© 1990 Elizabeth Jane Howard
© 2015 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Titolo originale: The Light Years
Traduzione dall’inglese di Manuela Francescon
ISBN: 978-88-7625-871-8
www.fazieditore.it
www.facebook.com/fazieditore
@FaziEditore
www.youtube.com/EditoreFazi
Google plus Fazi Editore
PARTE PRIMA
Lansdowne Road
1937
La giornata cominciò alle sette meno cinque: la sveglia (sua madre gliel’aveva
regalata quando era andata a servizio) si mise a suonare e continuò imperterrita
finché Phyllis non la ridusse al silenzio. Sul cigolante letto di ferro sopra il suo,
Edna gemette e si girò, rannicchiandosi contro la parete; perfino d’estate odiava
alzarsi, e d’inverno capitava che Phyllis dovesse strapparle di dosso le lenzuola. Si
mise seduta, si sciolse la retina e cominciò a togliersi i bigodini. Quel giorno aveva
il pomeriggio libero, si sarebbe lavata i capelli. Scese dal letto, raccolse la trapunta
che era finita in terra durante la notte e aprì le tende. La luce del sole ingentilì di
colpo la stanza, trasformando il linoleum in caramello e donando una tonalità blu
ardesia alle scheggiature del catino lavamani di smalto bianco. Si sbottonò la
camicia da notte di flanella leggera e si lavò alla maniera che le aveva insegnato
sua madre: il viso, le mani e poi – ma con circospezione – le ascelle, con un panno
imbevuto d’acqua fredda. «Muoviti», disse a Edna. Buttò l’acqua sporca nel
secchio e cominciò a vestirsi. Si tolse la camicia da notte restando con la sola
biancheria e si infilò il vestito di cotone verde scuro che usava la mattina. Sistemò
la cuffia sui boccoli grossi come salsicce – non li aveva spazzolati – e si legò il
grembiule attorno alla vita. Edna, che al mattino si lavava appena, riuscì a vestirsi
mentre era ancora a letto: un retaggio dell’inverno (la stanza non era riscaldata e
per nessun motivo al mondo avrebbero aperto la finestra). Alle sette e dieci erano
entrambe pronte a scendere con passo lieve nella casa ancora immersa nel sonno.
Phyllis si fermò al primo piano e aprì la porta di una delle camere. Tirò le tende e
udì il pappagallo fremere impaziente nella sua gabbietta.
«Miss Louise! Sono le sette e un quarto».
«Oh, Phyllis!».
«Mi ha chiesto lei di svegliarla».
«È una bella giornata?».
«C’è sempre un bel sole».
«Togli il panno dalla gabbia di Ferdie».
«Se non lo faccio, si alzerà prima».
In cucina (giù nel seminterrato) Edna aveva già messo a bollire l’acqua e stava
sistemando le tazze sul tavolo tirato a lucido. Dovevano preparare due teiere:
quella marrone scuro a strisce per le domestiche, da cui Edna versava una tazza per
Emily, la cuoca, e la teiera di porcellana Minton, già pronta sul vassoio insieme a
tazze e piattini, bricco del latte e zuccheriera abbinati, destinata al piano di sopra. Il
tè mattutino dei coniugi Cazalet era compito di Phyllis. Dopo, avrebbe raccolto
tazzine e bicchieri dal salotto, che era compito di Edna arieggiare e pulire. Prima,
però, era il loro turno di bere due belle tazze bollenti di tè indiano forte. Quello
riservato al piano di sopra era cinese; Emily diceva che non ne sopportava neppure
l’odore, figuriamoci berlo. Lo bevvero in piedi, prima ancora di mescolare lo
zucchero.
«Come va il foruncolo?».
Phyllis si tastò con cautela un lato del naso.
«Mi pare stia passando. Per fortuna non l’ho schiacciato».
«Te l’avevo detto». Edna, pur non avendone, era un’autorità in fatto di
foruncoli; i suoi consigli, forniti con prodigalità e con un certo piglio polemico,
erano se non altro confortanti: Phyllis li vedeva come una premura nei suoi
confronti.
«Be’, questo non ci renderà milionarie».
Niente lo farà, rimuginò cupamente Edna. Seppur debole di costituzione,
Phyllis aveva tutte le fortune. Edna pensava che Mr Cazalet fosse davvero
affascinante, ma lei non lo aveva mai visto in pigiama, come a Phyllis capitava
tutte le mattine.
* * *
Nell’istante in cui Phyllis chiudeva la porta, Louise saltò giù dal letto e tolse il
panno da sopra la gabbia del pappagallo. L’uccello prese a saltellare fingendosi
spaventato, ma lei sapeva che era contento. La sua camera, affacciata sul giardino
posteriore, riceveva qualche raggio di sole mattutino, che lei era convinta gli
facesse bene, e la gabbia era collocata di fronte alla finestra, accanto alla palla di
vetro con i pesci rossi. Era una stanza piccola, straripante delle sue cose:
programmi di teatro, coccarde e un paio di minuscole coppe che aveva vinto alle
gare di equitazione, gli album di fotografie, il mobiletto di legno di bosso dai
cassetti stretti dove teneva la sua collezione di conchiglie, gli animali di porcellana
esposti sulla mensola del caminetto, il lavoro a maglia posato sul comò assieme al
suo prezioso rossetto magico, che sembrava arancione ma diventava rosa una volta
dato sulle labbra, la crema per il viso e una scatola di talco profumato, la sua
miglior racchetta da tennis e soprattutto i suoi libri, da Winnie the Pooh ai suoi più
recenti e adorati acquisti, due volumi della Phaidon Press con riproduzioni di tele
di Holbein e Van Gogh, che al momento erano i suoi artisti prediletti. Il comò era
colmo di vestiti che in buona parte non indossava mai, mentre la scrivania di
quercia inglese – regalo di suo padre per il suo ultimo compleanno –, un ceppo
dalla grana rara e pregiatissima, conteneva i suoi tesori più segreti: una foto
autografata (nientemeno) da John Gielgud, i gioielli, uno smilzo pacchetto di
lettere che suo fratello Teddy le aveva scritto dal collegio (parlavano soprattutto di
sport e facezie, ma erano pur sempre le uniche lettere che avesse mai ricevuto da
un ragazzo) e la sua collezione di ceralacche, che Louise era persuasa fosse la più
ricca della nazione. C’era anche un ampio e vecchio baule contenente i vestiti delle
grandi occasioni: abiti da sera smessi di sua madre, corpetti ricoperti di perline,
scampoli di chiffon e di raso, giacche di velluto stampato, sciarpe impalpabili a
motivi orientali, scialli appartenenti a un’altra epoca, seducenti stole di piume
sudice, una vestaglia cinese ricamata a mano dono di qualche parente tornato da un
viaggio, pantaloni e casacche in raso – tutta roba usata per le recite in famiglia. Ad
aprirlo, il baule sprigionava un odore misto di profumi vecchi e tarme ed emozioni
forti, quest’ultimo un sentore vagamente metallico che, pensava Louise, doveva
provenire dalla quantità di oro e argento ossidato nell’ordito di certi vecchi
costumi. Travestirsi e recitare erano passatempi invernali; ormai era luglio e
l’attendevano le infinite, meravigliose vacanze estive. Si mise una casacca di lino e
una maglietta di cotone traspirante – rossa, la sua preferita – e uscì per portare
fuori Derry.
Derry non era il suo cane. Non le permettevano di averne uno e dunque, in
parte per tener vivo il risentimento, ogni mattina portava a passeggio per il
quartiere il vecchissimo bull terrier dei vicini. L’altro aspetto positivo di
quest’abitudine era il fatto che la casa in cui viveva Derry l’affascinava. Era
enorme – la si vedeva anche dal giardino sul retro – ma non somigliava per niente
a casa sua, né del resto a quelle dei suoi amici. Non c’erano bambini. Il domestico
che le apriva la porta la lasciava sempre sola per qualche minuto per andare a
prendere il cane, dandole il tempo di gironzolare sul pavimento a scacchi bianchi e
neri dell’ingresso fino alla doppia porta che immetteva in una lunga galleria dalla
quale si scorgeva il soggiorno. La stanza versava ogni mattina in uno stato di
languido disordine, come dopo una festa: c’era odore di sigarette egiziane, le stesse
che fumava zia Rachel, e una gran quantità di fiori di varietà profumate: giacinti a
primavera, gigli, come ora, garofani e rose d’inverno; ovunque erano sparsi cuscini
di seta colorata e bicchieri a dozzine, scatole di cioccolatini aperte e a volte tavoli
da gioco con mazzi di carte e taccuini segnapunti e matite con le nappine. La
stanza era sempre in penombra, con le tende di morbida seta tirate a metà. Louise
immaginava che i proprietari, che non aveva mai visto, fossero ricchi in modo
inimmaginabile, probabilmente stranieri e forse un po’ decadenti.
Derry – si stimava avesse tredici anni, ovvero novantuno, secondo le Tavole
dell’Età Canina stilate da Louise – era un cane piuttosto noioso da portare a spasso:
il massimo che ci si poteva aspettare da lui era una tranquilla passeggiata con
frequenti e interminabili soste ai lampioni, ma a lei piaceva lo stesso tenerlo al
guinzaglio, perché poteva sorridere ai passanti con un piglio autorevole che li
avrebbe convinti che quello era il suo cane; e poi viveva nella speranza che uno
degli abitanti della casa o uno dei loro decadenti amici perdesse i sensi in quel
salotto, dandole così la possibilità di studiarlo. Doveva essere una passeggiata
breve perché l’aspettava un’ora dei suoi esercizi prima di colazione, cioè fino alle
nove meno un quarto, e poi un bagno freddo, che a detta di suo padre faceva un
gran bene. Aveva quattordici anni, e certe volte si sentiva giovane e pronta a tutto,
certe altre illanguidita dall’età, esausta al solo pensiero di dover fare quanto ci si
aspettava da lei.
Una volta riconsegnato Derry, incontrava il lattaio, di cui conosceva bene il
pony, Peggy: le aveva coltivato dell’erba in uno straccio di flanella, perché Peggy
non andava mai in campagna e chiunque avesse letto Black Beauty sapeva quanto
fosse terribile per un cavallo non stare mai in mezzo ai campi.
«Giornata splendida», osservò Mr Pierce, mentre lei accarezzava il naso di
Peggy.
«Splendida, sì».
«Quante volte ho visto un raggiante mattino»1, borbottava tra sé mentre
passava oltre. Se si fosse sposata, suo marito avrebbe di certo giudicato
ammirevole la sua capacità di trovare un verso di Shakespeare a commento di
qualunque cosa succedesse. D’altra parte, era possibile che invece non si sposasse
affatto, tanto più che, a detta di Polly, il sesso era una gran seccatura e da sposate
non c’era verso di farne a meno. Magari Polly si sbagliava, certo; le capitava
sovente, e Louise aveva notato che era incline a bollare come “seccature” tutte le
cose che non le andavano a genio. «Tu non sai proprio niente in proposito,
George», aggiunse. Suo padre chiamava George tutti quelli che non conosceva,
tutti gli uomini almeno, e quella era una delle sue frasi preferite. Suonò tre volte il
campanello in modo che Phyllis capisse che era lei. Non sia mai ch’io ponga
impedimenti all’unione di anime fedeli2. Un po’ risentito, ma comunque nobile. Se
solo fosse stata egiziana, avrebbe potuto sposare Teddy come facevano i faraoni:
dopotutto Cleopatra era il risultato di sei generazioni d’incesti, qualunque cosa
fosse poi l’incesto. Lo svantaggio nel fatto di non andare a scuola era che là
s’imparavano un bel po’ di cose e lei, durante le vacanze di Natale, aveva
commesso lo stupido errore di fingere con sua cugina Nora, che a scuola ci andava,
che il sesso fosse per lei cosa risaputa, e invece non era riuscita a scoprire niente al
riguardo. Proprio quando era sul punto di suonare di nuovo, Phyllis aprì la porta.
* * *
«Potrebbe entrare Louise».
«Sciocchezze! È fuori col cane». Prima che potesse aggiungere altro, lui le
posò la bocca guarnita di baffi ispidi sulle labbra. Dopo alcuni istanti trascorsi così,
lei si tirò su la camicia da notte e lui le montò sopra. «Villy mia...», disse tre volte
prima di venire. Con Viola non ce l’aveva mai fatta. Quand’ebbe finito emise un
gran sospiro, ritirò la mano dal suo seno sinistro e la baciò sul collo.
«Tè cinese. Mi chiedo come fai ad avere sempre questo profumo di violette e tè
cinese. Tutto bene?», aggiunse poi. Glielo domandava ogni volta.
«Benissimo». Lei la definiva tra sé una bugia bianca, e anno dopo anno aveva
cominciato a trovarne rassicurante il suono. Lo amava, ovviamente, perciò che
altro poteva dire? Il sesso dopotutto era per gli uomini. Le donne, quelle perbene
almeno, non dovevano curarsene, sebbene sua madre (l’unica volta in cui aveva
toccato seppur alla lontana l’argomento) le avesse detto con gran serietà che il
peggior errore era negarsi al marito. Perciò lei non si era mai negata e se, diciotto
anni prima, quando aveva scoperto cosa succedeva in realtà, ne era rimasta
scioccata e aveva provato un dolore lancinante, la consuetudine aveva disciolto
questi sentimenti in un senso di paziente ripulsa, accompagnato dalla convinzione
che quello fosse un modo per dimostrargli il suo amore, e perciò giusto in quanto
tale.
«Riempimi la vasca, caro», gli disse mentre usciva.
«Subito».
Si versò una seconda tazza di tè, ma era freddo, così si alzò e aprì l’ampio
armadio di mogano per decidere cosa mettersi. Quella mattina doveva portare
Nanny e Lydia da Daniel Neal per comprare della roba estiva, poi andava a pranzo
con Hermione Knebworth e dopo con lei al suo negozio, per vedere se c’era
qualche bell’abito da sera: in quel periodo, prima che tutti partissero per l’estate,
Hermione aveva sempre dei capi in svendita. Poi le toccava andare a trovare sua
madre, perché il giorno prima non aveva fatto in tempo, ma non si sarebbe fermata
a lungo perché doveva tornare a cambiarsi per andare a teatro e a cena coi Waring.
Ma non poteva presentarsi da Hermione senza fare almeno un tentativo di apparire
elegante. Optò per l’abito di lino color avena con nastri blu scuro ai bordi che
aveva comprato da lei l’anno prima.
La vita che conduco, pensò (non era un pensiero nuovo, ma un’idea su cui
tornava spesso) è quella che ci si aspetta da me: quella che i bambini si aspettano,
che mamma si è sempre aspettata e che di sicuro anche Edward si aspetta. È quello
che succede a chi si sposa, e di certo non a tutte capita di sposare un uomo
attraente e buono come Edward. Il senso di aver compiuto una scelta – e di averla
compiuta prima del tempo – veniva vanificato dalla dimensione del dovere, a cui
era grata: lei era una persona seria condannata a uno stile di vita più vacuo di
quello che avrebbe potuto sostenere (se le cose fossero andate in modo molto
diverso). Non era infelice, però avrebbe potuto essere stata assai di più.
Mentre attraversava il pianerottolo per raggiungere l’ampio spogliatoio di suo
marito, da cui si accedeva al bagno, sentì Lydia gridare qualcosa all’indirizzo di
Nanny, segno inequivocabile che la bambinaia le stava facendo i codini. Dal piano
di sotto salirono le prime note di un esercizio in do maggiore di von Bulow. Louise
si esercitava al piano.
* * *
La sala da pranzo aveva porte finestre affacciate sul giardino. Era arredata in
modo essenziale: otto magnifiche sedie Chippendale, dono di nozze del padre di
Edward, un grande tavolo di legno di cocco che al momento era coperto da una
tovaglia bianca, un buffet con degli scaldavivande elettrici contenenti rognone,
uova strapazzate, pomodori e bacon, pareti color panna, quadri dipinti su pannelli
di legno, applique con piccoli paralumi a mezza conchiglia (imitazioni delle Adam
originali), un fuoco alimentato a gas che ardeva nel caminetto e una vecchia,
logora poltrona di cuoio su cui a Louise piaceva accoccolarsi per leggere. L’effetto
complessivo era di una bruttezza singolare e discreta, ma nessuno ci faceva caso, a
parte Louise, che trovava l’arredamento banale.
Lydia teneva il coltello e la forchetta ritti come le torri di Tower Bridge mentre
Nan le tagliava il bacon e i pomodori. «Dammeli pure, i rognoni, tanto li sputo»,
l’aveva già avvertita. Buona parte della loro conversazione mattutina consisteva in
reciproche provocazioni, ma poiché nessuna delle due andava mai a vedere il bluff
dell’altra, non c’era modo di sapere quali sarebbero state le conseguenze nel caso
in cui una delle due avesse dato corso alle proprie minacce. In realtà, Lydia sapeva
perfettamente che per nessuna ragione al mondo Nan avrebbe annullato la visita da
Daniel Neal, mentre Nan sapeva altrettanto bene che Lydia non avrebbe mai
sputato i rognoni né altro alla presenza del papà. Lui, papà, si era chinato a baciarle
il capo così come faceva ogni mattina e lei aveva quel suo delizioso profumo di
bosco misto ad acqua di lavanda. Ora si era seduto a capotavola di fronte a un
grosso piatto pieno di tutto ciò che veniva servito e una copia del «Telegraph»
appoggiata alla ciotola della marmellata d’agrumi. I rognoni erano poca cosa per
lui. Li tagliava facendone fuoriuscire il sangue disgustoso e orribile, che poi
raccoglieva con del pane tostato. Lydia bevve un po’ del suo latte facendo un gran
rumore, per fargli alzare gli occhi. D’inverno lui mangiava i poveri uccelli morti a
cui aveva sparato: pernici e fagiani con le zampette posteriori nere e ritratte. Non
alzò gli occhi, in compenso Nan le prese la tazza e la mise in un punto in cui non
arrivava. «Mangia», disse nel tono calmo e misurato che usava durante i pasti in
sala da pranzo.
Entrò la mamma. Rivolse a Lydia il suo adorabile sorriso e poi fece il giro del
tavolo per baciarla. Profumava di fieno e di un fiore speciale che a Lydia dava la
sensazione di dover starnutire, ma poi non starnutiva mai. Aveva bellissimi capelli
ricci con striature bianche che preoccupavano molto Lydia, perché non voleva che
sua madre morisse mai, cosa che invece accadeva facilmente a quelli coi capelli
bianchi.
Mamma disse: «Dov’è Louise?», domanda piuttosto sciocca, dato che si
sentivano ancora le note del pianoforte.
Nan disse: «Vado a chiamarla».
«Grazie, Nan. Forse l’orologio in salotto è fermo».
Mamma per colazione prendeva cereali, caffè e pane tostato, sempre con una
minuscola ciotolina di panna. Stava aprendo la posta, ovvero le lettere che
venivano fatte scivolare da sotto la porta di casa sul pavimento ben lucidato
dell’ingresso. Anche Lydia una volta aveva ricevuto della posta: in occasione del
suo ultimo compleanno, quando aveva compiuto sei anni. Quel giorno aveva anche
cavalcato un elefante, preso del tè insieme al latte e indossato le sue prime scarpe
coi lacci. Le era parso il giorno più bello della sua vita, e dire che ormai alle spalle
ne aveva tanti, di giorni. La musica s’interruppe e Louise entrò nella stanza
scortata da Nan. Adorava Louise, che era già così grande e d’inverno portava le
calze.
Adesso Lou diceva: «Vai fuori a pranzo, mamma? Lo vedo da come sei
vestita».
«Sì, cara. Ma verrò a trovarti prima di uscire insieme a papà».
«Dove andate?».
«Andiamo a teatro».
«A vedere cosa?».
«Una commedia intitolata L’imperatore d’America. Di George Bernard Shaw».
«Beati voi!».
Edward alzò il naso dal giornale. «Con chi ci andiamo?».
«I Waring. Prima andiamo a cena. Sette in punto. In abito da sera».
«Di’ a Phyllis di preparare il mio».
«Io non vado mai a teatro!».
«Louise! Non è vero affatto. Ci vai ogni Natale. E anche come regalo di
compleanno».
«Non contano i regali. Voglio dire che non ci vado come abitudine. Sarà il mio
lavoro, dovrei andarci».
Villy fece finta di niente. Leggeva la prima pagina del «Times». «Accidenti, è
morta la madre di Molly Strangeways».
«Quanti anni aveva?», domandò Lydia.
Villy alzò lo sguardo. «Non lo so, cara. Credo fosse molto vecchia».
«Aveva i capelli molto bianchi?».
S’intromise Louise: «Come decidono quali di quelli che muoiono mettere sul
“Times”? Scommetto che ogni giorno, al mondo, muore molta più gente di quanta
riesce a starne in una pagina. Come fanno a decidere chi sì e chi no?».
Le rispose suo padre: «Non scelgono. Chi vuole il suo nome sul giornale paga
per averlo».
«Anche il re deve pagare?».
«No. Per lui è diverso».
Lydia, che aveva smesso di mangiare, disse: «Quanto vivono le persone?». Ma
lo disse piano piano, e nessuno fece caso alla domanda.
Villy, che si era alzata per versarsi dell’altro caffè, lanciò un’occhiata alla tazza
di Edward e gliela riempì. «Oggi Phyllis ha il giorno libero. Ci penso io a
prepararti i vestiti. Cerca di non fare tardi».
«E quanto vivono le mamme vecchie?».
Vedendo l’espressione sul volto di sua figlia, Villy si affrettò a rispondere:
«Tantissimo tempo. Pensa a mia madre... e alla madre di papà. Sono entrambe
molto vecchie, ma stanno benissimo».
«Certo, uno può sempre morire ammazzato. Quello può succedere a qualsiasi
età. Prendi Tebaldo, per esempio. O i Principi nella Torre».
«Che vuol dire ammazzati, Louise? Che vuol dire?».
«Oppure annegati in mare. Un naufragio», rincarò Louise con aria sognante.
Quanto le sarebbe piaciuto naufragare!
«Louise, vuoi star zitta? Non vedi che la spaventi?».
Ma era troppo tardi. Lydia era già scoppiata in singhiozzi. Villy la prese in
braccio e la strinse forte. Louise avvampò e mise il broncio, piena di vergogna.
«Su, piccolina. Vedrai che vivrò fino a diventare terribilmente vecchia... tu
diventerai grande e avrai dei bambini grandi come te adesso, che porteranno le
scarpe coi lacci e...».
«E giacche da cavallerizza?». Era ancora scossa dai singhiozzi, ma desiderava
tanto una giacca da cavallerizza – di tweed, con la cucitura in mezzo alla schiena e
le tasche, da indossare quando andava a cavallo – e quello le era parso un buon
momento per avanzare la sua richiesta.
«Vedremo». Villy rimise Lydia sulla sedia e Nan le disse: «Finisci il latte,
ora». Lydia aveva una gran sete e obbedì.
Edward, che aveva appena lanciato un’occhiata torva a Louise, disse: «E io?
Non vuoi che anche io viva per sempre?».
«Non tanto quanto mamma. Però sì, anche tu».
Louise disse: «Be’, io lo voglio. Quando avrai più di ottant’anni e sarai senza
denti e con la bava alla bocca, ti porterò in giro con la sedia a rotelle».
Questo fece scoppiare suo padre in una fragorosa risata che la riportò nelle sue
grazie, proprio come aveva sperato.
«Non vedo l’ora, davvero!». Si alzò in piedi e uscì dalla stanza portandosi
dietro il giornale.
«Sta andando al bagno. A fare la...».
«Basta così», la interruppe severa Nan. «Non si parla di queste cose, a tavola».
Lydia guardò Louise; aveva uno sguardo inespressivo, ma la bocca le tremava
alla maniera dei tacchini. Louise, come da copione, scoppiò in una gran risata.
«Bambine, bambine», le redarguì debolmente Villy. Lydia certe volte era
spassosa, ma l’amour propre di Nan andava pur sempre salvaguardato.
«Va’ di sopra, cara. Usciamo fra poco».
«A che ora dobbiamo essere pronte, Madam?».
«Direi verso le dieci, Nan».
«Voglio vedere i cavalli!». Lydia era scesa divincolandosi dalla sedia ed era
corsa alla porta finestra, che le aprì sua sorella.
«Vieni». Louise la prese per mano.
I cavalli erano legati alla staccionata nel giardino sul retro. Si trattava di lunghi
bastoni di colori diversi. Un ramo di platano era il pezzato; un ramo di colore
argenteo era il grigio; un pezzo di legno di betulla raccolto nel Sussex era il baio.
Ognuno era provvisto di elaborate cavezze, vasetti con erba tagliata posati a
fianco e cartoline con su scritti i loro nomi con gessetti colorati.
Lydia slegò il grigio e lo condusse al piccolo galoppo su e giù per il giardino.
Di tanto in tanto faceva un brusco salto e lo ammoniva: «Non devi saltare tanto!».
«Guarda come cavalco!», gridava. «Lou, guarda come sono brava!».
Ma Louise, che non voleva contrariare Nan e che comunque aveva meno di
un’ora prima che arrivasse Miss Milliment e in quell’ora voleva finire di leggere
Persuasione, si limitò a dire: «Ti ho vista», e se ne andò, proprio come avrebbe
fatto un adulto.
* * *
Edward, baciata Villy nell’ingresso e ricevuto da Phyllis il suo cappello di
feltro – in altri periodi dell’anno, Phyllis lo aiutava sempre a indossare il soprabito
–, prese la sua copia del «Timber Trades Journal» e uscì di casa. Lì fuori lo
aspettava la Buick, nera e lucente. Come sempre s’intravedeva la sagoma di
Bracken seduto al posto di guida, immobile come una statua di cera ma pronto a
scattare al solo apparire di Edward. Allora saltava fuori dall’auto e in men che non
si dica gli apriva cerimoniosamente la portiera.
«Buongiorno, Bracken».
«Buongiorno, sir».
«Al molo».
«Subito, sir».
Dopo questo scambio, che si ripeteva identico ogni mattina tranne le volte in
cui Edward voleva andare altrove, non si dicevano altro. Edward si metteva
comodo e cominciava a sfogliare con indolenza le pagine del giornale, ma non
leggeva, ripassava invece i suoi programmi per la giornata. Un paio d’ore in ufficio
a sbrigare la posta, e poi sarebbe andato a vedere a che punto erano i campioni di
olmo da rivestimento presi dai piloni del vecchio Waterloo Bridge. Il legno era in
essiccazione ormai da un anno, ma la settimana prima avevano cominciato a
tagliarlo e adesso avrebbero scoperto se l’intuizione del Vecchio era stata valida
oppure no. Era eccitante. Poi aveva un pranzo con dei tali della Great Western
Railway nel corso del quale, ne era pressoché certo, avrebbe ricevuto un
sostanzioso ordine di mogano. Una riunione coi dirigenti nel pomeriggio – il
Vecchio e suo fratello –, la posta da firmare e poi forse ci sarebbe scappato il
tempo per una tazza di tè con Denise Ramsay, una signora con la doppia fortuna di
non avere figli e di avere un marito che andava spesso fuori per lavoro. Ma, come
tutte le fortune, anche queste avevano i loro risvolti negativi: aveva troppo tempo
libero ed era un po’ troppo innamorata di lui; dopotutto, non si era mai parlato di
una cosa seria, come la chiamava lei. Forse non avrebbe avuto tempo per lei, se
doveva andare a casa a cambiarsi per la serata a teatro.
Se gli avessero domandato se era innamorato della moglie, Edward avrebbe
risposto che di sicuro lo era. Non avrebbe aggiunto che, nonostante diciotto anni di
relativa felicità, molti agi e tre splendidi figli, a Villy non interessava molto il letto
e quel che vi succedeva sopra. Una cosa piuttosto comune tra le mogli, del resto;
un poveretto che aveva incontrato al club, Martyn Slocombe-Jones, una notte,
dopo diverse partite a biliardo e numerosi bicchieri di ottimo porto, gli aveva
confidato che la sua, di moglie, detestava così tanto il sesso che gli aveva concesso
di farlo solo per concepire i figli. Per giunta era una donna dannatamente bella e
un’ottima moglie, come diceva Martyn stesso. Avevano cinque figli, e Martyn non
credeva che lei ne volesse un sesto. Le cose si mettevano male per lui. Quando
Edward gli aveva consigliato di cercare consolazione altrove, Martyn gli aveva
piantato addosso i suoi mesti occhi castani e aveva detto con semplicità: «Ma io
amo lei, amico mio, l’ho amata sempre. Non ho mai guardato le altre. Lo sai come
funziona». Al che Edward, che non lo sapeva affatto, gli aveva risposto che sì,
naturalmente lo capiva. Quella conversazione lo aveva convinto a stare alla larga
da Marcia Slocombe-Jones. La cosa non lo turbava troppo perché, sebbene lei
avesse tutti i requisiti per piacergli, di ragazze che ne possedevano in pari grado ce
n’erano in abbondanza. Che uomo fortunato era! Tornare dalla Francia non solo
vivo, ma relativamente incolume. D’inverno il torace gli si gonfiava un po’ per via
del gas che era rimasto sospeso nelle trincee per settimane, ma a parte quello... Una
volta tornato, era entrato dritto nell’azienda di famiglia, aveva conosciuto Villy a
una festa e l’aveva sposata non appena era scaduto il contratto che la legava alla
compagnia di ballo di cui faceva parte. Lei aveva acconsentito a rispettare la
sentenza del Vecchio: la sua carriera doveva finire. «Non puoi prenderti in casa
una ragazza che ha tutt’altro per la testa. Se il matrimonio non è l’unica carriera
della moglie, non può essere un buon matrimonio».
Un modo di vedere le cose molto vittoriano, certo, ma che presentava
innegabili vantaggi. Ogni volta che Edward guardava sua madre, cosa che faceva
di rado ma con grande affetto, vedeva l’esempio perfetto dell’ideale di suo padre:
una donna che si era sobbarcata di buon grado tutte le sue responsabilità familiari e
che allo stesso tempo era rimasta fedele alle sue passioni giovanili: il giardino, che
adorava, e la musica. A settant’anni suonati, era perfettamente in grado di eseguire
duetti con musicisti professionisti. Incapace di orientarsi nel territorio oscuro e
intricato dei diversi temperamenti che distinguono una persona dall’altra, Edward
non capiva davvero per quale ragione Villy non potesse essere contenta e
soddisfatta come lo era la Duchessa (la morigeratezza tutta vittoriana per cui era
nota – niente sfarzi a tavola, niente lussi né vezzi nell’abbigliamento o
nell’arredamento – le aveva guadagnato quel soprannome). Del resto, lui non
aveva mai vietato a Villy di coltivare i suoi interessi: la beneficienza, i cavalli e lo
sci, la mania di imparare a suonare i più disparati strumenti e le attività manuali –
filare, tessere e via dicendo. Quando pensava alle mogli dei suoi fratelli – Sybil
troppo intellettuale, Zoë troppo pretenziosa –, sentiva che a lui non era andata poi
tanto male...
* * *
La cugina di Louise, Polly Cazalet, arrivò con mezz’ora di anticipo sull’inizio
della lezione, perché lei e Louise stavano preparando una crema per il viso con
bianco d’uovo, prezzemolo tritato, amamelide e una goccia di cocciniglia per
renderla rosa. Si chiamava “Prodigio” e Polly aveva realizzato delle graziose
etichette da applicare ai barattoli che entrambe si erano fatte dare dalle rispettive
madri. La tenevano in uno stampo da pudding, nel capanno. Avevano deciso di
venderla alle zie, alle cugine e anche a Phyllis, ma a un prezzo inferiore, perché
sapevano che non aveva molto denaro. I vari barattoli avrebbero avuto comunque
prezzi differenti, perché erano quasi tutti di forme e dimensioni diverse. Louise li
aveva lavati e riposti nel capanno insieme alla crema. Tenevano tutto nascosto lì
perché Louise aveva rubato in cucina sei uova e la frusta per sbatterle, una volta
che Emily era fuori a fare la spesa. Alcuni tuorli li avevano dati alla tartaruga di
Louise, che non li aveva apprezzati molto, nemmeno mescolati al tarassaco (il suo
cibo preferito) raccolto nel giardino di Polly.
«A me sembra strana».
La guardarono meglio, come se, così facendo, avessero potuto renderla più
invitante.
«Non credo che la cocciniglia sia stata una buona idea... era verdastra».
«La cocciniglia colora le cose di rosa, sciocca».
Polly avvampò. «Lo so», mentì. «Ma adesso è troppo liquida».
«Non vuol dire che non faccia bene alla pelle. E poi col tempo diventerà più
densa». Polly infilò nell’intruglio il cucchiaio che aveva portato con sé. «Il verde
non è il prezzemolo: ha una specie di crosta».
«Quello è normale».
«Davvero?».
«Certo. Pensa alla crema del Devonshire».
«Credi che dovremmo provarla su di noi prima di venderla?».
«Basta chiacchiere. Tu attacchi le etichette e io la verso. Sono terribilmente
carine!», aggiunse facendo arrossire Polly un’altra volta. Le etichette recitavano:
«Prodigio» e subito sotto: «Applicare una generosa quantità di prodotto la sera. I
risultati vi stupiranno». Per alcuni barattoli, però, erano troppo grandi.
Miss Milliment arrivò prima che avessero finito. Finsero di non aver sentito il
campanello, ma Phyllis venne a chiamarle.
«A lei non la vendiamo», borbottò Louise.
«Ma non avevi detto...».
«Non intendo lei, ma Miss M.».
«Dio mio, no! Sarebbe come far piovere sul bagnato». A Polly capitava spesso
di dire le cose a sproposito.
«È come se avessi detto che Miss M. è già bellissima». Questo le fece ridere
entrambe.
Miss Milliment, una donna simpatica e straordinariamente intelligente, aveva
la faccia simile a quella di un vecchio enorme rospo, aveva osservato una volta
Louise. Sua madre l’aveva sgridata per aver detto una cosa tanto scortese, e lei
aveva replicato che i rospi le piacevano, ma sapeva che si trattava di un’obiezione
scorretta, perché una faccia che era perfettamente accettabile per un rospo di sicuro
non lo era per un essere umano. Dopo quella volta, l’aspetto – di certo insolito – di
Miss Milliment fu argomento di conversazione rigorosamente privato fra lei e
Polly, che inventarono per lei una vita tragica e senza speranze, anzi, diverse vite,
dato che non erano riuscite a mettersi d’accordo sulle varie sventure che dovevano
essersi abbattute su Miss Milliment. Un fatto incontrovertibile era la sua vetustà:
era stata la governante di Villy, la quale aveva ammesso che sembrava vecchia già
allora, e Dio sa quanto tempo era passato. Usava parole desuete e una volta aveva
rivelato a Louise che da giovane raccoglieva rose selvatiche in Cromwell Road.
Odorava di vestiti vecchi e caldi, soprattutto quando le si dava un bacio, cosa che
Louise si era costretta a fare a mo’ di penitenza dopo il suo commento a proposito
della faccia da rospo. Abitava a Stoke Newington e veniva cinque mattine alla
settimana per far loro lezione; il venerdì si fermava a pranzo. Quel giorno
indossava l’abito di maglina verde bottiglia e un cappellino di paglia dello stesso
colore con un nastro di gros-grain, posato sopra la smilza crocchia di capelli grigi e
unti. La mattinata cominciò come sempre, con un’ora e mezza di lettura di
Shakespeare ad alta voce.
Toccava ai due atti finali di Otello, e fu Louise a leggere la parte del
protagonista. Polly, che preferiva le parti femminili – ignorando il fatto che non
erano mai le migliori –, interpretava Desdemona; Miss Milliment faceva Iago,
Emilia e anche tutti gli altri. Louise, che in segreto studiava in anticipo le lezioni,
sapeva a memoria l’ultimo discorso di Otello, ecco perché quando arrivò ai versi:
Vi prego, però, quando nella vostra relazione
racconterete questi avvenimenti dolorosi,
parlate di me come io sono, senza diminuire
né aggiungere nulla che alteri la verità.3
le salirono le lacrime agli occhi e non fu più in grado di continuare. Alla fine
Polly disse: «Le persone sono davvero così?».
«Così come, Polly?».
«Come Iago, Miss Milliment».
«Io non credo ci siano molte persone così. Forse, però, ce sono più di quanto
pensiamo, visto che ogni Iago deve trovare un Otello per dare voce alla sua
perfidia».
«Come re Edoardo e Mrs Simpson?».
«Certo che no. Quanto sei stupida, Polly! Il re era innamorato di Mrs Simpson,
è una cosa completamente diversa. Lui ha rinunciato a tutto per lei, quando poteva
avere tutto rinunciando a lei».
Polly borbottò, rossa in viso: «Mr Baldwin potrebbe essere Iago. Sì, potrebbe».
Miss Milliment intervenne con tono conciliatorio: «Le due situazioni non
possono essere messe a confronto, ma il tuo è stato un tentativo interessante, Polly.
Ora credo che dovremmo passare alla geografia. Sono proprio curiosa di vedere le
mappe che avete disegnato. Prendi tu l’atlante, Louise?».
* * *
«Per me ti sta a pennello».
«È bellissimo. Solo che non ho mai indossato questo colore».
Villy si stava provando uno degli abiti che Hermione proponeva a un prezzo
d’occasione: un vestito di chiffon verde lime con una profonda scollatura a V
bordata di perline dorate e una piccola mantella plissettata, che ricadeva dalle
spalline con la stessa decorazione. La gonna aveva un taglio semplice, con graziose
pieghe che partivano dai fianchi snelli per allargarsi sul fondo in falde fluttuanti.
«Ti sta divinamente. Chiediamo a Miss McDonald cosa ne pensa».
Miss McDonald si materializzò all’istante. Era una signora di età indefinibile,
che indossava sempre una gonna di flanella grigia a strisce e una camicetta di
tussor. Era molto affezionata a Hermione e le gestiva il negozio durante le sue
frequenti assenze. Hermione conduceva una vita misteriosa fatta di feste, fine
settimana fuori, battute di caccia d’inverno, nonché la gestione di certi
richiestissimi appartamenti che aveva comprato a Mayfair e che affittava a prezzi
esorbitanti alla gente che incontrava alle feste. L’adoravano tutti: la sua
reputazione poggiava sulle solide basi dell’adulazione universale. Chiunque fosse
il suo amante attuale, si perdeva in una pletora di pretendenti disperati e senza
speranza, almeno in apparenza. Non era bella, ma era sempre elegante e ben vestita
e il suo accento strascicato nascondeva un’intelligenza di prim’ordine e un
coraggio indomito, sia nella caccia sia in qualunque altro ambito esso fosse
necessario. Il fratello di Edward, Hugh, era stato innamorato di lei durante la
guerra – si diceva fosse uno dei ventuno che si erano fatti avanti solo in quel
periodo –, ma lei aveva sposato Knebworth e aveva divorziato poco dopo la nascita
del figlio. Era brava con le mogli di uomini importanti, ma per Villy provava un
affetto genuino e le faceva sempre sconti speciali.
Villy, che era caduta in una specie di trance con quell’abito vaporoso che
l’aveva trasformata in un’impalpabile, esotica estranea, si accorse che Miss
McDonald la stava guardando con approvazione.
«Sembra fatto per lei, Mrs Cazalet».
«Quello blu notte sarebbe più utile».
«Oh, Lady Knebworth, che ne pensa di quel pizzo color café-au-lait?».
«Splendida idea, Miss McDonald. Vada a prenderlo».
Nell’istante stesso in cui Villy vide il pizzo color caffè, seppe di volerlo. In
realtà li voleva tutti, compreso l’abito in seta marezzata color vino con quelle
enormi maniche a sbuffo fatte di roselline che aveva provato prima.
«È terribile dover scegliere, no?». Hermione aveva già deciso che Villy, che
pure era venuta per comprare due abiti, dovesse prenderne tre e, conoscendola, era
essenziale fare almeno una rinuncia. Seguirono sospiri accorati.
«Quanto costano?».
«Miss McDonald, quanto costano?».
«La seta marezzata venti, lo chiffon quindici, il pizzo e il crêpe blu notte sedici
l’uno, mi pare. Dico bene, Lady Knebworth?».
Vi fu un breve silenzio durante il quale Villy provò senza successo a fare la
somma. «Non posso prenderne quattro, comunque. È fuori discussione».
«A mio parere», disse con circospezione Hermione, «il blu è un tantino
scontato per lei, mentre gli altri tre sono perfetti. Supponiamo che le dia la seta
marezzata e il pizzo a quindici l’uno, e lo chiffon a dieci... quanto fa, Miss
McDonald?». (Lo sapeva benissimo, ma sapeva anche che Villy non era portata
per i conti).
«Fanno quaranta, Lady Knebworth».
E prima ancora di rendersene conto, Villy disse: «Li prendo. È una follia, ma
non so resistere. Sono troppo belli. Dio mio, non oso pensare a cosa dirà Edward!».
«Dirà che le stanno d’incanto. Prepari un pacco, Miss McDonald. Sono certa
che Mrs Cazalet vorrà portarli con sé».
«Ne indosserò uno stasera stessa. Grazie infinite, Hermione».
Nel taxi, mentre andava a trovare la mamma, pensò: mi vergogno di me stessa,
davvero. Non avevo mai pagato un vestito più di cinque sterline. Ma questi mi
dureranno una vita, e poi sono stanca di indossare sempre la stessa roba. Usciamo
spesso... aggiunse come se stesse discutendo con qualcuno, e alle svendite di
gennaio sono stata brava. Ho preso solo biancheria per la casa. E a Lydia ho
comprato solo cose che le servivano davvero... be’, a parte la giacca da
cavallerizza, la desiderava così tanto! Fare spese con Lydia era stato drammatico.
Non sopportava le scarpe nuove.
«Non voglio avere dei brutti piedi verdi!». E poi giù lacrime perché Nan aveva
detto che era troppo piccola per indossare una giacca da cavallerizza, e poi ancora,
in autobus, perché Nan non le avrebbe permesso di mettersela nemmeno per stare
in casa. Aveva preso anche magliette della salute per l’inverno venturo, due paia di
scarpe, una gonna a pieghe di serge blu scuro con un corpetto a motivi floreali
insieme a una deliziosa giacchina di velluto a coste abbinata. Un berretto di lino
estivo e quattro paia di calzini di cotone bianco completavano i loro acquisti. A
Lydia in realtà interessava solo la giacca. Avrebbe voluto le calze come le aveva
Lou, invece dei calzini che le sembravano roba per bimbi piccoli, e avrebbe
preferito una giacca di velluto rosso acceso a quella blu scuro. Non le piacevano le
sue pantofole perché avevano un nastro con un bottoncino invece che i lacci. Villy
riteneva che, dopo tutto quello strapazzo, meritasse un piccolo premio. C’erano
ancora da fare gli acquisti per Louise e anche per Teddy, non appena fosse tornato
da scuola. Diede un’occhiata alle tre eleganti scatole che contenevano il suo
bottino e cominciò a pensare a quale indossare quella sera.
* * *
Dato che era una così bella giornata, Miss Milliment andò a piedi fino Notting
Hill Gate per pranzare da ABC. Prese un sandwich al pomodoro e una tazza di tè e
poi, dato che aveva ancora fame, ordinò anche una crostatina alla crema. Un
pranzo così le costava quasi uno scellino, ovvero più di quanto potesse permettersi
di spendere. Mentre mangiava leggeva il «Times», tenendo da parte il cruciverba
per il lungo viaggio di ritorno in treno. La sua padrona di casa le forniva una cena
adeguata, oltre a tè e pane tostato la mattina per colazione. A volte rimpiangeva di
non potersi permettere una radio per la sera, perché aveva gli occhi stanchi dal gran
leggere. Da quando era morto suo padre, un impiegato in pensione, aveva sempre
vissuto in camere ammobiliate. Nel complesso la sua sistemazione non le
dispiaceva, non era mai stata tipo da lavori domestici. L’uomo che credeva
l’avrebbe sposata era morto anni prima nella guerra boera, e il lutto si era pian
piano stemperato nell’umile consapevolezza del fatto che probabilmente non
sarebbe stata capace di offrirgli un ambiente domestico confortevole. Adesso
insegnava. Era stata una vera manna dal cielo, quando Viola le aveva scritto per
chiederle di lavorare come istitutrice per Louise e poi anche per sua cugina Polly.
Prima di quella lettera si trovava in serie ristrettezze: il denaro lasciatole dal padre
era sufficiente per garantirle un tetto sopra la testa, ma nulla di più, e si era ridotta
a non avere i soldi per prendere l’autobus fino alla National Gallery. Le mostre con
ingresso a pagamento, poi, erano fuori discussione. La pittura era la sua passione,
in particolare gli impressionisti francesi, tra i quali adorava Cézanne. Sapeva che
spesso la gente la definiva “non certo una bellezza”. In effetti, era una delle
persone più brutte che lei stessa avesse mai visto in vita sua, ma una volta accertato
questo stato di cose aveva deciso non dare alcun peso al suo aspetto. Si vestiva col
semplice scopo di coprire il proprio corpo, con gli abiti più economici e pratici che
riusciva a trovare; faceva il bagno una volta alla settimana (la padrona di casa le
faceva pagare il bagno a parte) e aveva ereditato dal padre un paio di occhiali con
la montatura d’acciaio che facevano proprio al caso suo. Fare il bucato era
complicato oppure costoso, perciò i suoi vestiti non erano mai molto puliti.
Passava le serate leggendo filosofia o poesia o libri di storia dell’arte, e nel fine
settimana guardava quadri. Guardava! Osservava, indagava, vedeva e rivedeva un
dipinto finché non veniva assorbito da quei recessi segreti della sua ingombrante
persona che costituivano la sua memoria, i quali poi lo digerivano trasformandolo
in nutrimento per l’anima. La verità – la bellezza della verità, la sua capacità di
trascendere l’ordinaria apparenza delle cose – la commuoveva e la entusiasmava; lì
dentro, nuotava in un mare di beatitudine. Le cinque sterline a settimana che
racimolava insegnando alle bambine le permettevano di vedere ciò che aveva il
tempo di vedere e di risparmiare un poco per quando Polly e Louise non avessero
avuto più bisogno di lei. A settantatré anni difficilmente sarebbe riuscita a trovare
un altro lavoro. Era sola, e perfettamente abituata a esserlo. Lasciò una mancia per
la cameriera e si diresse, spensierata e miope, verso la fermata del metrò.
* * *
Phyllis iniziò la sua mezza giornata di libertà andando da Pointing. C’era una
svendita estiva e a lei servivano delle calze. Si sarebbe concessa anche una bella
occhiata alle vetrine, sebbene sapesse che la tentazione di comprare qualcosa
sarebbe stata forte: una camicetta o un abito estivo di cui non aveva bisogno. Fece
a piedi la strada da Campden Hill Square a Kensington High Street per risparmiare
i soldi del biglietto. Era una ragazza di campagna, e per lei quella passeggiata era
uno scherzo. Indossava il soprabito estivo (filato fiammato grigio chiaro) e una
gonna leggera, la camicetta che le aveva regalato Mrs Cazalet per Natale e un
cappellino di paglia che aveva da una vita, riattato più e più volte. Portava guanti di
cotone grigio chiaro e la borsetta. Phyllis guadagnava trentotto sterline l’anno e
spediva a sua madre dieci scellini al mese. Era fidanzata ormai da quattro anni con
l’aiuto giardiniere della stessa proprietà in cui suo padre aveva lavorato come
guardacaccia fino a quando l’artrite non lo aveva costretto ad andare in pensione.
Essere la fidanzata di Ted era diventato ormai parte del paesaggio della sua vita:
non c’era più nulla di eccitante e forse in verità non c’era mai stato, perché
entrambi sapevano fin dall’inizio che non avrebbero potuto sposarsi tanto presto.
Senza contare il fatto che si conoscevano da sempre. Era andata a servizio e si era
trasferita a Londra. Si vedevano quattro volte l’anno: durante le sue giornate libere
quindicinali o nelle rare occasioni in cui riusciva a convincere Ted a venire a
trascorrere un giorno a Londra. Ted detestava Londra, ma era un bravo ragazzo e di
tanto in tanto acconsentiva. Perlopiù d’estate, perché durante il resto dell’anno, per
via del tempo, non avrebbero saputo dove andare. Si sedevano nelle sale da tè e
andavano al cinema, e quelli erano i momenti più belli perché, se lo incoraggiava,
lui la cingeva con il braccio, lei lo sentiva respirare e Ted non sapeva mai di che
parlava il film. Una volta l’anno lo portava a bere il tè in Lansdowne Road, si
sedevano in cucina con Emily e Edna che lo rimpinzavano di cibarie e lui, sebbene
non facesse che schiarirsi la gola, restava in silenzio e lasciava che il tè gli si
freddasse. Nonostante tutto, Phyllis continuava a metter via dieci scellini al mese
per quando si sarebbero sposati, e così le rimanevano due sterline e tre pence da
spendere nei giorni liberi, per il vestiario e per tutto il resto, perciò doveva stare
attenta. E intanto aveva accumulato, nel suo conto presso l’ufficio postale, quasi
trenta sterline. Era bello avere un futuro assicurato e lei aveva sempre desiderato
godersi un po’ la vita prima di sistemarsi. Avrebbe dato un’occhiata alle vetrine da
Pointing, poi sarebbe andata a fare una passeggiata in Kensington Gardens e si
sarebbe trovata una bella panchina per sedersi un po’ al sole. Le piaceva guardare
le anatre e le barchette sulle acque del Round Pond. Dopo sarebbe andata da Lyons
per un tè e avrebbe concluso la giornata al Coronet o all’Embassy di Notting Hill
Gate, qualunque delle due sale desse il film con Norma Shearer. Le piaceva Norma
Shearer, perché una volta Ted le aveva detto che le somigliava.
Da Pointing le calze erano in saldo. Tre paia per quattro scellini. C’era sempre
tanta di quella gente! Lanciò un’occhiata adorante all’angolo in cui erano esposti
gli abiti estivi in saldo, a tre scellini. Ce n’era uno con un motivo a ranuncoli e il
collo alla Peter Pan che – ne era certa – le sarebbe stato benissimo, ma proprio
allora le venne la brillante idea di fare un salto da Barker per vedere se trovava uno
scampolo per farsene uno simile da sola. Ebbe fortuna. Trovò del bel voile verde
con un motivo intrecciato a roselline: tre metri e dieci di tessuto per mezza corona
soltanto. Un affare! Edna, che era una brava sarta, aveva già dei cartamodelli, per
cui non aveva bisogno di comprarne uno. Mezzo scellino risparmiato, che era
sempre meglio di mezzo scellino speso, come avrebbe detto sua madre. Quando
arrivò al Round Pond si sentiva stanchissima, forse il sole le aveva messo
sonnolenza, perché si appisolò e dovette chiedere l’ora a un signore di passaggio;
di fronte a lei, in riva allo stagno, c’era una masnada di bambini sudici e cenciosi,
alcuni scalzi, con un neonato in una vecchia carrozzina malconcia. Stavano
pescando i pesci che nuotavano nello stagno e li mettevano dentro un barattolo
vuoto, e quando il passante si fu allontanato uno di loro le disse: «Posso
disturbarla per chiederle l’ora?», e tutti scoppiarono a ridere ripetendolo come
una cantilena, eccetto il neonato che aveva in bocca il ciuccio. «Che maleducati!»,
replicò lei sentendosi arrossire. Ma quelli non se ne accorsero nemmeno, tanto
erano incivili. Sua madre non le avrebbe mai permesso di uscire in quelle
condizioni.
Le doleva un po’ la testa e in un attimo di panico pensò che le stesse venendo il
ciclo. Se così fosse stato, sarebbe stato in anticipo di quattro giorni, e le sarebbe
toccato correre a casa, perché non aveva niente con sé. Ma mentre percorreva a
piedi Bayswater Road rifletté che no, non poteva essere, perché in quel caso
avrebbe avuto molti foruncoli, mentre invece ne aveva uno solo. Phyllis aveva
quasi ventiquattro anni: da dieci esatti era a servizio. La prima volta, nella casa in
cui lavorava allora, era corsa a piangere dalla governante, spaventata dal sangue, e
Amy le aveva mostrato semplicemente come piegare i panni di flanella, dicendole
che succedeva a tutte, una volta al mese. Quella fu l’unica occasione in vita sua in
cui ne sentì parlare, fatta eccezione per quando Mrs Cazalet le aveva mostrato dove
erano riposti i panni nell’armadio della biancheria. Non aveva detto nulla in
proposito, cosa che non aveva stupito Phyllis: in fondo era una signora. Ma anche
tra lei e Edna, sebbene ognuna sapesse sempre quando l’altra aveva il ciclo, non se
ne parlava mai. Essendo a servizio, sapevano come si comporta una donna
perbene. Pensò che era una cosa davvero strana ma che, se succedeva a tutte, allora
doveva essere normale. La flanella veniva messa nella sacca della biancheria e
spedita in lavanderia ogni settimana; “assorbenti igienici”, erano chiamati nella
lista. Naturalmente per i domestici c’era una sacca a parte. Comunque era stato un
falso allarme. Bevve due tazze di tè e mangiò una focaccina alla frutta. Quando
arrivò al Coronet, si sentiva già molto sollevata.
* * *
Dopo la lezione Polly era rimasta a pranzo con Louise. C’erano anche Nan e
Lydia. Per pranzo mangiarono carne macinata e spaghetti in bianco. Lydia disse
che erano vermi e si prese un ceffone, dato che non c’era la madre, ma non pianse
molto perché aveva sistemato la sua giacca da cavallerizza sulla poltrona di pelle
che Louise usava per leggere, in modo da poterla guardare mentre mangiava.
Louise non faceva che parlare di Otello, invece Polly, che era sensibile ai
sentimenti degli altri e aveva capito che a Nan Otello non interessava molto, le
domandò che cosa stesse sferruzzando e dove avrebbe trascorso le vacanze. Nan
stava facendo una vestaglia di lana rosa per sua madre e avrebbe trascorso le due
settimane di vacanza a Woburn Sands. Anche dopo una così scarna conversazione,
Louise le avrebbe rinfacciato più tardi di essere una tirapiedi, ma non era affatto
vero: lei capiva perfettamente che una persona potesse non provare interesse per
Otello.
Lydia disse: «La mamma di Nan ha male alle gambe. Deve tenerle sempre
alzate, altrimenti c’è il rischio che si stacchino... Sono parecchio malate, eh»,
aggiunse dopo averci riflettuto un attimo.
«Basta così, Lydia. Non si parla delle gambe della gente, quando si è a tavola».
Così adesso ci stiamo pensando tutti, rifletté Polly. Come dessert c’era un
dolce d’uvaspina, che a Polly non piaceva ma non osò dirlo. Lydia non ebbe tanta
cautela.
«Puzza di vomito», disse. «Vomito verdastro!». Nan la tirò su dalla sedia e la
portò fuori dalla stanza.
«Sacramento!», esclamò Louise, a cui piaceva uscirsene con quelle che
secondo lei erano espressioni care a Shakespeare. «Povera Lydia! Se la vedrà
brutta». E infatti si sentivano i suoi pianti attutiti dal piano di sopra.
«Io non lo voglio».
«Non mi stupisce. Non piace nemmeno a me. Dai, andiamo a finire di
preparare Prodigio. Hai leccato i piedi a Nan!».
«No, non è affatto vero».
Quando ebbero finito di mettere la crema nei vasetti e di applicare le etichette,
portarono tutto in camera di Louise. Poi si sdraiarono sul prato del giardino in
attesa del carretto dei gelati. Presero ognuna un ghiacciolo alla frutta, tornarono a
sdraiarsi sul prato e parlarono delle imminenti vacanze e di ciò che avrebbero fatto
da grandi.
«Mamma vuole presentarmi in società».
«Cioè... come una debuttante?». Louise non riusciva a nascondere il proprio
disprezzo. «Non vuoi una vera carriera?».
«Che cosa potrei fare?».
«Sei brava a dipingere. Potresti diventare pittrice».
«Posso essere presentata in società e poi fare la pittrice».
«Non è così che funziona, Polly, dammi retta. Andrai a un sacco di balli pieni
di idioti, ti faranno delle proposte e alla fine acconsentirai a sposarne uno per pura
gentilezza. Lo sai che sei una frana a dire di no».
«Non sposerei mai uno che non amo».
«Certe volte non basta nemmeno quello». Rivolse un pensiero cupo a John
Gielgud e ai reiterati sogni in cui gli salvava la vita in modi così mirabolanti e
intrepidi che lui poi era costretto a sposarla. Avrebbero vissuto in un appartamento
(non riusciva a immaginare nulla di più sofisticato; conosceva una sola famiglia
che vivesse in un appartamento), avrebbero recitato sempre insieme e per cena
avrebbero mangiato aragoste e gelato al caffè.
«Povera Lou! Vedrai che lo supererai».
Louise si esibì nello speciale sorriso triste, di eroica vulnerabilità, che aveva
provato e riprovato di fronte allo specchio del bagno. «Io non credo. Non è il tipo
di cose che si superano».
«Immagino di no».
«A dire il vero, certe volte mi piace! Capisci, immaginare come sarebbe stato.
E non è che io stia sempre a pensarci». Questo, lo sapeva, in parte era vero: c’erano
giorni interi in cui non ci pensava affatto. Sono il tipo di bugiarda che non è capace
di mentire completamente, pensò.
Guardò Polly sdraiata di schiena, gli occhi chiusi di fronte al sole. Sebbene
avesse dodici anni, solo due meno di lei, non li dimostrava. Polly era trasparente,
del tutto priva di artifici. Qualcuno l’avrebbe definita indiscreta: se le si chiedeva
che cosa pensasse, lei lo diceva, sempre che ne fosse consapevole; la sua onestà
però le costava talvolta momenti di penoso imbarazzo. Ti guardava coi suoi piccoli
occhi azzurro scuro, e se le chiedevi cose come «te la sentiresti di andare in un
sottomarino?» oppure «saresti capace di sparare al tuo pony se avesse le zampe
spezzate?» o «moriresti per il tuo paese, se fossi una spia e il nemico ti
catturasse?», vedevi la sua fronte pallida incresparsi in piccole pieghe mentre
continuava a fissarti nell’affannosa e spesso vana ricerca di una risposta sincera.
«Non lo so», diceva di frequente. «Vorrei saperlo, ma non ne sono certa. Non ho le
certezze che hai tu». Ma Louise era perfettamente consapevole del fatto che le sue
certezze dipendevano spesso dal suo umore, e che l’indecisione di Polly, in un
certo senso, era indice di maggior serietà. Questo le dava sui nervi, ma provava
rispetto per Polly. Polly non fingeva mai, non cercava mai di fare colpo, come
diceva Nan, non cercava mai di approfittare della situazione. Ed era incapace di
dire la più piccola bugia. Non è che Louise dicesse delle vere e proprie bugie – un
crimine efferato nel codice dei Cazalet – però passava un sacco di tempo a fingere
di essere qualcuno che pensava e vedeva le cose in maniera differente da lei.
Quello che diceva in queste circostanze, perciò, non contava. Un’attrice doveva
possedere quel particolare tipo di flessibilità, e malgrado Polly la prendesse spesso
in giro per la sua volubilità e lei in cambio prendesse in giro Polly perché era così
seria e non sapeva nulla del mondo, gli scherzi fra loro non andavano oltre. Le
rispettive paure, le più profonde e reali, erano sacrosante: Louise soffriva di un
forte attaccamento a casa sua (non poteva stare lontana dalla famiglia e la
terrorizzava l’idea di essere mandata in collegio) e Polly temeva che scoppiasse
un’altra guerra e che tutti fossero gassati a morte, in particolare il suo gatto
Pompey che, data la sua natura felina, era improbabile che ricevesse una maschera
antigas. In quella materia Polly era un’autorità. Suo padre possedeva molti libri
sulla guerra; lui c’era stato e ne era uscito con una mano in meno e più di cento
schegge di proiettili sparse in tutto il corpo, che non erano riusciti a estrargli e che
gli causavano dei mal di testa terribili, i peggiori che si possano immaginare,
diceva sua madre. I soldati dalle goffe uniformi giallastre ritratti nella fotografia
che teneva sul tavolo da toeletta erano tutti morti, tranne lui. Polly leggeva quei
libri e poneva piccole domande a trabocchetto da cui ricavava solo conferme a ciò
che aveva letto: i massacri, le marce di chilometri in mezzo al fango sulle strade
bordate di filo spinato, le granate, i carrarmati e soprattutto l’orribile gas velenoso
a cui zio Edward era riuscito in qualche modo a sopravvivere... era tutto vero, un
incubo ininterrotto durato ben quattro anni. E se fosse scoppiata un’altra guerra
sarebbe stata addirittura peggiore, perché la gente non faceva che parlare di come
navi e aeroplani e fucili e tutto ciò che poteva rendere terribile un conflitto fosse
diventato ancora più micidiale grazie al progresso scientifico. La prossima guerra
poteva essere orribile il doppio e durare il doppio del tempo, rispetto alla
precedente. In gran segreto, Polly invidiava Louise perché la sua paura più grande
era quella di finire in collegio: un altro anno o due e sarebbe stata comunque
troppo grande per andarci. Invece, per la guerra, non si era mai troppo giovani né
troppo vecchi.
Louise disse: «Quanti spiccioli hai?».
«Non lo so».
«Controlla».
Obbediente, Polly aprì la cerniera del piccolo borsellino di cuoio che portava
appeso al collo. Lasciò cadere sull’erba alcune monete e diverse zollette di
zucchero di colore grigiastro.
«Non dovresti tenere lo zucchero per i cavalli insieme ai soldi».
«Lo so».
«Ormai quello zucchero sarà diventato velenoso». Si drizzò a sedere.
«Potremmo andare in Church Street e poi tornare per fare merenda insieme».
«Va bene».
Piaceva a entrambe andare in Church Street, in particolare all’inizio della
strada, vicino a Notting Hill Gate, per ragioni diverse. Louise adorava il negozio di
animali, che esponeva un vero e proprio florilegio di tutte le creature più
desiderabili: bisce, tritoni, pesci rossi, tartarughe, grossi conigli bianchi e tutte le
cose che lei bramava ma non poteva avere: uccelli di ogni specie, topi, porcellini
d’India, gattini e cuccioli di cane. Polly si spazientiva presto ad aspettare che
Louise avesse passato in rassegna tutto il negozio, e quando non ne poteva più
andava nella bottega di fianco, una specie di rigattiere che teneva la merce sparsa
sul pavimento e vendeva un po’ di tutto: libri di seconda mano, porcellane, pietre
saponarie, avorio, legno intagliato, perline e mobilia, oltre a molti oggetti la cui
funzione era avvolta nel mistero. I due uomini che gestivano il negozio non erano
molto disponibili: il padre trascorreva la maggior parte del tempo lungo disteso su
una chaise-longue di velluto rosso scolorito a leggere il giornale, mentre il figlio se
ne stava seduto su una sedia dorata coi piedi poggiati su una enorme cassa di
scatole di luccio ripieno, mangiando dolcetti al cocco e sorseggiando tè. «Serve ad
allungare i guanti», diceva il padre se interpellato; il figlio non diceva niente. Quel
giorno Polly trovò una coppia di lunghissimi candelieri blu e bianchi, pieni di
crepe, e a uno dei due mancava un pezzo in cima, ma lo stesso molto belli, pensò.
C’era anche un piatto di terracotta, decorato con fiori blu e gialli, un delfino blu
scuro, un sole giallo e qualche foglia verde: il piatto più bello che avesse mai visto.
I candelieri costavano sei penny e il piatto quattro: troppo.
«A questo manca un pezzo», disse Polly indicandolo col dito.
«È di Delft, quello». Il rigattiere mise giù il giornale. «Quanti soldi hai?».
«Sette penny e mezzo».
«Scegli una cosa. Non posso darti tutto a quel prezzo».
«Che prezzo può farmi?».
«Non meno di nove penny. Il piatto è portoghese».
«Chiedo alla mia amica».
Corse nel negozio accanto, dove Louise era immersa in una conversazione
molto seria.
«Mi compro un pesce gatto!», annunciò. «Ne ho sempre voluto uno, e questo
signore dice che è il periodo giusto».
«Puoi prestarmi dei soldi? Solo fino a sabato?».
«Quanto?».
«Un penny e mezzo».
«Va bene. Però non possiamo fare merenda insieme, perché devo portare a
casa il mio pesce gatto». Il pesce stava in un barattolo di vetro, a cui il commesso
aveva fatto dei manici usando un pezzo di nastro. «Non è carino? Guarda che
baffetti!».
«Carino, sì». A Polly non piacevano molto quegli animali, ma sapeva che il
mondo è vario.
Tornò dal rigattiere, gli diede i nove penny e l’uomo incartò con malagrazia il
piatto e i candelieri in fogli di giornale sgualciti.
«Oh, Polly! Non fai che comprare cocci! Che cosa te ne farai?».
«Sono per la mia casa, quando sarò grande. Ma ancora non ne ho a sufficienza.
Devo comprarne molti altri. I candelieri sono di Delft», aggiunse.
«Caspita! Intendi Van Meer? Fa’ vedere... Avranno un aspetto migliore una
volta puliti».
«Lo so». Non vedeva l’ora di andare a casa e lavarli.
Si separarono.
«Ci vediamo domani».
«Spero che il tuo pesce gatto stia bene».
* * *
«E quand’è che vai nel Sussex?».
Villy, che l’aveva detto a sua madre almeno tre volte, rispose in tono un po’
troppo paziente: «Venerdì».
«Ma è dopodomani!».
«Sì, mamma. Te l’ho detto».
Lady Rydal, senza fare alcuno sforzo per nascondere la propria incredulità,
disse: «Devo averlo dimenticato». Sospirò, si spostò un poco sulla vecchia sedia a
rotelle e si morse il labbro. Quel gesto serviva a mostrare a Villy che soffriva e che
lo faceva in silenzio, ma serviva anche a suggerire ampi scenari di analoghi
patimenti muti. Era una vecchia signora molto bella e piuttosto incline al
melodramma: per via di una combinazione di artrite e indolenza vittoriana (alla
prima fitta si era piazzata sulla sedia a rotelle, da cui si alzava per scendere al piano
di sotto soltanto a pranzo e a cena, con l’aiuto di un grosso bastone dalla punta
gommata), non solo era ingrassata a dismisura ma era anche affetta da noia
cronica. Solo il volto aveva mantenuto il suo cipiglio singolare e autoritario: l’arco
nobile delle sopracciglia, i grandi occhi del colore ormai sbiadito dei
nontiscordardimé, la pelle di porcellana che pareva come appesa a una miriade di
piccole rughe, la bocca dal disegno squisito dei Burne-Jones, tutto in lei rivelava
che un tempo era stata una bellezza. Adesso aveva i capelli di un bianco argentato
e portava sempre pesanti orecchini pendenti – perle e zaffiri – che le tiravano i lobi
delle orecchie. Consumava i suoi giorni incastonata in quella sedia come un
maestoso relitto, sprezzante verso i patetici tentativi dei figli di sottrarla a quello
stato. Lady Rydal non poteva far nulla, ma sapeva in che modo ogni cosa andasse
fatta: il suo gusto nel mandare avanti la casa, la sua cucina, i suoi fiori erano
sempre originali e al tempo stesso eccellenti, ma ormai riteneva di non avere più
occasioni per esercitare questi talenti; dello sfarzo, dell’allegria che Villy ben
ricordava non restava che un residuo stantio e avvelenato
dall’autocommiserazione. Lady Rydal guardava alla propria vita come a una
tragedia: il sodalizio con un musicista l’aveva portata a sposarsi al di sotto delle
sue possibilità, eppure la vedovanza non era stata uno scherzo, e nel suo salotto
c’erano ancora tende e rivestimenti neri, nonostante lui fosse morto ormai da due
anni. Secondo lei, nemmeno le sue figlie avevano fatto dei buoni matrimoni, e non
approvava la moglie di suo figlio. Ispirava troppa soggezione per avere degli
amici, e anche i domestici più fedeli li chiamava per cognome. Villy pensava che
restassero al suo servizio per pura lealtà verso il defunto padrone, ma in quella casa
l’inerzia era imperante e contagiosa: gli orologi ticchettavano pigri, i mosconi
ronzavano un poco contro i vetri delle finestre a ghigliottina e poi cadevano nel
generale torpore. Se non avesse detto o fatto qualcosa al più presto, Villy sentiva
che si sarebbe addormentata anche lei.
«Raccontami le novità». Era un’apertura di conversazione tipica di Lady
Rydal, a cui era difficile replicare perché indicava una studiata disponibilità
all’ascolto associata alla più completa mancanza d’interesse. A quel punto Villy (o
chiunque fosse il malcapitato di turno) forniva una risposta che, se non annoiava
l’anziana donna in maniera palpabile, conteneva una delle numerosissime cose che
Lady Rydal disapprovava. Aborriva i riferimenti alla religione a meno che non
fosse lei a farli (frivolezza, la chiamava); riteneva che la politica non fosse un
argomento di conversazione adatto a una signora (Margot Asquith e Lady Astor
non sarebbero state le benvenute nel suo salotto); era volgare qualunque allusione
alle vite private dei membri della casa reale (probabilmente era l’unica in tutta
Londra che, dall’inizio di quella famosa relazione, aveva smesso di menzionare
Edoardo VIII e non aveva mai pronunciato in vita sua il nome di Mrs Simpson); il
corpo – compreso l’aspetto fisico, i criteri di bellezza e peggio che mai i bisogni
fisici – era un completo tabù (anche la salute era un argomento scivoloso, perché
solo alcune malattie si confacevano a una signora). Villy, come sempre, finì col
parlarle dei bambini, mentre Bluitt, la cameriera, portava via il vassoio del tè. Fu
un successo: Lady Rydal ascoltò con un sorriso indulgente il racconto delle
buffonate di Lydia da Daniel Neal e dell’ultima lettera di Teddy dal collegio, e poi
domandò in tono affettuoso di Louise, per la quale aveva una predilezione. «Devo
vederla, prima che sparisca in campagna. Dille di farmi una telefonata, così
organizziamo una visita».
Nel taxi verso casa, Villy rifletté che sarebbe stato difficile visto che restavano
solo due giorni prima della partenza per il Sussex.
* * *
Edward, essendosi fatto riportare in ufficio e avendo congedato Bracken dopo
pranzo, ricevette le chiavi della macchina dalle mani della sua segretaria, Miss
Seafang, riempì il portasigarette d’argento attingendo alla scatola d’ebano posata
sulla sua enorme scrivania – era cura della segretaria che fosse sempre piena – e
diede un’occhiata all’orologio. Erano appena passate le quattro; aveva tutto il
tempo di bere un tè, se ne aveva voglia. La riunione era stata cancellata perché il
Vecchio aveva voluto andarsene nel Sussex e Hugh aveva uno dei suoi soliti mal di
testa. Se il Vecchio non avesse deciso di defilarsi la riunione si sarebbe fatta, e
Hugh sarebbe stato lì seduto a strizzare gli occhi, pallido e muto, salvo approvare
frettolosamente qualunque proposta fosse stata avanzata. Dei mal di testa di Hugh
non si poteva parlare: s’irritava fino a infuriarsi quando qualcuno esprimeva
preoccupazione, perciò l’argomento non andava toccato, e per Edward questo era
penoso. Voleva bene a suo fratello e si sentiva un vigliacco quando pensava che lui
era uscito dalla guerra senza un graffio, mentre Hugh era in un così precario stato
di salute.
Miss Seafang infilò la testa ben pettinata nella fessura della porta. «Mr Walters
chiede di poterle parlare un momento, Mr Edward».
Edward consultò di nuovo l’orologio e finse un’espressione di sorpresa e
allarme. «Buon Dio! Gli chieda di aspettare fino a lunedì, per piacere. Sono in
ritardo a un appuntamento. Lo riceverò per primo».
«Glielo dirò».
«Cosa farei senza di lei?». Le rivolse un sorriso smagliante, prese il cappello e
se ne andò.
* * *
Per tutto il tragitto verso casa, prima in metropolitana e poi in autobus, Miss
Seafang ripensò a quella frase, addolcì e caricò d’intensità quel sorriso fino a farne
una profferta romantica (da gentiluomo, s’intende). Lui sì che la capiva, intuiva il
suo vero valore, una cosa che nessun altro aveva mai fatto – lo avevano invece
distorto al punto tale che certi pregi noiosi che le attribuivano le erano diventati
indifferenti: la sua affidabilità, la sua abilità nell’impastare i dolci e la sua bravura
con nipotini e nipotine.
* * *
Non importava se aveva o no voglia di prendere il tè con Denise, rifletteva
Edward mentre guidava verso i sobborghi occidentali; era una questione di
correttezza. Non aveva detto alla povera ragazza delle sue vacanze perché sapeva
che la cosa l’avrebbe sconvolta, e lui detestava vederla sconvolta. La settimana
successiva, quando Denise si aspettava che, con Villy convenientemente dirottata
nel Sussex, lui avrebbe avuto più tempo libero, invece non ne avrebbe avuto affatto
perché in quel genere di occasioni la famiglia si ricompattava e, con l’eccezione di
una sola serata al club, sarebbe stato impegnato a cena praticamente ogni sera.
Perciò, adesso aveva il preciso dovere di andarla a trovare. Era pervaso da piccole
scariche alterne di senso di responsabilità ed eccitazione: era uno di quei pochi
fortunati che provano piacere nel fare ciò che va fatto.
* * *
Denise era distesa sul divano del suo salotto verde con un abito da pomeriggio
nero e un’ampia stola rossa. Balzò in piedi con grazia quando la cameriera
annunciò l’arrivo di Edward.
«Edward! Che magnifica sorpresa! Non immagini quanto mi stavo
annoiando!».
«Non sembri affatto annoiata».
«Be’, ora all’improvviso non lo sono più!». Si sfiorò la guancia con le dita:
aveva le unghie dipinte dello stesso colore della stola. Gli giunse un leggero
sentore di Cuir de Russie. «Tè? O preferisci un whisky?».
«Non credo che...».
«Caro, bisogna che tu beva qualcosa, o Hildegarde s’insospettirà».
«In tal caso prenderò del whisky. Che razza di nome per una cameriera!».
«È tedesca, perciò non è un nome così insolito. Di’ quando basta».
«Volevo dire che... è insolito avere una cameriera tedesca».
«Oh, l’agenzia ne era piena. Costano lo stesso e lavorano di più. Le stanno
assumendo in tanti».
Ci fu una pausa; Edward bevve un sorso e poi, non perché la cosa lo
interessasse davvero ma solo perché la conversazione cominciava a metterlo a
disagio, le domandò: «Cosa stavi leggendo?».
«Il nuovo romanzo di Angela Thirkell. Piuttosto divertente, ma immagino che
tu non legga romanzi, vero caro?».
«Devo confessarti di no». Veramente non leggeva affatto, ma lei per fortuna
non volle approfondire, e questo aggiunse un nuovo granello alla montagna di cose
che Denise ignorava sul conto di Edward. Più passava il tempo da quando si erano
conosciuti, più quella montagna cresceva.
Era tornata alla sua posa studiata sul divano. Così lui poté apprezzare la curva
aggraziata della sua nuca, accentuata dalla folta chioma a caschetto...
«Credi che potremmo andare di sopra?».
«Temevo che non lo avresti più chiesto».
Era meravigliosa nel fare l’amore: passiva in apparenza, in realtà ardeva di
desiderio. Possedeva un corpo dalla voluttà inaspettata; vestita aveva un che di
fanciullesco, ma nuda era tutta un’altra cosa. Le disse che era più bella senza niente
addosso, ma lei non la prese bene. «Mi fai sembrare una donnaccia!», e i grandi
occhi grigio pallido iniziarono a gonfiarsi. Forse però il problema non era quella
frase, perché subito dopo sbottò: «Ho saputo che andrai in Cornovaglia per le
vacanze». Sì, disse lui. Chi glielo aveva detto? «Ho incontrato Villy dal
parrucchiere. È successo una settimana fa, e tu ancora non mi hai detto niente!». Le
spiegò quanto detestasse darle dei dispiaceri. «Vuoi dire che eri pronto ad
andartene così, senza dirmi niente?». Allora scoppiò a piangere apertamente. Lui la
strinse tra le braccia e prese a cullarla e disse ma no, certo che no, come poteva
pensare che fosse un tale vigliacco? Certo che glielo avrebbe detto, e poi si trattava
solo di un paio di settimane. «Ti amo così tanto». Edward sapeva che era vero.
Fecero l’amore di nuovo e lei sembrò sollevata. «È incredibile, non trovi?», disse
lei alla fine. Edward, dopo aver più o meno risposto che sì, lo era, le rammentò che
non avrebbe mai fatto nulla che potesse ferire Villy, perché amava anche lei. «Ed è
tua moglie». E poi, dopotutto, c’era anche Nigel, un uomo eccellente che l’amava
incondizionatamente, come tutti sapevano, e guardò l’orologio per aver maggior
agio nel dirle che doveva andar via – buon Dio, guarda che ore sono, bisogna
proprio che vada. E così fece, promettendole che si sarebbe fatto sentire la
settimana successiva, anche se si prospettava una settimana d’inferno. Ma avrebbe
fatto il possibile.
* * *
Polly stava percorrendo con calma Church Street diretta verso casa, con i fogli
di giornale sgualciti che svolazzavano intorno ai suoi candelieri. Era un
pomeriggio di sole: il cielo era azzurro, di un bell’azzurro delicato, la gente aveva
un’aria estiva. I lampadari nel negozio di Mrs Crick rilucevano di straordinari
bagliori blu e verdi. Polly si domandò chi fosse a comprarli. Non aveva mai visto
nessuno uscire dal negozio con un lampadario sottobraccio, e pensò che
probabilmente i facchini venivano a prenderli la mattina presto per portarli nei
palazzi. Fuori dalla latteria c’erano enormi bidoni per il latte, e l’interno era
rivestito di belle piastrelle verdi, bianche e color panna. Polly aveva deciso che a
casa sua avrebbe avuto una stanza rifinita in modo simile, non da usare come
latteria, bensì come studio per dipingere. Louise aveva suggerito di metterci anche
dei rospi, visto che era un ambiente così adatto a loro, ma Polly era decisa ad avere
solo gatti in casa propria, uno bianco e uno bianco e nero con lunghi baffi. Perché
per allora Pompey sarebbe morto di certo: era già vecchio – almeno otto anni,
aveva detto il veterinario – ed era stato investito da una macchina per ben quattro
volte, forse finendoci sotto. La coda era spezzata e gli pendeva dal didietro in una
linea contorta, e per essere un gatto si muoveva in modo assai rigido. Aveva deciso
di non pensare al momento in cui sarebbe morto, ma altri pensieri conducevano a
quello, e allora sentiva la gola contrarsi. Forse sarebbe vissuto altri otto anni, ma in
quell’arco di tempo lei non sarebbe riuscita a comprarsi una casa sua. Aveva messo
da parte ventitré sterline, quattordici scellini e sei penny per comprarne una, ma le
case costavano centinaia di sterline, e per procurarsi una somma simile avrebbe
dovuto come minimo salvare la vita a qualcuno o dipingere il più bel quadro mai
visto al mondo o dissotterrare un tesoro nascosto. Oppure poteva costruirne una. In
giardino ci sarebbe stata la tomba di Pompey. Ormai aveva svoltato entrando a
Bedford Gardens ed era quasi arrivata a casa. Si pulì gli occhi con un pezzo di
giornale: sapeva di pesce e patatine. Si pentì di averlo fatto.
Dovette posare a terra i candelieri e il piatto per entrare. La porta d’ingresso si
apriva direttamente sul lungo soggiorno. La mamma stava suonando un preludio di
Rachmaninov a volume molto alto e a ritmo veloce, così Polly si sedette in silenzio
finché non ebbe finito. Il brano le era familiare perché la mamma lo suonava di
continuo, per esercitarsi. C’era una vassoio con il tè davanti al divano, ma nessuno
lo aveva toccato. Conteneva panini alle acciughe e un dolce al caffè, ma Polly
sapeva che mangiarli sarebbe stato indice di scarsa sensibilità musicale, cosa che
sua madre non avrebbe tollerato, perciò aspettò. Quando ebbe finito, le disse: «Oh,
mamma, sei davvero brava!».
«Lo credi veramente? In effetti va meglio, no?».
Sua madre si alzò dal pianoforte e con passo lento e pesante raggiunse Polly e
il vassoio del tè. Era terribilmente grassa, ma non su tutto il corpo, solo la pancia:
entro poche settimane Polly avrebbe avuto un fratello o una sorella.
«Ti verso il tè?».
«Sì, cara». Si lasciò cadere sul divano. Portava un abito di lino verde salvia che
non faceva concessioni alla gravidanza.
«Ti senti bene?».
«Sono un po’ stanca, ma sì, certo che sto bene, cara. Oggi era l’ultimo giorno
di lezione?».
«No, è domani. Ma oggi abbiamo finito di leggere Otello. Esci stasera?».
«Sì, te l’avevo detto. Al Queen’s Hall. Trovo sia bizzarro leggere Otello alla
tua età. Non è più adatto Sogno di una notte di mezza estate?».
«Stiamo leggendo tutto Shakespeare. Perciò ci toccano anche le cose bizzarre,
mamma. Louise ha voluto così. Ognuna di noi ne sceglie uno, capito?».
Era buffo come con gli adulti bisognasse ripetere le stesse cose mille volte.
Forse era per questo che i neonati nascevano con quei testoni: la testa poi rimaneva
la stessa mentre il resto del corpo cresceva, ma questo voleva dire anche che lo
spazio del cervello riservato alla memoria era sempre lo stesso, perciò più si
invecchiava più si dimenticavano le cose. Per quanto sostenesse il contrario, sua
madre era stanca, aveva le borse scure sotto gli occhi e il resto della faccia di un
colorito verdastro, e poi pareva avesse un pallone nello stomaco, sotto il vestito.
Sarebbe stato più semplice se il bambino fosse stato contenuto in un uovo, ma il
corpo umano, immaginò, non era adatto a covare. Magari si poteva ovviare con
delle borse di acqua calda...
«Polly, te l’ho già chiesto due volte! Cosa c’è in quell’involto di carta di
giornale?».
«Oh, solo cose che ho preso nel negozio vicino a quello degli animali».
«E che cosa hai preso?».
Polly scartò il piatto e glielo mostrò. Poi fece lo stesso coi candelieri. Non
furono un successo, come del resto immaginava.
«Non capisco perché continui a comprare questa roba. Che cosa pensi di
farne?».
Polly non era capace di mentire, perciò non seppe rispondere.
«Insomma, la tua stanza è piena di cianfrusaglie. Non che io abbia nulla in
contrario, ma... perché?».
«Mi piacciono. E poi avrò bisogno di alcune cose quando sarò grande e avrò
una casa mia. Louise si è comprata un pesce gatto. Tu invece cosa compravi
quando avevi la mia età?».
«Non usare quel tono, Polly. È da maleducati».
«Scusa».
«Compravo mobili per la mia casa delle bambole. Quella con cui non hai mai
giocato».
«Sì che ci ho giocato». Aveva tentato di farsela piacere, ma era tutto già pronto
e non c’era niente da fare se non disporre sempre gli stessi pezzi di arredamento e
servizi da tè; anche le bambole avevano già un nome, perciò non le aveva mai
sentite davvero sue.
«E io che l’ho tenuta da parte tutti quegli anni per quando avessi avuto una
figlia!».
Le rivolse uno sguardo talmente triste che Polly non riuscì a sostenerlo.
«Forse al nuovo bambino piacerà».
«A questo proposito volevo fare due chiacchiere con te».
Mezz’ora dopo Polly procedeva affranta verso la sua stanza, trascinando le sue
porcellane. La sua stanza! E stava per essere buttata fuori per far spazio al dannato
bambino. Erano quelle le due chiacchiere. Era la camera più spaziosa e luminosa
del primo piano, e adesso se la sarebbero presa il nuovo arrivato e la sua orrenda
bambinaia; lei veniva esiliata nella cameretta sul retro, dove non c’era spazio per
niente! Non sarebbe riuscita a vedere né il postino, né il lattaio, né l’uomo che
accendeva i lampioni, né i suoi amici. Sarebbe stata confinata sul retro della casa,
con la sola compagnia dei comignoli. Simon avrebbe tenuto la mansarda perché lui
era un ragazzo (perché poi questo facesse differenza rimaneva un mistero). E non
si trattava solo di lei: c’era anche Pompey, e lui non poteva certo capire. «Non è
giusto», borbottò fra sé. L’ingiustizia le parve così smaccata e dolorosa che le
guance le si rigarono di lacrime. Simon stava quasi sempre in collegio, che se ne
faceva di una stanza col soffitto spiovente e piccole adorabili finestrelle? Tanto
valeva che lei e Pompey si sistemassero nell’armadio della biancheria! Ecco perché
sua madre aveva fatto tante storie per le porcellane. Nella cameretta di riserva non
c’era spazio per nulla, ecco. Evidentemente anche lei era una figlia di riserva. Il
pensiero le strappò un gemito. Le cose stavano così. In famiglia non era desiderata
la sua presenza. Si lasciò cadere sul pavimento accanto a Pompey, che se ne stava
in una scatola con una coperta di lana che gli aveva fatto lei, mettendoci una vita.
Dormiva. Quando lo svegliò per dirgli la novità, gli occhi dell’animale si aprirono
d’improvviso e poi si ridussero a fessure vibranti di piacere mentre si allungava
con voluttà sotto le sue carezze. Appena alzò la voce, però, soffiò dalle narici e
balzò in piedi. Polly aveva già notato che era insensibile ai sentimenti degli altri.
Se solo avessero avuto un giardino vero, ci sarebbe stata una carriola, e avrebbe
potuto metterci le sue cose e andare a vivere da Louise, la cui casa invece era
molto grande. Non appena fossero usciti per andare al concerto avrebbe telefonato
a Louise per chiederle in prestito la carriola. Sentì aprirsi la porta d’ingresso: papà
stava rientrando.
* * *
Di solito Hugh Cazalet guidava personalmente. A leggere in macchina gli
dolevano gli occhi e non avere nulla che lo distraesse dalla guida di un altro lo
innervosiva in una gamma di misure che andava dall’irritazione alla furia vera e
propria, che era poi quel che gli era accaduto quel giorno. Per giunta gli era venuto
uno dei suoi mal di testa appena prima di mezzodì e non aveva potuto annullare il
pranzo con un cliente, un architetto emergente fin troppo giovane, impiegato al
Ministero del Commercio, perché sia Edward sia il Vecchio erano troppo
impegnati per andarci al posto suo. Dunque aveva preso un taxi per andare al
Savoy a consumare un pasto con un perfetto estraneo che, se ne accorse subito, non
gli era granché simpatico. Boscomb riusciva a risultare arrogante pure quando gli
si rivolgeva con l’appellativo “sir”, che lo faceva sentire una mummia, quando
invece tra i due non c’erano più di sei o sette anni di differenza. Inoltre portava il
farfallino – un indumento che Hugh non si sarebbe mai sognato d’indossare senza
giacca da sera – e scarpe di due colori, bianco e caramello: aveva proprio un’aria
da mascalzone. Ma doveva acquistare pannelli di legno per gli ascensori di un
grosso complesso di uffici che aveva progettato o che stava supervisionando, e la
Cazalet aveva un magazzino pieno di legname che era compito di Hugh vendere. Il
cibo gli diede un po’ di conforto, ma il problema era bere. La buona educazione
imponeva che bevesse qualcosa con il suo ospite: dello sherry secco prima di
pranzo che credeva (sbagliando come sempre) potesse fargli bene, un borgogna
bianco col pesce e porto con il formaggio. Riuscì a evitare il porto, ma per allora la
testa già gli martellava. Si accordarono perché Boscomb andasse in visita al molo,
dove avrebbe potuto visionare campioni di dimensioni superiori ai dieci centimetri,
poi finalmente Hugh poté firmare il conto e svignarsela. Prese un altro taxi e tornò
in ufficio, dove aveva la sua medicina. Disse a Mary, la segretaria, di prendere le
sue chiamate e lasciarlo in pace fino alla riunione prevista per le tre e trenta,
dopodiché si allungò sul divano e dormì della grossa.
La segretaria lo svegliò con una gradita tazza di tè e con la notizia ancora più
gradita che la riunione era cancellata. «Mrs Cazalet ha telefonato per ricordarle il
concerto di questa sera. Oh... e Mr Cazalet senior ha detto che la riaccompagnerà a
casa Carruthers».
La ringraziò sbrigativamente e la donna uscì dalla stanza. Tutto l’ufficio era
impegnato in un generale tam-tam volto a trattarlo come un vecchio rottame, solo
perché aveva un po’ di mal di testa! La rabbia e l’umiliazione che provava per la
sua salute devastata si riversavano contro chiunque mostrasse di aver preso atto di
questo stato di cose: suo padre che si era premurato di procurargli un autista, la
segretaria che aveva sparso ai quattro venti la notizia del suo pisolino. Perché non
teneva mai la bocca chiusa, quella sciocca donnetta? Se gli serviva un passaggio,
poteva chiederlo a Edward, e poteva sempre portare Sybil al concerto in taxi. Si
accese una Gold Flake per calmarsi e andò alla scrivania per telefonare a Edward.
Edward però era già andato via, lo informò la segretaria, circa mezz’ora prima.
Sulla sua scrivania c’era una foto di Polly e Simon. Simon guardava l’obiettivo con
un’aria ferma e spavalda, sorridente nell’uniforme scolastica grigia con i pantaloni
corti che gli lasciavano scoperte le ginocchia piene di cicatrici e segni di battaglia.
Polly invece, la sua cara Polly, sedeva a gambe incrociate nell’erba alta e guardava
in direzione opposta al fratello, verso un punto lontano noto solo a lei. Portava un
vestitino senza maniche e una spallina le era scivolata un poco sulla spalluccia
ossuta; aveva un’espressione seria e vulnerabile allo stesso tempo. «Pensavo», gli
aveva risposto quando le aveva chiesto che cosa stesse facendo. Polly! Lei era il
suo tesoro segreto. Ogni volta che pensava a lei si sentiva un uomo fortunato. Non
aveva mai parlato con nessuno di quanto fosse importante per lui, nemmeno con
Sybil, la quale invece – una volta o l’altra bisognava che affrontassero l’argomento
– faceva sempre un gran parlare di Simon. Be’, il terzo figlio avrebbe equilibrato la
situazione. Spense la sigaretta, raccolse il cappello e andò in cerca di Carruthers.
* * *
Durante l’ora del tè Louise si era annoiata con Lydia e Nanny, perché mamma
era ancora fuori. Aveva mostrato il pesce gatto a Lydia, che però non era parsa
molto interessata. «I pesci sono una noia», aveva detto. «A meno che non gli
insegni a farsi accarezzare». Aveva fatto merenda con la giacca da cavallerizza
indosso: le teneva un gran caldo, così era rossa in volto e si era pure versata del
miele su una manica. Ciò aveva causato del trambusto perché Nanny, quando
puliva la povera Lydia, sembrava che la stesse sottoponendo a una tortura. Louise
se la svignò subito dopo aver bevuto il tè, fingendo di dover fare i compiti. Il guaio
con i bambini di sei anni era che erano innegabilmente dei gran rompiscatole e,
sebbene volesse molto bene a Lydia, non vedeva l’ora che raggiungesse un’età di
maggior raziocinio. Forse però non saremo mai pari: io avrò sempre letto tutti i
libri prima di lei e, quando lei avrà il permesso di cenare in sala da pranzo e di
andare a letto quando vorrà, queste cose per me saranno già normali e non mi
sembreranno così eccitanti. Una volta diventate grandi, tuttavia, tutto ciò non
avrebbe avuto troppa importanza, perché gli adulti erano tutti uguali qualunque età
avessero.
Trotterellò nell’ingresso, dove il postino aveva fatto scivolare una copia
dell’«Evening Standard», la prese e se la portò nel suo rifugio sopra il pozzetto
murato dell’ascensore della sala da pranzo, un’ottima posizione perché permetteva
di intercettare mamma non appena rientrava e inoltre era fuori dalla portata di
Lydia, caso mai avesse deciso di venirla a cercare. I giornali di solito si rivelavano
poco interessanti, fatta eccezione per la pagina degli spettacoli e per la rubrica di
una certa Corisande, la quale, a quanto pareva, andava a un sacco di feste e faceva
descrizioni mozzafiato dei vestiti delle signore. Cercò una foto di John Gielgud per
la sua collezione, ma non ce n’erano. La casa era immersa in un silenzio totale, a
parte il ticchettio dell’orologio del nonno al piano di sopra. Aprire il lucchetto della
libreria del soggiorno per leggere qualche pagina di uno dei romanzi che mamma
non riteneva adatti alla sua età non era una buona idea, perché Villy poteva tornare
da un momento all’altro. Per il resto, le venivano in mente solo passatempi a cui
non aveva voglia di dedicarsi: disegnare la mappa delle isole britanniche – come le
era stato assegnato –, cercare di vendere a Edna un vasetto di crema per il viso
prima che diventasse troppo liquida, trascorrere un altro po’ di tempo con il pesce
gatto (ma il commento di Lydia le aveva un po’ guastato il divertimento), rileggere
Black Beauty e farsi un bel pianto, oppure lavorare al regalo di Natale per mamma,
un portaaghi con un motivo a punto croce piuttosto banale che le era già venuto a
noia. Era la sua vita, ed ecco come la sprecava: i minuti passavano e tutto quello
che faceva era respirare e invecchiare. E se per tutto il resto della sua esistenza
avesse continuato a non succederle niente? Se fosse rimasta lì, sopra il pozzetto
dell’ascensore, ad accumulare anni? Avrebbero dovuto passarle da sotto vestiti
sempre più grandi e i pasti, e come avrebbe fatto ad andare al bagno? C’era stata
gente che aveva vissuto sopra una colonna, certi santi alquanto sudici. Lei non
avrebbe potuto, perché doveva dar da mangiare a Ferdie e al pesce. Ma del resto,
se quando andava in vacanza poteva lasciare queste incombenze a Emily o a
Phyllis, be’, allora poteva anche vivere sopra una colonna. Chiunque sarebbe stato
ben lieto di dar da mangiare a uccelli e pesci appartenenti a una santa. Certo, essere
dei santi non era poi un granché per i diretti interessati; diventava bello dopo, per
quelli che rimanevano dopo la loro morte. Fare un miracolo doveva essere
meraviglioso, ma essere martiri non lo era per niente. Uno però poteva essere un
santo senza essere martire, o no?
Sentì arrivare un taxi. «Fa’ che sia lei, fa’ che sia lei...».
Fu accontentata. Saltò giù dalla cabina dell’ascensore nell’istante in cui
mamma varcava la soglia di casa. Portava tre enormi scatole di cartone che
avevano tutta l’aria di contenere capi di vestiario. Corse ad abbracciarla e fece
cadere una delle scatole dalle braccia della madre.
«Cara, quanto sei maldestra!».
Louise avvampò. «Lo so», replicò fingendo indifferenza, «a quanto pare ci
sono nata».
«È perché non guardi quello che fai». La frase le parve così insensata (come
può uno guardare quello che fa? Una cosa o la fai o la guardi) che corse di sopra
saltellando con le scatole tra le braccia, senza dire una parola.
Villy si stava togliendo i guanti, controllando sul tavolo dell’ingresso se
c’erano messaggi. «Madam, ha telefonato Mrs Castle. Non ci sono messaggi».
«Louise, non aprire quelle scatole finché non vengo! Louise!».
«Sì! No... voglio dire, non le apro».
Villy andò nello studiolo buio che usava per pagare i conti di casa, dove c’era
il telefono. Sua sorella non lasciava mai messaggi quando telefonava, di solito
perché quel che aveva da dire era troppo complicato e deprimente per essere
riassunto in poche frasi. Diede il numero all’operatore e, mentre aspettava che
Jessica rispondesse, si chiese con un senso d’apprensione che sentiva egoistico
quale fosse il problema stavolta. Non aveva molto tempo per cambiarsi, e doveva
ancora preparare i vestiti per Edward...
«Jessica! Ciao. Ho avuto il tuo messaggio. Che succede?».
«Adesso non posso dirtelo. Ma mi chiedevo se domani possiamo pranzare
insieme».
«Cara, domani è venerdì. Miss Milliment si ferma a pranzo ed è l’ultimo
giorno di lezione di Louise, poi c’è Teddy che torna dal collegio... certo che puoi
venire a pranzo, però...».
«Ho capito, non riusciremmo a parlare. E se venissi lì un po’ prima... credi
che...».
«Sì, facciamo così. Non va tutto bene, mi pare di capire».
«Non proprio. Raymond ha avuto un’altra delle sue idee».
«Oh, Signore!».
«Ti racconto domani».
Villy riappese. Povera Jessica! La bellezza della famiglia, più giovane di lei di
un anno, si era sposata a soli ventidue anni, poco prima della battaglia della
Somme nella quale suo marito aveva perso una gamba e, quel che era peggio, la
saldezza di nervi. Raymond veniva da una famiglia caduta in povertà: l’esercito
doveva essere la sua carriera. Aveva avuto, e in un certo senso ancora conservava,
uno spirito franco e affascinante, che lo rendeva simpatico a tutti. La sua indole
infiammabile e la sua incapacità di portare a termine qualcosa emergevano solo per
chi investiva soldi nel suo allevamento di polli o per chi, come nel caso di Jessica,
se lo era sposato. Avevano quattro figli e vivevano in grandi ristrettezze. Anche se
non si lamentava mai, era evidente che Jessica pensava che la vita di Villy fosse
spensierata e perfetta, e quel raffronto non detto spaventava Villy. Se era vero che
non le mancava nulla, perché questo non le bastava? Salì lentamente le scale,
sforzandosi di non seguire il filo di quel pensiero.
* * *
Dopo che Polly fu salita al piano di sopra con aria chiaramente imbronciata,
Sybil chiamò Inge col campanello perché portasse via il vassoio del tè. Si sentiva
sfinita. Avere un altro bambino dopo tutto quel tempo portava un grande
scompiglio. In realtà la casa non era abbastanza grande, ma Hugh ci era
affezionato. Quando Simon tornava dal collegio – ma anche nei fine settimana, con
Polly in casa tutto il giorno – si poteva soltanto stare ognuno in camera propria.
Tata Markby aveva dato a intendere chiaramente che nella stanza del piccolo non
dovevano dormire anche gli altri figli. Certo, l’estate l’avrebbero trascorsa nel
Sussex, ma Natale sarebbe stato un problema. Si sollevò a fatica dal divano e andò
a chiudere il pianoforte. Non ricordava di aver sofferto di un tale mal di schiena
durante le gravidanze precedenti.
Arrivò Inge. Se ne stava sulla soglia ad aspettare che le si dicesse cosa fare.
Una cameriera inglese l’avrebbe fatto e basta, pensò Sybil. «Per favore Inge, porta
via il vassoio».
Osservò la ragazza mentre impilava i piatti e li deponeva sul vassoio. Era
decisamente bruttina: ossa grandi e carnagione pallida, capelli grassi del colore
della stoppa e due slavati occhi azzurri piuttosto prominenti, dall’espressione ora
stolida ora furtiva. Sybil si sentiva a disagio per l’antipatia istintiva che provava
nei suoi confronti. Non fossero stati sul punto di partire, si sarebbe sbarazzata di
Inge, ma non voleva che Hugh, in sua assenza, dovesse gestire una nuova
cameriera. Quando il vassoio fu pronto, Inge disse: «La cuoca fuole sapere a che
ora servire la cena».
«Probabilmente non prima delle dieci, dopo il concerto. Dille di lasciare tutto
in sala da pranzo e di andare pure a dormire. Miss Polly cenerà in camera sua alle
sette».
Inge non rispose, e Sybil disse: «Mi hai capita, Inge?».
«Ja». Replicò la ragazza, senza muoversi e tenendo gli occhi sulla pancia di
Sybil.
«Grazie, Inge. È tutto».
«Ha una gran pancia per un bambino solo».
«È tutto, Inge».
Senza battere ciglio, ma con un’impercettibile alzata di spalle, finalmente se ne
andò.
Neanche io le piaccio, pensò Sybil. Il modo in cui l’aveva guardata la
cameriera era... non trovava nemmeno lei le parole: freddo, giudicante, orribile.
Salì stancamente le scale fino in camera da letto, si tolse il vestito verde e indossò
il kimono. Poi riempì il catino di acqua calda e si lavò le mani e il viso. Per fortuna
avevano fatto installare un lavello nella loro camera: il bagno si trovava mezza
rampa di scale sopra, e per lei le scale erano un’ardua prova. Si tolse le scarpe e le
calze. Aveva le caviglie gonfie. Portava i capelli – che Hugh definiva color
mogano grezzo – acconciati in una piccola crocchia dietro la nuca e tagliati corti
sulla fronte, alla du Maurier, diceva Edward. Si sfilò le forcine e scosse la testa
sciogliendo i capelli; si sentiva molto meglio così, déshabillé. Lanciò un’occhiata
al letto e in un attimo vi si ritrovò distesa sopra. Per una volta il bambino non stava
scalciando. Che sollievo stare sdraiata! Tirò fuori un cuscino da sotto il copriletto,
vi si sistemò sopra e si addormentò quasi subito.
* * *
Edward, sapendo di essere in notevole ritardo, entrò svelto in casa, posò il
cappello sul tavolino, salì le scale due a due e andò dritto in camera da letto. Qui
trovò Louise con addosso una specie di costume d’epoca e Villy seduta davanti
allo specchio, intenta a pettinarsi.
«Ciao, ciao».
«Sono Simpson», dichiarò Louise.
«Ciao, caro», disse Villy e voltò il viso verso di lui in attesa di un bacio. Sul
tavolinetto piuttosto sguarnito c’era un vasetto aperto di cipria.
Edward si voltò per abbracciare Louise, la quale però s’irrigidì e si sottrasse.
«Papà! Sono Simpson!».
Villy disse: «E non posso permetterti di baciare la cameriera di Milady».
Incrociò lo sguardo della moglie in un angolo dello specchio e ammiccò:
«Sono davvero spiacente», disse. «Non so cosa mi sia preso. Ho tempo per un
bagno?».
«Simpson, riempiresti la vasca per Mr Cazalet? Poi potresti tirare fuori i miei
granati».
«Sì, Madam». S’incamminò continuando a impersonare Simpson, uscì dalla
stanza e poi si ricordò: «Papà! Non ti sei accorto!».
«Di cosa?».
Louise indicò sua madre, indicò i propri vestiti e articolò qualcosa che
sembrava “tu”. Poi pestò i piedi e disse: «Papà, quanto sei stupido!».
«Basta così, Louise».
«Mamma, sono Simpson!».
«Allora, va’ subito a preparare il bagno per Mr Cazalet, oppure i granati me li
vado a prendere da sola».
«Oh, subito, Madam».
«Di che parlava?».
Fine dell'estratto Kindle.
Ti è piaciuto?
Scarica la versione completa di questo libri