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Letteratura & Linguaggio : Translinguismo & Traduzione
Enduring Babele Poetica dei Mondi, Poetiche del Mondo
Sapienza - Università di Roma – Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Letteratura, Musica e Spettacolo Curriculum in Musica e Spettacolo
relatore: armando gnisci candidato: david tozzo
anno accademico 2005-2006
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Indice
I. Introduzione
II. Βαβέλ , Βαβυλών
III. Tutto è interconnesso, tutto è interconnessione
IV. Diasistemicità, dialogicità, relatività, reciprocità
V. Lingua & Letteratura
VI. Translinguismo & Traduzione
VII. Time & Die Welt
VIII. Comunicazione globale, comunicazione totale
IX. Conclusione
X. Bibliobabele
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Ad ogni donna & uomo, ad ogni specie, ad ogni mondo d’ogni universo, e ad ogni universo di cui essi fan parte
Alla comunicazione & alla comprensione
Alla poesia
A tutta quanta Babele
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“Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’Oriente gli uomini capitarono in una pianura del
paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da
pietra e il bitume da cemento. Poi dissero. “venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per
non disperderci su tutta la terra.
Ma il Signore scese a vedere la città e la torre e disse: «Ecco, essi sono un popolo e hanno tutti un medesimo linguaggio. Niente ormai li impedirà di
condurre a termine tutto quello che verrà loro in mente di fare.Orsù dunque proprio lì confondiamo il loro linguaggio, in modo che non
s’intendano più gli uni con gli altri.Così il Signore di là li disperse sulla faccia di tutta la terra ed essi
cessarono di costruire la città, alla quale perciò fu dato il nome di Babele, perché ivi il Signore aveva confuso il linguaggio di tutta la terra”
(Genesi, 11, 1-9).
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I. Introduzione
Lingua & trasmissione.
Sono queste due assonanze delle quattro parole a titolo di questa tesi.
E sono tendenzialmente infinite la assonanze, le similitudini, le sovrapposizioni,
le rime che su questa tesi s’incontrano, di continuo, in quel continuo caos che è
la creazione.
E ciascuna delle parole di quest’ultimo periodo serba in sé, sotto di sé, attraverso
sé diversi significati in un gioco di scatole cinesi - di matrioske più propriamente,
per questo, per ora - che è uno spazio vitale reale, effettivo, che prescinde da
qualsiasi razza o ragione, pretesa o pazzia…
. ..come ‘similitudini’, così come del suo speculum ‘diversità’; assonanze, come
suono della forma del jazz a venire di Ornette Coleman, e come i mille suoni di
tutto, persino del mimo da Sofrone di Siracusa a Marcel di Strasbourg; come
‘sovrapposizioni’, di pensieri uno dopo l’altro, di parole prima e dopo essi, ed
attraverso, soprattutto attraverso, l’un l’altro & l’altro l’uno; come rime, non
necessariamente metriche ma comunque testuali, non necessariamente aleatorie
bensì certamente strutturali; come ‘continuo’, che la continuità sono gli anelli
della stessa unica, infinita catena che è la correlazione delle particelle minime
tutte dell’universo, e più in piccolo la continuità che c’è tra chiunque e chiunque
altro, in pochi passi, anzi in uno solo, per cominciare a destra solo perché da
qualche parte si dovrà pur cominciare o da qualche altra, per poi continuare in
ogni direzione possibile; come ‘tendenzialmente’ e come ‘infinita’, come l’universo
e come noi che come una matrioska vi stiam dentro, vi siam dentro, diveniam
fuori..
E’ questa una tesi sull’essenza dell’essere, ch’è trovata unicamente nel non
unico, nel non isolamento, nel relazionarsi agli altri, nel far parte d’un qualcosa
ch’è molto più che Gaia, bensì ch’è l’universo del quale facciam parte e col quale
dunque siam messi in correlazione, e dunque in comunicazione.
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In movimento, chi si ferma è perduto, e perduto è chiunque se non resta a
comunicare in contatto con gli altri.
In un mondo tanto piccolo in un universo tanto grande quali sono i nostri,
esistono migliaia di lingue e migliaia e migliaia ne sono esistite.
Questa è una tesi sul come possono e come non possono che comunicare queste
lingue tra loro, ed attraverso loro noi, che siamo i mezzi per loro d’essere, e
viceversa.
E non solo.
Non soltanto sul linguaggio del verbo, ma circa ogni linguaggio possibile. Ed
anche circa quello impossibile, ma a cui bisogna che tutti tendiamo, ovvero ad un
linguaggio unico che non si trova all’origine [che l’origine non esiste, è un anello
staccato dal resto della catena, è un attimo che è andato, tornato all’origine
appunto e che dunque più non è, è un qualcosa a cui non più volgersi, ma
volgersi al suo diametrale contrario: all’allontanarvisi, all’avanti] bensì si potrà
trovare solo alla fine, alla fine della costruzione della Torre di Babele che per
definizione è infinita, oltrepassa il cielo, lo attraversa, e che per sfida, per tensione
vitale (di movimento e mantenimento, della vita) non possiam far altro che
continuare a costruire, sempre più in alto, sempre più caotica, sempre più
impossibile e proprio per questo possibile, sempre più vite, sempre più vita.
Poiché l’unico stato che ci governa è il caos, l’unico linguaggio che possiamo
parlare nell’universo sono i linguaggi tutti dell’universo, l’unica evoluzione che
possiamo perpetrare è la rivoluzione e l’unico limite che non ci può oltrepassare è
il cielo, e ogni altro limite lo stesso.
Rivoluzione, si.
Questa tesi si fonda sulle riflessioni d’una vita e sui riflessi di due libri:
“After Babel” di George Steiner e “The Translingual Imagination” di Steven G.
Kellman1, polieuropeo il primo strettostatunitense il secondo, due punti di vista
differenti su due punti diversi, ovvero sempre in ordine la traduzione e il
translinguismo.
I due punti poi si incrociano, si intrecciano, si mescolano e migrano l’uno
nell’altro, come da codice genetico e linguistico di questo elaborato, e generano
punti che non necessariamente appaiono nei tempi, luoghi e soprattutto modi
1 Tutti i riferimenti a questi due autori nel testo sono tratti da questi due volumi. Ulteriori citazioni da altri autori privi di nota sono rincontrabili & riconducibili e ai medesimi due volumi.
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previsti, con le cicatrici dell’origine, del background qui polieuropeo e lì
strettostatunitense, ma vanno molto oltre.
Oltre ad arrivare e ad essere traslati, tradotti, recepiti e rielaborati, ricevuti e
ritrasmessi, strozzati e fatti rinascere da me in questa tesi.
Da essi traggo punti, spunti, che estraggo e astraggo, attratti a tratti e ad altri
respinti. Riformulati. Accolti, Riformulati ancora. Ed ancora.
A questi due e a me s’aggiungono altre rivoluzioni, di rivoluzionari veri di cui la
tesi è piena e il mondo un po’ meno, ma ne ha più bisogno d’essa.
C’è dialogo, tra tutti, ed io parlo e mi faccio parlare da tutti, tutti passano
attraverso me e viceversa, cosicché riscrivo (traduco) verso chiunque altro sia in
ascolto, sia sintonizzato, e cioè potenzialmente tutti, lembi di mare, terra, vita,
pensiero di questi rivoluzionari e ne faccio humus, DNA del testo, che è vivente,
vivo; dialogo totale che poi è l’obbiettivo, l’ursprache all’interno d’un tunnel pur
luminoso allontanatesi dall’origine, dal buio della non diversificazione, della non
vita; che è la benedizione di Babele, che squarcia il velo dell’unica lingua
originaria ad omologare e dunque appiattire, schiacciare, annichilire, cancellare
tutte le differenze di tutti gli esseri umani e inverte la rotta, dallo sprofondare
nella finitudine dura e meno dura della terra al tendere verso l’infinito meno e
meno palpabile del cielo, verso la diversificazione, verso la comunanza delle
diversità, e alla sua vitale forza.
E’ questo un testo che tende sino ad oltre gli uomini stessi, oltre a dio dunque,
che dagli uomini è stato creato e dunque è meno potente, è in effetti degli uomini
debolezza. Tende oltre il linguaggio stesso dell’uomo, la sua espressione e la sua
affermazione.
Tende, questo testo, a qualcosa di più importante dell’uomo in sé per sé e ovvero
all’affermazione dell’esistere dell’uomo, e del suo esprimere, ovvero al comunicare
questo all’altra, alla donna. E viceversa. E quella donna a un altro uomo, e poi ad
un’altra donna ancora, ciascuno nel suo linguaggio e ciascun ponte tra due (o
più) una traduzione (e più), una traslazione, un attraversamento. Il linguaggio,
proprio come vita, fatto per essere attraversato, per essere tradotto, per essere
trasmesso. Questa tesi è questo. Questa tesi è Babele.
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II. Βαβέλ , Βαβυλών
Errore.
Ho pensato a spostare subito il centro, il baricentro del mio punto fisso, di vista,
di fuga, e di smuovermi, di muovermi, di muovere dal punto di partenza ed
avanzare, andare avanti.
Essendo romano, ed essendo legato (almeno alla mia origine, almeno nei primi
momenti quanto a concepimento, - suppongo - e venuta al mondo - so - e allo
stato in luogo attuale e a cui più volte faccio ritorno, o meglio, preferisco dire, a
cui vado, che il ribattere su un passo battuto è un altro errore, oltre che
un’impossibilità, come “già” Eraclito da Efeso) a Roma ne vedo l’importanza
fondamentale, più nell’accezione riferentesi alle fondamenta nello sviluppo della
moderna civiltà euroccidentale tutta e a tratti, a tracce, non solo, con meno o più
permeazione là e qui nelle arti, nelle scienze, nei popoli, nei linguaggi.
Eppure.
Ho scartato a destra.
Non sorpassato, non un’infrazione, un errore sul codice stradale, ma un errore
sul codice genetico, o almeno sul mio stato in luogo, o almeno del mio stato in
luogo originario.
Ho spostato il puntatore, il punto, il centro un po’ più a destra, di lato.
E ponte immaginario su lembo di mare, o ancor meglio a nuoto, ma senza affanno
che il passo è breve, un unico passo a destra, sono arrivato in Grecia.
Ho pensato alla stessa come vera origine, vero centro dell’euroccidentalità che è
permeata poi un po’ tutta da questa diffusamente riconosciuto punto di partenza
dell’Europa e dei suoi figli bastardi nell’accezione positiva ma soprattutto negativa
del termine (dalla colonia più piccola agli Stati Uniti d’America. Ma anche
dall’inglese all’India. I passi sono eccezionalmente brevi e le ferite estremamente
profonde), per cominciare.
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Ho provato a decentrarmi, decolonizzarmi dal mio essere in origine e dal mio stato
in luogo.
D’altra parte se tutte le strade portano a Roma tutte le strade porteranno via da
essa, ed ovunque (essendo esse tutte), e d’altrancora parte dovevo cominciare con
un passo senza il quale non poteva essercene un altro, e senza il quale non può
esserci un primo, dunque passo alcuno, dunque morte che è staticità che è
morte…. l’alterità, questa sconosciuta (d’ennesima parte siamo all’inizio, tu ed io
che siam altri l’un l’altra in questa tesi), ed essendo transitivamente io
sconosciuto ad essa voglio conoscerla. Questa è la comunicazione: voglia di
conoscenza. E questa è vita.
E dunque ho usato il greco, per dar primo titolo a questo primo capitolo di due
parole non originariamente (niente è originario, tutto è tendere a, come vedremo)
elleniche.
Babele, Babilonia.
Errore.
Non è l’inizio di niente.
Atene. Come non lo è Roma.
In nessun senso. Neppure della tesi, che si apre prima ancora con una citazione
dall’Antico Testamento circa la Torre di Babele ed è un errore - voluto - anch’esso,
in quanto ho eretto la torre, intesa come tesi, con la citazione eretta in cima ad
essa [o alle fondamenta, secondo l’alterità, la diasistemicità che è alla base di ogni
torre, Babele e tesi comprese] non per erigere ed onorare una citazione biblica di
tanta autorevolezza. Ma proprio per il suo contrario, come ribaltamento della
torre.
Le origini del nostro euroccidente, del cristianesimo, dell’anno zero di me, della
tesi, di te [probabilmente] che la stai leggendo poste come ultimo problema,
ultimo punto, ultimo punto all’orizzonte.
Annichilite. Anticristo. Antizero. Antitutto.
E adesso il solco è più grande d’un lembo di mediterraneo, il passo è più grande.
D’altra parte Cristo era tutt’altro.
Cristo era nero, fermandoci per un attimo ed andando indietro [non tornando, e
su questo non torno], non bianco e biondo come la società euroccidentale
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infettata e infestata dalla santa romana chiesa ci ha spinto, venduto; così come
nera era Atena, a seguire la teoria dello studioso dello studioso angloirlandese
Martin Bernal esposta nei tre volumi “Black Athena”, che ci porta piuttosto
ulteriormente sulla retta via, proponendo uno spostamento della nostra
(euroccidentale, mia, tua &c.) visione d’orizzonte, baricentro, verso una proposta
afroasiatica dell’origine di Atena & di Atene.
Atene & Roma.
Nel passaggio della sfera - d’influenza - e dunque di consegne del ruolo di centro
dell’euroccidente da Atene a Roma, cosa poteva garantire che l’uomo non fosse
privato della saggezza e del profitto culturale maturato ad Atene, e venuto da
oriente, ora che il passo verso occidente e contrario a quello fatto da me da Roma
ad Atene veniva fatto?
Come traghettare Atene a Roma, oltre che per mare? Quale Caronte?
Alle seconde domande la risposta è: il linguaggio.
Alla prima: la traduzione:
Roma divenne un immenso e inesausto polo a raccogliere migliaia di traduttori
delle opere delle arti e delle scienze delle polis. Qui e ora c’è forse a ben vedere un
gioco di parole, lì a quel tempo certamente si faceva sul serio.
Quello fu il primo passo sistematico, come della sistematicità di costruzione d’una
torre, di babelizzare ovverosia di affrontare un processo di traslazione, trapasso
(in accezione del tutto vitale piuttosto che il contrario!), di traduzione dell’humus,
del DNA, del background, delle fondamenta da una torre a un’altra, da una civiltà
a un’altra, da un alfabeto a un altro, da una lingua a un’altra, da un’altra ad una
sponda diversa di unico, medesimo mare.
Etemenanki.
Che si potrebbe essere da me o di per sé indotti, ve lo leggo negli occhi di voi che
leggete, a pensare come ‘Errore’ in un’altra lingua.
Errore.
Etemenanki non è errore, come in principio di capitolo.
Etemenanki è in principio.
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In principio era Etemenanki.
E – temen – an – ki
Tempio – fondamento – cielo - terra.
Etemenanki è Babele, in sumerico, lingua che al tempo dell’edificazione della
torre era morta da più di mille anni ma era considerata lingua nobile, come in
Europa il latino successivamente, e successivamente al greco, lingua attraverso la
quale la parola entra in occidente [e in questa tesi, ecco uno dei perché] in cui il
termine è reso Βαβυλών (Babylon), variante dell’accadico Babilu (bāb-ilû).
Nell’Antico Testamento il termine appare come e vuol dire nella (Babele) לבב
Genesi “confusione”, da verbo “balal”, confondere.
Il termine Babele inghiotte così quello di Babilonia, e la Torre di Babele - torre di
Babilonia – inghiotte così la città stessa entro la quale è stata costruita, così come
Babele inghiotte tutte le lingue degli uomini che si rivoltano contro loro stessi.
Il mito di Babele è il mito della razza umana.
Diversificata, diversa, diversificatesi.
In comunicazione, incomunicazione.
Βαβέλ.
Che adesso, con uno scarto a sinistra, sapete cosa voglia dire.
E se sapevate il greco antico lo sapevate già.
E se non sapevate questa tesi moderna non lo saprete mai.
O forse si.
O forse.
No.
Comunque un inizio.
Una scintilla.
Uno scatto.
Bang!
Big Bang.
Un unico solitario istante, e poi… .
Infiniti
Espansione, moltiplicazione, infinitizzazione. Movimento.
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Cambiamento continuo, comunicazione continua, scambio continuo, continuo
scambio, input/output costantemente ribaltati, vie che portano a e portano da,
vite che si muovono da e si muovono a, mondi che s’avvicinano e s’allontanano.
L’universo s’espande in diversi pianeti, costellazioni; il tornare tutto simile a sé
stesso, il restringersi, l’autosoffocarsi, l’implodere è il big crunch.
Il big bang consiste nel moltiplicarsi, nello sterminarsi.
Nell’accezione esattamente antitetica allo sterminio del termine, curiosamente.
L’universo si espande in un un-verso, unico verso, ovvero l’espansione, dal nucleo
all’espandersi in ogni direzione possibile.
In principio insomma era Etemenanki, ovverosia erano tutti i verbi possibili.
D’altra parte in principio era il verbo. E non solo nella Bibbia.
Di seguito ecco l’inizio del poema epico babilonese della creazione, l’Enûma Elish:
Quando in alto i cieli non avevano un nome
e la terra non era chiamata per nome
esistevano solo Apsu, il primo, il loro genitore
e Ti'amat la creatrice, che ha partorito tutti:
essi mescolavano le loro acque, fondendole in un tutt'uno
prima ancora che i prati fossero formati e si vedessero i canneti
quando nessuno degli dei era ancora apparso
o aveva ricevuto un nome, e i destini non erano fissati,
allora, nel loro seno, vennero creati gli dei;
Lahmu e Lahamu apparvero, e ricevettero un nome
Il verbo (cioè la parola), il nome, il nominare alla base della creazione. In
principio. Propedeutici.
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Incredibile eppure credibilissimo che anche l’inizio della Tanàch, e dunque della
Torah, e dunque ancora della Genesi e della Bibbia tutta cominci in maniera del
tutto simile.
In principio era il verbo,
il verbo era presso dio
e il verbo era dio
Dunque la parola come dea creatrice, come creazione stessa, autogenerantesi e
generante.
Andando invece alla fine dell’Enûma Elish, poema che parla della nascita, delle
imprese eroiche e del raggiungimento della supremazia tra tutti gli dei di Marduk,
vediamo che in seguito a quest’ultimo avvenimento gli dei attribuiscano a Marduk
cinquanta nomi, ciascuno riguardante un suo attributo o una sua abilità, e il dio
scelga proprio Babilonia come propria sede, e ivi faccia costruire il suo tempio,
l'Esagila, a sud dell’Etemenanki, la Torre di Babele.
Da tutto questo traiamo delle cose: oltre che sfortunatamente il cristianesimo, il
fatto che dal nominare derivi l’essere.
L’essere sia in quanto sia nominato, in quanto sia parlante.
In principio dunque il verbo, la voce, la propria voce, farla ascoltare, dunque
essere, dunque lo stare, dunque lo stare assieme, dunque lo starvi scrivendo.
C’è poi da esaminare la questione dei mattoni dentro Babele, o delle Babeli dentro
Babele. In espansione, appunto: Babele non è statica, ed è una torre che punta
ad elevarsi sempre più, costantemente, proprio come il big bang che continua a
generare galassie.
E proprio di galassie si tratta quando si tratta di diverse torri di Babele sparse e
sterminate per tutto il globo, restando nell’ambito di quest’unico pianeta di
questa galassia.
Situazioni di multilinguismo sussistono praticamente ovunque, in qualsiasi parte
del mondo che sia in comunicazione con il resto, in qualsiasi comunità di viventi,
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e dunque di parlanti, che non sia assolutamente isolata, mai entrata in contatto
con alcuna altra e dunque che sia probabilmente sconosciuta.
Le differenze stesse poi sono molteplici, e non si limitano alla grandezza,
consistenza e colore dei mattoni con cui si edificano queste babeli-dentro-babeli.
Babele è insomma un destino, sia in italiano che in spagnolo (e nei dialetti di una
e dell’altra lingua, e nelle lingue in una e nell’altra lingua, ed in altre no, e via
scorrendo e discorrendo), o come volle dio una maledizione, o come vorrei io una
condanna [qui l’accezione è positiva, o positivizzata, come di giusta sentenza].
Il grande poeta e linguista della (vecchia) York, Wystan Hugh Auden, si mostra e
noi (e si dimostra di suo) più simile a dio che non a me, per quanto io sia come lui
esistente, umano e poeta, affermando che “A causa della maledizione di Babele, la
poesia è la più provinciale tra tutte le arti.”.
In questo, come del resto nel resto, sono in disaccordo tanto con dio quanto con
Wystan.
Riscrivo la sua frase: “Grazie al destino di Babele, la poesia è la più peculiare tra
tutte le arti.”.
Come si sarà inteso se non prima dopo aver letto questa riscrittura, s’è trattato di
riscrittura nel senso di uno stravolgimento e traslazione del punto di vista, ch’è
sparito come punto di fuga in lontananza per poi apparire altrove e mostrarsi
come punto di vista differente.
La diversità del verso, la diversa struttura di ceppi linguistici o anche solo di
lingue differenti appartenenti al medesimo ceppo, ma ancora poi i diversi luoghi,
colori, odori, avvenimenti, società e socialità, ambiti in cui una lingua va a
svilupparsi, generano una poesia peculiarissima e diversissima tra sé e altra sé
dalla poesia dei tuareg a quella degli inuit, da quella dei tuva a quella degli
indiani.
Lingue diverse generano generi a sé talora intraducibili e con elementi (parole,
costrutti &c.) non traslabili su diversa tela o diverso tipo di tela, per un parallelo
pittorico. Un ocra è riproducibile, alcuni suoni di moltissime lingue semitiche
meridionali o alcuni concetti espressi da parole proprie di una lingua indoeuropea
come il tedesco moderno non lo sono.
Sono più d’accordo allora con il filosofo poeta algerino militante anticolonialista
Rachid Boudjedra quando ad esempio afferma, parlando dell’arabo: “Dal punto di
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vista culturale la lingua araba non è meramente un semplice strumento. E’ allo
stesso tempo ciò e molto di più di ciò. Una lingua è la portatrice di una cultura, una
sensibilità, un senso, di una vera e propria visione.”
Ma anche col poeta del delta del Niger, Gabriel Okara: “Ogni lingua aggiunge vita
e vigore a quanto espresso della cultura a sé collegata”.
E viceversa.
Riscrivo anche questa frase, stavolta non stravolgendola, ma semplicemente
invertendone i poli: “Ogni cultura aggiunge vita e vigore a quanto espresso della
lingua a sé collegata”.
E’ giusta. Così è, dato che tale a me pare.
La lingua è sempre quel che sembra, è esclusivamente la maniera in cui la si usa
e l’uso che ne si fa.
Ed ogni lingua è il non essere uguale ad un’altra, neppure nell’essere utilizzata da
due parlanti nella stessa, ma nemmeno in una stessa frase, o persino in una
singola parola, pronunziata da una stessa unica persona. Questo poiché il
significato, la forza con cui lo si intende esprimere e la direzione che gli si vuole
dare, il timbro che vi si imprime e la pregnanza con cui la si usa, ed infine il
momento della vita in cui si pronuncia una (apparentemente o neppure)
medesima parola, cambia. Continuamente.
La base di ogni lingua è l’altezza che raggiunge, che come sappiamo è
potenzialmente infinita, e universalmente (si pensi all’universo, almeno a quello
che si riesce a pensare, a quanto se ne riesce a pensare) in espansione.
La base di tutte le lingue e l’altezza infinita di Babele, infinita e irraggiungibile,
come l’ursprache.
Andando all’origine della radice, o alla radice dell’origine, e pensiamo: esiste
dunque una base originaria? Una lingua primigenia, un inizio fondativo
dell’universo parlante, comunicante, continuo, connesso con sé stesso? Un big
bang? Un ursprache, appunto?
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L’ursprache può ben essere esistita poiché la specie umana unica che crea il
linguaggio scritto è la specie sapiens sapiens, com’è dimostrato dal fatto che le
prime forme di linguaggio organizzato avanzato e quindi di scrittura appaiano sul
pianeta pressoché contemporaneamente nella valle del Nilo, in Cina, nel Sumer
ed altrove attorno a cinquemila anni fa.
La concomitanza è data dal fatto che tutta la specie umana viaggia in
concomitanza, ha un destino [ancora] comune.
Il mondo per ciascuna specie e al di là delle barriere geografiche, antropologiche,
culturali, costituisce un’unica sprachbund (area di convergenza, di diffusione
linguistica, playground linguistico).
Pur con le dovute differenze dettate tanto dalla provenienza quanto dal destino
[ed ancora…] geografico, sociale, occasionale, culturale di ciascun individuo o
gruppo di individui da quantomeno da pensare che il linguaggio sia apparso nello
stesso momento.
Lo sviluppo d’una qualsivoglia cosa va di passo se non pari certo almeno non
disgiunto dallo sviluppo d’una qualsiasi altra cosa a lei collegata, connessa, e così
va lo sviluppo della formazione e formulazione del pensiero umano così come del
linguaggio che è un figlio del pensiero delle specie umana tutta,
contemporaneamente e similmente.
Pur potendo essere una “favola” quella dell’indoeuropeo, come esplicitato
dall’avventuriero, rivoluzionario e coraggioso linguista Giovanni Semerano,
indubbia è la sovraesistenza di universali linguistici come da teoria della
grammatica generativo-trasformazionale di un altro rivoluzionario linguista,
Noam Chomsky, così come indubbie sono le similitudini, i parallelismi e le
assonanze quando non proprio le rime e le “mitosità” (non ci rifacciamo qui al
mito leggendario quanto alla scienza cellulare) tra gruppi linguistici indoeuropei e
persino oltre, tra differenti phyla linguistici umani.
Quella della superfamiglia preistorica è una deduzione logica con riscontro di
prova in tali rassomiglianze.
Probabile è che sussista tutt’oggi e sia sussistito fin dal principio un diasistema,
ossia una lingua madre di figli tutti con ciascun figlio dal suo proprio nome e
dalla sua propria peculiarità espressiva, come da sistema comunicativo umano
che prevede un idioletto per ciascun essere umano ed un substrato linguistico
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atto alla traslazione, alla traduzione del proprio esprimere verso l’esterno,
attraverso l’interlocuzione, verso l’altro.
Similmente, o anche parallelamente, può risultare valida per concatenazione
dunque anche la teoria del doppio strato dell’Indoeuropeo secondo cui
l'indoeuropeo come frutto di una antica creolizzazione tra una lingua ugrofinnica
e una lingua di tipo caucasico settentrionale, il che spiegherebbe tra l'altro
l'apparente ergatività dell'antico Indoeuropeo (ipotesi di C.C.Uhlenbeck, 1935.
Un'ipotesi affine è stata recentemente riproposta da F.Kortlandt. Analoghe
proposte furono avanzate anche da Trubetzkoy e Tovar, che considerarono la
possibilità di includervi anche contributi semitici).
Tutto questo in quanto un sistema linguistico di comunicazione è, come detto,
(perlomeno, ma molto più) diasistemico di per sé.
Ogni aspetto della sistemicità linguistica nell’ambito della comunicazione sembra
essere (perlomeno, ma ancor più) diasistemico, riconducibilmente fin dalle teorie
e pratiche più antiche e fino alle più avanzate come le bipartizioni tra struttura
profonda e struttura superficiale della grammatica generativo-trasformazionale o
tra I-Language ed E-Language Chomskyane.
E non stupiscono neanche gli apprezzabili tentativi di collegare l’indoeuropeo con
il berbero, il sumero, l’egiziano antico, il kartvelico, le lingue caucasiche
occidentali fino al cinese, l’etrusco, l’eschimese, l’ainu & il coreano.
Quest’altro perché la specificità e la specialità stesse della comunicazione sono
naturalmente tendenti alla comunicazione, naturalmente comunicanti.
Il punto, non è unicamente e univocamente se le lingue vengano da un unico
ursprache ma se divengano tali ad un certo incerto punto, così come insegna la
‘creolizzazione’, la ‘bastardizzazione’ continua tipica delle ere prima di questa che
è quella della comunicazione, della bastardizzazione totali, come ad esempio tra
lingue semitiche e lingue indoeuropee, tra lingue indoeuropee tutte e lingue
romanze, o lingue romanze alcune e loro stesse, o lingue indoeuropee alcune altre
ed alcune altre ancora, in un gioco di scatole cinesi o matrioske, di
comunicazione A verso B e D verso C che è, per suo DNA e per l’incontrarsi con
un DNA sempre diverso, infinitamente generativa.
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Ogni sprachbund fa parte di uno sprachbund più grande, così come in ogni
sprachbund coesistono (comunicano!) ulteriori sprachbünde.
Ogni essere umano è un idioletto, ogni uomo è anche uno sprachbund.
Ogni lingua quindi è, come ogni parlante, in relazione tra sé e ogni altra,
seconda uno schema ramificato a ragnatela esponenzialmente crescente.
Si pensi a Wikipedia: trattasi di un’enciclopedia libera e aperta a cui contribuisce
chiunque da qualsiasi parte del mondo connettendovisi (Wikipedia è in Rete) e
aggiungendo il proprio contributo su qualsiasi voce già esistente editando la
pagina corrispondente, o anche creando nuove pagine per le voci mancanti
all’enciclopedia, che è in costante evoluzione, e a dimostrazione del processo
irreversibile che la contraddistingue di sforzo collaborativo ramificato dalla
crescita esponenziale. Conta oggi milioni di articoli in centinaia di lingue. Morte,
viventi, naturali, artificiali, isolate, globalizzate.
Le “lingue isolate” viventi come il basco o morte come l’etrusco sembrano essere
eccezioni, tutte da dimostrare nel loro isolamento che confermano la regola se
consideriamo che il loro rapporto con lingue in rapporto tra loro (si perdoni il
gioco di parole) è nel calcolo più generoso possibile di circa 1:100.
D’altra parte l’ipotesi linguistico-relativista di Sapir-Whorf è traslabile o più
propriamente o almeno pertinentemente “traducibile” come la relatività del
conoscere il mondo (inteso stavolta sul piano sociale, ergo: la società) attraverso il
relazionarsi ad essa, e dunque nel traslare di continuo il linguaggio da un
individuo all’altro per la comunicazione che si fa globale facilmente, se è vero che
il punto di contatto conoscitivo tra chiunque e chiunque altro sul pianeta possa
esser coperto in circa 3-4 passaggi [volendo passare da me al Presidente del
Brasile Luiz Inácio Lula da Silva: io conosco il mio relatore di tesi anarco-
surrealista armando gnisci, che conosce la scrittrice india-amazzone Márcia
Theóphilo che conosce il presidente-operaio - autentico - Lula].
Comunicazione è correlazione, così come linguaggio è traduzione e
translinguismo è traslazione, così come movimento è vita.
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L’ursprache dunque non appare, o meglio scompare come un passato da
ricercare, per apparire come un futuro da perseguire.
E non attraverso l’assimilazione, l’assorbimento, l’assoggettazione, ma attraverso
la diversificazione.
Allontanarsi per lanciar ponti,
Affrancarsi per affratellarsi.
Differenziarsi per accomunarsi.
Somma delle diversità; non elisione, elusione.
Polisistemicamente, esponenzialmente, espanzionalmente.
Babele.
Big Bang.
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III. Tutto è interconnesso, tutto è interconnessione
L’universo umano è, per un gioco di matrioske o di scatole cinesi - a seconda se
s’è in Cina o in Russia, comunque stiamo trattando di un qualcosa di grande - un
qualcosa di collegato, connesso, persino comunista se ci rifacciamo ai paesi
appena citati ma soprattutto, più che a Marx che pare sorpassato nel mondo dove
s’è affermato il capitale e in un mondo dove persino la Russia comunista non lo è
più, ad idee quali il comune destino (..e ancora, e ancora… .) della razza umana,
collegato a sé stesso e ciascun essere a ciascun altro.
Gli umani sono tali in quanto sociali, e dunque devono confrontarsi e comunicare
con gli altri, per capire chi sono. Persino per avere un rapporto con e rispetto a sé
stessi ci si deve rapportare agli altri, per stabilire cioè chi è altro dall’altro, ovvero
chi si è, che è la domanda principale dell’esistenzialismo, dell’essere.
L’altro più prossimo, rispetto a me (uomo) è la donna, mia compagna principale e
principessa di specie [ritengo essere come detto la donna, rispetto a me,
l’intestataria privilegiata di questa posizione, piuttosto che un pur dolce cane
come nell’uso dell’espressione della dolcissima Donna J. Haraway, della cui
espressione m’approprio].
Un uomo non si può sapere tale se non sa una donna.
E gli umani non possono determinarsi tali se non rispetto (e rispettando) agli altri
esseri umani.
Voltaire (ne l’America, p. 13) definì ad esempio la scoperta del nuovo mondo,
ovverosia l’America, intesa come quel “lembo’’ [stavolta la parola è già meno
appropriata, l’orizzonte s’è già espanso, noi ci stiamo espandendo, allontanando
da noi, della nostra origine, avvicinando a voi, al vostro destino], di terra che va
da quella del Fuoco, di Terra, su verso nord e infine con uno scarto verso sinistra
a nord-ovest, al passaggio a nord-ovest: “il più grande avvenimento di tutto il
globo, di cui una metà era stata sempre ignorata dall’altra. Tutto quanto è stato
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grande fino a quel momento sembra scomparire davanti a quella sorta di nuova
creazione”.
Ed eccoci dunque approdati in america, stavolta minuscolo perché cominciamo a
riferirci non solo al nord-america (meno la mesoamerica chicana e poi messicana)
dei neocon e neocol [neoconservatori e neocolonialisti, il secondo l’ho coniato or
ora] ma a tutta l’america “nostra”, il nostra virgolettato perché riferentesi
all’america che noi europei volevamo rendere nostra con il primo colonialismo del
sorgere del sedicesimo secolo.
armando gnisci [lui maiuscolissimo, altro che il colonialismo - altro è in ogni
accezione possibile, in espansione costante - minuscolo nel testo per sua scelta
omaggiante l’intellettuale femminista afroamericana bell hooks. Per bell la scelta è
dettata dal fatto che cioè che conta è “la sostanza dei miei libri, non chi sono io”;
per armando la scelta è nell’umiltà della non pretenziosità di pretesa di
maiuscola] propone che gli scrittori postcoloniali vadano concepiti e chiamati
novissimi.
Essi lo sono. Essi sono sapiens sapiens che fanno parte del nuovo nuovo mondo,
post-coloniale. Nuovissimo.
gnisci rivela e pronuncia (in Mondializzare la Mente, suo quarantesimo e più
recente libro al novembre 2006): “l’homo migrans è la figura forte e vera
dell’umanità del XXI secolo come rivelato e pronunciato da grandi scrittori come J
Brodskij, D. Walcott, S. Rushdie, A. Kristof”.
L’homo migrans, l’alma megretta, gli uomini tutti insomma e le loro anime sono
migranti, a questo mondo, per l’inesistenza di uno stato in luogo fisso, che
staticità è morta, assenza di movimento è morte.
Uno dei vantaggi d’un mondo che si rimpicciolisce è che questo mondo s’espande.
S’espande a tutti, s’infiltra ovunque, s’affratella l’altro con l’altro ancora; l’unione
è la potenza della somma, e anche qui l’accezione (di potenza) è duplice ed
esponenziale.
Non è matematica, è umanità.
Uno dei non molti vantaggi del globo globalizzato è un vantaggio che vale tutti
quegli altri che non esistono: è il contatto. La mano nell’altra mano nell’altra
mano, tutte a portata di tutte, possibilmente tutte strette.
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L’eredità del colonialismo è un’opportunità, perché tutto, persino la morte può
essere o può essere trasformata in un’opportunità. E’ un opportunità che non ha
a che fare con il commercio non con quel tipo di globalizzazione, ma anch’essa
può essere trasformata per figure retoriche, grandi opportunità loro del
linguaggio: è uno scambio, è un dare in cambio ciò che abbiamo tolto, noi
euroccidentali, strappato anzi via dalla loro terra quando non direttamente loro
dalla loro terra. Loro. Ovvero sia noi, che come loro siam sempre stati. Loro,
‘creoli meticci migranti clandestini e ribelli’, per dirla con armando.
Ma lo scambio non finisce qui, nel ricambio, nel ridare in cambio.
Prosegue, o inizia allo stesso momento, parallelamente, col trarre da loro. E con il
loro trarre da noi. Il noitutti trarre da noialtri. Noi da noi/ a noi/ di noi/ fra noi/
per noi/ con noi/ tra noi [se le figure retoriche sono opportunità, qui le
preposizioni semplici, apparentemente meno nobili - proprio come devono essere
apparsi loro a noi quando li abbiamo schiavizzati e uccisi, e non noialcuni ma
pressoché noitutti, persino un illuminato che neanche finisco di citare
liberamente in questa sede e già vorrei toglierlo e metterlo, lui si, in un’altra o
persino in questa stessa in catene come Voltaire, che non ne parlava solo come di
inferiori ma come di animali, come nel suo “Essai sur les mœurs” - sono
quantomeno e quantopiù opportune].
Eppur ci muoviamo assieme.
Questo evidentemente [o meno?] per parafrasare, riscrivere un altro grande
illuminato rivoluzionario [per fortuna questo mondo ne è pieno, e la storie d’esso
ancor di più. Dunque perché non riempirne almeno un poco questo testo?!],
Galileo Galilei [in realtà la frase è stata probabilmente coniata dal giornalista
Giuseppe Baretti, che aveva ricostruito la vicenda di Galileo al tribunale
dell’Inquisizione al termine dell’abiura dell’eliocentrismo per il pubblico inglese in
un'antologia pubblicata a Londra nel 1757, “Italian Library”, ma parafrasando e
riscrivendo bell hooks non è importante chi sia a scriver cosa, ma cosa sia
scritto].
Galileo come già Nicolò (Copernico: Mikołaj Kopernik nel suo polacco d’origine)
diceva che a muoversi fosse la terra, e Kavi, già David [Kavi è il nome che mi sono
dato come poeta, vuol dire proprio poeta in sanscrito, David è il nome che m’han
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dato in origine come essere umano e figlio], dice che in questa terra noitutti ci
muoviamo assieme.
Mikołaj Copernico diceva inoltre che la terra non fosse al centro dell’universo, io
aggiungo che nessuno è al centro di niente, non esiste un polo d’attrazione o del
suo contrario, un polo dove sia concentrato alcunché, ed è per questo che l’ideale
“stato globale” del pianeta sia per ogni donna ed uomo quello della costante
migrazione, della costante perdita del vecchio baricentro ed acquisizione di un
nuovo centro, per poi perderlo, un momento in luogo più che uno stato in luogo,
un movimento continuo più che un improvviso fermarsi, se non alla fine, come
unica ultima spezzatura della linea della vita che è la linea di Thomas Bernhard,
di armando gnisci, di Nicolò Kopernik, di Galileo Galilei, di François-Marie
Arouet, di me, di tutti.
Siamo tutte & tutti compagni di specie, ed allargando il campo al mondo,
che poi il mondo è il nostro campo di pace (opposto a “campo di battaglia”),
siamo in quanto specie compagna di ogni altra specie.
Siamo scimmie, come Darwin. [di rivoluzionari, mai abbastanza]
Siamo ragni, come direi.
Tutti a tessere la medesima tela, tutti nella medesima rete da noi stessi, tutti,
costruita. Ciascuno è un mattone della torre, ciascuno è un mattone via da
qualsiasi muro che separa qualsiasi uno da qualsiasi altro.
Muri, come le lingue. Talvolta. Le volte che sono usate erroneamente da parlanti
in errore.
Le volte che non sussiste comunicazione, o meglio (peggio) che sussiste la non
comunicazione, intenzionalmente; le volte che non c’è traduzione poiché non la si
intenta. Poiché non si intenta movimento, dunque non si intenta comunicazione,
dunque vita, nulla.
Alla sfida della globalità bisogna rispondere sfilandosi tale quanto e tendendo la
mano della mondialità. Ch’è tendere la mano, per l’appunto, e prenderla.
La mondializzazione, il mondializzare, sono concetti d’applicazione allo stato della
globalità, della globalizzazione.
Il suo volto umano, il nostro volto umano.
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Bisogna disperdersi per non perdersi.
Bisogna unirsi per non separarsi, non bisogna separarsi, bisogna unirsi.
Come fili.
D’una tela, ad esempio, ad esempio quella della Rete delle Reti, della Grande
Rete, di tutti i suoi nomi: sto scrivendo di Internet.
E’ la Rete l’archetipo del (volto buono della) “globalizzazione”.
Togliamo le virgolette, togliamo anche globalizzazione, scartiamo a destra a
sinistra e a manca e parliamo di mondializzazione.
Due esempi: il p2p e wiki.
Due parole curiose, anche.
Il primo è un acronimo e sta per peer2peer, ovvero sia peer to peer, da pari a pari.
La formula si riferisce al file-sharing, letteralmente “condivisione di file”, ovvero
sia l’unione attraverso vari programmi informatici di diverse reti di utenti
all’interno della rete Internet [ancora matrioske & scatole cinesi di_questo-
mondo-di-questi-mondi direte voi, e dico anch’io, insomma diremo noi… d’altra
parte tutto fa parte del tutto e tutto è sempre, dunque sempre torna, anzi va, che
preferisco].
In ogni angolo del mondo (almeno e almeno per ora gli angoli non divisi, non
separati, secondo il problema espresso dal concetto del digital divide, che che ci
divide dalle e ci dice delle aree disagiate non ben raggiunte o affatto da Internet)
collegandosi ad Internet e scaricando programmi che sono gratuiti ci si può
collegare a sterminate strabordanti, traboccanti di contenuti potenzialmente
infiniti, che si condividono con tutti gli altri, pariteticamente (ognuno è un pari,
per l’appunto, e tutti possono accedere a tutto alla stessa maniera).
Suona come la più rivoluzionaria delle utopie, ed è allo stesso tempo realtà.
Non v’è un centro, nelle più recenti e ormai affermate incarnazioni di questi
software, che sono totalmente decentrati concretizzando in questo l’utopia con cui
nacque negli Stati Uniti durante la guerra fredda ARPANET, da cui discende
Internet (molto peggio della scimmia), ovverosia una Rete capace di resistere, nel
semi-mito, persino ad attacchi atomici in virtù della sua decentralizzazione.
Dunque, con questi sistemi di condivisione p2p, la decentralizzazione è totale. Per
cessare di esistere una Rete dovrebbero cessare improvvisamente di essere
connessi alla stessa tutti gli utenti, tutti i pari.
Nella realtà, una Rete del genere non cade, non cessa mai.
27
Wikipedia è simile.
Secondo dei due esempi, in ordine cronologico (viene creata il 15 gennaio del
2001) fu figlia inizialmente di altri due piccoli grandi rivoluzionari statunitensi:
Jimmy Donal "Jimbo" Wales e Lawrence Mark "Larry" Ranger.
Oggi, miracoli dell’informatica o meglio dell’umanità, è figlia di tutti.
E madre, anche.
Chiunque come detto pagine fa può infatti fecondarla con il proprio contributo.
Si tratta della più grande enciclopedia mai creata al mondo, libera e gratuita,
presente ed accessibile da chiunque connettendosi ad Internet al suo indirizzo:
http://www.wikipedia.org.
Conta come altrove già detto e ivi ridetto, riscritto, milioni di articoli in centinaia
di lingue diverse tra lingue vive, morte, artificiali, sperimentali, regionali, dialettali
e quant’altro.
Chiunque dicevo può connettersi a qualsiasi voce liberamente e gratuitamente
ma non solo: chiunque, anche anonimamente e senza alcun tipo di registrazione,
può modificare il suo contenuto in tempo reale con il proprio contributo
modificando, correggendo o e/o ampliando voci già esistenti o anche creandone di
nuove da zero, andando ad ampliare il patrimonio wikipediano che s’amplifica
ogni istante, ogni click di mouse da qualsiasi parte del mondo in qualsiasi
istante.
Uno dei principi di Wikipedia, è l’autorevolezza data dall’antiautorialità.
Nessuno è autore unico di un dato articolo, dato che ogni articolo è modificato,
corretto, aggiornato, ampliato, espanso di continuo, con un contributo plurimo e
opzionalmente anonimo.
Ogni articolo è idealmente a firma aa. vv., ovvero sia autori vari, idea che ho posto
anche in bibliografia di questa tesi, non conoscendo gli autori di testi quali
l’Enûma Elish o la Bibbia, che quindi attribuisco wikipedianamente a chiunque.
E’ questa la vera forza della testualità di Wikipedia, un non avere un baricentro,
un autore unico, un unico punto di vista della scrittura e di scrittura; ed il
principio s’è provato come efficace anche in passato, potendo citare ad esempio
coloro che assieme a Dante Alighieri sono considerati gli altri due più grandi poeti
d’ogni tempo del mondo euroccidentale: Omero e William Shakespeare.
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D’ambedue costoro, è disputata, dubbia l’esistenza. In molti pensano che le loro
opere siano in realtà frutto d’una esperienza di lavoro collettivo plurima e
pluralistica, e che Shakespeare e Omero non siano in realtà mai esistiti, e ancora
che opere come l’Iliade e l’Odissea siano ‘centoni’, ovvero canti di diversi autori
cuciti assieme.
Eppure.
Anzi.
A maggior ragione & avvalorazione.
Il risultato di Wikipedia è meraviglioso ed in continua espansione.
Voci vengono tradotte e traslate da una lingue all’altra nelle diverse versioni di
Wikipedia, in ogni direzione e ogni altra, la traduzione è sempre più incessante in
un modo sempre più veloce, sempre più comunicante.
E’ la traduzione totale, ed ecco di nuovo Babele.
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IV. Diasistemicità, dialogicità, relatività, reciprocità
Di nuovo l’Enûma Elish.
In esso ogni concetto è spiegato in due righe.
Il testo è costruito da versi di due diverse linee (unità della frase). Un concetto è
spiegato in due linee, un distich (dal greco di 'due' e stichos “versi”). I due membri
mantengono una relazione che si potrebbe chiamare “rima in senso astratto” o
“rima in senso lato” sul livello del significato.
Il significato contenuto in ciascun verso appare in due formulazioni parallele
spesso separate per lasciare un spazio bianco, il così chiamato parallelismus
membrorum. La seconda parte o enfatizza la prima parte con una diversa
enunciazione e perciò estendendone il significato, o è un'asserzione opposta,
contrastante la prima parte.
Ad esempio, esaminando il verso di apertura:
“Quando sopra: il cielo non era stato chiamato
Né la terra sotto: pronunciata per nome”
Questa duplicità, questa dualità che nell’Enûma Elish è nera su bianco, è
intrinseca in ogni altro verso di ogni altro passo di ogni altra opera di ogni altra
letteratura di ogni altro tempo in qualunque altro spazio.
Non in quanto verso in sé per sé, ma in quanto il linguaggio, la comunicazione,
sono prima ancora che essere di per sé comunicazione e linguaggio oggetti
dialogici. Sono dialogica. E qui la duplicità è nel sono particolare oltre che nel
senso generale: esse sono dialogica, ed io stesso sono dialogica in quanto
connesso, in quanto comunicante, in quanto vivo e nello spaziotempo
dell’universo dal quale e al quale sono connesso.
La diasistemicità dialogica è implicita, di più: intrinseca nel linguaggio.
Talvolta, è il caso del serbo, persino nell’alfabeto! I serbi usano infatti entrambi gli
alfabeti cirillico e latino, con assoluta naturalezza. E’ la “natura storica”
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[espressione suppongo appena coniata, me ne si passi il brevetto o perlomeno me
la si passi] del loro linguaggio.
E nel linguaggio come nella relatività, nella reciprocità del rapporto interpersona
o interspecie, interlinguistico o extra.
Trattasi di reciprocità mondiale, universale addirittura.
Se una farfalla sbatte le ali a Baltimora, un organismo monocellulare sconosciuto
può capire “amore” nella Galassia di Andromeda, espandendo un po’ anche lo
scienziato e filosofo Konrad Lorenz.
Trattasi di input ed output.
Per definizione, a un input non può che corrispondere un output, altrimenti
l’input non potrebbe necessariamente sussistere.
La questione della mutualità è, come quella della mutevolezza, inscindibile dal
linguaggio, e ancor meno scindibile dalla questione della traduzione.
“Inter se mortales mutua vivunt” [ritrovato in gnisci, “Mondializzare la mente” p.
39 che lo ha ritrovato in Montagne, I, XX che a sua volta l’aveva ritrovato in
Lucrezio, II, 76… ancora scatole…. C’è chi osserva, o sarebbe più a fuoco dire
teorizza che il nostro universo, che certamente come sappiamo ne contiene degli
altri, sia contenuto all’interno di un universo più grande. Sono io a farlo].
Aggiungo sempre, come su Wikipedia, anche a Lucrezio: “Le creature mortali tra
loro vivono e interagiscono”.
Significative a tal proposito le poetiche della relazione e del diverso del poeta
creolo della Martinica Édouard Glissant. Significative in quanto di senso dense, in
quanto non significano soltanto qualcosa, non significano molto, significano in
continua espansione, anche qui. Ovunque.
Anche nel linguaggio.
In primis nel linguaggio, se è vero come è vero che prima ancora di formular
pensieri compiuti formuliamo parole.
Una persona a me molto cara, il brillantissimo scrittore, filosofo e linguista
George Steiner, formula entrambe allo stesso tempo: “La realtà diacronica della
lingua è una realtà di cambiamento incessante. Si verificano davvero grandi
mutamenti di sensibilità, di strutture conoscitive e percettive.”
31
Aggiungo ancora solo: infinitamente. Continuamente, questi cambiamenti si
verificano. Anche, come già visto [avendolo io già scritto] nell’idioletto della singola
persona, nel suo uso personale e peculiare della stessa parola, che non è mai
sotto nessuna circostanza la stessa.
La polisemia è base e altezza di ogni parola possibile ed impossibile.
Essa caratterizza qualsiasi livello del linguaggio, come qualsiasi livello umano, ad
esempio quello sociale. Steiner denota come classi sociali diverse hanno diversi
linguaggi in uso tra loro e le altre classi. E questo avviene anche nell’ambito della
stessa classe, dello stesso nucleo, anche il più piccolo, anche quello formato dalla
singola unità.
E persino da unità che non hanno ancora la facoltà di formulazione di un
pensiero compiuto, che sono in grado di intendere e di volere ma con la
profilattica coltre dell’innocenza: i bambini.
Anche i bambini hanno un loro linguaggio, ogni classe come detto ha un proprio
linguaggio, ogni sesso, ogni genere, ogni livello verticalmente, orizzontalmente,
diagonalmente, scartando per ogni dove in ogni quando…. Ognuno ha un proprio
linguaggio, ed ogni linguaggio è un idioletto.
Almeno duplice, in effetti.
Molto più, in realtà.
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V. Lingua & Letteratura
La vita è movimento.
Percorrenza.
La strada unisce la gente perché non appartiene a nessuno.
Appartiene a chiunque ne fa uso.
Il linguaggio lo stesso: è una strada, un veicolo, una zona di franco passaggio ove
ci s’incontra e dove s’è uguali, ci si prova a trovare, a ritrovare l’uno nell’altro [le
strade devono esser tutte per arrivare a tutto e tutti]; l’uno negli occhi dell’altro,
nella bocca, nelle parole, che dalla bocca dell’altro arrivano alle orecchie nostre ed
ecco che la comunicazione è compiuta, la strada percorsa, le distanza annullate,
le umanità unità, unite.
La forza è nella diversità, come anche la comprensione.
Senza diversità niente comunicazione, comprensione, universo, vita
Più tale diversità diviene difficoltosa più il riuscire a comunicare sarà
gustoso, più avrà sapore; più saranno i sapori più il sapore sarà interessante,
intenso.
Più Babele è alta più prossima sarà al completamento [….].
E la Torre di Babele ha le sue finestre, più o meno grandi, le sue peculiarità e le
dimensioni sempre diverse di queste.
Pensiamo ad una Babele moderna, una lingua che è una bastardizzazione di sé
stessa, essendo stata resa tale dai parlanti del mondo, soprattutto i non-
madrelingua (oltre il triplo degli altri), che se ne sono appropriati, l’inglese.
Essa è la lingua più parlata al mondo parlata come prima o seconda lingua da
circa un terzo della popolazione mondiale oggi, e sorpassata soltanto dal cinese
mandarino per parlanti nativi in quella stessa lingua, mandarino che è però usato
su un lembo di terra pressoché unico, ristretto e piuttosto chiuso, a differenza
dell’inglese che ha colonizzato ogni lembo possibile, pressoché.
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Come nota Steiner, la traduzione per un parlante di una lingua “minore” è la sua
finestra sul mondo.
Ma cos’è una finestra?
E’ un passaggio per l’aria, per respirare, per conseguir un respiro ulteriore,
maggiore, più ampio.
La letteratura si veicola attraverso il linguaggio, che si veicola attraverso qualsiasi
mezzo possibile. Ad esempio sé stesso, e la sua propria mutazione.
Questo vale naturalmente sia per una diasistemicità autore/traduttore in duplice
incarnazione, sia per quanto riguarda l’autotraduzione di uno stesso autore di un
suo testo dalla sua lingua madre ad una lingua diversa, o viceversa, o ancora da
una lingua non madre ad un’altra ancora, da una madre ad un'altra ugualmente
madre (nei casi di polilinguismo) &c.
Le possibilità sono infinite.
Goethe - nelle note di “West-Ostlicher Divan” - insistette che nessuno può mai
conseguire alcunché di significativo in un linguaggio straniero (lettera della
poetessa Marina Tsvaetaeva a Rainer Maria Rikle del 6 luglio 1926) ma sbagliava
quantomeno la prospettiva.
Quel che importa è quel che può conseguire il lettore, dallo scrittore, e addirittura
ancor prima quel che può conseguire la letteratura di per sé stessa.
La semplificazione o persino l’elisione di determinati significanti di cui è
impossibile traslare, tradurre i significati, non necessariamente si dimostrano
come perdite in quanto tali, ma piuttosto la letteratura può cercare altre strade,
altre parole, altri sé per dare un senso al sé che manca.
Espandersi, per l’appunto. La sottrazione può essere addizione, amplificatori
ridotti amplificano maggiormente.
Anzi, è alla destrezza del traduttore.
Come ben detto dal comparatista e linguista statunitense Steven G. Kellman:
“L’autotraduzione è un atto di personale reinvenzione”.
E così similmente e semplicemente traduco da me e aggiungo: “La traduzione è
un atto di reinvenzione”.
Un qualsiasi tipo di linguaggio può determinare qualsiasi tipo di letteratura, e
traslarla a qualsiasi tipo d’altra.
Che crolli un falso mito: la fedeltà non è il punto focale della discussione
sullo scambio tra le lingue, sulla traduzione.
34
S’è detto già, anche, del linguaggio come propedeutico o almeno preposto al
pensiero. Ecco, il multiforme tedesco del diciassettesimo secolo Gottfried Wilhelm
von Leibniz da il passo successivo facendo il passo prima del pensiero: “Il
linguaggio non è il veicolo del pensiero ma il mezzo che lo determina”.
L’altrettanto brillante - almeno nel suo campo esclusivo d’azione, nel suo spazio
vitale - biologo francese Jacques Monod rincara: “Il linguaggio può aver preceduto,
forse di un certo tempo, l’emergere di un sistema nervoso centrale specifico
dell’uomo e aver contribuito in termini decisivi alla selezione di quelle varianti che
sono più adatte a utilizzarne tutte le riserve. In altre parole, può darsi che sia stato
il linguaggio a creare l’uomo, piuttosto che l’uomo il linguaggio”.
E alla radice del mio, di pensiero, espresso fin nella sua culla, ovvero la mia testa,
dal linguaggio e poi dallo stesso per tutto il suo percorso, fin fuori dalla mia
bocca, fino a disperdersi nell’aria, nell’atmosfera [e chissà se oltre? Il cielo non è
limite alcuno] v’è lo stesso. Pur se diverso.
Ogni particella minima del discorso, del verso, ha un suo significato infinitamente
traslabile, traducibile, tramutabile. E’ questo il non-limite che limita la
conclusione di Goethe.
Goethe svuota le parole dell’inchiostro con cui sono scritte esprimendo una non
riproducibilità con diversa tempera del nero d’uno stesso inchiostro di qualunque
quadro, del nero d’uno stesso buio di lui stesso.
Egli non si rivolge e non riflette circa il senso profondo che tanto più è profondo e
tanto più può affiorare e reimmergersi diversamente nel fiume letterario (che non
ci si immerge mai due nello stesso, come mai posso aver già detto allo stesso
modo) della parola. Non sa forse, Goethe, che esiste una filologia e una gnosi per
ogni singola lettera ebraica, e queste sono interamente riproducibili e riportabili
al mondo con almeno la stessa efficacia e pregnanza che in ebraico.
Osserva Noam Chomsky, e sembra ascoltarmi: “Le strutture universali profonde
sottostanti a ogni lingua sono più cruciali delle differenze superficiali”.
E un mattone nella Babele, è una parte del discorso che sto erigendo.
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Due altre citazioni in chiusura di capitolo (e apertura del prossimo); sulla
letteratura la prima e sul linguaggio la successiva, rapidamente, come uno scarto
a sinistra e poi a destra, come se nulla fosse successo o fosse successo già tutto.
Come se tutto fosse stato detto e come se null’altro fosse de aggiungere. Come se.
armando gnisci: “La letteratura agisce da conoscenza e da educazione unitamente
e rispetto al mondo, e non come mediazione tra l’immaginazione, la lingua e il
mondo2”
Ludwig Wittgenstein: “Il linguaggio è un labirinto di strade, vieni da una parte e ti
sai orientare, giungi allo stesso punto da un'altra parte e non ti raccapezzi più...3 “
2 gnisci a., “Mondializzare la Mente”, Cosmo Iannone, 2006
3 Wittgenstein L., “Philosophische Untersuchungen”, 1953
36
VI. Translinguismo & Traduzione
Cos’è il translinguismo?
Per stabilire cosa sia una determinata cosa - determinata da parola innanzitutto -
bisogna evidentemente stabilire quale sia il significato della stessa parola o più
prossimamente ed esaustivamente quali siano i possibili significati della stessa, i
più significati possibili, dato che tutti non si potranno racchiudere, dato che per
ogni scatola ve n’è una più grande.
Dunque, in primis: cosa vuol dire translinguismo?
Sulla lingua dovremmo a questo punto (cioè al capitolo quinto, ovvero provenienti
da quarto) non avere più dubbio alcuno o perlomeno avere elementi, almeno
qualcuno, sul linguaggio.
Passiamo al trans. Attraversiamolo.
Attraversiamolo appunto poiché la maniera migliore nonché significato, altezza di
questa base sembra essere il trapassamento, l’attraversamento.
Dunque il translinguismo si spiega e dispiega innanzitutto come attraversamento
tra i linguaggi. Linguaggi che, si badi bene e s’espanda subito, non sono
limitatamente linguaggi letterari, ma possono essere linguaggi di qualsivoglia
genere, per qualsivoglia formula, in qualsivoglia forma, attraverso qualsivoglia
forma di espressione. Le più diverse arti.
Transartismo, un neologismo creato da me adesso, stavolta senza scarti, e
proprio perché di scarti non ce ne erano a disposizione, e neppure di “originali”,
alcuno, c’era da creare un termine nuovo per l’attraversamento, il trapassamento
multimediale da arte a arte.
Tutto è traslabile, traducibile, e verso tutto & tutt’altro.
Avevo aperto dicendo di essere romano, e proseguendo proseguo dunque cambio
dato che ora sono già ovunque. Già cambiato. Dal momento dell’origine che è il
momento dell’originario movimento.
Afrolatino.
37
Questo mi sento. Ci si deve sentire in quanto esistenti e interconnessi e
comunicanti come possibilmente ubiqui, potenzialmente onnipresenti.
Prendimi. Prendi me.
Latino per “origine” e più a mio agio nell’ambito della stessa definizione sul
versante moderno, che mi unisce in linea sconnessa ma ininterrotta da Roma a
Ciudad de México o a Santiago de Chile, a seconda della sconnessione, del
destino, della direzione dello scarto; sottile pelle bianco intenso ma con largo naso
africano, a inspirare e ispirarsi a un afrocentrismo che profuma di riscatto e ad
espirare e espiare un eurocentrismo che puzza di vecchio; decentrandomi,
perdendo il centro, trovandomi a qualsiasi decentro, a qualsiasi latitudine, a
qualsiasi mondo, io qualsiasi uomo.
Transartismo e translinsuismo sono il medesimo concetto. Traslato.
Molteplice.
Molteplice è la vita come tenera è ogni notte ovunque, da Fitzgerald, come
terribile fu quella texana, di Fitzgerald Kennedy, e come multiforme è l’uomo.
Cambiamenti di prospettive sia linguistiche che di pensiero vanno di pari passo,
camminano anzi proprio a braccetto, è difficile cogliere in confini quando non vi
sono più, e dunque è difficilissimo scindere il pensiero dal linguaggio, lo scibile
dal traducibile, il trasformabile da qualsiasi altra cosa.
Trasformismo nell’accezione meno consueta e più nobile. Quella più semantica e
meno politica, quella linguistica, della parola.
La multiformità multilinguistica è l’unica condizione linguistica umana possibile
ed esistente. Ed il fenomeno è in espansione.
Scrive George Steiner: “Quali che ne siano le cause, la condizione multilinguistica
in vita obbliga una certa percentuale di umanità a parlare più di una lingua.
Significa inoltre che gli scambi di informazioni, di messaggi verbalizzati, dai quali
dipendono la storia e la vita della società, sono in larga misura interlinguistici.
Devono essere tradotti. La situazione di poliglossia e le esigenze che ne derivano
dipendono totalmente dal fatto che la mente umana ha la capacità di imparare e di
immagazzinare più di una lingua”.
Non mi limiterei alla capacità ma batterei il terreno da esplorare delle tendenza,
singola quanto quella globale, dall’infinitamente infinitesimo all’infinitamente
infinito.
38
Ancora Steiner, ancora più a fuoco, ancora più vicino: “I problemi epistemologici e
linguistici fondamentali impliciti nella traduzione intralinguistica sono fondamentali
proprio in quanto sono già impliciti in ogni discorso intralinguistico”.
Molto meno Kellman: “Ciò che il papa dice in latino, lui stesso pur con assoluta
padronanza non potrà mai ripetere esattamente in polacco, vietnamita, inglese,
arabo o romano. Non esistono equivalenti in letteratura, in lingue, in poetiche, in
parole. Un segno grafico non ha corrispondente esatto alcuno, un atto è
irreplicabile”.
Qualsiasi atto è replicabile proprio in quanto non lo è! Non è replicabile
nell’esatta maniera in cui è dato in quanto la condizione in cui è espresso
sussiste in quel preciso istante in quella precisa persona e quel preciso
istante spaziotemporale non può che essere irripetibile, dunque
irreplicabile. E’ però molto più che replicabile: è traslabile, ampliabile,
amplificabile, espandibile! Rinnovabile, diversamente.
E trattasi molto più che di replica, o di ripetizione: trattasi di riscrittura.
Riscriviamo però qualcos’altro di Kellman altro in quanto riguardante gli altri e in
quanto d’altra caratura, trattasi di altro translinsguismo: “I translingue sono le
truppe speciali della letteratura moderna, e questi movimenti d’avanguardia che,
come il dadaismo, il surrealismo e il futurismo, sono stati più insistenti circa
l’inadeguatezza e l’infedeltà del parlato convenzionale, sono stati capeggiati da
multilingue, translingue, e altri inquieti cosmopoliti”.
E altro ancora: “Per Yvan Goll, la decisione di scrivere qualunque delle sue poesia
in tedesco o francese era una scelta estetica, analoga a quella di un compositore
che sceglie di creare una sonata per piano, violino o clarinetto secondo il sistema di
espressione sonora che sembra più interessante seguire in quel momento”.
Se un Kellman può essere meglio d’un Kellman non vedo non sento e non leggo
perché un Goll non può essere meglio di un Goethe.
Anche perché, come si può ben evincere dalle citazioni dei due, il primo scrive in
francese e tedesco, il secondo soltanto in tedesco. Il limite è evidente rispetto al
limite meno limitato.
L’autore translingue è ubiquo.
39
Idealmente, l’autore translingue è altresì potenzialmente onnipresente,
potenzialmente onniscente.
Onnitranslingue.
Più sono i linguaggi attraverso i quali un essere umano, un artista, un autore
veicola il messaggio, più vasto sarà il bacino di espressione e dunque quello di
ricezione. Linguaggi diversi, anche nell’ambito dello stesso codice (ovvero due
diverse lingue scritte appartenenti persino al medesimo ceppo, non
necessariamente un transartismo) possono essere due media completamente
diversi, usati in maniera completamente peculiare e diversa, peculiarità che è
usata inevitabilmente in ogni caso, in ogni istante del veicolaggio attraverso lo
spaziotempo, come già esaminato (ma già diversamente).
Il continuo cambio, il continuo language-switch pur nell’ambito del
medesimo linguaggio da parte della medesima persona, la continua volta
felliniana, deriva dall’impossibilità di fare, di parlare, di essere altrimenti,
essendo impossibile ritornare indietro ad una condizione di pre-movimento,
pre-espansione, di tornare insomma ad un’origine che non ha più ragion
d’essere e più non è.
Andando con Kellman e andando oltre, onnitranslinguismo è l’“impossibile”
[eppure unica possibile] alternativa al ritrovare la lingua primordiale & perfetta, la
Ur-lingua che sottende il più disparato parlato, in cui nessun pensiero lascerà
mai alcuno senza parole.
La traduzione è una funzione del translinguismo, che in generale condivide la
futile aspirazione alla lingua pura. Il progetto d’attraversare molte lingue, di
espandere la consapevolezza di una persona asintomaticamente per andare verso
la comprensione universale d’un dato testo espresso in una data ed esclusiva
lingua (esclusiva in quanto espressa ma “universale” per quanto compresa, un
paradosso di per sé stesso), come a compartimento stagno & circuito chiuso, è
condannata all’imperfezione.
Come Wittgenstein ha riconosciuto in tedesco, la lingua in cui scriveva prima del
suo language-switch verso l’inglese, e che qui traduco in italiano dalla traduzione
inglese della frase tedesca in “The Translingual Imagination” di Kellman: “Di ciò di
40
cui uno non può parlare, di ciò lui deve tacere”. Ed è di ciò tutto, o almeno
qualcosa, ciò che si possa dire.
Un errore [un altro! Quanti!! Succede più si traduce, più ci si espande più ci si
annacqua, più ci si mischia il sangue. E’ bene. Errare è buono, e s’intenda anche
qui una duplicità; errare come commettere errori, errare come mettersi in viaggio,
errabondi ed ebbri. Errare è come il vino, e più s’invecchia più si beve più sbaglio
dopo sbaglio si diventa imperfetti uomini & donne. Ci si fa il sangue, la carne e si
diventa umani].
Un errore, un’interpretazione sbagliata da via alla storia moderna di uno dei
nostri argomenti. Le lingue romanze derivano i propri termini indicanti
‘traduzione’ da traducere perché Leonardo Bruni comprese in maniera errata una
frase delle “Noctes Atticae” di Aulo Gallio in cui l’originale latino significa in realtà
‘derivare da, portare a’.
La cosa forse è banale ma emblematica e ce la fa notare Steiner.
Ci fa anche notare, con occhi suoi & nostri sempre più a fuoco: “Spesso, nei
documenti della traduzione, una falsa interpretazione fortunata è fonte di nuova
vita. Le precisioni cui mirare sono di tipo intenso ma non sistematico. Come le
mutazioni nel miglioramento della specie, i grandi atti di traduzione sembrano
avere una necessità fortuita. La logica è successiva al fatto. Ciò di cui ci stiamo
occupando non è una scienza, ma un’arte esatta”.
E l’esattezza consiste nella casualità, per paradossale che sembri, e soprattutto
nell’espansione. Universale.
Eventualmente i pezzi, i mattoni andranno a posto, ma quel conta è la continuità,
la continua traduzione, comunicazione, proprio come avviene per Wikipedia.
Andare avanti nonostante gli errori, le misinterpretazioni, andare anzi avanti
grazie a ciò tutto.
Tutto fa brodo primordiale.
Il filosofo madrileño José Ortega y Gasset sosteneva nel suo “Miseria y
esplendor della traducciòn” che la traduzione fosse impossibile, e diceva che
questo valesse per ogni concordanza assoluta tra pensiero e parola.
Se così fosse, l’uomo sarebbe in fondo quanto in superficie incapace di
esprimersi. Aggiungo che l’“esprimersi correttamente” non può sussistere,
41
non può esserci alcun unico e univoco modo corretto, e quel che si esprime
è il come lo si esprime.
Il linguaggio è ciò che proviamo, pensiamo, e come lo concepiamo noi
stressi, come lo codifichiamo per noi stessi, come lo comunichiamo a noi
stessi, piuttosto che il come lo esprimiamo, che è sforzo di traduzione, atto
di espressione atto alla ricezione del messaggio.
L’esprimere non è il nostro linguaggio interno, che è strumento personale,
ma è la veicolazione verso l’esterno di ciò: la traslazione del significato, il
passaggio, in una parola la traduzione, che è strumento comune.
Il far giungere il messaggio, il modificarlo a seconda.
Il linguaggio è idioletto, la traduzione è comunicazione.
Più interessante la posizione del sudafricano di Città del Capo [ma oggi è
sudaustraliano: vive ad Adelaide, è a suo modo in questo modo uno scrittore
migrante, un homo migrans, e chissà dove sta oggi veramente., dato che lo stato
in luogo non esiste eppure egli c’è, è ovunque] John Maxwell Coetzee:
egli trova disgiunzione tra la concezione da una parte e il suo medium di
articolazione e comunicazione dall’altra. Coetzee aspira a pensare oltre un dato
linguaggio e, ancor oltre, a pensare oltre al linguaggio stesso.
In questo modo giunge oltre me, ovvero bypassa completamente il medium [il
linguaggio! Ma noi stessi siamo medium e medium di noi stessi. Ogni cosa è in
mezzo a qualcosa pur non essendovene alcuna in centro, non essendovi un
centro], annullandolo. Annichilendolo. Ammutolendosi.
E’ dunque impossibile. Ma interessante, mi pare, come mi pare l’infinitudine
dell’universo.
Piuttosto che annullarle, io preferisco esplorarle, le possibilità del linguaggio,
vivendolo come un ponte piuttosto che un muro, come rischia di sbatter(vi)
Coetzee.
Non v’è un muro da oltrepassare ma un ponte da attraversare.
Le possibilità sono infinite.
42
Vi sono innumerevoli possibilità formali e sfumature di trasformazione nel
processo espressivo della traduzione, ovvero della letteratura, ovvero del
segno, ovvero della parola, ovvero della comunicazione, ovvero in noi.
Noi siamo i terzi che ricostruiscono il rapporto testo tradotto-traduzione,
così come anche quello traduzione-traduttore, e si potrebbe continuare.
All’infinito.
Una tela, stavolta di Penelope, continua. Mai finita.
Secondo Steiner, il miglior modo per descrivere queste molteplici trasformazioni e
riorganizzazioni di un rapporto tra un primo evento verbale e le riapparizioni
successive di questo evento in altre forme verbali o non verbali è forse di
chiamarlo relazioni ‘topologiche’.
Quando leggiamo noi traduciamo, quando viviamo (e comunichiamo) lo stesso.
Senza interpretazione non potrebbe esistere, la cognizione, la correlazione e
dunque la determinazione, e neppure l’autodeterminazione; nemmeno la cultura.
L’esistenza dell’arte e della letteratura si basa su un processo di traduzione
interna verso l’esterno.
La traduzione è a più livelli:
dalla parola che recepisco a me, da me alla parola che esprimo, dal modo degli
altri di intenderla, e poi: da una lingua a un’altra, o magari a un’altra ancora nel
caso di traduzioni dal tedesco in inglese di un italiano, che può passar per
l’italiano o no.
Ancora Steiner: “La traduzione è la condizione perpetua e inevitabile della
significazione. La traduzione verbale si può ridurre a tre classi: 1.Noi riformuliamo
(record) quando traduciamo una parola-segno tramite altri segni verbali all’interno
della medesima lingua. Ogni definizione, ogni spiegazione (come dice Charles
Sanders Peirce) è traduzione. 2. La traduzione in senso proprio (translation proper)
o traduzione interlinguistica, è un’interpretazione di segni verbali per mezzo dei
segni di un'altra lingua, 3.In terzo luogo (come dice Roman Jakobson) vi è la
trasmutazione (transmutation): in tale processo ‘intersemiotico’ i segni verbali sono
interpretati per mezzo di sistemi segnici non verbali (pittorici, gestuali, matematici,
musicali)”.
43
Egli aggiunge poi che l’aspirante interprete debba avere una piena comprensione
‘del senso e dello spirito’ del proprio autore, oltre a dover rendere concretamente
il ‘senso’ implicito, il campo denotativo, connotativo, illativo, intenzionale,
associativo dei significati che sono impliciti nell’originale. In questo sono in
disaccordo, in quanto la piena comprensione non può essere, non può esistere.
Qual è il punto, qual è il punto d’arrivo? Neppure lo stesso autore come già visto
può trovarsi nella medesima, identica posizione da un istante ad un altro, proprio
perché l’istante è cambiato. Inoltre, questa considerazione di Steiner, non fa che
consegnarsi un’unica ipoteticamente perfetta traslazione possibile, un’unica
possibilità, laddove le possibilità di traduzione sono invece infinite.
La questione della traduzione, della traslazione, della trasportabilità dei significati
posta da me a tratti, a tracce del mio percorso del discorso [o viceversa discorso
del percorso, ma funziona appena meno, appena sotto] in ottica esistenzialista
sembra assolvere ed asservirsi ad un’assomiglianza tra le ontologie
fenomenologiche e le meditazioni linguistico-semiotiche che è oggettiva, come fa
notare George.
Ancora un giro, George:
“Supponiamo di porre il problema nella sua forma più forte: <<Che cosa, dunque, è
la traduzione?>>; <<Come si sposta la menta umana da una lingua all’altra?>>.
Che tipo di risposte ci si attende? Che cosa occorre stabilire perché tali risposte
siano plausibili o persino possibili? La teoria e l’analisi della traduzione hanno
proceduto fino a oggi come se noi sapessimo le risposte, o come se la conoscenza
richiesta per rendere non banale la questione fosse prevedibile, dato il ragionevole
lasso di tempo e il ritmo attuale del progresso della psicologia, della linguistica, o di
qualche altra ‘scienza’ consacrata. Io credo, al contrario, che noi non sappiamo con
molta precisione e certezza che cosa stiamo chiedendo n, al tempo stesso,m di che
tipo dovrebbero veramente essere le risposte significative. Un’indeterminatezza
radicale caratterizza il problema, le risposte concepibili e il senso che noi abbiamo
del rapporto che esse hanno tra loro. Mostrare questo fatto, significa riassumere
tutto ciò che ho detto fin’ora”.
Secondo lui una teoria della traduzione è una teoria del linguaggio.
44
E probabilmente, viceversa.
Secondo me una teoria del linguaggio è una teoria della traduzione.
E sicuramente, viceversa.
Il pensiero stesso, come abbiamo visto ma soprattutto pensato, è traduzione.
La relazione è traduzione, e andando verso l’adesso [per un istante soltanto, poi
verso il domani] la relazione interculturale è una traduzione più eccitante.
Più s’assottigliano le distanze più s’arriva ovunque.
Meno s’ha da viaggiare e più si viaggia.
Meno s’ha da muoversi e più si è in movimento.
Valore grande hanno traduzioni tra lingue remote, ove si può generare un più
grande distacco, una più grande differenza, e dunque un più deciso
cambiamento, una più autonoma e degna diversità.
La forza è nella diversità, come anche nella comprensione, ed ecco un perché
della traduzione.
La finiamo con Steiner (la finiamo questa parte della tesi o la facciamo finita? O
tutte? O nessuna?)?
“In realtà, insistono i semiologi e gli studiosi della comunicazione animale, si tratta
sotto molti aspetti di una specializzazione riduttiva, di una svolta evolutiva che ha
garantito all’uomo il dominio sul mondo naturale ma lo ha anche isolato da un
campo molto più vasto di consapevolezza somatico-semiotica. In questa prospettiva,
la traduzione è, come abbiamo visto, una costante di sopravvivenza organica. La
vita dell’individuo e della specie dipenda dalla lettura e dall’interpretazione rapida
e/o accurata di una rete di informazioni vitali. Vi sono un vocabolario, una
grammatica, forse anche una semantica dei colori, dei suoni, degli odori, della
materia e dei gesti, la molteplicità dei quali è pari a quella del linguaggio verbale e
in cui si possono trovare dilemmi di decifrazione e di traduzione resistenti quanto
quelli finora discussi”.
Una molteplicità sterminata, insomma.
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Aggiungo: una molteplicità infinita. Non ripeto quest'aggettivo per un'abitudine
retorica e ridondante e persino noiosa alla lunga [lunghissima: infinita! Ok, (non
la) smetto]; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito. Chi lo
giudica limitato, suppone che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale e gli
esagoni possano inconcepibilmente cessare; ciò che è assurdo. Chi lo immagina
senza limiti, dimentica che è limitato il numero possibile dei libri. Io m'arrischio a
insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno
viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei
secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto,
sarebbe un ordine: l'Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine4.
[quest’ultimo capoverso è tratto e tradotto dall’immane, infinito davvero poeta
Jorge Luis Borges a modo mio, non dal lusitano all’italiano, ma da un suo modo
ad un mio. E’ un onore per me qui ospitarlo e un onore ancora più grande il qui
riscriverlo. Questo elegante signore mi rallegra e mi fa compagnia].
4 Borges J. L., “La Biblioteca de Babel”, 1941 / Tozzo D., “Letteratura & Linguaggio : Translinguismo & Traduzione”, 2006
46
VII. Time & Die Welt
Non il settimanale liberal statunitense il cui primo numero uscì il 3 marzo del
1923 e neppure il pur bel quotidiano liberal-cosmopolita fondato ad Hamburg il 2
aprile 1946 dalle forze di occupazione britannica.
Il tempo ed il mondo (ovvero il nostro spazio) sono propedeutici e posposti ai
nostri discorsi perché il linguaggio ha innumerevoli legami spazio-temporali.
La cultura si basa sulla trasmissione del significato attraverso ciò cui passiamo
attraverso, ovvero tempo e spazio: il vocabolo tedesco übertragen esprime
esattamente i concetti del tradurre e del trasmettere tramite la narrazione.
Come abbiamo chiuso, così riapriamo in Portogallo.
José Saramago:
“Il tempo insegue il tempo, è un detto conosciuto e molto usato, ma non
tanto ovvio quanto possa sembrare a chi si accontenta del significato
prossimo delle parole, sia isolate, a una a una, sia raggruppate e
articolate, ché tutto nasce dal modo di pronunciarle, e questo varia
in base al sentimento di chi le esprime, non è lo stesso che le
pronunci chi, giacché la vita gli va male, aspetti giorni migliori, o
le butti là come una minaccia, come una vendetta promessa che il tempo
dovrà esaudire. Il caso più estremo sarebbe quello di chi, senza
motivi validi e oggettivi di lagnarsi della salute e del benessere,
sospirasse malinconicamente, Il tempo insegue il tempo, e incline a
prevedere il peggio.
[...] Ormai si è capito come la parola che definisce esattamente
questo groppo sia rimorso, ma l'esperienza e la pratica delle
comunicazioni, nel corso delle età, hanno dimostrato che la sintesi è
solo un'illusione, è come un'invalidità del linguaggio, a quanto pare,
47
non è come il desiderio di pronunciare la parola amore e non disporre
della lingua, ma possedere la lingua e non arrivare all'amore5”.
Non amo Saramago sopra ogni cosa soltanto perché egli non è una cosa, e non lo
amo sopra ogni persona soltanto perché egli non è me, né pochissimi altri, ma è
moltissimo, infinitamente altro. Ed altro. Ed è un complimento.
In questo mondo della sintesi non v’è sintesi possibile al mondo, e si badi bene
anzi meglio al ‘possibile’ appena usato. La sintesi non è possibile in quanto non è
possibilità, bensì elide le possibilità.
Le possibilità sono in tesi, e non sono in sintesi.
Sintetizzando: questo mondo non é sintetizzabile.
E neppure nessun altro può esserlo.
Continuando poi a parlare di mondo, e parlando fin da prima di lingua e
letteratura, e continuando a parlare insieme, tutti insieme, io&voialtri, parliamo
del nostro mondo e della nostra letteratura. Tutti noi, tutta la nostra.
In due parole, per letteratura e poi per lingua: weltliteratur e weltsprache.
Goethe una giusta l’avrà pur fatta, ad esempio il definire il concetto di letteratura
del mondo, weltliteratur appunto, per indicare la crescente disponibilità di testi
da nazioni altre. Egli diceva, nelle “Conversazioni con Goethe” con Johann Peter
Eckermann il 31 gennaio 1827: “è vicina l’epoca di una letteratura mondiale, e
ciascuno deve adoperarsi per affrettare l’avvento di quell’epoca”.
5 Saramago J., “O Evangelho Segundo Jesus Cristo”, 1991
48
Questo definire è oggi ridefinito da Gnisci, che di giuste ne ha fatte (ben) più
d’una [emblematico purtroppo che il pur da me amatissimo Goethe sia
considerato il massimo letterato tedesco di sempre da moltissimi, come Friedrich
Nietzsche che definiva il libro di Eckermann appena citato “il più grande,
importante libro in tedesco del diciannovesimo secolo”, Gnisci invece l’ultimo
stronzo terzomondista di mai], in una (ri)definizione che abbraccia le letterature
tutte di tutto il mondo, le letterature migranti dei letterati migranti
Da Goethe & Eckermann ad altri due tedeschi per un certo periodo di tempo a
loro contemporanei ma poi successivi, sotto un certo punto di vista, oltre:
Marx & Engels.
I due filosofi politici Karl Marx & Friedrich Engels, nel Manifesto del Partito
Comunista del 1848, trattano la weltliteratur come una conseguenza del
weltmarkt ormai stabilitosi nel mondo, visto che da quel momento “la borghesia
ha invaso il mondo intero”.
Per Karl Heinrich Marx & Friedrich Engels, la letteratura non è una localizzazione
dell’essenza antropologica universale inventata e riconosciuta dai letterati europei
illuministi e romantici, ma un epifenomeno della globalizzazione mercantile, e
cioè della trasformazione dei mercati regionali in un unico mercato planetario,
dove tutti smerciano (comprano, vendono, accumulano, consumano) e profittano.
Questo può esser vero solo ad un livello.
Ovvero sia al livello di stretta correlazione e connessione, laddove queste siano in
Trait d’Union specifico con il weltmarkt, ad esempio proprio in testi politici come
quelli dei due tedeschi, allo stesso modo di testi d’ogni parte del mondo in ogni
lingua che si rivolgano direttamente in sé stessi al “problema mondiale”, ovverosia
che trattino esso.
Ad ogni altro livello, la conclusione è sbagliata.
Innanzitutto per la definizione di localizzazione, dunque di compimento, e non di
attraverso, di ponte, di oltrepassamento, e poi ad un livello più globale e invertito
della nostra formulazione e autoricezione prospettica di euroccidentali delle ‘cose
del mondo: weltliteratur, world-music &c.
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Parlando di musica, pur essendo [ma anzi, a maggior ragione!] questo un po’
come “danzare d’architettura” - a ragione ulteriormente maggiore data che
l’origine dell’espressione, stavolta, è finalmente liberatoriamente sconosciuta: è
stata attribuita a una folta schiera di musicisti-e-non-solo contemporanei quali il
l’immensamente fine ed intensamente dolce musicista bristoliano Robert Wyatt,
la musicista e performance artist nuovayorkese Laurie Anderson, il poliedrico
musico londinese di molte gamme che van dal punk alla musica classica Elvis
Costello, ed il geniale sperimentatore baltimorese d’origine siciliana di
discendenze greche e libanesi Frank Zappa - persino il più illuminato illuminista
del mondialismo farà fatica ad uscire dalla prospettiva che la musica
euroccidentale sia alta dalla world-music, come se l’Europa e l’occidente tutto
non facessero parte del welt, del world, del mondo.
Ma la cosiddetta world-music trascende confini e stili per definizione, o per
definirne una sua più esatta definizione.
Il pop è world-music.
Così come la weltliteratur è ogni letteratura possibile, e proprio da due padri
fondatori del comunismo [mi piace accostare la definizione statunitense di padri
fondatori ad un qualcosa che negli Stati Uniti tanto è stato McCarthyanamente
demonizzato come il comunismo. Mi piace unire] sarebbe stato auspicabile un
appianamento ed una dichiarazione di diritto d’uguaglianza e cittadinanza d’ogni
letteratura in ogni lingua, a questo mondo.
Questo è tanto più vero se si considera come si sta considerando tanto che ogni
atto letterario è unico, singolo, dunque ‘vale’ uno, ovvero vale come un qualsiasi
altro.
Parlando di parlare, i livelli sono innumerevoli ed innumerabili ma uno d’essi è
identificabile, ed è proprio il mondo, ambito & playground della razza umana.
Il mondo come sprachbund.
Se è vero che il linguaggio si modifica ad ogni istante del tempo percepito,
se è vero che ogni atto linguistico ha una determinazione temporale e che
nessuna forma semantica è atemporale, se è vero infine che un testo ha
innumerevoli legami spazio-temporali, è vero anche, ““limitatamente”” alla
razza umana, che essi agiscono nell’ambito del medesimo pianeta. Questo,
se state leggendo da esso.
50
E in esso naturalmente sussistono diversi sprachbunde.
Altro giro, altro regalo, altro livello altro rivoluzionario.
Un argentino, Ernesto Guevara de la Serna, più conosciuto come Che Guevara,
soprannome che gli venne dato a Cuba durante la rivoluzione che portò nel 1959
Fidel Castro al potere abbattendo il regime di Fulgencio Batista, disse: “Il
sudamerica (volutamente unito, ndme) è una grande nazione meticcia”.
Il cubano di origini spagnole José Martí e il venezuelano di origini basche Simón
Bolívar con altri pensieri, parole, opere ed azioni espressero qualcosa di simile, e
molti oggi pensano lo stesso dentro e fuori al modosur, o mercosur come
preferirebbero forse Marx, Engels ed il trattato di Asunción del 16 marzo 1991
che stabilisce una zona (successivamente e tutt’ora in espansione) di libero
commercio in sudamerica, il Mercado Común del Sur in spagnolo o Mercado
Comum do Sul in portoghese.
Un altro tedesco [altro dal Che che tedesco non era, altro da Marx & Engels, altro
da Goethe & Eckermann, altro da me che ho sangue tedesco tra gli altri, altro
persino da sé stesso dato che già è stato invitato a questo convivio scritto ch’è
questa tesi ma che viene citato ora in un nuovo, altro pensiero], Ludwig
Wittgenstein, - non - volle sintetizzare così:
“I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”.
51
VIII. Comunicazione globale, comunicazione totale
Quali dunque le possibilità?
Quali dunque le prospettive?
Quali dunque la potenzialità?
Quali dunque la propulsioni?
E si potrebbe continuare, perché si potrà continuare.
Infinite sono le via della persona, le deviazioni e le maniere di percorrerle.
Lo scrittore boemo di lingua tedesca, cittadino prima dell’impero austro-ungarico
e poi della Cecoslovacchia Franz Kafka, formulava l’“impossibilità di un’autentica
comunicazione umana”.
¡Allo stesso tempo però, proprio inversamente e parallelamente al tempo e
all’idea, osservo che sia propria questa impossibilità babelica d’un assolutamente
e perfettamente comune medium di comunicazione, di linguaggio, che ci
costringa, o meglio che ci spinga verso la traslazione, verso la traduzione, dunque
verso la comunicazione stessa!
Riprendiamo Wittgenstein, scriviamone altro, riscriviamolo ancora: [mi piacciono i
collegamenti, i ponti. Vorrei veder realizzato perfino quello sullo Stretto di
Messina, figurarsi! Li trovo proprio vitali oltre che propriamente edonistici. Se non
si era capito]:
“I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”.
Dicevamo noi prima, diceva lui a noi, con noi, tra noi &c.
Invertiamo, o ancor più meglio assai sovvertiamo questa frase.
E diciamo che i limiti di questo mondo sono i limiti dei suoi linguaggi!
I limiti all’altezza di Babele sono i mattoni.
52
Torniamo ancora più a ritroso (d’altra parte abbiamo girato la boa e stiamo
tornando all’origine, al primo verbo/mattone di Babele, a ricongiungerci con
l’africa che spinge verso nord, al big crunch):
Ricordate il provincialismo della poesia secondo Wystan Hugh Auden?
Passiamo dalla poesia alla più “universale” - come è detta - di tutte le arti:
“La musica è incapace di esprimere alcunché tranne che sé stessa”. Игорь
Фёдорович Стравинский, meglio conosciuto dagli alfabeti(zzati) latini come Igor
Stravinskij, compositore russo poi naturalizzato francese e in seguito
statunitense, rivoluzionario compositore free classica.
“Ci sono milioni di accenti diversi, parlando dei suoni del jazz. Per ogni persona,
forse, esiste una grammatica emozionale differente. Nel mio caso, la grammatica
che uso è una forma di suono. E’ come quando uno mette in moto l’energia,
accendendo la luce con l’interruttore. Non so cosa sia il suono, ma so che è la sola
sorgente delle umane espressioni, che è invisibile e vibra nell’aria”. Ornette
Coleman, afroamericano di Fort Worth, Texas, rivoluzionario compositore free
jazz.
La musica è poesia. La poesia, il discorso filosofico, incarnano quegli aspetti
ermetici e creativi che si trovano al centro del linguaggio. Proprio come la musica.
Si tratta di impressionismo ed espressionismo quando si parla di poesia e
musica, eppure si parla di un qualcosa di molto simile. Antitetico e uguale, il che
non sembri paradossale, se non s’è disposti ad accogliere, ad accettare il
paradosso.
Dice il vecchio Steiner [vecchio rispetto a questo testo, che non lo si vede, sente,
legge da capitoli]: “Il caso esemplare è quello del linguaggio e della musica ossia
del linguaggio nella musica. Il compositore che musica un testo è impegnato nella
medesima sequenza di movimenti intuitivi e tecnici che si realizza nella
traduzione in senso proprio. Nella traduzione musicale, proprio come in quella
linguistica, vi sono problemi di superamento”.
Ancora un muro, ancora un disaccordo.
Trattasi di congiunzione, non di superamento; di attraversamento, non di
sorpassamento.
La musica ed il linguaggio in una canzone sono uniti, non scissi.
Ben distintamente determinabili ma non distinti, piuttosto fusi.
53
Danzando ancora d’architettura, nel magno bund dei generi, essi sono tutti
quanti world-music, e tutti quanti sono simili a loro stessi, persino la musica
tonale dalla musica atonale, le percussioni dai fiati, ogni nota da ogni altra nota.
La musica tutta di questo mondo tutto è world-music, è Babele.
Ed al testo è correlata, non slegata, sciolta.
Tutto quanto è collegato.
Tutto quanto è Babele.
Il cambiamento e la mescolanza.
Entrambi sono immani forze vitali e rinnovatrici di propulsione alle cose della
natura, cose della vita; per quanto riguarda il cambiamento basti pensare ad esso
come sintomo, sinonimo a ragion sentita di massima statura artistica incarnatosi
nel genio del jazzista di Alton, Illinois, Miles Davis; è questo un esempio principe,
oltre che assolutamente regale, di musicista che ha trovato la sua cifratura
stilistica nelle molteplici cifrature di volta in volta diverse, sperimentali,
innovative, fino a giungere alla fusion, ovverosia genere che è una fusione di rock
& jazz & improvvisazione & altro, una fusione di stili che è stato il suo apice forse
assoluto, proprio da forza dell’unione di elementi diversi, sintomatica della
musica di per sé stessa, che è il risultato di un’orchestrazione melodica di
elementi, di linee musicali differenti.
Il cambiamento radicale, totale, è alla base della forza di altre formazioni ibride,
dal suono bastardo, come gli angloscozzesi [a loro non piacerebbe esser definiti
britannici, a noi nemmeno, nevvero?] Primal Scream: primo album jingle-jangle
pop, secondo album hard-psychedelic rock, terzo album acid dance-rock, quarto
album roots rock’n’roll, quinto album dub-rock, sesto album hyper electro-punk,
settimo album dance-kraut rock, ottavo album rock’n’roll.
La Babele di stili a volte è anche Babele a più livelli.
The Mars Volta è un gruppo in costanti cambiamenti ed evoluzioni composto nelle
più recenti incarnazioni da musicisti provenienti da disparati posti tra
mesoamerica e Caraibi, con infiltrazioni interne e basi mobili statunitensi: un
portoricano di Bayamón, un chicano con origini tedesche e appunto messicane
nato in California, un mezzo haitiano-mezzo statunitense, due messicani, un
afroamericano &c.
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Questo mélange non genera unicamente, come si potrebbe approdare a
concludere, una musica dal background puramente ed esclusivamente latino: i
generi toccati da questo gruppo vanno dal rock alla salsa, dal punk all'art-rock,
dal free jazz alla fusion, dal dub al noise, dallo space all’improvvisazione più
libera ed espansa.
In ensemble dove invece il background culturale è uniforme, unico, è più facile
che quanto espresso sia parimenti uniformato.
Un background invece anche assonante ma appena divergente genera
esponenziali disparate deviazioni di rotta, non essendo più possibile ricondursi ad
un uniforme ipotetico ‘centro’ espressivo, che non esiste, da cui muovere, da
suonare.
Impercettibili spostamenti generano meravigliose immani catastrofi, come in
assonanza con Lorenz.
Quando poi l’incontro di lingue e linguaggi e quant’altro ancora è multiforme del
tutto, il risultato è del tutto indefinibile, e ancor più meraviglioso di per sé stesso.
E’ il caso, riandando verso Roma da dove sono iniziati alcuni miei viaggi, tra cui
questo e quello ‘originario’, dell’Orchestra di Piazza Vittorio.
Questo ensemble transculturale (termine coniato dall’etnomusicologo Fernando
Ortiz e proposto anche dal pensatore ebreo moscovita Mikhail Epstein che è il
passo successivo all’interculturale e quello successivo ancora al multiculturale) in
continuo cambiamento d’organico è un miracolo, anzi no. E’ l’assoluta normalità
e splendida prova vivente della forza di Babele.
E’ l’Orchestra una vera e propria Babele di stili, melodie, suggestioni e
fascinazioni di una miriade di angoli del mondo: da Cuba all’India, da Cartagine a
New York, dall’Ungheria a Caserta.
E’ world-music, baby! Laddove mai la definizione ha trovato più humus, più terra,
base e poi altezza per il suo essere Babele.
La contaminazione è poi totale quando i musicisti escono dello schermo alla fine
della proiezione del film realizzato fin dalla nascita del gruppo e poi uscito nelle
sale per suonare, come da iniziativa in un cinema romano a novembre del 2006.
Loro lo hanno definito cineconcerto.
La comunicazione, è totale.
E l’ipertesto pensato dal tecnologo, scienziato ed inventore del Massachussets
Vannevar Bush prende vita, vita di carne, vita sul palco, vita innanzi a noi.
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L’iperlink (hyperlink) finalmente ci hyperconnects (ipercollega).
Questa linfa che unisce stili diversi, linguaggi diversi, questa acqua che annacqua
e multiforma (uguale e contrario ad ‘uniforma’) è un collagene che è tessuto
connettivo nel senso più elastico e più stretto del termine allo stesso tempo.
Un bell’intervento bastardo dell’epistemolo e semiologo Paolo Fabbri:
“La traducibilità delle arti rappresenta sicuramente una delle questioni
fondamentali, inevitabili se vogliamo pensare l'arte. Tuttavia, essa è possibile solo
si parte dal punto di vista delle forme e non da quello delle sostanze, solo se ci si
rende conto che la struttura semantica, la forma del contenuto del linguaggio
riprende le categorie della forma espressiva del mondo. Basta guardarsi intorno per
vedere come il mondo e la semantica del linguaggio rivelino le medesime forme
espressive: statico-dinamico, singolare-plurale, maschile-femminile, principale-
dipendente, ecc. Il linguaggio contiene per così dire il mondo, e lo contiene sotto
forma di forma. Le stesse categorie espressive del mondo sono formate; ciò non
significa che non siano trasformabili o deformabili, né che la forma vada intesa in
senso formale, come opposta al contenuto. Al contrario, io parlerei di una forma
dell'espressione e di una forma del contenuto. Vi è poi una sostanza espressiva e
una sostanza del contenuto. E il contenuto della lingua non è estraneo al mondo,
ma è composto dalle medesime categorie. Di più: la sostanza espressiva ha a che
fare con il corpo. Il linguaggio non è categorizzazione logica, bensì fiato, corpo,
suono. Non vi è nulla di più corporeo del linguaggio. Si tratta, dunque, di
riconoscere la mutua implicazione tra forma e sostanza da un lato, e
l'organizzazione dei contenuti, il loro aspetto formato dall'altro. E questo è, a mio
avviso, uno dei modi per uscire dall'opposizione che abbiamo ereditato e che vuole il
segno da una parte e il reale dall'altra …6”.
Il caos-caso che ha voluto evidenziare una frase non è un caso.
Tra le sublimazioni del linguaggio del corpo e la bellezza, la giustapposizione, la
giustezza della virtù del linguaggio del corpo, che non fa corpo, pensiero ed uso
alcuno della “lingua”, alcuni tra i massimi esempi sono la danza, come in Rudolf
6 intervista a Fabbri P., “Il Girotondo delle Muse”, 2002
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Nureyev, il mimo, come in Étienne Decroux, o finanche la scultura, come in
Auguste Rodin.
In quest’ultimo, che ora rendo primo [il mio reiterato citazionismo cristiano non è
devozione, è esorcizzazione reiterata, fino all’espiazione del peccato originale
dell’umanità euroccidentale, ed oltre, ch’è il cristianesimo stesso], la sua opera
più famosa poi ribattezzata “Il Pensatore” era originariamente (in)teso a
raffigurare Dante, e chiamata conseguentemente “Il Poeta”.
Rodin ha forse definito la poesia intrinseca tanto quanto estrinseca d’un poeta
tanto bene quanto un massimo assoluto come Dante stesso.
E se sembra una bestemmia, ben venga. Comunque. E sempre.
Un altro intervento di un altro bastardo, che per grazia del cielo lo siam tutti un
po’: “L’arte occidentale verte, il più delle volte, sull’arte precedente; la letteratura
sulla letteratura. Il termine ‘su’ indica la fondamentale dipendenza ontologica, il
fatto che un’opera o un insieme di opere precedenti è, in qualche misura, la raison
d'être dell’opera cui si lavora. Abbiamo visto che questa misura è variabile, dalla
duplicazione diretta all’allusione tangenziale e al cambiamento che va quasi oltre
ogni possibilità di riconoscimento. Ma questa dipendenza esiste, e la sua struttura
è quella della traduzione”. Era ancora George Steiner, “After Babel”.
Togliamo “occidentale”. Sostituiamo “dipendenza” con “veicolazione” e
“traduzione” con veicolo. Poi pensiamo che non necessariamente tutto questo
noccia, e pensiamo invece come ad un Boléro di Maurice Ravel suonato da un
ensemble il più trans possibile non classico, più jazz, e che ad ogni giro di valzer
s’aggiunga uno strumento nuovo suonato da un musicista nuovo con il suo
assolo che amplia l’orchestrazione, in un infinito climax à la A Day In The Life dei
Beatles.
Ecco, così è il trapassare e l’evolversi delle culture attraverso loro stesse nel
tempo, nello spazio e soprattutto nell’universo.
Proprio come l’universo in espansione il moltiplicarsi di sottogeneri nell’ambito di
generi, di regionalismi in un territorio, lo svilupparsi di dialetti nei dialetti nelle
lingue ci dicono che più ci si espande più esiste la necessità e la naturale
tensione a diversificarsi, peculiarizzarsi, unicizzarsi. Naturalmente, l’unicizzarsi
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in funzione di unirsi, e dunque non solo sommarsi, ma moltiplicarsi.
Esponenzialmente, universalmente.
Chiudiamo con Steiner e facciamolo riposare senza posa in questa tesi e nelle
nostre teste con due suoi scarti, ma solo nell’accezione di ‘deviazione’ del termine
se non s’è capito, si capisce.
“Tutto il problema della traduzione e la ricerca corrente di universali nella
grammatiche generative esprimono una reazione di fondo contro gli aspetti privati
dell’uso individuale e contro il disordine di Babele. Se una parte sostanziale di tutto
ciò che si dice non fosse pubblica o, con maggiore esattezza, non potesse essere
trattata come se lo fosse, ne deriverebbero il caos e l’autismo”.
E siamo con Steiner, almeno siamo io&lui, ne non disdegnare né Babele né il
caos. E nel non credere all’autismo come fatto umano. In quanto, forse, non
possibile come fatto linguistico, non esistente, impossibile.
“Intenzionalmente o no, l’inglese e l’angloamericano, grazie alla loro diffusione
globale, sono un agente fondamentale di distruzione della varietà linguistica
naturale. Tale distruzione è forse il meno riparabile tra i disastri ecologici che
caratterizzano la nostra epoca. A livello più sottile, la trasformazione progressiva
dell’inglese in una sorta di ‘esperanto’ del commercio mondiale, della tecnologia e
del turismo, sta esercitando effetti debilitanti sull’inglese in senso stretto. Per usare
un gergo attuale, la sua onnipresenza sta causando un feedback negativo. Una
volta ancora, è troppo presto per valutare l’equilibrio dialettico, la reciprocità tra
conflitto e perdita che toccano all’inglese a mano a mano che esso diventa la lingua
franca e la stenografia della terra. Se tale disseminazione indebolisse il genio
nativo della lingua, il prezzo sarebbe tragico. La letteratura inglese, l’impronta
penetrante e tuttavia delicata di un’esperienza storica coerente e articolata in
maniera unica sul vocabolario e sulla sintassi della lingua inglese, la vitalità
flessibile dell’inglese nei confronti del suo passato ininterrotto: ecco uno dei fattori
di eccellenza della nostra condizione. Sarebbe ironico se la risposta a Babele fosse
il pidgin e non la Pentecoste”.
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Eppure sarebbe forse più dolce che amara risata, George.
Perché ogni linguaggio è in realtà pidgin, ogni linguaggio è contact-language.
Quel che conta sono le persone, e non le pentecosti.
Le differenze tra loro, e non l’indifferenza tra loro.
L’unità tra la loro diversità, come una delle poche cose buone che han fatto gli
europei assieme, l’Unione Europea (sarebbe ben, ben migliore se non fosse
Fortezza Europa, ma mi pare già mela buona nonostante immatura. I primi passi
sono stentorei, come di bimbo, e spesso sbagliati, ma bisogna insistere, bisogna
camminare, la direzione poi conta poco se s’è in grado di deviare. Poi il bimbo
dovrà attraversare quel l’altro lembo di mare ch’è il mediterraneo e la prima
parola che dovrà pronunciare, dopo aver pianto ch’è la prima cosa che un bimbo
fa comunque, sarà: scusa), ed il suo motto, in latino: In varietate concordia.
Tuttinsieme.
Tutti col proprio diverso mattone ad edificare una torre unica, di Babele. Ed
arrivarci, al cielo
Eudemonologia vicendevole globale.
La mia tesi è:
Invito alla migrazione
Invito al movimento
Invito al translinguismo
Invito al transgender
Invito a Babele
Invito al caos
All’estinzione dell’origine assieme all’austriaco Thomas Bernhard,
assieme a d’ogni parte e a ogni parte noitutti, noituttinsieme.
Allontanamento dalla lingua originaria e multifrazionamento big bang, Babele,
riavvicinamento tutti a tutti: come i continenti, che si riavvicineranno ancora una
volta.
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IX. Conclusione
E adesso a voi.
Vi apro le porte o che le apriate voi, e siete liberi di entrare & uscire,
liberi di tutto, liberi del tutto.
Le (in)conclusioni a voi, e non perché siano inconcludenti, ma perché siano
infinite.. .
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X. Bibliobabele
libri
aa.vv., Enûma Elish, XIII secolo a.C.
aa.vv., Bibbia, X secolo a.C.
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Ravi Zacharias, Communication in Babel
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interviste
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a Paolo Fabbri, Il Girotondo delle Muse, 2002
articoli
Luca Castelli, Siete pronti ad una nuova Babele?da ‘Mediapolis’ su “Il Mucchio Selvaggio” n°627, ottobre 2006
teatro
Bertolt Brecht, Leben des Galilei,1938-1939
performance art
aa. vv., al Cabaret Voltaire, Zürich, dal 5-2-1916
sculture
Michelangelo Buonarroti, David
Auguste Rodin, Le Penseur
architetture
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