dato il seme che germoglia epoi diventa albero e dà il frutto da cui esce questo Ba-rolo. E chi se non Dio ha creato il sole che riscalda igrappoli?». Le prove di san Tommaso d’Aquino nonle avevo mai capite bene, ma queste del reverendo diFossano mi sembrano inoppugnabili.

Dimenticavo, nel 1991 ho ricevuto il massimo ono-re per un piemontese: sono stato nominato “l’uomoBarolo” di quell’anno. I produttori ci hanno manda-to a casa quarantacinque Barolo diversi. Mia figlia,che ha vigna nelle Langhe, ha voluto assaggiarli tutti.

Quel vino notturnoche sapeva

di violetta e nebbiaGIORGIO BOCCA

Il giro d’affari (in euro)a cui dà vita il Barolo

150 mlnLe aziende

che producono Barolo

350

ChinatoInventato a fine Ottocentonella farmacia Cappellano di Serralunga, per addolcirel’assunzione del chinino,è un Barolo aromatizzatocon un segretissimo infusoalcolico di erbe,tra cui China Calissaia,rabarbaro, genziana

AcetoLavorazione artigianaleper l’aceto pregiato,realizzato da buon BaroloCesare Giaccone, cuocostorico di Albaretto Torre, lo produce con tradizionalitravasature in botti di gelso,rovere e ciliegio. Perfetto su volatili, frattaglie, verdure

GrappaPressatura sofficeper le vinacce del Nebbioloda Barolo, con distillazionein caldaie di ramediscontinue. Affinamentoin piccole botti di rovere,gusto avvolgente. Museocon alambicchi del 1947presso la distilleria Berta

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le tendenzeStili e culture

Abiti, accessorie gioielliche ricordanoterre lontaneispiranoi designerNascono cosìcollezioniall’insegnadell’ibridoe una mostrapariginaci spiega che...

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

Per i suoi abitini da cocktail, lo stilista dominicano Oscar de la Renta si è ispirato a terre lontane, sele-zionando un mix di tessuti dipinti con i colori della terra che sembrano arrivare direttamente dal mer-cato di Bamako, capitale del Mali. I modelli sono rivisitati però in chiave occidentale, per una seriedi tubini stile Grace Kelly e cappottini alla Audrey Hepburn. Anche il re dell’eleganza minimal, Gior-gio Armani, quest’estate ha deciso di guardare all’Oriente disegnando una serie di pantaloni alla tur-ca, con tanto di nodo sul ginocchio, proposti in sete dai colori neutri e in shantung cangianti. Il tutto

da portare con casacche ricamate che di etnico non hanno proprio nulla. Ma i due grandi della moda sono stati solo i capofila di un filone che ha molti proseliti, sia nell’universo fa-

shion sia nel mondo del design. L’acclamato designer britannico Matthew Williamson, favorito dalle gio-vani star (Kate Moss e Sienna Miller in testa), per esempio, ha deciso di ispirarsi ai motivi tribali sfornandomorbidi caftani di voile multicolore con pettorine ricamate. Stella McCartney si è divertita a giocare con leperline multicolori usate dai Masai per creare sandali e borsette che stanno andando a ruba nelle boutiquedi grido di Londra e New York. Mentre il gruppo Benetton ha messo in vendita un’intera collezione battez-zata United colors of Africa.

I segnali, insomma, arrivano da più direzioni: per essere veramente alla moda, quest’estate, bisognerà pren-dere spunto da mille culture differenti. Africa e Cina, India e Thailandia, Giappone e Messico. Ma anche Fran-cia, Inghilterra e Spagna. Paesi diversi contraddistinti da tradizioni estetiche particolari da mescolare insiemeper ottenere una sorta di melting pot all’avanguardia. Uno stile globale, dunque, che richiami alcuni elementitipici di questa o quella cultura rielaborandoli però in una mescolanza che di esotico ha solo un vago sapore.Perché il melting pot dell’estate 2008 è molto diverso dai vari trend etnici che già in passato hanno periodica-mente contagiato le passerelle di tutto il mondo. «Da sempre mi affascinano e mi ispirano culture lontane dal-la nostra: trovo che varietà e diversità siano un insostituibile cibo per la mente», conferma lo stilista Roberto Ca-valli, da sempre attento osservatore di usi e costumi che arrivano da lontano, «il mio esotismo però non è maidiretto e letterale». Quest’anno per esempio Cavalli ha deciso di ispirarsi all’America latina utilizzando i coloriaccesi, i motivi floreali, i ricami a filo tipici di quel continente per photoprint digitali che ha trasferito su voile im-palpabili ad effetto tromp-l’oeil. «Mi piace reinterpretare e scardinare le mie fonti, incrociare riferimenti distantie apparentemente inconciliabili», spiega lo stilista, «per ottenere un risultato che alla fine è solo mio».

Dalla moda al design la tendenza resta integra. Anche sul fronte dell’arredamento le influenze di mondi di-versi si fanno sentire oggi più che mai. Alcune case, come Roche Bobois, propongono diverse collezioni ognu-na delle quali si ispira a un periodo storico o culturale diverso. Qualche esempio? I mobili della linea Hortense,che sembrano usciti dal castello di Luigi XV, o i divani Mah Jong, sedute basse che richiamano i sofà delle tendeberbere rivestiti però con fantasie pop firmate dai big della moda come Missoni. Altri marchi, a cominciare daEdra, si limitano a scoprire, di anno in anno, tradizioni e paesi diversi. Così, se nella passate stagioni andava perla maggiore il design di ispirazione sudamericana lanciato dai famigerati fratelli Campana, autori della sediaFavela, quest’anno al prossimo Salone del mobile di Milano Edra lancerà il divano Odalisca. Di chiara conta-minazione araba.

Africa, Oriente, Occidentecontaminare è di moda

JACARANDA CARACCIOLO FALCK

DRAGHI MAGICIUn tocco esotico

per arredare la casa?Basta scegliere i dragoni

in ferro anticatodi Maison coloniale

In diverse dimensioni

TRAME DAL MONDO/1Sopra e a sinistra, tessutigiapponesi in crêpe di setaper kimono del 1900Al margine della pagina:motivi di tappetiBukhara, Uzbekistan

VECCHI PORTAFORTUNASi rifanno ai braccialetti

portafortuna usati dai marinaiportoghesi nel Seicento

i charm in metallo della lineadi gioielli Louis Vuitton

PELLE CIOCCOLATOPelle color cioccolatocon bordi di tessutoa stampa geometricaper la borsa da giornodi Pollini. Manico in cuoiointrecciato e fibbia

SEXY ORIENTESi ispira ai kimono

giapponesil'abitino di setagrigia stampato

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LA MOSTRAIn programmafino al 19 luglio 2009la mostra PianetaMeticcio al Muséedu quai Branlydi Parigi presentauna carrellatadi oggetti,opere d’artee costumi simbolodella “mescolanza”culturaledello scorso secolo

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA30MARZO2008

L’uomo ideale è l’uomo mescolato. Lo diceva Michel deMontaigne, una delle più acuminate coscienze criti-che dell’Occidente moderno. All’indomani della sco-

perta del nuovo mondo, il grande filosofo francese stendeva,con tre secoli di anticipo, il manifesto del melting pot. Ve-dendo nell’incrocio fra gli uomini e le culture non solo unanecessità storica, ma una chance di civiltà. Non solo una me-scolanza inevitabile, ma auspicabile. Addirittura indispen-sabile in un mondo che nel Cinquecento presentava già i pri-mi chiari sintomi di quel comune destino meticcio che oggichiamiamo globalizzazione.

Da allora l’espansione impetuosa dell’Occidente ha molti-plicato in maniera esponenziale l’ibridazione tra le culture.Lingue, mode, cucine, stili di vita, oggetti, saperi, filosofie,credenze. Tutto agitato e rimescolato da questo gigantescomixer planetario che si chiama occidentalizzazione. Una ve-ra e propria colonizzazione dell’immaginario, per usareun’espressione cara a Serge Gruzinski curatore, con Alessan-dra Russo, di una bella mostra in corso a Parigi, al Musée duquai Branly, ed intitolata per l’appunto Planète métisse. Un’e-sposizione fatta di oggetti che sono l’immagine concreta del-l’incontro fra culture e visioni del mondo differenti che cer-cano di modellarsi le une sulle altre, per imitazione o per con-trasto. Abiti, gioielli, acconciature, tessuti, opere d’arte, film,pubblicità, stoviglie. Il melting pot planetario diventa con-cretamente visibile in questi oggetti che fanno da interfacciatra civiltà e mondi diversi. Mescolando segni, codici, esteti-che, degli uni e degli altri.

La moda in questo senso offre esempi straordinari di conta-minazione. La preziosa collezione Bambara di Ives Saint Lau-rent, i coloratissimi modelli Masai creati da John Galliano per laMaison Dior. E ancora le fastose cineserie di Chanel o i rutilan-ti abiti di piume di pappagalli amazzonici di Jean-Paul Gaultier.È un trionfo dell’ibridazione, la celebrazione di un trompe-l’oeil etnico, in cui niente è quel che sembra. Un kimono chenon è un kimono, un diadema da capo indiano che in realtà èun bolerino da gran sera. Un modo per mettersi addosso l’altro:lussuoso nella haute couture, low cost nella moda pronta.

E se la moda fornisce uno sterminato catalogo di oggetti fu-sion, il design, la tecnologia, la cucina non sono certoda meno. Materiali, forme, colori, motivi, usi e riusidanno corpo a quel gioco di sguardi reciproci che èla sostanza stessa del melting pot. Il crogiuolo incui umanità diverse si fondono e si assemblano incombinazioni inedite. Qualcosa si perde, qualco-sa si guadagna. Ma soprattutto nessuno è più co-me era prima di mescolarsi. Sushi mediterraneo,tagliatelle tandoori, pizza fish and chips. Non solocibi. Ma emblemi di uno scambio senza fine e senzaconfine in cui ciascuno è colonizzatore e colonizzato,seduttore e sedotto. Nel vero senso della parola sedurre chesignifica sviare, portare altrove. Perché questa sterminatafantasmagoria di scelte ci fa letteralmente uscire da noi stes-si. Non siamo più quel che eravamo, ma non per questo di-ventiamo l’altro.

Oggi il villaggio globale non è più solo una metafora, è di-ventato una realtà concreta. E gli oggetti meticci sono la suanuova cultura materiale. Cose che sono al tempo stesso rap-presentazioni di una complessa mediazione tra identità inmovimento, di un rimescolamento generale, di una deloca-lizzazione delle anime e degli immaginari.

Ormai il melting pot non riguarda più solo la società degliStati Uniti, ma sta trasformando tutto il mondo in un piane-ta meticcio. In cui fra incontri e scontri, attrazioni e repulsio-ni, aperture e chiusure, imitazioni e demonizzazioni, la diffe-renza diventa l’altra metà di noi.

Gli oggetti mutantidel pianeta meticcio

MARINO NIOLA

EQULIBRIO VITREOÈ firmato dalla grandecasa francese Laliqueil Budda color ambrain vetro semitrasparenteDa utilizzare comesoprammobile

EFFETTI TURCHISi può indossare soprai pantaloni o da sola,come mini vestito,la tunicadi Massimo DuttiIl motivo richiamale antiche stoffe turche

AMICO ELEFANTEIl braccialedi Roberto Cavalliin smalto neroha la chiusurain metallodorato a formadi testa di elefanteElegantee spiritososembra essereun omaggioa madre Africa

CALORE INDIANOTessuto aranciocon bordia contrastoper le ciabattineHogan ispirateai coloridell’Indiatradizionale

TARTANIspirazione

scozzeseper la classicaintramontabilescarpa Church

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anche con altridisegni tartan

MAL D’AFRICACollezione United

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FIORI BON TONDisegniorientaleggiantima taglioiperclassicoper il cappottinobon tonpropostoda VersaceDa abbinarealla borsain cocco bluelettrico

SMALTO RINASCIMENTALEBulgari lancia una linea di preziose borsette

da sera: in seta damascata di ispirazionerinascimentale. Hanno una bella chiusura

in smalto policromo. Perfette per i galaIDEA SAFARISono della collezione Safarii cuscini di Mastro Raphaela stampa animalier. Da abbinarea lenzuola e copriletto coordinati

TRAME DAL MONDO/2Qui a sinistra, teladell’Uganda. Sotto:tessuto tramatodi origine messicanaAl margine della pagina:stoffa giapponese degli anni Trenta

Repubblica Nazionale

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‘‘

‘‘l’incontroCaposcuola

PARIGI

Perché fare teatro con passio-ne e furore da più di qua-rant’anni? Crederci, viverci,prodigarsi, emozionarsi

ogni volta come il primo giorno, lavora-re fuori dai consumismi e con l’accani-mento per il dettaglio, l’artigianato, laricerca di momenti che sappiano la-sciare tracce? «Perché è fantastico farlocon una compagnia», risponde col suolucente sorriso infantile Ariane Mnou-chkine, grande madre del teatro di ri-cerca, massima regista donna del no-stro tempo, fondatrice e guida del Théâ-tre du Soleil, un mito per le arti scenichedal vivo. «Si fa teatro per partire alla ven-tura, mollare a ogni spettacolo gli or-meggi, attraversare oceani sconosciuti,scoprire isole di salvezza. Per stare inuna dimensione incantata in mezzo aun mondo che non sa più guardare. Peravere i propri amori e amici nello stessoposto ed essere nomade».

Siamo alla Cartoucherie, dentro alsuo regno. Anche chi non sa nulla diquesta maestra della scena — del suoteatro dinamico e cangiante, delle suestorie capaci di tragitti autentici e riso-luzioni finali — non può non farsi cattu-rare dal clima della sede del Théâtre duSoleil, troupe di una settantina di ele-menti variegata per razze, età, accenti ecolori. La loro “casa” è un seducentespazio di archeologia industriale distri-buito nei capannoni di un’antica fab-brica di cartucce (per questo si chiamaCartoucherie) nel verde del bosco diVincennes, alle porte di Parigi. Un pae-se delle fate. Il pubblico sente un miste-ro speciale, percepisce la rilevanzaumana del territorio e la sapienza del ri-to. Sapienza con leggerezza. Senza toni

hippistici o messianici, né vezzi di co-munitarismo anni Settanta. Qui si reci-ta, si prova, si improvvisa, si sondano iclassici, si discute, ci si consuma su un’i-dea o su un testo, si punta a reperireframmenti di umane verità. Semplice-mente.

«La mia troupe è una difesa moralecontro il tradimento, l’abbandono, il ci-nismo, l’avarizia e l’avidità. Control’immobilità e l’esagitazione. Di certo èuno dei migliori antidoti contro l’arro-ganza e il narcisismo», incalza Ariane,ragazza di sessantanove anni con chio-ma tempestosa sale e pepe, voce chiarae bellissima, come lo sguardo, e grandecorpo affidabile, perché severo e al tem-po stesso accogliente. «Stare con unacompagnia è un apprendistato costan-te sul prossimo e se stessi. Si esercita l’a-scolto e va bandita la pigrizia. Senza ilcarico di questa nave, che rischia diaffondare se si sbaglia manovra, sareipigra e velleitaria: sono troppo curiosadi tutto». Come sceglie gli attori? «È unmoto del cuore. Faccio seminari di dueo tre settimane e alla fine chiedo a certidi restare. Riconosco una febbre,un’immaginazione, una credulità, unafollia. Una capacità di conservare l’in-fanzia. La compagnia si rinnova conti-nuando a nutrirsi dell’esperienza deipiù anziani».

Negli anni Sessanta, quando partìl’impresa, ci fu l’accesa fase dell’impe-gno con La Cuisine di Arnold Wesker,presentata nelle fabbriche occupate, enel ciclone del Sessantotto il Théâtre duSoleil divenne portabandiera di uno spi-rito teatrale nuovo, libertario e colletti-vista, ma anche solido nella ricerca di ra-dici e nello studio delle tecniche: circo,mimo, cabaret, commedia dell’arte, ilgusto visionario per la maschera e iltrucco. Insieme a tutto questo la sacra-lizzazione della festa, la forza dell’en-semble contro i divismi, lo spettacolocome critica sociale. Seguono gli spetta-coli favolosi 1789 e 1793, su speranze edisillusioni della Rivoluzione francese,il capolavoro epico L’Âge d’Or, il teore-ma crudele di Mephisto, sulle responsa-bilità degli intellettuali tedeschi nell’a-scesa del nazismo, e i poderosi Shake-speare orientalisti degli anni Ottanta: unRichard II in forma kabuki, una Nuit desrois in stile kathakali, la grande sintesidell’Henri IV. Preme il dibattito sullastoria attuale con una creazione sul ge-nocidio in Cambogia perpetrato nel se-gno di Marx e Mao, e con l’epopea del-l’Indiade, dedicata alla lacerante nasci-ta dell’India nel ‘47. Poi Les Atrides, sagasulla tragedia greca ancora in chiaveorientale, e riletture di classici come ilTartuffe di Molière. Fino al recente, tu-multuoso viaggio del Dernier Caranva-sérail, sul travaglio dei sans papier perapprodare in Francia. La recherche pro-cede, avanza, si trasforma, esplora temiroventi dei nostri giorni.

A dispetto della sua totalizzante voca-zione esistenziale, Ariane è “figlia” nondel teatro, ma del cinema: suo padre,

gro: «Per me, da bambina, i bombarda-menti erano magnifici fuochi d’artificioche guardavamo dal giardino. I miei sirifiutavano di scendere in cantina: era-no liberi, stravaganti». Quando tornòcon la famiglia a Parigi, nel ‘47, prese adaccompagnare il padre sui set, scopren-do «un universo che mi eccitava e scon-volgeva. Rimasi abbagliata dalle ripresede L’aquila a due teste di Jean Cocteau,con la scena in cui la regale EdwigeFeuillère cade all’indietro su una scala emuore. E quando si girava Fanfan la Tu-lipe, con Gérard Philipe, aiutavo a puli-re i cavalli, m’immischiavo di tutto. Mipiacevano i tecnici e i cascatori, moltopiù degli attori, divinità inaccessibili.Mi sentivo vicina agli artigiani che ren-devano il miracolo possibile. Ma sape-vo che mi sarei potuta perdere tra quel-le luminarie. Cercavo altrove la mia iso-la: volevo un luogo in cui trasformare ilmondo». Dopo il liceo va a Oxford, «do-ve all’epoca era diffusa e di ottimo livel-lo l’attività di teatro universitario: face-vano i registi studenti quali John MacGrath e Ken Loach. Lavorai come assi-stente per alcuni spettacoli e fu lì cheuna sera, salendo in autobus dopo unaprova, ebbi il colpo di fulmine. Com-presi che era quella la mia vita, e che nonavrei fatto altro fino alla morte».

Tra i vari “credo” della santona, tutt’al-tro che mistica («sono una laica radicale,non ho alcuna chiesa») e sempre venera-ta dal pubblico giovanile, c’è la convin-zione che «il realismo è per noi un nemi-co. Perché il teatro, e l’arte tutta, vuol di-re trasposizione o trasfigurazione. Unpittore non dipinge una mela, bensì unamela dipinta. Dunque la fa apparire: lascena è uno spazio di apparizioni». Spie-ga che è fondamentale la capacità d’im-provvisare per creare: «Nell’improvvisa-zione, su cui si basa il montaggio dellospettacolo, l’attore deve proporre una si-tuazione semplice, chiara, con dettagliconcreti e azioni definite. E deve saper ri-nunciare a ciò che ha previsto per coglie-re quanto accade, perché il teatro è sem-pre l’arte del presente».

In questi giorni, alla Cartoucherie, èin scena Les Ephémères, che debuttò a fi-ne 2006: «Un’epopea dell’intimo», ladefinisce il capitano della nave Ariane.Spettacolo gigantesco, traversa la storiadella Francia dagli anni Quaranta a og-gi. La guerra, il nazismo, piccole e gran-di storie di famiglia collezionate dallememorie degli attori, inclusa la vicendadei nonni ebrei deportati e fantasticatidalla bambina Ariane. Un monumentoalle emozioni del privato di durata iper-bolica: sette ore in due parti di tre ore emezza visibili in sere successive, oppu-re tutte di seguito il sabato e la domeni-ca, inizio nel primo pomeriggio e fine atarda sera: «Ma il pubblico sembra nonstancarsi, si commuove, partecipa, e c’èanche chi torna a vedere lo spettacolo».

Questo gioco di scene in successione(secondo Ariane «alcune sono piccoliincendi e altre inondazioni o tempeste,alcune sono un fiume che scorre e altre

Alexandre Mnouchkine, era un produt-tore cinematografico che fece film conCocteau, Philippe de Broca, Alain Cava-lier, Alain Resnais: «Il tipico russo conaccento formidabile, un misto di follia econformismo. Un uomo buffo, energi-co, meraviglioso, con una fiducia asso-luta in me. Mi ha sempre amata e soste-nuta in ogni scelta. Mi raccontò solomolto tardi di essere di origine ebrea.Durante la guerra eravamo rifugiati aCaudéran, vicino a Bordeaux, e lo vidipiangere mentre leggeva a mia madre lalettera che i nonni, internati a Drancy,erano riusciti a fargli pervenire primadella deportazione. Mia mamma era in-glese, figlia di un diplomatico bello co-me un dio, Nicholas Hannen, che lasciòmoglie e figli per fare l’attore all’Old Viccon Laurence Olivier. Papà la conobbein Francia, dov’era venuta a studiare. AParigi viveva in una pensione di fronte aimiei nonni paterni. Era di bellezza ecce-zionale, e pare che la madre di mio pa-dre, dopo averla vista, decidesse di de-stinarla a tutti i costi al figlio».

Ricorda la guerra in modo quasi alle-

il sasso nella scarpa che ferisce la pian-ta del piede») ha avuto mesi di repliche,è stato applaudito in tournée e celebra-to al festival di Avignone l’estate scorsa,a gran richiesta è tornato quest’anno aParigi (fino al 20 aprile) e in maggio saràa Vienna. Un’ora prima dell’inizio dellospettacolo le porte si aprono e Arianestrappa i biglietti all’ingresso, e può ca-pitare di vederla servire al ristorante du-rante l’intervallo. Dagli oblò ritagliatinelle tende che proteggono l’accesso aicamerini, lo spettatore di passaggio,nelle pause, spia gli interpreti che sitruccano, parlano, mangiano, dormo-no. Svelamenti preziosi.

Les Ephémères è un puzzle di senti-menti vivi che contraddice la Mnou-chkine più politica: tenace paladina de-gli immigrati, intellettuale che ha rifiu-tato la nomina a professore associatodel prestigioso Collège de France pernon essere considerata collaboratricedel «regime» di Sarkozy (è accadutol’anno scorso, e nello stesso periodo ri-ceveva il Leone d’Oro alla carriera dallaBiennale Teatro di Venezia). «Che signi-fica spettacolo “politico”? Tendenzio-so? Partigiano? In questo momentousare il termine è pericoloso. E comun-que ogni linguaggio che cerca la verità èpolitico», replica lei. Les Ephémères,prosegue col consueto fervore, «è so-prattutto lo spettacolo delle personeche oggi compongono il Théâtre du So-leil: istanti fondatori di esistenze. Loscopo era narrare attimi autentici e toc-canti, umanità e pietà fatta di gesti mi-nuti. Incontri che dimostrano coraggioe capacità di fratellanza. Li chiamereisalvatori. Altri mostrano vergogna,viltà, ostinata indifferenza. Sono i gua-statori. Noi siamo salvatori e guastatoridella nostra vita, naufraghi e soccorrito-ri. Era tempo di parlare di questo, di oc-cuparci del cuore».

Partire alla ventura,a ogni spettacolomollare gli ormeggiPer starein una dimensioneincantatain un mondo chenon sa più guardare

È la massima regista donnadel nostro tempo, la grande madredel teatro di ricerca. Una ragazzadi 69 anni dalla voce e dallo sguardochiari e bellissimi, che regna

sulla Cartoucherie di Vincennes,alle porte di Parigi,sede del suo Théâtredu Soleil. “La miatroupe”, racconta,“è una difesa moralecontro il tradimento,

l’abbandono, il cinismo, l’avariziae l’avidità.Di certo è un antidotocontro l’arroganza e il narcisismo”

LEONETTA BENTIVOGLIO

Ariane Mnouchkine

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52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA30MARZO2008

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