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DOMENICA 16 APRILE 2006 D omenica La di Repubblica la memoria I magnifici sessant’anni della Vespa EDMONDO BERSELLI la lettura Con Martin Amis nel Gulag di Stalin ENRICO FRANCESCHINI e GIAMPAOLO VISETTI spettacoli Sciuscià, l’Italia che commosse il mondo FILIPPO CECCARELLI e PAOLO D’AGOSTINI D a anni ricevo migliaia di lettere d’amore: di uomini, donne, gay, vegliardi, adolescenti, lesbiche, anche qualche trans. Lettere che grondano di passione e dei suoi tanti deriva- ti, odio, ripulsa, paura, ossessione, delirio, barba, ansia, deliquio, depressione, felicità, ecc. Ogni possibile sentimento, emozione, legati all’amo- re, cioè tutti. Naturalmente non sono io il bersaglio di tan- to fragore emotivo e letterario, io sono solo l’eventuale ma- ga o come dicono gli inglesi, agony aunt, che dovrebbe mi- steriosamente risolvere ogni caso, ogni questua, ogni tre- more, ogni furia omicida o autodistruttiva, non tanto per sapienza psicologica quanto piuttosto per lampeggianti poteri negromantici. Mi sono spesso chiesta perché tutti quei dubbi e scon- tentezze e singhiozzi e bulimie causate dall’amore che, se trasformato in lettera, è quasi sempre infelice, vengono in- dirizzati a me e non alla causa di tanto scompiglio. Tipo, per sintetizzare: «Mia moglie mi tradisce» e perché non diret- tamente «Cara perché mi tradisci?». Oppure: «Lo amo per- dutamente ma lui non lo sa» e senza intermediari, accom- pagnando magari con cioccolatini propiziatori, «Forse non ti sei accorto che ti amo». (segue nelle pagine di Cultura) il fatto Georg Ratzinger: “Mio fratello, il Papa” ORAZIO LA ROCCA e ANDREA TARQUINI il reportage Il corteo senza fine dei morti di mafia GIORGIO BOCCA e ATTILIO BOLZONI NATALIA ASPESI L a lettera, come l’amore, dipende dall’assen- za. Negli anni in cui Vermeer dipingeva la Let- tera d’amore, il conte Bussy-Rabutin, in esilio e dunque lontano per definizione, scoprì con disappunto che le sue lettere — le più belle del secolo — non facevano più paura alle donne. Dichiarazioni d’amore a cinquanta leghe di distanza, ri- devano: ma sono platoniche! «Non esitate ad amarmi d’amore, fino al vostro ritorno», lo scherniva una dama. «Quando ci vedremo, vedremo», minacciava lui. (L’altro grande esiliato, Ovidio, scriveva a una ragazza sognando che toccasse la sua lettera con le labbra, «quando cer- cherà di rompere il sigillo coi candidi denti»; che diffe- renza da James Joyce, che pregava Nora di infilarla nelle parti invereconde). È l’Ottocento, beninteso, il secolo delle lettere d’amore più smodate. La corrispondenza di Alexandre Dumas pa- dre con Mélanie Waldor, riluttante moglie di un militare, accumula tempeste, convulsioni, templi crollati, sontuo- sità mistiche, vascelli disalberati, tombe, anatemi, archi spezzati, relitti di generazioni e «una passione disordina- ta che urlava come un uragano, quando non vagiva con la voce lamentosa di un bambino». (segue nelle pagine di Cultura) DARIA GALATERIA l’incontro Levi Montalcini: “Coltivate il cervello” LEONETTA BENTIVOGLIO Lettere d’amore Il celebre dipinto di Vermeer arriva a Roma Un’occasione per rivisitare le missive che hanno fatto sognare l’umanità FOTO CORBIS Repubblica Nazionale 31 16/04/2006
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Page 1: Lettere d’amore - download.repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/16042006.pdf · ti sei accorto che ti amo». ... e ho capito che quello che stavo osser- ... Per

DOMENICA 16 APRILE 2006

DomenicaLa

di Repubblica

la memoria

I magnifici sessant’anni della VespaEDMONDO BERSELLI

la lettura

Con Martin Amis nel Gulag di StalinENRICO FRANCESCHINI e GIAMPAOLO VISETTI

spettacoli

Sciuscià, l’Italia che commosse il mondoFILIPPO CECCARELLI e PAOLO D’AGOSTINI

Da anni ricevo migliaia di lettere d’amore: diuomini, donne, gay, vegliardi, adolescenti,lesbiche, anche qualche trans. Lettere chegrondano di passione e dei suoi tanti deriva-ti, odio, ripulsa, paura, ossessione, delirio,barba, ansia, deliquio, depressione, felicità,

ecc. Ogni possibile sentimento, emozione, legati all’amo-re, cioè tutti. Naturalmente non sono io il bersaglio di tan-to fragore emotivo e letterario, io sono solo l’eventuale ma-ga o come dicono gli inglesi, agony aunt, che dovrebbe mi-steriosamente risolvere ogni caso, ogni questua, ogni tre-more, ogni furia omicida o autodistruttiva, non tanto persapienza psicologica quanto piuttosto per lampeggiantipoteri negromantici.

Mi sono spesso chiesta perché tutti quei dubbi e scon-tentezze e singhiozzi e bulimie causate dall’amore che, setrasformato in lettera, è quasi sempre infelice, vengono in-dirizzati a me e non alla causa di tanto scompiglio. Tipo, persintetizzare: «Mia moglie mi tradisce» e perché non diret-tamente «Cara perché mi tradisci?». Oppure: «Lo amo per-dutamente ma lui non lo sa» e senza intermediari, accom-pagnando magari con cioccolatini propiziatori, «Forse nonti sei accorto che ti amo».

(segue nelle pagine di Cultura)

Trent’anni fa, dal garage di una casa californiana, uscivaun nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo

il fatto

Georg Ratzinger: “Mio fratello, il Papa”ORAZIO LA ROCCA e ANDREA TARQUINI

il reportage

Il corteo senza fine dei morti di mafiaGIORGIO BOCCA e ATTILIO BOLZONI

NATALIA ASPESI

La lettera, come l’amore, dipende dall’assen-za. Negli anni in cui Vermeer dipingeva la Let-tera d’amore, il conte Bussy-Rabutin, in esilioe dunque lontano per definizione, scoprì condisappunto che le sue lettere — le più belle delsecolo — non facevano più paura alle donne.

Dichiarazioni d’amore a cinquanta leghe di distanza, ri-devano: ma sono platoniche! «Non esitate ad amarmid’amore, fino al vostro ritorno», lo scherniva una dama.«Quando ci vedremo, vedremo», minacciava lui. (L’altrogrande esiliato, Ovidio, scriveva a una ragazza sognandoche toccasse la sua lettera con le labbra, «quando cer-cherà di rompere il sigillo coi candidi denti»; che diffe-renza da James Joyce, che pregava Nora di infilarla nelleparti invereconde).

È l’Ottocento, beninteso, il secolo delle lettere d’amorepiù smodate. La corrispondenza di Alexandre Dumas pa-dre con Mélanie Waldor, riluttante moglie di un militare,accumula tempeste, convulsioni, templi crollati, sontuo-sità mistiche, vascelli disalberati, tombe, anatemi, archispezzati, relitti di generazioni e «una passione disordina-ta che urlava come un uragano, quando non vagiva con lavoce lamentosa di un bambino».

(segue nelle pagine di Cultura)

DARIA GALATERIA

l’incontro

Levi Montalcini: “Coltivate il cervello”LEONETTA BENTIVOGLIO

Lettere d’amore

Lettere d’amore

Il celebre dipintodi Vermeer arriva a Roma

Un’occasioneper rivisitare

le missive che hannofatto sognare l’umanità

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52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006

l’incontroRegine del Nobel

ROMA

Pochi sanno essere vecchi,sentenziò La Rochefou-cauld. Di quei pochi la sovra-na è Rita Levi Montalcini, che

tra una settimana — il 22 del mese —compie 97 anni, «però che importa, ionon ho mai dato alcun peso agli anniver-sari e ai festeggiamenti», avverte lei quie-ta e splendente nel sala riunioni della se-de della fondazione che porta il suo no-me. Il luogo ferve di attività e colori: com-puter accesi, donne al lavoro gentili esorridenti, pareti tappezzate dai quadridi Paola Levi Montalcini, gemella adora-ta di Rita, tanto che «quando, il 29 set-tembre del 2000, il suo polso cessò di bat-tere sotto la mia mano», confessa lei, «hopensato che anche la mia vita fosse giun-ta al termine».

La gloriosa scienziata, premio Nobelper la medicina nell’86, appare comeuna signora minuta e decisa. Il piglio èprincipesco, l’eleganza è molto pie-montese: asciutta, senza sfarzo; ma cu-ratissima nei dettagli. Capigliaturabianca modellata con morbidezza eamore, piccoli e raffinati gioielli al colloe ai polsi, scarpe molto femminili, con iltacco alto. Il portamento è eretto, la pel-le è diafana. Ha la luce di un antico cam-meo. L’abito è un Capucci nero e seto-so, tagliato d’incanto, con sottili bordiverdi che sottolineano il collo all’orien-tale. Da sempre le piace essere vestitabene: «Che vuole, non potendo cam-biare me stessa cambio il vestito».

La voce è limpida, la conversazione èlucidissima. «Credo che il mio cervello,sostanzialmente, sia lo stesso diquand’ero ventenne. Il mio modo diesercitare il pensiero non è cambiato ne-gli anni. E non dipende certo da una mia

giunto il tempo di assumere un ruolo de-terminante nella gestione del pianeta.La rotta imboccata dal genere umanosembra averci portato in un vicolo ciecodi autodistruzione. Le donne possonodare un forte contributo in questo mo-mento critico».

È così ottimista sul genere femminile?Cosa risponde a chi sostiene che le don-ne occidentali, in ambito lavorativo, ri-schiano di assumere i peggiori vizi ma-schili? «Rispondo che quando si è affa-mati da troppo tempo, e si ha la possibi-lità di accedere a un cibo, lo si utilizza piùdi quando si è saturi. Alla donna è man-cato tutto. Io ne so qualcosa. Mio padreaveva deciso che mio fratello doveva an-dare all’Università, mentre le sue tre fi-glie erano destinate alle scuole femmini-li per affrontare il ruolo che spettava lorodi future mogli e madri. Alla donna, dabambina, nell’era vittoriana, si insegna-va ad essere graziosa e gentile. Che in-giustizia. Ne ho sofferto moltissimo».

La propria infanzia, età ingenerosa,segnata dal rapporto col padre troppo

particolarità, ma da quell’organo ma-gnifico che è il cervello. Se lo coltivi fun-ziona. Se lo lasci andare e lo metti in pen-sione si indebolisce. La sua plasticità èformidabile. Per questo bisogna conti-nuare a pensare».

E infatti Rita lavora sempre, instanca-bilmente, occupandosi di Ebri, l’istitutoeuropeo di ricerche sul cervello di cui èstata ispiratrice ed è presidente, e dellafondazione a lei intitolata che reperiscefinanziamenti da destinare all’istruzio-ne delle donne che vivono nell’emisferoSud del mondo. «Certo, con l’età qualchelimitazione ce l’ho anch’io. Da qualchetempo ho gravi problemi di vista. Peròcol video ingranditore riesco ancora aleggere, anche se con più lentezza di pri-ma. In passato mi alzavo alle quattro delmattino (ho sempre dormito poco) e al-le nove avevo già letto cento pagine. Ora,nello stesso arco di tempo, riesco a leg-gerne una decina. Il che non m’impedi-sce di scrivere libri».

L’ultimo, I nuovi magellani nell’er@digitale, firmato con la «la mia carissimacollaboratrice Giuseppina Tripodi» eappena pubblicato da Rizzoli, è dedica-to a uno dei temi che più le stanno a cuo-re: le potenzialità offerte dalla rivoluzio-ne digitale a coloro che definisce, ap-punto, «i nuovi magellani». Navigatorisulle vie della conoscenza, paladini del-la cooperazione globale. «Oggi i giova-ni», dice, «devono affrontare realtàdrammatiche come la povertà, il razzi-smo, l’analfabetismo, la negazione deidiritti civili in molti paesi. Lo sviluppotecnico e scientifico ha aperto spazisterminati all’esplorazione, e le nuovegenerazioni potranno utilizzarli al me-glio. Non bisogna aver paura dell’infor-matica, perché da sempre il progresso èportatore di cultura e di democrazia.Occorre sfruttare le potenzialità di In-ternet per metterle al servizio dei popo-li più svantaggiati».

È anche grazie a discorsi come questiche Rita Levi Montalcini è diventata unasorta di icona giovanile. Ogni sua appa-rizione nelle università è accolta da fe-stosi applausi. La sua presenza è simbo-lo d’impegno umanitario, rivendicazio-ne di valori condivisi, specchio di sapereprofondamente laico, apertura di nuoviorizzonti, bandiera del cammino diemancipazione delle donne. Sensibilealle tragedie del Terzo Mondo, e batta-gliera nel promuovere la consapevolez-za degli immensi benefici dell’istruzio-ne, Rita si adopera soprattutto per la par-te di umanità che si dimostra ancora co-me più fragile, quella femminile. «È im-pressionante che nel mondo ci siano 880milioni di analfabeti. Bisogna dare alledonne la possibilità di usare il cervello,insegnare loro a utilizzare gli strumentidell’informatica. Adoperarsi in questadirezione è un obbligo. La mia fondazio-ne, di recente, ha attribuito 800 borse distudio alle donne africane nelle varie fa-sce di età: prescolare, scolare, universi-taria e post-universitaria. Per la compo-nente femminile del genere umano è

autoritario, Rita se la ricorda bene. «Misentivo inferiore da ogni punto di vista,intellettuale e fisico. Intellettualmente ilmio idolo era Gino, il fratello più grande,mentre Paola, la mia gemella, era moltoportata per l’arte. Tra loro due ero comeil brutto anatroccolo, perennementegiudicata e inibita da un padre severo,che mi incuteva timore. Ogni suo desi-derio doveva essere esaudito. È statoquesto a farmi decidere di non sposarmimai. Avevo tre anni quando ho pensato:da grande non farò la vita che sta facen-do mia madre. Mai avuto più alcuna esi-tazione o rimpianto in tal senso. La miavita è stata ricca di ottime relazioni uma-ne, lavoro e interessi. Non ho mai speri-mentato cosa volesse dire la solitudine».

Il fatto di non avere avuto figli non lemanca. Chiama «mio figlio» l’NGF, sigladella proteina che stimola la crescita del-le cellule nervose. È la scoperta che l’hacondotta al Nobel. La storia è nota: no-nostante la sfiducia paterna, Rita studiòbrillantemente a Torino, la sua città, spe-cializzandosi in neurobiologia e diven-tando l’assistente di Giuseppe Levi,«persona molto simile a mio padre perautoritarismo. Aveva un grande fascinosu di me, anche se più dal lato umano chescientifico. I suoi metodi erano vecchiostile, ma ne ammiravo il valore morale eculturale». Poi Rita Levi Montalcini, conle leggi razziali, fu costretta a rinunciareal posto di assistente universitaria: nonaveva neppure accesso alle biblioteche.Oggi afferma che l’essere ebrea non èmai stato per lei motivo né di orgoglio nédi umiliazione: «Non sono ortodossa,non vado mai in sinagoga. Sono total-mente laica, non ho ricevuto alcuna edu-cazione religiosa. Mio padre ci diceva:siate liberi pensatori. Per me quello checonta, in una persona, non è che siaebrea o cattolica, ma che sia degna di ri-spetto. E sono convinta che non esistanole razze, ma i razzisti».

Anche durante le persecuzioni raz-ziali Rita continuò a lavorare, allesten-do un piccolo laboratorio nella casa incui viveva, nell’astigiano. E dopo laguerra accettò l’invito ad andare a pro-seguire le sue ricerche negli Stati Uni-ti. Fu nel 1951, alla Washington Uni-versity di St. Louis, che la ricercatriceosservò per la prima volta l’effettoesercitato dal trapianto di un tumoredi topo sul sistema nervoso dell’em-brione di un pulcino. Quel fenomeno,la cui scoperta le avrebbe fatto merita-re il massimo riconoscimento per unascienziata, fu chiamato il “NerveGrowth Factor”. «Ci arrivai con la for-tuna e l’istinto. Conoscevo in tutti i det-tagli il sistema nervoso dell’embrionee ho capito che quello che stavo osser-vando al microscopio non rientravanelle norme. Una vera rivoluzione: an-dava, infatti, contro l’ipotesi che il si-stema nervoso fosse statico e rigida-mente programmato dai geni. Per que-sto decisi di non mollare».

Se le si chiede del suo affetto piùgrande, torna con entusiasmo e com-

mozione il nome di Paola, la sorella ar-tista. La loro corrispondenza, docu-mentata nel bellissimo epistolario difamiglia raccolto nel volume Cantico diuna vita (Raffaello Cortina Editore), èuna vicenda emozionante di scambi,affinità, intrecci di affetto e pensiero.Arte e scienza come viaggi paralleli. SuPaola, dopo la sua morte, per rivendi-carne la grandezza di artista ed esorciz-zare il dolore della perdita, Rita scrisseun libro appassionato, Un universo in-quieto(Baldini e Castoldi). L’apprendi-stato con Felice Casorati, l’isolamentonel dopoguerra, il passaggio al non-fi-gurativo e all’astratto, l’approdo a tec-niche non pittoriche e alle opere più re-centi, strutture cinetico-luminose, dimetallo e rame: tutto converge nel ri-tratto di una donna libera e schiva, chelavorò svincolata dagli schemi. «Paolanon è stata valorizzata quanto merita-va, ma a lei non importava nulla deimercanti. Ora che è scomparsa si mol-tiplicano i riconoscimenti. In giugno, aRoma, ci sarà una mostra delle sue ope-re. Ne seguiranno una a New York eun’altra a Los Angeles».

«L’universo inquieto» di Paola haconservato a lungo, per la scienziata,una componente misteriosa. «Quandovivevo in America, mi chiedevo se unmio rientro in Italia mi avrebbe datomodo di godere della sua vicinanza e dicomunicare con lei. Mi domandavo sesaremmo finalmente vissute vicine,godendo del vincolo affettivo che ci hasempre legate, e se avrei avuto accessoal mondo da cui Paola attingeva la suastraordinaria capacità creativa». Ritatornò in Italia, e Paola venne a vivere aRoma con lei. In seguito, nei lunghi an-ni di convivenza, Rita sentì di aver su-perato quella barriera. Perché, comenel cammino di arte e scienza, «due ret-te parallele si incontrano all’infinito».

La mia vitaè stata ricca di ottimerelazioni umane,lavoro e interessiNon ho maisperimentato cosavolesse direla solitudine

Tra una settimana compirà 97annima agli anniversari e all’etànon hamai dato alcun peso, perché il suo modo di esercitare il pensieronon è cambiato negli anni. Perché

“quell’organo magnificoche è il cervellose lo coltivi funziona”.Ha appena pubblicatoun altro libro, dedicatoa uno dei temiche le stanno più a cuore,la rivoluzione digitale

e i “nuovi magellani”: i giovaninavigatori sulle vie della conoscenzache sfruttano le potenzialità di Internet

LEONETTA BENTIVOGLIO

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1914Realizzata in cuoio con rinforzo

metallico sulla punta:

è la scarpa da calcio del 1914

L’ALLENAMENTODI “O REY”L’allenamento

del grande Pelé,

all’anagrafe

Edson Arantes

Do Nascimento,

soprannominato

“o rey” (il re)

del calcio

È il 1963

1950Negli anni 50, Adolf Dassler,

patron dell’Adidas inventa

i tacchetti intercambiabili

1970Pelè durante i campionati

del mondo in Messico nel 1970

utilizzò gli scarpini Puma

1978Primo modello della Copa

Mundial dell’Adidas: funzionale

anche per i campi in terra

1998Il Mondiale di Francia 1998

è Nike. La squadra brasiliana

per l’evento torna al nero

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 16 APRILE 2006

Le consegnavamo al calzolaio come fossero gioielliIl rapporto del campione degli anni Settanta con le sue scarpe da calcio fu segnato dalla scaramanzia

GIGI RIVA

Come tutti, avevo un rapporto sentimentale con le scarpe. Le amavo, le cu-ravo, ma chiedevo anche che assistessero le mie prestazioni e in qualchecaso le migliorassero. Diventavano mie soltanto dopo un po’ di tempo,

dopo aver imparato a conoscerle e dopo che loro avevano avuto il tempo di co-noscere me e i miei piedi.

Certo cinquant’anni fa il calcio era diverso. Era un altro mondo.Più essenziale, scarno, povero. E le scarpe di allora corrispondeva-no alla situazione, che poi era lo specchio della società. Una volta lascarpa da calcio aveva ben altra accessibilità commerciale. In prati-ca era un bene quasi immaginario, un sogno, specialmente per leclassi medio-basse. Quando ero bambino sono arrivato ad odiareBabbo Natale. Non so dire per quanti anni ho sperato, invano, chemi portasse con la slitta un magnifico paio di scarpe per giocare a pal-lone, di quelle che vedevo nelle fotografie. E invece niente, mai nien-te: mi regalava solo arance.

Quando ho iniziato a giocare usavo le scarpe che si poteva permettere la miasocietà. Ero uno scaramantico sin da giovane e se avevo segnato la domenicaprima, o fatto qualcosa di molto speciale, una gran rovesciata per esempio, ri-mettevo le stesse scarpe. Ma non ero il solo. Nel Cagliari molti facevano comeme. Delle scarpe avevamo molta cura, come fossero gioielli. Esistevano un pri-

ma e un dopo partita riservati alle scarpe. A fine partita le ripulivamo e le conse-gnavano al calzolaio che, se necessario, provvedeva a ripararle. Le uniche cheho buttato via sono state quelle utilizzate per quelle due maledette partite dellanazionale, Italia-Portogallo e Italia-Austria, in cui mi ruppi le gambe.

Credo che i calciatori di oggi tengano alle proprie scarpe come noiun tempo. Solo che adesso ci sono dietro contratti favolosi, mentreallora di favoloso c’era solo il fatto di poter giocare. L’unico “lusso”che ci permettevamo era di usare come cavie i ragazzi della Prima-vera: davamo a loro le scarpe nuove, le facevamo sgrezzare un po’ epoi cominciavamo a usarle noi della prima squadra. C’era una dit-ta di Padova, la Valsport, che mi mandava delle scarpe fatte appo-sta per me. Ma sotto non c’era alcun contratto: nel senso che non mipagavano. Mi davano le scarpe e basta. Erano di pelle di canguro,leggerissima, e mi andavano alla perfezione. Ne avevo quattro paia:due con i tacchetti di gomma e due con i tacchetti di alluminio. Con

la Valsport avevo anche studiato una scarpa rivoluzionaria per l’epoca, con lasuola divisa in due: sarebbe stata perfetta per il mio modo di correre, simile perdinamica a una scarpa chiodata da centometrista. Ma non l’ho mai utilizzata.Perché nel frattempo ho smesso. Ne ho un paio a casa, nuove di zecca.

(Testo raccolto da Enrico Sisti)

LA STORIA

Gigi Riva

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Icalciatori sono contenti se qualcuno li sveglia di buon oradicendogli: «Guarda che quello ti sta facendo le scarpe».Sono il loro bene più prezioso e se un artigiano si preoccu-pa soltanto delle loro estremità non possono che ralle-grarsene. Fino a quindici anni fa le calzature da gara si con-cepivano su vasta scala, con minime variazioni ad perso-

nam. Ai Mondiali del 1970 le Puma con cui giocò Pelé non eranocosì diverse da quelle che si potevano trovare nei negozi di sport.Oggi Totti, Del Piero, Ronaldo, Henry, Ronaldinho, Kakà indos-sano solo scarpe su misura: più ad pedem che ad personam.

È bello il calcio visto dal basso. Chi tocca l’erba non sono i cal-ciatori, ma le loro scarpe e sono queste che decidono quale saràl’equilibrio in campo di chi le calza. Sbagliare i tacchetti, sce-gliere un modello troppo morbido, fidarsi per scaramanzia diuna scarpa con cui si è segnato la domenica prima, equivale asbagliare un gol a porta vuota. A volte poi ci si mette anche la na-tura. Un esempio: trent’anni fa il tedesco Günther Netzer misein crisi l’industria sportiva con una particolarità fisica che non siè mai più riscontrata nel calcio di prima fascia: Netzer aveva ipiedi di due misure e di due forme diverse. Scrollando la testa,un tecnico della ditta ammise i propri limiti davanti a quelleestremità anomale: «Sarebbe stato più facile se lei avesse avutodue piedi sinistri». Netzer fu costretto a calzare per molti anni lescarpe di due marche camuffando il logo per evitare complica-zioni contrattuali. Ma la tecnologia che aveva a disposizione erala bisnonna di quella che scenderà in campo, con un impressio-nante dispiego di forza commerciale, ai prossimi mondiali dicalcio in Germania.

I colossi dell’abbigliamento sportivo, soprattutto Adidas,Nike e Diadora, si contenderanno un affare che sfiora comples-sivamente i 4 miliardi di euro. L’Adidas ha già annunciato la pri-ma scarpa scomponibile della storia, ideata per Del Piero. Ba-sterà cambiare un solo componente (tacchetti, tomaia...) per ot-tenere una calzatura adatta a ogni situazione in campo: pioggia,polvere, erba, vesciche. A Totti è dedicata l’ultima innovazionecalcistica della Diadora. Se il capitano della Roma disputerà imondiali, la nuova scarpa costruita intorno al suo piede dovràanche prendersi la responsabilità di garantire protezione allacaviglia operata. La Nike gestirà invece i destini pedatori di granparte dei calciatori brasiliani, di molti olandesi e di una mezzadozzina di squadre extraeuropee.

Ma come è cambiato lo scarpino da calcio? L’evolversi dei ma-teriali (sempre meno pelle, sempre più sintetico) ha portato tral’altro ad una cromatizzazione esasperata del piede del calciato-re. Sembra passato un secolo da quando gli scarpini bianchi diCiccio Graziani (ora bizzarro coach da reality tv) fecero temere atutti che il giocatore, per una grottesca amnesia, degna di Achil-le Campanile, fosse sceso in campo con le calze da notte.

Gli stessi scarpini revival alla Graziani hanno conquistato mol-ti amanti del calcio. Ovvero quelli che, fra tanta perfezione, pre-feriscono andare in cerca delle rarità, come si fa con le figurinePanini. La caccia non è difficile. Il merchandising delle grandisquadre prevede collector’s items ad uso e consumo dei nostalgi-ci: riproduzioni fedeli di palloni, magliette e scarpe d’annata,magari inservibili per cimentarsi sul campo. I “padri pellegrini”del calcio avevano infatti a disposizione scarpe pesantissime conun rinforzo di metallo sulla punta. Altre caratteristiche: lacci lun-ghissimi e assenza di tacchetti per quelle destinate alle gare uffi-ciali (la regola 13 della English Association, poi adottata anche inItalia, lì vietò per lungo tempo).

Le scarpe da calcio furono in uso sin dai primi anni dell’Otto-cento, ma soltanto all’inizio del Novecento assunsero una formae un’identità riconoscibile. I primi esemplari realizzati con tec-niche industriali non si rompevano mai o molto raramente. Incompenso si rompevano i piedi. I tacchetti furono legalizzati ne-gli anni Venti. Adolf Dassler, il cofondatore dell’Adidas, ebbe l’in-tuizione di costruire scarpe con tacchetti diversi, da utilizzare inbase alle condizioni del campo e del tempo. I tacchetti inter-cambiabili arrivarono soltanto negli anni Cinquanta. Resta unsolo dubbio: chissà che scarpe usava Carlo Didini di Treia, chenel 1821 vinse non si sa bene quale partita, ma tanto bastò a Gia-como Leopardi per dedicargli A un vincitore di pallone.

le tendenzeLook sportivo

Belle, aerodinamiche, tecnologiche e adesso perfinoscomponibili, le calzature da gara possono farela differenza in campo, tanto che alcuni modelli pensatiper i grandi calciatori debutteranno sul rettangolodi gioco di Germania 2006 prima di arrivare nei negozieuropei per conquistare il mercato dei fan

ENRICO SISTI

IL PIÙ AMATO DAI VIPIl modello F50+ dell’Adidas, sul mercato dalla fine del 2004,

è molto apprezzato dai calciatori di alto livello

Uno dei primi ad utilizzarlo è stato lo juventino David Trezeguet

PERSONAL STYLEMaximus N, è la scarpa che la Diadora ha personalizzato

per Francesco Totti in vista dei Mondiali. Nuova distribuzione

dei tacchetti per la pressione plantare e allacciatura asimmetrica

LACCI VIETATIZero Gravity, modello 2006 della Lotto: prospettiva

Mondiali, niente lacci, leggerissima. Rappresenta l’evoluzione

della scarpa attualmente usata da Luca Toni

PASSI DA GAZZELLALa Mercurial Vapor III è

la più giovane scarpa

Nike. La vedremo

ai piedi di Adriano e

Ronaldo. Pesa

soltanto 200 grammi,

come le scarpe

chiodate dei velocisti

FACOLTÀ DI SCELTASi chiama +F50 Tunit la scarpa “modulare” dell’Adidas

personalizzata per Alessandro Del Piero. Si possono

sostituire tomaia, chassis e perfino i tacchetti

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006

Progettati sotto il segnoScarpini

del Mondiale perfetto

L’ESORDIO DELLA GRIFFEBikkemberg si affaccia al mondo del calcio con la “Bix”

È il primo scarpino firmato da uno stilista di moda

Il suo lancio è previsto per il prossimo campionato italiano

SOTTO PRESSIONELa nuovissima Puma v1.06 è realizzata con tomaia

in microfibra e suola in carbonio. Anche per Puma l’obiettivo

è la pressione uniforme del piede del calciatore sul terreno

BAGNO BLU E ARGENTOSi chiama F 30.6, la versione più sofisticata,

e reperibile, nei colori blu e argento, della celebre

“dinastia” delle Predator Pulse prodotte dall’Adidas

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itinerariIl modeneseMassimoBottura, chefgenialeoffre ai clientidella sua“Francescana”

un uovo rivisitato: il tuorloviene siringato per estrarreuna parte del giallo,sostituita da brodoristretto di ossodi prosciutto. Piattodal sapore strepitoso

Costruita a partire

da 500 anni prima

di Cristo,

è circondata

dalla campagna

langarola. A pochi

chilometri,

a Monasterolo,

le galline di Claudio

Olivero sono allevate in libertà e alimentate

con i mangimi biologici dell’azienda

DOVE DORMIRETENUTA SANTA ROSALIA

Strada Santa Rosalia 1

Tel. 0172-726386

Camera doppia da 72 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREANTICA OSTERIA DELL’ORSA

Piazza Battisti 5

Tel. 0172-717606

Chiuso mercoledì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRICOLA CLAUDIO OLIVERO

Via Rigrasso 9, Frazione Monasterolo

Tel. 0172-373556

Savigliano (Cn)Nella campagna

intorno a questa

cittadina medievale,

ai margini dei boschi

secolari di Monte

Fogliano, l’azienda

San Bartolomeo

coltiva e alleva

con il metodo

biologico. Le 2000 galline ruspanti ospitate hanno

a disposizione ben tre ettari di terra

DOVE DORMIREDUE CASALI

SS2 Cassia Km. 70.000

Tel. 0761-461857

Camera doppia da 60, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA TORRE

Via della Torre 5, Viterbo

Tel. 0761-226467

Chiuso domenica, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRICOLA SAN BARTOLOMEO

Ss. Aurelia Bis km. 24,500

Tel. 0761-251782

Vetralla (Vt)A metà strada

tra Como e Varese,

è adagiata

sulle colline

del parco regionale

di Appiano

e Tradate. Qui,

nel 1960, Aldo

Bargero, medico

antroposofo, impostò l’azienda, che oggi ospita

5000 ovaiole, con i metodi della bioagricoltura

DOVE DORMIRELA DARSENA

Piazza Roma 14, Como

Tel. 347-5478058

Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREFATTORIA PASQUÉ

Via I maggio 11, Bernate di Casale Litta

Tel.0332-948307

Senza chiusura, menù da 20 euro

DOVE COMPRAREBARGERO CASCINA MONETA

Via Moneta 54

Tel. 031-930374

Carbonate (Co)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 16 APRILE 2006

Uova fritte, strapazzate, affogate, stufate, trascinate nella cenere, gettate nel caminetto, pasticciate, in-diavolate… sono solo alcuni dei tanti modi in cui le uova sono preparate, e poi sacrificate al dio Ventre,nei «giorni di magro infralardellati», ovverosia tra un lardo e l’altro. Questo leggiamo nel quarto libro

del Gargantua e Pantagruel, dove Rabelais si ingegna ad affastellare liste di ghiottonerie concesse in tempodi astinenza: vivande e prodotti la cui fortuna, nelle tradizioni alimentari europee, è legata anche a questaidentità sostitutiva rispetto alla carne proibita.

Questo privilegio spettò, a iniziare dal Medioevo, ad alimenti come il pesce, il formaggio e, appunto, le uo-va. In qual modo i monaci medievali riuscissero a osservare gli obblighi di astinenza, senza però negarsi legioie del palato, è rappresentato con grande vivacità in un testo polemico del XII secolo, scritto da Bernardoabate di Chiaravalle, il padre del monachesimo cistercense, che, rimproverando ai suoi avversari di Clunyl’eccessiva attenzione alle delizie della gastronomia, prendeva a esempio proprio le uova, e la straordinaria,sconveniente (a suo dire) varietà di maniere in cui erano preparate nelle cucine del monastero borgognone:«Chi riuscirebbe a dire in quanti modi le uova si versano e si strapazzano, con quale studio si voltano e rivol-tano, si liquefanno, si induriscono, si sminuzzano, e si portano in tavola ora fritte, ora arrostite, ora farcite, oraaccompagnate ad altri cibi, ora sole?»

Anche i ricettari dedicano ampio spazio alle uova, nel Medioevo e dopo. Interi capitoli sono dedicati a illu-strare alcuni degli infiniti usi di questo prodotto apparentemente povero e semplice, di cui difficilmente siriesce a fare a meno nell’attività di cucina. L’umanista Platina, a metà del Quattrocento, replicando ricette giàpresenti nell’opera di Maestro Martino, il suo cuoco di riferimento, si sofferma soprattutto sulle frictellee dot-tamente spiega che questo nuovo nome, sconosciuto agli antichi, deriva da fricto, «perché questo tipo di vi-vanda si cucina fritta». Un’evidenza al limite della tautologia, a cui seguono più interessanti suggerimenti suimodi di far frittelle di sambuco, di fior di farina e formaggio fresco, di latte rappreso, di riso, di salvia, di mele,di alloro, di mandorle, di fichi, di pesce, di vento (gonfie e vuote), di erbe amare; il testo prosegue con le ricet-te per fare uova fritte, sbattute, lesse, divise (sode e tagliate a metà), in graticola, in pasticcio, in padella «allafiorentina». Particolarmente virtuosistica la preparazione dell’uovo «allo spiedo», che troviamo anche rap-presentato, nel bel mezzo di un camino, in una miniatura del Tacuinum sanitatis. A dire la verità, Platina nonne appare troppo convinto: le uova allo spiedo, scrive, «sono una trovata senza senso, un’invenzione balza-na o uno scherzo di certi cuochi».

Se queste «invenzioni» rientravano nello snobismo culinario, l’importanza alimentare delle uova era nelMedioevo, ed è restata fino a oggi, una realtà condivisa da tutti i gruppi sociali. Ai contadini, in segno di omag-gio, i padroni hanno sempre chiesto un po’ di uova, perché ai contadini le uova non mancavano. Esse eranouna risorsa fondamentale della cucina povera, una cucina che, nei secoli, ha spesso praticato l’astinenza dal-la carne — non per obbligo liturgico, ma per necessità — e ha quindi saputo (dovuto) valorizzare i prodotti al-ternativi. Un ricettario toscano del Trecento ci lascia intuire questo mondo più ampio di consumatori, que-sta competenza socialmente diffusa, quando afferma, laconicamente: «de l’ova fritte, arrostite e sbattute è sìnoto che non bisogna dire d’esse».

Ghiottonerie sostitutive da conventoper osservare l’obbligo dell’astinenza

Così nacquero nel medioevo i ricettari passati alla storia

MASSIMO MONTANARIAl tegaminoSi mette sul fuoco

il padellino con una piccola

noce di burro, fino a colore

rosso. il bianco va cotto

lasciandolo lattiginoso

Si preme nel centro con

un cucchiaio, si appoggia

il tuorlo e si copre a fuoco

forte per pochi istanti

Si sala solo il bianco

In camiciaL’uovo, freschissimo,

va aperto in un piattino

e fatto scivolare nell’acqua

che bolle, salata e acidulata

con un cucchiaio di aceto

bianco. A fuoco ridotto,

si raccoglie il bianco intorno

al tuorlo con il mestolo

forato, che serve a estrarlo

dopo 3 minuti

In cocotteBurro o panna per foderare

la cocottina (stampino)

di ceramica scaldata

nel forno. Si rompe l’uovo

dentro e lo si cuoce

a bagnomaria a 220 gradi

per 5’ esatti, dando modo

al bianco di coagulare

e al rosso di intiepidire

Va rifinito con salse a scelta

StrapazzatoSi apre l’uovo in un piatto,

mescolando con sale

e pepe solo per pochi istanti

Va poi cotto girando

continuamente

col cucchiaio, meglio

a bagnomaria, con poco

burro (all’inizio e alla fine),

in modo da ottenere

una crema senza grumi

DAL PIÙ GRANDE AL PIÙ PICCOLOSTRUZZO

Può raggiungere i 20 cm di lunghezza e i 2 kg di peso. Guscio duro, sapore delicato. Si utilizza per frittate e dolci

PAPERA

Grande come due uova di gallina. Si utilizza per omelette e frittate. Molto diffuso in Olanda e nelle cucine orientali

GALLINA

Ha peso e dimensioni varie (l’extra va oltre i 73 gr.), guscio poroso. Il colore deriva dalla razza e dal tipo di mangime

FARAONA

Di dimensione intermedia tra quello di gallina e quello di quaglia (40gr.circa), guscio scuro e consistente. Sapore intenso

QUAGLIA

Piccolo e pigmentato, si trova freschissimo tutto l’anno. Digeribile e ricco di vitamine. Si utilizza per decorare i piatti

LE COTTURE LE COTTURE

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i saporiCucina e tradizione

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006

L’immagine è straordinaria: tre miliardi di uova stanno per essere addentate — sotto varie forme, creme e tor-te comprese — sulle tavole di tutta Europa agghindate per la Pasqua. Altrettante saranno nei piatti america-ni. In Italia ne consumeremo 365 milioni. Un “mare” di uova, quasi tutte di gallina, fresche, gustose, pronte afarsi strapazzare in tutti i modi — rompere, sbattere, montare, frullare — pur di arrivare nei piatti delle feste.Difficile trovare un alimento più compiuto. L’uovo è un vero scrigno di qualità nutrizionali: proteine, vitamine,acido folico, oleico e linoleico. E poi lecitina, biotina, minerali (calcio, potassio, zolfo, iodio, magnesio, fosforo,

ferro). Insomma, un guscio ad alto valore biologico e con pochissimi difetti, se è vero che le ultime ricerche hanno riscontratoun tasso di colesterolo ridotto rispetto a un tempo e una benemerita attività di protezione del fegato.

A far danni, come sempre o quasi, sono certe manipolazioni ai fornelli, che ne minano anche la digeribilità: cotto alla coque,occupa lo stomaco per metà tempo rispetto a una bistecca. Il tutto, con un modestissimo carico calorico — pari a 60 kcal — ov-vero quanto mezzo yogurt intero alla frutta.

Buono e senza segreti, a patto di saper decifrare il codice stampato col laser sul guscio. Ogni uovo racconta con pochi segnitutto di sé, a cominciare dal tipo di allevamento (primo segno da sinistra): 0 sta per biologico, 1 allevamento all’aperto, 2 a ter-ra, 3 in gabbia. Tradotto in spazio e cibo a disposizione delle ovaiole, si passa da quattro metri quadri a una manciata di centi-metri, dai mangimi supernaturali a quelli addizionati di antibiotici.

La dicitura “extrafresche” certifica le uova di categoria A (le uniche sul mercato, mentre le B e le C sono destinate all’indu-stria alimentare), commercializzate entro nove giorni dalla deposizione. Le altre sigle segnalano grandezza e peso: extralargeoltre i 73 gr, e poi grande, medio e piccolo.

Le mangiamo da sempre, non le conosciamo abbastanza. Gualtiero Marchesi, nel suo imperdibile “Codice del buongu-staio”, spiega che l’uovo non deve mai bollire. Spiegazione scientifica: ferro e zolfo, che sono tra i suoi componenti, alla tem-peratura di ebollizione formano il solfuro di ferro, sostanza tossica per il fegato. Quindi, se vedete un alone verde che borda iltuorlo sodo, rimandatelo al mittente. Che fare per cuocerlo in maniera corretta? «Semplice: mettete l’uovo, che avrete tolto dalfrigo un’ora prima, in acqua a temperatura ambiente e portatelo a ebollizione. Spegnete il fuoco. Tolto subito, è alla coque, la-sciato riposare cinque minuti e poi raffreddato sotto l’acqua corrente è barzotto, mentre dopo un quarto d’ora diventa sodo».

Marchesi non è il solo a impegnarsi nella caccia all’uovo perfetto: praticamente tutti gli chef più talentuosi di nuova generazio-ne hanno studiato ricette, cotture e nuove tecniche. Tra gli esperimenti più golosi, il cyber egg del torinese Davide Scabin — il tuor-lo arricchito di caviale, vodka e pepe, chiuso in una sfera di pellicola alimentare da bucare e succhiare — e quello marinato in sa-le e zucchero di Carlo Cracco, raccontato nel libro “La quadratura dell’uovo”. Così trattato, il tuorlo assume una consistenza pa-stosa che consente di tirarlo come una sfoglia di pasta, per ricavarne degli incredibili tagliolini senza un solo grammo di farina.

Se poi avete un passato da piccoli chimici, potete scoprire la freschezza dell’uovo immergendolo in un litro d’acqua con 25grammi di sale. La camera d’aria interna si allarga col passare dei giorni: se sta a fondo, garantirà una maionese da urlo. Se in-vece galleggia, lasciate perdere e cucinatevi una bistecca.

Le trasformistedal cuore tenero

UovaLe uova prodotte in Italia

lo scorso anno

13,2 mld

Le uova pro capite

consumate ogni anno

222

Il giro d’affari

dell’ovicoltura in Italia

1,5 mld

Mai come a Pasqua gusci, tuorli e albumi diventanoprotagonisti sulla nostra tavola. Irrinunciabile in questi giornidi festa, l’alimento più completo che madre natura ci offreha qualità nutritive e una versatilità che ha conquistatoi giovani chef. Tra gli esperimenti più golosi: il cyber eggcon caviale o quello marinato in sale e zucchero

L’UOVO DI PASQUA

L’uso di donare un uovo come augurio

risale a 5000 anni fa: i persiani

festeggiavano la primavera

con lo scambio di uova di gallina

Il cioccolato entrò nella preparazione

delle uova durante il regno di Luigi XIV

Nel 1883 lo zar Alessandro chiese

al maestro orafo Peter Carl Fabergé

di preparare un dono speciale

per la zarina Maria. Il risultato fu un uovo

di platino smaltato bianco, con dentro

un uovo d’oro e all’interno un piccolo

pulcino d’oro. L’uso di sorprese

diverse è tradizione tutta italiana

LICIA GRANELLO

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ROMA

Primi anni Sessanta. EdoardoVianello, insieme a un genialeparoliere di nome Carlo Rossi,inventava canzoni a raffica. Al-

cune sono indimenticabili.Ma scusi Vianello, come nasceva una

canzone come I Watussi?«L’idea ce l’avevo da un sacco di tempo,

solo il ritornello, “Siamo i Watussi altissiminegri”, ma non mi veniva niente. Una seradissi a Carlo Rossi: “C’è questo nuovo ballo,l’hully gully”. E lui: “Facciamo che sono iWatussi che inventano l’hully gully”. Pas-seggiando continuò: “Potrebbe essere ‘Nelcontinente nero...’”, e io spontaneamenterisposi: “Paraponziponzipò”. E lui: “Alle fal-de del Kilimanjaro...”, e io: “Paraponzipon-zipò”. A quel punto era fatta. Il giorno dopola feci sentire agli amici; piacque talmentetanto che io per non deluderli improvvisai ilseguito su un giro di blues, che poi era “Sia-a-mo i watussi, sia-a-mo i watussi...”».

Ha 68 anni portati benissimo, con la vo-ce ancora nitida, stentorea come quandoscandiva “A-a-bbronzatissima” nei river-beri dei leggendari 45 giri che hanno for-mato l’immaginario degli anni Sessanta.Mercoledì prossimo si sposa, per la terzavolta, e invece di una tradizionale festa dimatrimonio, giovedì sarà all’Auditorium diRoma, con tanti ospiti («Ci saranno solo gliamici veri») a festeggiare cinquant’anni di

carriera.Ma come fanno

a essere 50, i continon tornano, op-pure sì?

«Sì, perché hoiniziato nel 1956.Un mio amico hatrovato un docu-mento, c’era a Ro-ma un Circolomarchigiano, pre-sidente Beniami-no Gigli, allora erain auge, ha trovatoaddirittura una re-censione che uscìsul Tempo, del Trio

Swing, così si chiamava, in cui c’ero an-ch’io. Nel 1959 ci fu il primo contratto conla Rca, poi vinsi un’audizione con la com-pagnia Masiero-Volonghi-Lionello, cerca-vano un cantante-chitarrista-attore, ioavevo la voce chiara, scandivo bene, e poicantavo delle cose che per l’epoca eranopiuttosto strane. Avevo già scritto Il capello,ma la Rca lì per lì non volle inciderla perchédicevano che era come una barzelletta, unavolta sentita poi la seconda volta non face-va più ridere. Due anni dopo quando avevoun po’ più di potere la volli incidere e fu ilmio primo successo. Il capellomi cambiò lavita. Successe che mi chiamarono, e anco-ra oggi non saprei dire come sia successo, aStudio Uno (quando mi madre mi disse cheavevano chiamato dalla Rai pensai a unoscherzo).

«L’unica spiegazione è che io avevo co-nosciuto Mina, ero andato apposta, ad ago-sto, con la tenda e la Seicento che mi erocomprato coi guadagni del tour in teatro. Ioallora pensavo ancora di fare soprattuttol’autore, e partimmo col mio amico, VinicioTango, che allora mi faceva da manager. Ar-rivavamo da Trani, dove avevo fatto una se-rata, risalimmo l’Adriatico e a San Benedet-to del Tronto vidi i manifesti di un concertodi Mina. Arrivammo due giorni prima e fe-ci amicizia col gruppo, i Solitari, e loro mipromisero che se rimanevo mi avrebberopresentato Mina. Mina mi disse che avevasentito parlare bene di me. La cosa, oggi ir-ripetibile, è che a sorpresa Mina a metà

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 16 APRILE 2006

spettacoliCantanti sempreverdi

spettacolo disse: “Ora vi voglio far conosce-re un mio caro amico”, mi chiamò e mi fececantare quattro canzoni. Era il 1960, l’annode Il cielo in una stanza.

«In autunno faceva in televisione GranGalà, io andavo sempre e lei mi faceva sem-pre un sacco di feste. Poi mandai una miacanzone a Sanremo, nella mia ingenuitàpensavo che l’avrebbe cantata Mina, inve-ce lei aveva già un pezzo, Le mille bolle blu.Poi la sorpresa. Mina mi disse che l’avevaincisa comunque e aveva deciso di metter-la come retro de Le mille bolle blu. Per meera già un successo incredibile. A Sanremofinì che andai io a cantarla, perché si deciseche doveva essere l’anno dei cantautori:Bindi, Paoli, Celentano. Però non se ne ac-corse nessuno. Finalmente riuscii a con-vincere la Rca a incidere Il capello e andai aStudio Uno, in diretta il sabato sera. Dalgiorno dopo scoppiò il finimondo.

Però è vero che faceva anche l’autorepuro. Per esempio La partita di pallone…

«Pochi sanno che l’avevo pensata per Mi-na. Era una canzone che doveva per forzacantare una donna. Però mi dissero chenon l’avrebbe incisa. La incise la Pavone efu un successo clamoroso. Mina si offese. Aquel punto diventò una sequenza conti-nua: Guarda come dondolo, Con le pinne ilfucile e gli occhiali, O mio signore. Avevo unparoliere geniale, io gli chiedevo un capo-verso, uno slogan e partivo da lì. Bastavache mi dicesse “Non è un capello ma un cri-ne di cavallo”, oppure “Guarda come don-dolo” e io partivo, poi aggiustavamo insie-me. In quel mo-mento non avevoconcorrenza, forseper questo le can-zoni sono rimastenel tempo».

Un successo co-stante. Ma ce l’haavuto un momen-to di buio?

«Sì, ancora neglianni Sessanta. Ungrosso vuoto dal ‘66al ‘72, anche perchéquando è arrivato il‘68 le mie canzonidiventarono im-proponibili. Mi ve-nivano a contestare, o meglio sentivo unacerta ostilità, così smisi. Mi sono messo in di-sparte, poi nel 1971 inventai la formula deiVianella. Mi ero sposato con Wilma Goichnel ‘67 e i pochi spettacoli che facevo li face-vamo insieme, così venne l’idea di pensarequalcosa per tutti e due. Così nacquero i Via-nella, sentivamo che l’atmosfera del pubbli-co cambiava quando cantavamo insieme.Le cose che piacevano di più erano quelle ro-mane. Nel frattempo avevano carcerato ilCaliffo (Franco Califano, ndr), dopo la pri-gione ottenne di stare in una clinica così po-tevamo andare da lui, con la certezza di tro-varlo. Lavorammo insieme e nacque Semogente de borgata. Era ripartito tutto».

Ma c’è stato un momento in cui hannocominciato a richiedere le canzoni daspiaggia...

«Anche lì fu una coincidenza. Con Wilmaci separammo nel ‘78. Continuammo a la-vorare insieme ma non c’era più la stessa at-mosfera. Poi smettemmo. Nel 1982 un im-presario mi convinse a ricostruire un miopercorso. Nel frattempo si ricominciò aparlare di anni Sessanta. Ivan Cattaneo in-cise un disco sugli anni Sessanta, Italiangraffiati, Gianni Minà a Blitz non parlavad’altro, poi incontrai Jerry Calà che stavaper fare Sapore di mare, mi chiamarono ecurai tutta la colonna sonora. Improvvisa-mente ripartì l’interesse, e dal 1982 a ogginon è mai più finito. Paradossale ma vero.Io non rinnego niente, voglio fare il testi-monial delle mie canzoni».

GINO CASTALDO

Festeggiamo i cinquant’anni di carriera con l’autoreche negli anni Sessanta inanellò una lunga serie di grandi successi,da “Il capello” a “I Watussi”, da “Guarda come dondolo”a “Con le pinne il fucile e gli occhiali”. Oggi, a 68 anni, interpretaancora quelle canzonette che gli italiani non hanno dimenticato

“Nel ’68mi venivanoa contestareSentivouna certaostilità,così smisi”

Edoardo Vianellouna chitarra e via

“ Mina disse:‘Voglio farvi

conoscereun amico’E mi fece

cantare quattromiei brani”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 16 APRILE 2006

I critici opponevanoRossellini al grandeVittorio, ma fra i duec’era stima e affettoCome testimoniaun bigliettodi Roberto pienod’ammirazione

co finale è di Cesare Zavattini. Ma De Si-ca ha le idee chiare di suo. Scriverà nel ‘54:«Pensavo “adesso sì che i bambini ciguardano!”. Erano loro a darmi il senso,la misura della distruzione morale delPaese: gli sciuscià». Quando il 27 apriledel ‘46 il film esce in Italia, trova tra i suoirecensori più entusiasti due futuri registiche legheranno la loro fama a celeberri-me commedie (dirigeranno entrambiDe Sica nei Pane amore e...). Sull’Avanti!,giornale del partito di Nenni, sotto il tito-lo “Un grande film italiano” Luigi Co-mencini scrive: «Andate a vedere questofilm, nessun film americano dalla Libe-razione a oggi ci ha dato emozioni cosìforti». E su Milano Sera, di sinistra an-ch’esso, scrive Dino Risi: «È una storia dioggi. Di un’Italia triste e senza sole. È undocumento, un’accusa, una parola spe-sa a servizio della causa del bene. Senzapietismi, senza declamazioni, con pochelacrime. Vittorio De Sica, che è un intelli-gente uomo di cuore, ha fatto in questofilm quello che dovrebbe fare ogni veroregista: ha impegnato se stesso».

Sciuscià vince nel ‘47 il primo Oscarstraniero della storia. Lifetitola «New ita-lian film will shock the world», un nuovofilm italiano scandalizzerà il mondo. Ilsofisticato New Yorker: «Merita di essereclassificato tra i film più grandi, semplicie indimenticabili». Una lettera su cartaintestata del Dipartimento di Stato an-nuncia a De Sica: «I giornali e riviste chene hanno parlato sono tanti e tanti, pra-ticamente tutti... Bravo De Sica! Tenga al-ta la cinematografia italiana!». La letteraaccompagna l’invio della trascrizione diun programma radiofonico della Voice ofAmerica: «Il successo quasi senza prece-denti riportato in terra d’America da Ro-ma città aperta vi è noto. È oltre un annoe mezzo che al cinema World di New Yorkquesto film viene proiettato e la folla se-guita ad affluirci e ad ammirarlo con le la-grime agli occhi. Ebbene, un altro filmitaliano è sulla strada di fare concorrenzaa Roma città apertae imporsi nettamen-te al pubblico e alla critica americana...Gli spettatori che vanno da qualche setti-mana a vedere Sciusciànon sono soltan-to italiani, figli d’italiani o i cosiddetti in-tellettuali: sono il pubblico di New York».

E Orson Welles dichiarerà oltre diecianni dopo ai suoi intervistatori francesi(tra loro André Bazin): «Il cineasta chepreferisco è De Sica. Ah! Sciuscià: è il mi-glior film che abbia mai visto». «L’ultimocapolavoro che ho visto è Sciuscià». E an-cora «Dovreste vergognarvi di non ama-re De Sica: magari potessimo riparlarnetra duecento anni». Bisogna capire che

cosa c’è sotto. I nuovi critici francesi sonofanatici sostenitori di Rossellini e non ap-prezzano De Sica, e Citizen Orson siprende gioco del loro culto: «È un dilet-tante». Il bigliettino pieno di affetto e am-mirazione che Roberto invia da Parigi aVittorio dopo l’uscita di Sciusciàtestimo-nia la stima e la solidarietà che c’era tra lo-ro, estranei alle scuole critiche rivali cheattorno ai loro nomi si formano metten-doli uno contro l’altro.

Il biglietto, che vedete riprodotto inquesta pagina e che tra l’altro fa cenno al-l’emozione dei sopralluoghi berlinesi daRossellini appena fatti per Germania an-no zero, viene dalla casa dei Parioli dovetutt’oggi vive la primogenita Emy, donnadalla simpatia esagerata e contagiosa,

che con il marito Sergio Nicolai sta met-tendo in ordine uno sterminato patrimo-nio di documenti, lettere (quelle riguar-danti Ladri di biciclettesono da sole un te-soro: da tutto il mondo, dai maggiori in-tellettuali e artisti contemporanei), foto-grafie, ritagli, sceneggiature. Papà Vitto-rio, racconta Emy, non andò mai a LosAngeles a ritirare i suoi quattro Oscar, néil primo di Sciuscià («Lo prese il produt-tore Paolo William Tamburella, noi ab-biamo soltanto quello di Ladri di biciclet-te») né gli altri: «Non si usava, allora». Lanotizia dell’ultimo, quello a Il giardinodei Finzi Contini, l’apprese lei dal serviziotelefonico delle “ultime notizie”: «Papànon ci credeva, era convinto che avrebbevinto Kurosawa».

POCHE RIGHE DA PARIGIL’immagine grande

è una rara foto di scena

dal set di “Sciuscià”.

Qui sopra, Franco

Interlenghi nel film.

A sinistra, il biglietto inedito

di Rossellini a De Sica

Ibambini-soldato della Sierra Leone; i piccoli cucitori dicuoio del Pakistan; i meninos de rua del Sudamerica. Macon quanta fretta si sono dimenticati gli italianissimi

sciuscià!Com’è lontana l’Italia del 1946. La fame: «Grave è il proble-

ma del pane», annota nei diari di quell’anno il vicepresidentedel Consiglio Pietro Nenni, «le scorte si esauriscono e gli alleatinon mantengono le loro promesse. Diventerà probabilmen-te inevitabile ridurre la razione». La violenza: «Schiere di gio-vani disoccupati», segnalano le relazioni dei prefetti, «avvili-ti, sovente affamati, errano di villaggio in villaggio, spinti dalbisogno e da un certo gusto dell’avventura, che è anch’essa unpostumo della guerra». Incubi, macerie, mortificazioni. A Pa-lazzo Giustiniani, sede provvisoria della Presidenza della Re-pubblica, Enrico De Nicola si cuoce da solo due uova al tega-mino come l’ultimo dei travet. I deputati sono poveri: le 25 mi-la lire al mese non bastano per le spese di residenza; voglionola tessera dell’autobus.

Però si avverte anche, in giro, la più intensa energia e la piùfantastica speranza. Ci sono promettenti giovanotti che san-no accettare con brio i propri limiti: «In Commissione», anno-ta Giulio Andreotti nei suoi quadernetti, «si è parlato a lungo dipenicillina, con mia incompetenza totale». E ci sono grandispiriti di anziani pieni di umiltà: «Sono andato a letto presto»,si legge nei diari di Benedetto Croce, «stanco e vergognandoper le tante parole che anche oggi mi sono uscite dalle labbra».

Le grandi città, scrive Corrado Alvaro, «odorano di benzinae cosmetici». Brulicano di profughi, reduci, sinistrati, epura-ti, ex prigionieri di guerra, assistiti Eca, falsi partigiani, fascistinascosti o riconvertiti in affittacamere. Da un rapporto di Pie-tro Secchia ai segretari di sezione della provincia di Novara: «Isistemi partigiani, i metodi sbrigativi sono una necessità diguerra, ma non vanno bene in tempo di pace. È necessarionon solo dire di lottare per la democrazia, ma essere vera-mente democratici. Il mitra è spesso sulla bocca di certi com-pagni ed è diventato una specie di toccasana, si dice: “Ah! Queitempi in cui col mitra si risolveva tutto!”».

Soltanto a Roma si pubblicano 26 quotidiani e oltre aglisciuscià ci sono 50 mila mendicanti. Le massaie assaltano ilmercato nero. Gli avvelenamenti per carne avariata sonoquotidiani. Alla ricerca di tesori, la gente scava nelle cantine,butta giù muri, apre perfino le tombe. A Milano, cimitero Mu-socco, il neofascista Pino Leccisi trafuga il cadavere di Mus-solini: «Abbandonai il piccone e mi calai nella fossa. Afferrai ilati del coperchio e con uno strappo lo divelsi. Accesi la torciadirigendone il fascio luminoso sul fondo della bara. Apparivasubito, riconoscibilissima, la testa di Mussolini. Il labbro su-periore, leggermente contratto, scopriva i denti in una smor-fia che appariva un triste sorriso».

Strano paese, davvero. «Ecco, le mie simpatie sono per il co-munismo», dice un tale a Leo Longanesi, «i miei interessi miavvicinano all’Uomo Qualunque, mia moglie va in chiesa e io,in fondo, ho paura di andare all’inferno». In treno GiuseppeBottai, l’ex gerarca arruolatosi nella Legione straniera, incon-tra due prigionieri di guerra che stanno per rimpatriare: «Di-screti, parlottano tra loro in un cantuccio. “Dunque, si rivà acasa?”, faccio. Il più piccolo, un napoletano dal volto verde oli-va tutto appassito, sbatte le palpebre nel sole e mormora: “Sì,non pare vero”. L’altro, un marchigiano asciutto dalla facciaarguta, rievoca la lunga avventura. La pena trascorsa affiora,pudica. Poi risponde, come a se stesso: “Ma posso dire che so-no stato bene, io; è stato bene il corpo”».

È l’anno della scelta: monarchia o repubblica? Dal diario«americano» di Giuseppe Prezzolini: «Povera Italia! Costrettaa scegliere fra una repubblica che nasce dalla paura dei bom-bardamenti, dalle sconfitte inflitte da truppe polacche, brasi-liane e persino negre, ed una monarchia che tradì la Costitu-zione per il fascismo, ed il fascismo per gli alleati, pensandounicamente a se stessa e alla famiglia Savoia». Dai ricordi diMaria Romana De Gasperi: «A casa il metodo democratico ve-niva altamente rispettato e noi ragazze usammo ogni arma le-cita in questo sistema di battaglia incollando striscioni conscritto “Vota repubblica” in camera della mamma e della zia,monarchiche più per difesa che per convinzione. Mio padree io votammo per la repubblica, la zia votò per la monarchiamentre la mamma non fece mai capire per chi avesse votato,lasciando a noi repubblicani l’illusione di una maggioranza».Dal proclama di Umberto II: «Con l’animo colmo di dolore,ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo peradempiere ai miei doveri, io lascio la mia patria».

Formazione del Torino, risultato primo nel girone conclu-sivo dei due campionati Alta Italia e Centrosud nella stagione1945-46: Bacigalupo, Ballarin, Maroso; Castigliano, Riga-monti, Grezar; Ossola, Loik, Gabetto, Mazzola, Ferraris II. Èpubblicata la poesia di Salvatore Quasimodo: «E come pote-vamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore / tra imorti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, allamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madreche andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del tele-grafo?/ Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetreerano appese, / oscillavano lievi al triste vento».

L’Italia agricola. Resoconto di una gita del Governatore del-la Banca d’Italia Luigi Einaudi: «A Santa Severa. Ci fermiamoun poco nel castello, anzi fuori del castello, sulla spiaggia delmare, poi si va a piedi alla capanna del pastore. Il vergaro haun grosso gregge di pecore su cui 1.500, divisi in tre gruppi, so-no matricine, ed altri 1500 agnelli. Ogni pecora può darsi ab-bia un valore attuale di circa 7000 lire. Ma ai valori attuali deiprodotti essa frutta: 3,6 kg di lana, 7 kg di formaggio, 5 kg di ri-cotta ed un abbacchio. Fatto il totale si arriva a più di 7000 li-re. Ci accompagna un pastore, affezionatissimo al suo caval-lo, montato sul quale egli va a caccia del cinghiale. Nella te-nuta non compaiono banditi; se egli ne vede uno da lontanolo affronta senz’altro e gli dice che quella non è la strada».

Nell’Italia dell’industria Vittorio Valletta sogna gli orizzontidella Fiat: «In un giro che ho fatto nell’officina ho trovato il no-stro lavoratore ottimo, magnifico, bravo. Comprende benissi-mo la situazione. Questo operaio lo conosco bene, dal 1900 inqua: merita la nostra fiducia, il nostro rispetto. Gli elementi del-la ripresa ci sono tutti, persino la volontà degli operai».

Ancora le ferite della guerra; ancora fresca la vernice di quel-la scritta su un muro di Roma: «Annatevene via tutti, lassate-ce piagne da soli». Dal diario di Giovanni Ansaldo: «Pubblica-zione integrale del trattato di pace. Durissimo, oltre ogni pre-visione. Gli inglesi non si sono dimenticati delle ore di batti-cuore che abbiamo fatto loro passare ad Alamein e altrove (?).Ormai il grande sogno del Risorgimento, il sogno dell’affer-mazione di grandezza e di potenza, è finito. Non resta cheprenderne atto, e regolarsi di conseguenza. L’Italia ritorna al-le sue assise consuete, millenarie; ridiventa il Paese del muni-cipalismo, del federalismo, del Papa. Ridiventando, tutta,“Stato del Papa”, essa non ha più bisogno né di colonie, né difortezze; non ha bisogno neppure di diplomazia». Ma dopotutto la più bella risposta a quell’elegante scetticismo è pro-prio l’Oscar a Sciuscià.

Bambini lustrascarpenella Napoli ferita del ’46

Un anno-chiave della nostra storia

FILIPPO CECCARELLI

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Il 27 aprile di sessant’anni fa, in un paese ancora devastatodalla guerra e occupato dagli Alleati, usciva nei cinematografiil film di Vittorio De Sica che inaugurò la stagione

del neorealismo. L’autore era popolarissimo come divo del grande schermo,quasi un Cary Grant italiano, ma era alle sue prime prove di regia. La pellicolaebbe un enorme successo negli Stati Uniti e nel ’47 fu premiata con l’Oscar

ROMA

Da dove iniziare per rievo-care l’epopea di Sciuscià edel movimento che, intor-no a questo e a un pugno di

altri film, nacque dall’Italia prostrata perdilagare nel mondo? Dal racconto che nefece lo stesso Vittorio De Sica, a puntate,sul settimanale Tempo a partire dal 16 di-cembre 1954. Cominciava così: «Mi pia-cerebbe che non fosse la storia di VittorioDe Sica, ma piuttosto la storia dei diecianni più belli della vita di De Sica. Pensoche siano stati anche gli anni più belli delcinema italiano».

Il filo dei ricordi corre molto indietroper sottolineare i contrasti e le clamoro-se svolte nella sua vita. Pensava di fare ilragioniere e diventò attore, pensava dicontinuare con il teatro e si trovò immer-so nel cinema, divenne un popolarissi-mo divo e passò alla regia. Soprattutto:era un beniamino del pubblico per i suoiruoli romantici e le commedie brillantima diventò, in compagnia — non pro-grammata — di Visconti e Rossellini l’ar-tefice di una rivoluzione totale che portòla vita vera nell’universo edulcorato delgrande schermo.

Fate conto che il De Sica degli anni ‘30era un Cary Grant italiano, una star dellaleggerezza. Fate conto che nel ‘45, ‘46,‘47, ‘48 Hollywood sfavillava con I mi-gliori anni della nostra vita, Notorius,Duello al sole e Scarpette rosse. Ebbenequando De Sica nel fuoco di quegli annitragici (ma senza mai atteggiarsi a eroe) silasciò alle spalle la sua carriera di attorebrillante e regista di commedie leggereper imboccare la strada di I bambini ciguardano, di Sciuscià, Ladri di biciclette,Miracolo a Milano e Umberto D fu comese Vincente Minnelli si fosse trasformatoin Carl Theodor Dreyer. Una bomba.

Nel prezioso volume che dodici anni faaccompagnava il restauro del capolavo-ro, il secondogenito del regista Manuelraccontava l’episodietto di una passeg-giata in compagnia del padre che così glidiceva: «Vedi questa famigliola che si ge-nuflette al mio incedere? Quelli non san-no che ho diretto Umberto D, salutano ilmaresciallo Carotenuto», il popolare ca-rabiniere di Pane amore e fantasia. A ri-cordare che non c’è solo un prima ma an-che un dopo l’apoteosi neorealista.Quando, dati gli insuccessi commercialiin patria dei suoi capolavori e malgradola loro enorme risonanza internazionale,«potevo fare tutte le commedie che vole-vo, e tanto meglio se ero disposto a inter-pretarle, ma le tragedie no».

Prosegue il ricordo del ‘54: «Dire oggiche fin da quel momento io pensassi alrealismo sarebbe forse presunzione: maè verità che io avevo già intuito la possibi-lità di portare la macchina da presa all’a-ria aperta, dovunque fosse la vita vera de-gli uomini». E dunque: «Gli americani en-trarono in Roma il 5 giugno ‘44. Comin-ciavano i dieci anni della prodigiosa av-ventura del cinema italiano... Il cinemaneorealista stava nascendo come un va-sto movimento collettivo, di tutti». Le ri-prese di Sciusciàiniziano nell’ottobre ‘45e proseguono, a tempi dilatati per via del-l’infinità di limitazioni e penurie del mo-mento, fino a tutto l’inverno ‘45-’46. Percollocarci: Rossellini ha girato Roma cittàaperta tra gennaio e maggio del 1945, ePaisàsarà realizzato tra gennaio e giugnodel ‘46.

La prima idea di Sciuscià — che era l’i-talianizzazione di Shoe-Shine, lustra-scarpe — De Sica la scrisse su uno dei pri-mi e pochi numeri, 23 giugno 1945, dellarivista Film d’oggi. Lo scritto è corredatoda un servizio fotografico sui veri sciusciàche battevano la zona di via Veneto, i dueragazzini Cappellone e Scimmietta(«Con una mantellina addosso e nudosotto, tranne un paio di calzoncini laceri.Dormiva in un ascensore di via Lombar-dia»). Dai quali De Sica trae ispirazioneper inventare i personaggi di Pasquale(Franco Interlenghi che nel film, quandofinisce al riformatorio di Porta Portese,dichiara la sua vera data di nascita: 29 ot-tobre 1931) e Giuseppe (Rinaldo) Smor-doni.

Non sappiamo bene come quantifica-re i ruoli dei tanti che firmano soggetto esceneggiatura. Sappiamo che all’inizioc’è un soggetto di Cesare Giulio Viola, chepoi interviene Sergio Amidei e che il toc-

PAOLO D’AGOSTINI

E il mondo scoprìl’Italia dei poveri

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006

Sciuscià

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L’uomo è capace, tuttavia, anche disopravvivere alle prove più tremende.Leggendo Una giornata di Ivan Deni-sovic di Solgenytsin o I racconti dellaKolyma di Shalamov, la sorpresa è tro-vare ancora una sembianza di uma-nità tra il popolo dei dannati che si ag-gira nei gironi infernali del Gulag. E al-cuni di loro, tornati a casa, sono riusci-ti a recuperare perlomeno una parven-za di vita normale.

«Gli esseri umani, scriveva Dostoev-skij, si adattano a tutto. Dunque ancheal Gulag, o all’altro inferno, possiamoaggiungere, quello dei lager nazisti. Manon dimentichiamo una cosa: gli scrit-tori, come lo stesso Solgenitsyn, chetornati liberi sono stati in grado di scri-vere, raccontarci, riprendere un’esi-stenza apparentemente normale, era-no spiriti eccezionali, gente fuori dallanorma. Viceversa la maggioranza deidannati è scomparsa nel Gulag; o, se nesono usciti, sono tornati a casa segnatiper sempre dall’esperienza. Sembrava-no vivi, forse, ma in realtà erano mortiche camminano».

MEMORIA DI CARTAÈ nelle librerie “Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione

al Grande terrore” di Oleg Chlevnjuk, edito

da Einaudi (pp. 410, euro 44). L’illustrazione

a centro pagina - “Il Gulag siberiano” di Gignoux

per “Le Pélerin”, del 1931 - è tratta

dalla copertina del volume. La ricerca

di Chlevnjuk, che lavora presso l’Archivio di Stato

della Federazione russa, non è affidata a racconti

o testimonianze ma è interamente basata

su documenti: il funzionamento dell’enorme

macchina del terrore sovietico veniva

quotidianamente protocollato e conservato

da un esercito di funzionari come un comune atto di governo

LAVORI FORZATINelle foto

in bianco e nero,

internati al lavoro

nelle miniere d’oro

del Dal’stroj (1938)

e, al centro,

un campo in Estremo

Oriente alla fine

degli anni ‘30 -

primi anni ‘40

tutto, rimosso tutto, dimenticato tutto.L’assenza di un simile dibattito ha fa-talmente deviato il corso della storiarussa, e le sue speranze di democrazia.E il fatto che la Russia non si autopro-cessi pubblicamente per il Gulag con-tribuisce a rendere meno vivida questatragedia anche agli occhi del resto delmondo».

Possiamo credere, almeno, che èuna tragedia non più destinata a ripe-tersi, né in Russia, né altrove? Il Gulagsovietico ci ha vaccinati dalla possibi-lità di altri orrori analoghi?

«Non direi. Mi pare che ci siano piùschiavi e forme di schiavitù, nel mondoodierno, che in ogni altra epoca dell’u-manità. Certo, la coscienza collettivaimpedirebbe forse il ripetersi di un nuo-vo Gulag in Europa; ma nei Balcani, chedell’Europa fanno parte, siamo andatimolto vicini ai campi di sterminio, du-rante le guerre della ex Jugoslavia. Percui non mi sentirei del tutto tranquillo.Dipende, purtroppo, dalle circostanze.Quando uno spirito maligno avvolgel’uomo, l’uomo è capace di tutto».

MOSCA

IGulag sovietici furono la spina dorsale del potere comunista. Sulla re-pressione e sul terrore Stalin fondò l’economia e la politica dell’Urss. Oltre20 milioni di persone, tra la fine degli anni Venti e il 1956, vennero rinchiu-se nei campi di lavoro attraverso meccanismi di selezione ideati con bu-rocratica perfezione. Circa 12 milioni di prigionieri, accusati di attività an-tisovietica, morirono a causa di un sistema statale soffocante. Nella re-pressione, come in un «normale lavoro di ufficio», erano impiegati un mi-lione di lavoratori qualsiasi. La collettivizzazione, il Grande Terrore e lepurghe, furono il tragico risultato di un’organizzazione pubblica perfetta.

La strage veniva quotidianamente documentata, protocollata e conser-vata negli archivi come un comune atto di governo. A nessuno, nemmenodopo la morte di Stalin, venne mai in mente di distruggere le prove del ge-nocidio sovietico. Il Pcus era convinto che il comunismo sarebbe duranoin eterno e che ogni abuso sarebbe rimasto impunito. Cancellare le provedei Gulag, considerata la loro indissolubilità dalla gestione del potere, sa-rebbe poi equivalso a bruciare l’intero Archivio di Stato. Per questo, a 15anni dal crollo dell’Unione Sovietica, può ora uscire anche in Italia un’o-pera come Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande Terrore. Edi-to da Einaudi, che ne ha acquistato i diritti dall’università di Yale, il libroracconta per la prima volta il decennio peggiore dello stalinismo, tra il 1930e il 1941, in base ai documenti originali custoditi negli archivi di Stato. L’an-nientamento secondo gli assassini.

«Fino ad oggi», spiega l’autore Oleg Chlevnjuk, storico, già tra i curatoridella prima enciclopedia dei Gulag uscita l’anno scorso in Russia, «esiste-vano raccolte di documenti, o antologie di testimonianze di sopravvissu-ti. Aleksandr Solgenytsin e Anne Applebaum, per restare a due tra i narra-tori più grandi dello sterminio sovietico, non hanno potuto accedere agliarchivi. Hanno denunciato i Gulag da protagonisti, o come giornalisti e let-terati, ma non da storici. Il mio lavoro, 12 anni di studio a partire dal 1991,punta invece a dimostrare l’ufficialità di Stato dell’orrore». Nulla, dell’im-pressionante racconto, nasce da ricordi soggettivi, o da esperienze perso-nali. La più spietata strage di massa della storia viene narrata attingendoall’ordinarietà delle carte protocollate dai carnefici. Racconto e docu-menti si alternano, assieme a fotografie e disegni dei prigionieri, affinchéil lettore non sia costretto a fidarsi dell’autore. Ed è subito chiaro come ilGulag non fosse solo ciò che si trovava all’interno del filo spinato che iso-lava le 512 città-prigione sparse in tutta l’Urss, ma un gigantesco sistemadi repressione ideato per annullare la volontà di un intero popolo.

Durante il Terrore staliniano emerge così che i condannati furono oltre50 milioni e che solo tra il 1937 e il 1938 vennero fucilate 680 mila persone:2 mila al giorno, con inflessibile precisione. Alla vigilia della Seconda guer-ra mondiale i detenuti nei campi erano un milione e mezzo, quelli nelle co-lonie penali 429 mila, quelli in carcere 488 mila, quelli al confino nelle «cittàspeciali» quasi 2 milioni. Un condannato ogni due famiglie sovietiche. «Simoriva per caso», spiega Chlevnjuk, «per il furto di un chilo di patate, o per-ché si aveva uno zio all’estero. O per essersi trovati nel posto sbagliato nelmomento sbagliato».

Non tutto, degli archivi russi, è accessibile. I documenti dell’Fsb, i servi-zi segreti eredi del Kgb e dell’Nkvd, restano in gran parte secretati. Per laprima volta però viene raccontato «dall’interno della macchina dell’orro-re» come furono organizzate le repressioni, come funzionavano i lager,con quali sistemi si costringevano persone innocenti a confessare colpeassurde, come si viveva e si moriva in Siberia, in base a che cosa venivanocompilate le liste dei «nemici del popolo», perché Stalin ricorse alla schia-vitù di massa per dominare una nazione conquistata con una rivoluzioneche nel 1917 aveva fatto della giustizia sociale la propria bandiera. Ed emer-gono le “gare” dei cekisti a ingrossare gli elenchi dei condannati. «I capi del-l’Nkvd di Mosca», rivela Chlevnjuk, «distribuivano gli elenchi ai funziona-ri regionali. C’erano ex soldati zaristi, kulaki (contadini benestanti, ndr),anti-bolscevichi prerivoluzionari, membri di etnie legate a nazioni ostiliall’Urss. I servizi segreti locali arrestavano e costringevano la gente a fare inomi di altri “traditori”: parenti, amici, colleghi. La cerchia dei “colpevoli”si allargava all’infinito. I dirigenti, temendo di essere a loro volta uccisi (sor-te toccata al capo stesso dell’Nkvd, nel 1938), avevano più possibilità di sal-vezza quanto maggiore era il numero dei loro arrestati».

Gli archivi custodiscono anche le tecniche di retate e di tortura. La poli-zia, ad esempio, circondava un mercato all’aperto. Venditori e clienti, a ca-so, finivano in carcere, oppure davanti al plotone d’esecuzione. I primi ve-nivano pestati, o costretti in ginocchio per settimane, o immobilizzati inpiedi per giorni, al gelo. Molto usato «l’interrogatorio a catena di montag-gio», durante il quale il detenuto doveva rispondere senza poter dormire agiudici che si davano il cambio. Se si sopravviveva, si era pronti a confes-sare qualsiasi cosa. Da choc le deposizioni inedite raccolte da Chlevnjuk,come le ragioni delle ondate repressive. I documenti di Stato dimostranoche il regime di Stalin, senza schiavi e senza terrore, sarebbe crollato. Gu-lag e forzati erano essenziali per le opere colossali dell’Urss: canali fluvialie marini, strade e ferrovie, lavoro nelle miniere. La repressione, nel 1938,divenne così la più grande impresa del Paese. I Gulag assorbivano il 10 percento degli investimenti pubblici, rappresentavano il 5 per cento del Pil,avevano il monopolio dell’estrazione di oro, nichel e carbone, erano lea-der nella produzione agricola e del legname. «Una risorsa strategica», di-ce Chlevnjuk, «non solo perché i perseguitati producevano gratuitamen-te generi strategici: la verità è che il Gulag era il modello economico com-piuto della dittatura staliniana».

Ma lager e città-prigione non erano solo un’industria di Stato. Furono lostrumento per deportare intere popolazioni, per rendere abitate le zoneimpossibili della Siberia, per colonizzare l’Asia centrale, per costringere icontadini ad aderire ai kolkhoz, per eliminare tutti i possibili «traditori».Stalin, negli anni Trenta, capiva di essere alla vigilia di un’altra guerra, te-meva la Germania nazista. I bolscevichi, nel 1917, avevano approfittatodello sbandamento bellico per rovesciare la monarchia zarista. I Gulag ser-virono così, con il pretesto di carestia, fame e lavoro, a sterminare i sospet-tati di simpatie verso democrazie e regimi occidentali. «Ma l’Urss esagerò.La crudeltà di Stalin volta a perpetuare il comunismo», conclude Ch-levnjuk, «lo demolì». Una lezione che in Russia, dove la pubblicazione del-la trilogia sugli «annali del comunismo» continua ad essere rinviata, restapressoché sconosciuta. «Siamo stati ridotti ad essere un popolo di vittime»,recitano le note finali, «ma pure di aguzzini. Per questo rifiutiamo la rifles-sione sul passato: i brandelli di verità vengono ascoltati con incredibile, emisteriosa, indifferenza».

Un’organizzazione perfettaper asservire un popolo intero

GIAMPAOLO VISETTI

poco, o non è rimasto niente. Si era par-lato qualche anno fa di trasformare inmusei alcuni campi, ma non sembrache il Cremlino di Putin abbia accoltoil suggerimento con entusiasmo.

«Non mi meraviglia, e mi riallaccio aquanto dicevo prima, osservando che ilGulag non ha lasciato tracce visibili onotevoli nella psiche dei russi odierni.La Germania ha processato se stessaper i crimini del nazismo; e a questopubblico atto di denuncia ed espiazio-ne hanno potuto assistere tutti i paesidel mondo, cosicché l’idea del nazismocome male supremo è oggi universal-mente accettata, all’infuori di qualchefrangia di fanatici estremisti. La Russiasi è ben guardata dal fare la stessa cosacon i crimini del comunismo, di cui ilGulag è probabilmente l’espressionepiù forte. È vero, sono stati scritti libri eromanzi sul Gulag, anche da autori rus-si; è vero, se ne è parlato e discusso mol-to, in un’atmosfera di shock e penti-mento collettivo, negli anni della pere-strojka gorbacioviana e nei primi tem-pi di Eltsin. Ma poi è stato archiviato

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la letturaStoria negata

Esce in edizione italiana l’opera dello studioso ucrainoOleg Chlevnjuk sul sistema dei lager sovietici. Per la prima volta,la ricostruzione di quella spaventosa realtà non è affidataalla testimonianza dei sopravvissuti, bensì alla messesterminata dei documenti d’archivio. Ne abbiamo parlatocon lo scrittore inglese autore di “Koba il Terribile”

“La Russia di Putinha rifiutato di metteresotto processoil proprio passatoe anche in Occidentechi oggi non può piùchiudere gli occhipreferisce distoglierelo sguardo”

ENRICO FRANCESCHINIle perdersi in tortuosi paralleli per sta-bilire se i lager di Hitler fossero peggioridei campi di Stalin o viceversa. Io mi ac-contento di definirli, appunto, due fra lepeggiori tragedie del secolo scorso edell’intera storia dell’umanità. Il temaandrebbe affrontato in un ambito piùampio, quello del confronto tra nazi-smo e comunismo. Entrambi i regimi,per fare soltanto un esempio, miravanoa conquistare e assoggettare il mondo,con la differenza che Hitler aveva co-minciato attivamente a farlo, aggre-dendo l’Europa intera, mentre Stalin siriprometteva di esportare il comuni-smo nel resto del pianeta in un indeter-minato futuro, accontentandosi per ilmomento di regnare sulle repubblichesovietiche e sui paesi “satelliti” dell’Eu-ropa orientale».

Per chiudere la questione del con-fronto, oggi ci sono musei sul luogo deilager nazisti, ad Auschwitz, a Dachau,dove i visitatori possono aggirarsi traiforni crematori e le baracche, toccan-do con mano l’orrore, per così dire.Mentre del Gulag sovietico è rimasto

ta, per il progresso e l’avanzamento in-dustriale dell’Urss; dall’altro i campisvolgevano una funzione repressiva,assolvendo il compito di spargere il ter-rore, come un virus, sull’intera popola-zione sovietica, non soltanto eliminan-do il dissenso ma incutendo paura e sot-tomissione a Stalin in ogni cittadino. Etuttavia, se consideriamo le cifre, il fe-nomeno dei campi sovietici superaquelli di Hitler: venti milioni di vittime,secondo alcune stime, un numero an-cora maggiore di vite rovinate, perché isopravvissuti, una volta usciti dai cam-pi, erano marchiati come infami persempre, perdevano ogni diritto e conessi li perdevano anche i loro familiari”.

Si può dire se un sistema di prigioniafu peggiore dell’altro? Un amico russo,quando vivevo a Mosca negli anni del-la perestrojka, sottolineava che Hitlersterminò prevalentemente stranieri,mentre Stalin massacrò in maggioran-za i suoi stessi compatrioti.

«È indubbio, e questo può apparireancora più atroce, certamente agli oc-chi di un russo. Ma in definitiva è inuti-

Con Amis nel Gulag di StalinLONDRA

«Una tragedia mi-sconosciuta», dicui è necessariocontinuare a par-

lare affinché tutti capiscano, tutti sap-piano, tutti conoscano fino in fondo lereali dimensioni dell’orrore. Così Mar-tin Amis, uno dei più brillanti scrittoriinglesi della sua generazione, autore diromanzi come L’informazione, Il trenodella notte e Cane giallo, ma anche dipamphlet politici come Koba il Terribi-le, feroce requisitoria contro lo stalini-smo, definisce il Gulag sovietico, «unadelle pagine peggiori del Ventesimo se-colo e in generale della storia dell’uma-nità, una pagina di cui non è rimastatraccia a sufficienza nella coscienza col-lettiva dell’Occidente, per non parlaredella coscienza della Russia postcomu-nista». Figlio dello scrittore KingsleyAmis, che fu tra i rappresentanti dell’in-tellighenzia filo-marxista in Gran Bre-tagna, Martin Amis ha contribuito ap-passionatamente al dibattito sul rinno-vamento della sinistra nel proprio pae-se, mettendo l’accento in particolaresull’esigenza di fare i conti con gli spet-tri più lugubri del suo passato. «E traquei fantasmi», dice a Repubblica loscrittore, «il Gulag è probabilmente ilcuore più tenebroso».

Personalmente, quando e in chemodo lei si rese conto dell’esistenzadei campi di prigionia in Unione So-vietica?

«Nel 1973, l’anno della pubblicazio-ne di Arcipelago Gulag e della deporta-zione del suo autore, Aleksandr Solge-nitsyn, all’estero, in America. L’esi-stenza delle colonie penali in UnioneSovietica era naturalmente nota ancheben prima di quella data, e del resto icampi penali erano un sistema vasto eben collaudato anche nella Russia zari-sta, di cui numerosi scrittori, Dostoev-skij per citarne uno, lasciarono impres-sionanti testimonianze. Tuttavia fu il li-bro di Solgenitsyn a sollevare comple-tamente il velo sull’orrore dei campi,sul numero delle vittime, sull’effera-tezza del sistema. Un lettore obiettivonon poteva che restarne sconvolto.Quel libro descriveva una tragedia diimmani dimensioni. Una tragedia,quel che è peggio, che era rimasta pres-soché sconosciuta, nascosta, fino ad al-lora e che purtroppo per una serie di ra-gioni è rimasta in parte misconosciuta,inesplorata, anche dopo la pubblica-zione dello scioccante resoconto diSolgenitsyn».

In che senso inesplorata? Da allorasono stati scritti innumerevoli librisull’argomento, da superstiti, storici,studiosi russi e stranieri.

«È vero. Ma non è bastato. ArcipelagoGulag e tutti i libri di denuncia che sonoseguiti hanno indubbiamente contri-buito a far conoscere la storia dei campidi prigionia del regime sovietico. Ma ditutto ciò non è restata traccia nella nuo-va Russia democratica, o meglio post-comunista, di Putin, che ha rifiutato di

mettere sotto processo il proprio passa-to; ed è restata una traccia soltanto par-ziale in Occidente, dove l’idea del Gulagsovietico si è finalmente diffusa ma sen-za farlo entrare pienamente nella co-scienza collettiva di tutti, in particolarefra i militanti e gli intellettuali della sini-stra europea. Certo, coloro che primachiudevano gli occhi di fronte a questabarbarie, non possono più farlo; mamolti, o perlomeno alcuni di costoro,preferiscono comunque distogliere losguardo. Ammettono che il Gulag è unaferita bruciante, ma non ne parlano nel-lo stesso modo in cui parlano di altretragedie del Ventesimo secolo».

Mentre secondo lei lo si dovrebbemettere alla pari, o allo stesso livello dibarbarie, dei lager nazisti, in cui Hitlersterminò sei milioni di ebrei e milionidi altre vittime?

«È un paragone difficile, o forse im-proponibile, perché si tratta di fenome-ni differenti. Da un certo punto di vista,i campi di concentramento del TerzoReich rappresentano un esperimentomolto più disgustoso, aberrante e direifolle, rispetto ai campi nella Russia diStalin. Hitler mirava a estinguere un in-tero popolo, gli ebrei, e svariate altre mi-noranze etniche. I lager nazisti eranouna sofisticata fabbrica della morte. Icampi di prigionia sovietica, invece,avevano un diverso obiettivo: da un la-to creare una enorme forza lavoro perun’economia schiavizzata, in cui milio-ni di persone venivano sacrificate gra-tuitamente, spesso dando la propria vi-

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(segue dalla copertina)

Il luogo comune curiosamente ap-partiene a Rimbaud: «Torna, tuttoperdonato», scrive a Paul Verlaine.Lo sregolamento dei sensi si trovaper converso nelle lettere del saggioSigmund Freud a Martha. «Dolce te-

soro, quel po’ di cocaina che ho preso mirende troppo loquace», si scusa. «Con la sualettera lei ha con bravura preso il mio in-conscio tra le sue dita», scriverà Karl GustavJung, apparentemente senza doppi sensi, auna giovane che è stata in cura da lui, e dicui si è innamorato, Sabina Spielrein.

Imprevedibilmente, le lettere d’amorepiù sentimentali appartengono al ragio-nevole Settecento. «Ho l’oppio nelle ve-ne», dichiarava mademoiselle de Lespi-nasse, innamorata del giovane conte deGuibert: «Mi costringete a gridare». E sfio-ra uno dei grandi temi dell’assenza, lanoia: «Da quando siete partito… la miaanima mi stanca». Conoscono bene queltedio anche i sogni d’incesto del Romanti-cismo: «Pensando a voi mi salvavo dallanoia», scriverà Lucile de Chateaubriand,«ogni mia occupazione era indirizzata adamarvi, mio illustre fratello». Le dame delSettecento sono febbrili anche nei senti-menti senza futuro: «Che disgrazia per me,che gran disgrazia, questo sentimento cheprovo per voi; ah mio Dio», si lamenta ma-dame du Deffand, vecchia e cieca, e presadel giovane Horace Walpole. «Sono pene-trata, travolta, desolata: vi compiango, visgrido, vi…»; e rimane senza parole la fu-tura madame Roland, adusa poi a esserministro più e al posto delmarito: «Vorrei possede-re tutte le lingue, e usarletutte insieme».

Sade amò, per la vita, lacognata conosciuta a di-ciassette anni, Anne Pro-spère, canonichessa delleBenedettine; lo sappia-mo grazie a alcune lettereappena ritrovate. Allamorte di Sade, trovarononella sua stanza al mani-comio di Charenton il ri-tratto di Anne, trascinatodi carcere in carcere, perquarantasette anni. Lapiù bella lettera d’amoreche Sade abbia concepitoè per lei, ma è indirizzataalla moglie. Le scrive in-fatti Sade, da una dellesue eterne prigioni, diaver sognato Laura — laLaura di Petrarca, che erauna sua antenata. Le è apparsa morta ebellissima, e gli ha detto: raggiungimi.«Mamma», ha chiamato in sogno il mar-chese. E subito dopo prende coraggio, echiede alla moglie notizie della sorella. Lapiccola canonichessa è morta in conventoa ventotto anni, ma la famiglia ha giuratodi non parlar di lei a Sade, mai più — è perproteggere lei, oggi lo sappiamo, che lasuocera lo ha mandato carcerato, e noncerto per le prostitute legate a decubitoverticale e fustigate, con la cera bollentecolata sulle ferite, e le mille altre diavoleriedel marchese. Ma stavolta la lettera del“sogno di Laura” commuove madame Sa-de, che risponde al marito di non preoccu-parsi: dovunque ora Anne Prospère si tro-vi, nulla può disonorarla; del resto, «ognirisposta è inutile».

Diderot, l’eroe dei Lumi, sogna che, al dilà della distanza definitiva della morte, nel-l’eternità del suo universo materiale le cel-lule di Sophie Volland volteggino accantoalle sue: intanto, la bacia «dappertutto».L’amabile e galantissimo Denon, autoredel gioiello libertino Senza domani, scrisseper tutta la vita lettere d’amore a una vene-ziana, Isabella Teotochi Albrizzi, che avevafrequentato per alcuni mesi (lei lo inserì inun libricino dei suoi amati, centoventi pa-gine, cinque pagine per amante): «Ieri tut-to, oggi nulla. Ah, perché non mi son porta-to il tuo amore? È lui che mi fa circolare ilsangue». Però si incontrarono due volte;l’ultima, lei aveva settant’anni e in entram-bi le occasioni festeggiarono.

Il più crudele e impudico dei romanzi li-bertini lo scrisse invece Choderlos de La-clos: Le relazioni pericolose. Ebbene, il suosterminato, tenerissimo epistolario d’a-more lo scrisse alla moglie. Da Taranto, do-ve morirà di febbri al seguito dell’armatanapoleonica, le scrive lettere zuccherine:«Buona cara amica, arrivando ho provatoun grandissimo piacere, meglio una gran-de felicità, mi hanno consegnato due tuelettere… Non si può amare più di quanto io

ti ami». Ai bambini raccomanda di dare unfiore alla mamma per il suo compleanno edi completare il bouquet con mille carezze:si facciano «suoi rivali in tenerezza».

I comportamenti più convenzionalivanno in effetti a cacciarsi nei luoghi me-no prevedibili. Che dirà la gente?, si chiedetrepido il robusto e mostacciuto Flaubert:se Louise Colet viene a trovarlo, chissà lechiacchiere nel paese. Sarebbe una paz-zia: e senza dire della mamma. «Sei sorve-gliato come una ragazza!», si stupisce lei,che i problemi li risolveva col coltello. Ledonne prendevano spesso l’iniziativa: in-viavano missive cariche di palpitanti lu-singhe agli scrittori famosi, sperando.Louise Michel, che sarà, Remington inspalla, l’“incendiaria” della Comune, scri-veva a Victor Hugo: «Vi scrivo dalla mianotte; a voi evocare le stelle». Ebbero unpaio di incontri a casa del poeta, che an-notò le spese di taxi. Finì in matrimoniocome si sa l’adescamento di Balzac tenta-to da madame Hanska, aristocratica po-lacca: «Signore, la vostra anima è vecchiadi secoli; e tuttavia — mi dicono — siete an-cor giovane… Una sconosciuta vi ama».

C’è perfino chi invoca la distanza: «Do-po che te ne sei andata è arrivato l’amore.Lo sapevo. Per il cuore, la tavola è imban-dita solo dopo che se ne è andato l’ospite»,assicura Emily Dickinson a Elizabeth Hol-land. «Quando amate una persona, avetesempre voglia che se ne vada per poter so-gnare di lei», dichiara Marina Cvetaeva, ecosì scrive a Boris Pasternak: «Il tipo di rap-porto che preferisco è ultraterreno: il so-gno: vedere in sogno. E il secondo è la cor-rispondenza. La lettera: una forma di rap-porto ultraterreno, meno perfetta del so-

gno, ma le leggi sono lestesse». Infatti «l’Assenzaè il paese dell’Anima», rin-cara in una lettera all’a-mante Aleksander Bach-rach, citato da GiannaSarra nel suo bellissimosaggio La sindrome diEloisa (edito da Nutri-menti nel 2003), che ri-porta anche una letterapost mortemdella Cvetae-va a Rilke: «Caro, fa’ in mo-do che io ti veda spesso insogno — cioè, così non ègiusto — vivi nel mio so-gno». Cechov non ama in-vece stare con le mani inmano rispetto al reale, co-me accade nel sogno enella corrispondenza:«Quando finalmente civedremo? Quando ti ba-stonerò?», scrive alla mo-glie. E Pessoa alla fidanza-

ta: «Vorrei averti sempre accanto, e chenon fosse necessario scriverti lettere».

Le donne scriverebbero meglio le lette-re d’amore (Lettere dall’Europa, curate daFranca Zanelli Quarantini, Sellerio 2004)?«Oh Clemens, voglio agguantare la beati-tudine», proclamava a inizio OttocentoAuguste Bussman a un timoroso ClemensBrentano, rispondendo a una sua “brevis-sima”. «Sapete che la vostra lettera mi fascorrere brividi di piacere», scrive versometà secolo Flora Tristan alla moglie di unesule polacco, Olympe Chodzko. JamesJoyce era costretto ad ammetterlo: le lette-re di Nora erano più sconce delle sue. Dif-ficile immaginarle; e quale sarà stata la pa-rola sottolineata dalla moglie che aveva uneffetto così deflagrante nello scrittore?

Accanto all’assenza, la corrispondenzad’amore annovera impedimenti più radi-cali, segnatamente nell’archetipo stessodel moderno carteggio d’amore. ScriveAbelardo a Eloisa: «Tu sai a quali vergognela mia lussuria trascinò i nostri corpi… Fuimutilato e giustamente punito nel mem-bro con il quale peccai». Un grave ostaco-lo è la vecchiaia, si lamenta il filosofo Saint-Evremond con Ninon de Lenclos. L’adora-bile cocotte è attempata, e lui vive oltre-mare, ma se è senza illusioni le scrive an-che senza disincanto: «Da giovane ammi-ravo solo l’intelligenza, e trascuravo ilcorpo; oggi riparo al possibile i miei torti, eprovo per lui una grande simpatia. Voi ave-te fatto il contrario. In giovinezza, il corpoè stato importante per voi».

Naturalmente, il più diffuso e atroce de-gli ostacoli è non esser ricambiati. «È ovvioche non mi ami, ma dimmelo più affettuo-samente», implorava Majakovskij da Lil’jaBrik. La speranza di un incontro fisico èsempre possibile: «Posso aspettare, ungiorno, presumo, verrà la mia volta», scri-veva a Anaïs Nin, giustamente confidan-do, Henry Miller. Ma si è mai amati, si chie-deva mademoiselle de Lespinasse, da chiamiamo?

lettere, comporre poesie o addiritturacanzoni e i disamorati già troppo sbuf-fanti per scrivere una missiva di accora-to abbandono, scelgano di inviare unbreve crudele sms grondante fastidioseguito da immediato cambio di cellu-lare.

Le lettere d’amore restano tuttora in-sostituibili come regno letterario deldubbioso, di chi non si sente abbastan-za amato, di chi paventa una lenta fugadell’oggetto d’amore, del definitiva-mente abbandonato. In queste situa-zioni sentimenti e parole si scatenanosulla carta con sottofondo di lacrime, dirimpianti, di offerte, di paure, di suppli-che, di trappole, di ricatti, di maledizio-ni, di ricordi, di minacce, di lusinghe. Lavera lettera d’amore è quella dell’infeli-cità, della perdita, non della gioia e delpossesso: almeno sono quelle che io,persona interposta, ricevo a montagne.Forse tutto sommato esternare la pro-pria desolazione a una agony aunt è lasoluzione meno dolorosa. Perché cre-do che raramente una lettera pur subli-me, commovente, meravigliosamentescritta, un autentico capolavoro, riescanel suo intento: quello di far rifiorire unamore appassito, di riconquistare lapersona amata che non ama più.

DETTAGLIO MISTERIOSONella tela di Vermeer è rappresentata una banale scena

di vita intima, quotidiana. Tutt’intorno sono sparsi oggetti

di uso comune. Ma la missiva che la donna in giallo

impugna - punto focale della scena - introduce il mistero

CARTOLINE AMOROSELe “cartoline d’amore” -

alcune delle quali illustrano

questa pagina intorno

al dipinto di Vermeer -

oggi scomparse, sono state

un sottogenere in voga

per quasi tutto il Nocevento

DARIA GALATERIA

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 16 APRILE 2006

Perdoni, lacrimeimpudicizierimpianti

da Verlainea Jung,

ma la febbresentimentale

esplodenel ragionevole

Settecento

UN QUADRO IN MOSTRA

“La lettera d’amore”

di Johannes Vermeer,

normalmente esposta

al Rijksmuseum di Amsterdam,

sarà in mostra a Roma

nella Galleria di arte antica

di Palazzo Barberini

dal 26 aprile a fine giugno.

È la prima volta

che la celeberrima tela

del pittore olandese viene

nella capitale: l’evento vuole

anche celebrare la rinascita

di Palazzo Barberini come

grande museo nel cuore

della città. L’esposizione sarà

accompagnata da un breve

catalogo edito dal Crédit Suisse,

con scritti di Claudio Strinati,

Sandro Veronesi, delle curatrici

Angela Negro e Anna Lo Bianco

e quello di Daria Galateria

che qui pubblichiamo

Pioggia di parolesull’anima nuda

FUMETTI E DIPINTIUna lettera d’amore

anche per Charlie

Brown (Peanuts

© United Feature

Syndicate).

Nel tondo in basso,

la “Ragazza

con l’orecchino

di perla” di Vermeer

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La corrispondenzaamorosa, come scrissel’esiliato Ovidio

e più tardi dipinse Vermeer, si è nutrita per secolidell’assenza dell’altro, del ricordo della suaimmagine lontana. A tormentare uomini e donneancora oggi è il dubbioe l’angustia del sentimentoperduto. Che viene raccontato così

la storia dei sentimenti e dell’eros, maanche quella della quotidianità, dellasocietà, delle nazioni di varie epoche.Da tempo però l’abitudine di scriverelettere d’amore o comunque lettere ingenerale, sta franando, da quando cioèsi è scoperto che le scenate al telefonovengono benissimo e lo stesso per gliansimi di autoerotismo, soprattuttoquando la fiammeggiante telefonataarriva all’amante nel pieno di un feroceconsiglio di amministrazione.

Poi, si sa, ci sono i surrogati, tipo glisms praticati soprattutto (si spera) daadolescenti tendenti all’afasia ed inpossesso di un linguaggio non soloemotivo di non più di cento parole. Perquanto velocissimi con le loro dita nonpiù macchiate di biro sui minuscoli ta-sti, il lamento, la richiesta, la persecu-zione, l’inno d’amore sono necessaria-mente brevi, pena la paralisi della ma-no: in virtù inoltre delle abbreviazioniin codice (tvb, xxx, pk, tivogliobene, ba-cibacibaci, ecc.) l’amore perde ogni in-dividualità, si generalizza, diventa unamerce completa di logo e di marchio. Sene possono mandare decine alla volta,tutti uguali, a diversi bersagli amorosi.Non costringono alla fatica di leggeredentro di sé sfumature emotive, abissi

visionari, slanci viscerali. In realtà sonoil contrario di lettere e persino di mes-saggi o messaggini d’amore: sono sim-patici scambi di slogan, bacetti sullapunta del naso al posto di amplessi de-liranti.

Siccome molti incontri d’amore av-vengono anche nelle famose chat, si po-trebbe pensare che gli scambi elettroni-ci siano il nuovo modo di scriversi d’a-more, di conoscersi attraverso le parole,di rivelarsi dietro il paravento dell’ano-nimato. Scoppiano violentissimi amoriverbali, fidanzamenti on line, abbando-ni via e-mail. Eppure anche questa stra-da amorosa non può competere con lalettera d’amore tradizionale. Manca latattilità della carta, l’odorato del suoeventuale profumo, la vista del suo co-lore, del formato, eventualmente delsuo disegnino, l’analisi della scrittura, lascelta delle parole che deve essere menosbrigativa, più oculata, più essenzialeche per via elettronica.

Tenere in un cassetto legate con na-strino le lettere d’amore, di amori lon-tani e finiti, di amori ancora vivi e pre-senti, mette in scena fiction tanto piùentusiasmanti o disperanti. In genera-le, par di capire che i ragazzi innamora-ti oggi preferiscano anziché scrivere

(segue dalla copertina)

Oancora, «Sono felice-mente sposato ma mi so-no innamorato di un miocollega». Prendere il bue,il cervo, il diavolo, la mo-glie stessa per le corna e

riferire se non per lettera, almeno a vo-ce, il triste rovello alla presumibilmen-te trasecolata e indignata signora.

Di lettere contenenti amore se nescrivono tantissime, ma mi pare di ca-pire, soprattutto a terzi incomodi cui siracconta la propria storia, spesso edul-corata, essendo chi scrive certo delleproprie virtù e ragioni, anche quando lamissiva parte da una cella dove l’inna-morato si trova rinchiuso in attesa digiudizio per aver strangolato l’amatareticente.

Per secoli la lettera d’amore, soprat-tutto quella furtiva consegnata con ilpronubo intervento di valletti o diretta-mente nella mano della persona ama-ta, o facendola scivolare sotto la porta(almeno così si vede nei film in costu-me, si legge nei romanzi antichi o collo-cati nel passato), è stato l’essenziale senon l’unico legame tra innamorati chenon si incontravano mai per ragioni dibon ton o altri impedimenti drammati-ci. La posta, cominciando da quella acavalli sino a quella aerea, e soprattuttoil fermoposta per lettere adulterine, haconsentito di mettere insieme epistola-ri folgoranti quando non malaugurata-mente distrutti dagli stessi amanti, an-noiati o spaventati, o da eredi troppoprobi per far sapere, per esempio, che lacara nonna celebre per vita morigeratapraticava in realtà tempestosi congiun-gimenti carnali con i sacerdoti che laconfessavano e poi le scrivevano lette-re ardenti ed eccessivamente esplicite.

C’è una immensa letteratura non so-lo di romanzi epistolari (capolavoromassimo per sublime crudeltà, fatto dilettere che tutti abbiamo pensato unavolta di scrivere ma mai di ricevere, ilsettecentesco Le relazioni pericolosedel generale napoleonico Choderlos deLaclos), ma anche di raccolte di lettereautentiche che ricostruiscono non solo

NATALIA ASPESI

Nessuna missivapur romanticae perfetta riescea far rifiorireun rapporto appassito

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006

Passioni e furorima resta l’infelicità

Lettere

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rate a casa cominciavano sempre conla musica, prima di cenare, e finivanocon la musica, con la poesia nell’inter-vallo». Suonavano al pianoforte, a cuiSamuel e la moglie Suzanne si esercita-vano spesso. Ascoltavamo Mozart eBeethoven, ma anche Chopin, We-bern, Debussy ecc. (raramente Bach:«Non l’ho ancora raggiunto», spiegavaBeckett). Una volta, nel 1957, l’amicoAlberto Giacometti svegliò Avigdor,suo marito, per dirgli che Strawinski,che lui stava ritraendo, voleva conosce-re Samuel Beckett. Beckett raccontòpiù tardi che Strawinski era stato colpi-to, come compositore, dalla disposi-zione dei silenzi in Godot. La passione ela competenza musicale di Beckett era-no tutt’uno con la poesia: recitava amemoria, oltre alla Bibbia, Dante,Shakespeare, Goethe, Keats, Yeats,Volture ecc., con annotazioni sul “tem-po” e la ritmica. Questo e il suo modo direcitare alzavano molto l’impegno ri-chiesto ai suoi attori. Ma «tutti finivanoper impregnarsi della musica dei suoitesti. Non stupisce che la sua opera ab-bia attratto tanti compositori: Mihalo-vici, Dutilleux, Berio, Heinz Holliger,Philip Glass, Morton Fieldman, JohnBeckett...». Allo stesso modo, tra i suoiamici molti erano musicisti, compreso

il nipote Edward, flautista.Presero forma così anche pezzi me-

morabili dello stesso Beckett, come ilmonologo che inserì nella «petite pièce»,come la chiamava lui, cioè Finale di par-tita, «in realtà uno dei grandi monologhidel Novecento», e che appena finito re-citò a memoria, alla fine di dicembre del1956, nell’atelier dell’amico pittoreAvigdor: «“On m’a dit, Mais c’est ça, l’a-mitié, mais si, mais si, je t’assure, tu n’apas besoin de chercher plus loin...”, finoal passaggio musicale dal modo mag-giore al modo minore, a cui Avigdorscoppiò in lacrime di commozione». Ilmodo martellante della musica e dellaprosa di Beckett, ricorda Anne Atik, eraesibito fin dai nomi dei personaggi,“martello” e “chiodo”, Hamm e Clov,Nagg e Nell. La particolare dizione diBeckett, di cui l’intensità è il modo poe-tico principale, suggeriva al traduttoreitaliano Gabriele Frasca l’idea di «un’al-tra lingua nella lingua» che ingiunge allettore, «perseguendo una lieve curva-tura psicotica, a dirla ad alta voce con lapropria voce».

Siamo ora davanti alla casa di Beckett,un palazzo bianco al 38 di BoulevardSaint Jacques. A fianco c’è ora la sede diuna setta che invita a una «sala di letturadella scienza cristiana». Di fronte, il pas-

saggio sopraelevato per pedoni, doveBeckett ebbe un incidente che lo co-strinse all’immobilità un periodo. Lì c’èil Caféfrançais, in fondo alla hall di un al-bergo anonimo e moderno: moquette epoltroncine di velluto, soffitto basso. Lì,quasi ogni mattina, Beckett e Anne si ap-partavano a parlare, il tempo di duecaffè e di due sigari. Beckett soffrì a uncerto punto ad essere riconosciuto e ac-costato dalla gente, per questo cessò diandare alla CloseriedesLilas, dove ama-va sedersi tardi nella notte nella brasse-rie a sinistra, il bateau — come era chia-mato per la struttura allungata e le ve-trate che sembrano oblò. Una delle ulti-me volte, poco prima della chiusura, fuOrson Welles a bloccarsi dopo aver rico-nosciuto Beckett. «Non aveva nessunapreclusione a incontrarlo», dice Anne.Finché, a partire dal 1987, smise com-pletamente di uscire. Se oggi la Closerieè teatro di una mondanità sempre piùsuperficiale, il Falstaff, tra i più frequen-tati da Beckett cogli amici irlandesi, è ri-masto un bar à bières quasi invisibile inrue de Montparnasse, a parte l’insegnadel vichingo biondo e barbuto col ghi-gno di un Falstaff appunto, e il nome acaratteri gotici. Dentro, una penombrasoffusa fa intravedere i nomi delle piùsvariate birre e whisky. Lo immagino,Beckett, indugiare con gli amici a tardanotte a parlare di poesia, a parlare dipoesia nel vociare intorno — perché ilvero silenzio non è affatto un’assenza dirumore — a uno dei tavolini di legnoscuro separati da una simbolica ringhie-ra di legno. C’è un televisore acceso sulverde di una partita di calcio. Beckettadorava vedere lo sport in tv.

Adesso costeggiamo le mura della pri-gione della Santé, in rue de la Santé. An-ne evoca un episodio che è forse all’ori-gine di brani teatrali di Beckett. Una not-te — stava scrivendo Finale di partita —tornando a casa con Avigdor Arikha, siimbatterono in una donna che rispon-deva alle urla del marito prigioniero die-tro quelle mura. Beckett ne fu molto tur-bato. Dal suo studio che si affacciava sulretro della casa, Beckett udiva a voltecon sgomento grida di carcerati. Odiavale prigioni. Per associazione di idee, An-ne si commuove alle lacrime rievocan-do il primo degli incontri coi tanti carce-rati che interpretarono suoi testi teatra-li: fu a San Quentin, California, che unodi essi uscì da un’afasia che durava daanni chiedendo di interpretare Pozzo inAspettando Godot. Ringraziò Beckettper averlo restituito alla sua identità e di-gnità: «Pozzo sono io».

Il Rosebud in rue Delambre scorreobliquo dietro l’edificio del Dôme. Chinon lo conosce difficilmente se ne ac-corge, ha una sola vetrina oscurata e di-screta, con scritta rosa e silhouette artdéco. Una sola stanza, con due colonnein mezzo. È un ottimo posto per chiac-chierare, ma anche per stare soli a guar-dare il barman dietro il bancone illumi-nato bene, e magari scrivere, mentre sa-le il brusio. Beckett ci veniva spesso. Coninquieto pudore, Anne Atik mi confida iltimore di tradire Beckett scrivendo dilui. Ma il suo libro testimonia con pu-rezza scorci di una vita, accorciando ladistanza tra l’opera e i lettori, spesso in-timiditi dall’aura di quel maestro di ri-gore per il quale parola e silenzio eranosinonimi, ed entrambi fin troppo elo-quenti. Viceversa, non so quanto io pos-sa assolvermi.

Gli ultimi anni della vita di Beckett,dopo la morte della moglie, videro il suosoggiorno prima in una clinica, poi nel-la casa di riposo Le Tiers Temps. Sul ta-volo troneggiava spesso una bottiglia diwhisky, e non cessò di amare e di scrive-re. C’è qualcosa di testamentario nellasua ultima opera: il tentativo, più volteriuscito e altrettante perduto, di trovarerequie nel risalire alle scaturigini dellaparola. Parlo di Comment dire, tradottada Frasca Qual è la parola. Come un bal-bettìo, dice la smania, la follia di dire il“questo”, il qui e ora del dire, ciò che se-coli di filosofia hanno tentato di spiega-re, e che l’antica retorica stoica osavatradurre con un gesto. I testi di Beckett lotrasmettono con una gesticolazione lin-guistica, una consapevolezza abba-gliante della natura della poesia, gram-matica dell’ineffabile. Esco dal Rosebude c’è ancora una luce che stordisce.

dazione scarnificata dell’epica, unanuova commedia umana e divina cheguarda «en face / le pire / jusqu’à ce / qu’ilfasse rire» (il peggio / di faccia / finché /ridere faccia). Anne Atik dice la stessacosa riguardo all’eredità dell’amico: «Lasua scrittura, il suo stile, insomma la suaopera, ha cambiato il mondo. Essa ciinfonde coraggio».

Sulla vita e l’arte di Beckett lei hascritto un libro ricco e pudico: How hewas, “Come era”, non ancora tradottoin italiano. La prima parte racconta lelunghe bevute e conversazioni conSam (Beckett) ai tavoli del Falstaff, delRosebud, della Closerie des Lilas o del-l’appartato Café français: arte, musica,poesia; birra, vino, whisky. Oppure aitavoli dei ristoranti di pesce amati daBeckett, Les Iles Marquises o ChezFrançoise, sull’Esplanade des Invali-des. A notte fonda Anne seguiva oscil-lante i passi del poeta e del marito, con-scia di essere testimone di eventi che,per quanto privati e basati su trame diparole, doveva fermare sulla carta. Lacultura pittorica e visiva di Beckett eraprodigiosa per uno scrittore, ricordaAnne Atik, ma «era la musica il nostrolegame più forte. La poesia faceva par-te di quel legame, costituiva, per cosìdire, l’altro lato del cuore. Le nostre se-

La poetessa AnneAtik e il pittoreAvigdor Arikharicordano: “Samuelamava indugiarefino a tarda notteparlando di poesiaseduto ai tavolinidi locali piccolie appartati”

LA VITA DI SAMUEL A MONTPARNASSENella mappa qui accanto, il quartiere di Montparnasse a Parigi, a lungo abitato dagli artisti

di tutto il mondo. Ecco i luoghi frequentati da Samuel Beckett

1. Rosebud, un locale defilato dove il drammaturgo si fermava spesso per scrivere

2. La prigione della Santé, fonte di ispirazione di diversi brani teatrali

3. La casa di Beckett al numero 38 di Boulevard Saint Jacques

4. Il Falstaff, dove si riunivano gli amici irlandesi del premio Nobel

5. La Closerie des Lilas, amata soprattutto per le chiacchierate notturne

6. Il Café français, dove Beckett passava quasi ogni mattina

7. La casa di riposo Le Tiers Temps, dove l’autore di “Aspettando Godot”

ha trascorso gli ultimi anni di vita

GLI INCONTRINella foto qui sopra,

Avigdor Arikha,

Samuel Beckett

e Alberto Giacometti

nel 1961. In alto,

il drammaturgo

con Anne Atik

e sua figlia

Alba nel 1970,

all’inaugurazione

del Centro nazionale

d’arte

contemporanea

di Parigi. A destra,

uno scorcio della

Parigi notturna

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 16 APRILE 2006

Di bistrot in bistrota Parigi con Beckett

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i luoghiQuartieri letterari

PARIGI

In un pomeriggio di primaverapasseggio nelle strade della Pari-gi quotidiana di Samuel Beckett.In questo quartiere che mi è così

famigliare, all’incrocio tra i viali Mont-parnasse e Raspail, sfoglio un mondoparallelo: immagino, annuso, guardodietro il visibile e le trasformazioni de-gli ultimi anni. Ho con me una compa-gna d’eccezione, Anne Atik, poetessaamericana che vive a Parigi dal 1959, dasubito intima di Beckett col marito pit-tore Avigdor Arikha. «Tutti quelli che lohanno conosciuto hanno avuto la stes-sa sensazione, dice, che Samuel Beckettfosse un uomo eccezionale. Anche ilsuo giornalaio lo aspettava con emozio-ne. Ognuno ne sottolinea la verità, lacortesia, l’integrità. La bellezza, anche:aveva occhi vivi e penetranti, azzurri».

Nei suoi ricordi, Beckett costituireb-be un capitolo importante in una storialetteraria della compassione: per «la suagrande bontà, che gli era naturale e in-volontaria come un atto riflesso». «Glianeddoti sulla sua bontà sfioravano l’a-giografia. Solo il fatto di essere prote-stante lo salvò dalla santità, ma sarebbestato considerato come un tsaddik, ungiusto (che i suoi difetti avrebbero resomeravigliosamente umano) dalla tradi-zione ebraica, e senza dubbio da altre re-ligioni. La sua sconvolgente intuizionedelle disgrazie altrui si manifestava inmodi inattesi. Così, un giorno, mandòun assegno a Avigdor per posta, accom-pagnato da un messaggio che dicevache aveva sognato che eravamo senzasoldi. E le cose stavano proprio così!».Posto che Beckett visse un’infanzia feli-ce, e non aveva nulla contro cui reagire,«da cosa dipendeva la sua straordinariagenerosità? Da una compassione visce-rale, dalla finezza del suo ascolto, checoglieva le allusioni che i suoi interlocu-tori si lasciavano sfuggire sulla propriasituazione... Sam ascoltava con estremaconcentrazione tutto ciò che gli si dice-va, anche le frasi più banali, al punto damettere nell’imbarazzo quelli che gli sirivolgevano, quando si rendevano con-to di quello che dicevano». Molti appro-fittavano della sua generosità, ma a chigli raccomandava attenzione Beckett ri-spondeva: «Non posso rischiare». Ovve-ro, non posso rischiare per colpa di qual-cuno di non aiutare chi ha bisogno.

La prima cosa che confido ad AnneAtik riguarda invece la morte di Beckett.La notizia della scomparsa di quell’ap-partato eroe della parola e del silenzio citurbò e sorprese il 22 dicembre 1989:nessuno di noi lo immaginava “vivo”, diquella stupidità dei viventi condannati aessere presenti, o peggio oggetto dellenews della marmellata televisiva. Furo-no proprio le televisioni a dare la notizia,dopo le descrizioni dei saccheggi di Bu-carest e del linciaggio di Ceausescu. An-ne Atik mi capisce benissimo. A propo-sito della sua “assenza”, ricorda, nessu-no protestò per il fatto che Beckett nonfosse andato a ritirare il premio Nobelnel 1969.

Con le due sillabe asciutte del suo no-me, Beckett rimane emblema e monitodi forza e resistenza. Allo svilimento del-le parole, ad esempio. Se qualcuno hascritto che la guerra di Troia, senza lapoesia di Omero — cioè senza gli eroi, glidèi, gli amori, la bellezza di Elena o la de-vozione di Andromaca — sarebbe qual-cosa di simile ai cartoni animati giappo-nesi della Tv, un susseguirsi di forza san-guinaria senz’anima, mi chiedo cosa sa-rebbe stato il Novecento senza la vocenuda di Samuel Beckett: guerre e mas-sacri dove follia e metodo si tengono abraccetto, corsa alle armi di distruzionedi massa, corsa alle armi di distrazionedi massa, rivolta dei ricchi contro i po-veri, “alienazione” dell’individuo e del-la specie, tutto questo senza una voceche indicasse non una via di fuga, nonuna redenzione o una rivoluzione, ma lacoscienza di trovarci in questo presentestorico col nostro bagaglio di umanità,parole e carne mortali. Al modo stoico,che non arretra di fronte al soccomberee alla povertà, ma anzi li accetta, la lin-gua di Beckett, che come è noto si fecestraniera a se stessa, si offrì a una rifon-

BEPPE SEBASTE

A cento anni dalla nascita del Nobel irlandese siamo tornati nelle vie, nei ristoranti e nei caffè di Montparnasse,accompagnati da due amici che lo hanno conosciuto bene e frequentato a lungo. Per farci raccontare dove e come sono nati i capolavori del grande drammaturgoda “Aspettando Godot” a “Finale di partita”

IL RITRATTOQui sopra,

Samuel Beckett

visto da Tullio

Pericoli

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006R

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 16 APRILE 2006

I CALENDARINelle foto in pagina,

alcune immagini

dei calendari realizzati

dalla Piaggio

negli anni Cinquanta

e Sessanta

Vittorio GassmanAvevo una Vespa a cui era molto affezionato

e di cui ero orgoglioso. Un giorno me la rubarono e ci rimasi malissimo.

Non ho mai voluto ricomprarla‘‘Steven Spielberg

Fin da bambino avevo sul mio letto un poster di William Wyler a bordo

di una Vespa mentre andava a Cinecittàper dirigere Ben Hur. Per questo amo la Vespa‘‘

L’EVOLUZIONE

Sono stati 140 i modelli

di Vespa prodotti e messi

sul mercato dal 1946 a oggi.

L’ultimo è il Gts 250,

presentato lo scorso anno,

che è anche quello

con la massima cilindrata

mai montata su questo tipo

di scooter. Nell’illustrazione

in alto, le principali tappe

dell’evoluzione della Vespa

IL PERSONAGGIONella foto, Jean Paul

Belmondo su una Vespa.

Sono stati moltissimi

gli attori che hanno scelto

il celebre scooter

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Si fa presto a cavarsela con la citazione ovvia di Vacanze romane, la sublime commedia esistenziale di William Wyler del1953, in cui Gregory Peck e Audrey Hepburn uniscono la loro straordinaria bellezza sullo sfondo di una Roma incantata, e sul sel-lino dello scooter che rappresentò uno choc cognitivo mondiale, un immediato oggetto del desiderio, oltre che un segno del riscattoindustriale italiano, insomma la Vespa. Sarebbe opportuno perlomeno aggiungere che quella dei due protagonisti lanciati nella loro fa-vola romana era il modello del 1948, 125 cc di cilindrata, un classico. Ma subito dopo è opportuno aggiungere che quel singolare oggetto adue ruote aveva già fatto il dovuto rodaggio: perché la nascita ufficiale della Vespa risale a sessant’anni fa, esattamente al mezzogiorno del 23

aprile 1946, allorché Enrico Piaggio, industriale costruttore di aeroplani da guerra in fase di riconversione, erede di quel Rinaldo Piaggio che aveva fon-dato l’azienda a Pontedera nel 1884, depositò all’«Ufficio centrale brevetti per invenzioni, modelli e marche» di Firenze il brevetto per una «motocicletta acomplesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica».

Tante parole per dire «uno scooter». Oppure per dire più precisamente: «la Vespa». Un nome che secondo alcune leggende nasce proprio dall’intuizione dell’im-prenditore Piaggio, perché la bestiolina viag-

giante «ha la vita stretta e il sedere lar-go», proprio come l’insetto volante, ed

è ugualmente pungente, nel sensodell’iniezione di fantasia, di diverti-mento, di scatto e di scarto rispettoalla quotidianità grigia di quell’epo-ca. E per essere pedanti sarebbe ilcaso di dire che nella sua evoluzio-

ne zoologica la Vespa ha avuto an-che un precursore, il «Paperino»,

prodotto in pochissimi esemplari nel1945 a Biella, dove erano stati trasferiti gli

impianti durante il passaggio del fronte di guerra. Ma sotto il profilo della storia industriale occorre ricor-dare come minimo che lo sviluppo della «motocicletta a complesso razionale eccetera eccetera» era stato affidato al

migliore progettista della Piaggio, l’ingegner Corradino D’Ascanio, specialista di elicotteri, anzi inventore in esclusiva mon-diale, seppure misconosciuto, del primo elicottero: ma anche realizzatore eclettico, instancabile, mai soddisfatto.

D’Ascanio, è storia nota, non amava le moto: troppo scomode, complicate nei comandi, troppo robustamente maschili. Si mise allavoro «una domenica», come avrebbe raccontato in seguito, e con un piccolissimo gruppo di collaboratori, disegnatori e meccanici, in

tre mesi presentò a Piaggio il prototipo. Una femmina, in tutti i sensi. Veicolo con la carrozzeria autoportante, chiusa e leggera, scudo an-teriore antipozzanghere in lamiera, il motore nascosto, una sorta di piccolissimo aereo trasportato sulla terra, dotato di ali immaginarie.

Oppure, meglio: trasportato sulle strade dell’Italia del primissimo dopoguerra, sulle sue strade bianche, a fare colore e novità.Esordio pubblico di quelle rotondità posteriori così lietamente allusive, anche se allora molto più dimesse, il 20 settem-

bre ’46 al Circolo del Golf di Roma, destando l’interesse divertito del generale americano Stone, rappresentante del go-verno militare alleato. Stupore e curiosità alla Fiera di Milano anche da parte del cardinale, l’oggi beato Ilde-

brando Schuster. E comincia l’epopeavespista. Cinquanta esemplari pro-

dotti nella prima serie, anno 1947,con due Vespe invendute acqui-state da due ingegneri dell’azien-da, tanto per evitare dispiaceri dimercato all’imprenditore Piag-gio, che nutriva tanta fiducianella creatura; poi un’altra tira-tura di 2.484 scooter, a testimo-nianza della fiducia incrollabiledel patron; e subito dopo gli aiutidel piano Marshall che consentironol’acquisto della grande pressa necessaria per stampare le scocche e rispondere alla domanda che cominciava a impennar-si. Perché stava serpeggiando la febbre della Vespa. Prima una febbriciattola, poi praticamente una malattia sociale.

«Vespizzatevi», intimava uno storico manifesto di Ferenzi del 1950. Già, era piuttosto facile, invitante. Cambio a tre marce sulla sinistra delmanubrio, freno posteriore a pedale, cilindrata modesta, prezzi ridotti (la Vespa U del 1953, dove la U sta per «utilitaria», costava 110 mila lire,

pressappoco due mesi di stipendio di un operaio specializzato), velocità massima circa 90 chilometri all’ora, niente targa e patente, lo scooterdella Piaggio era a suo modo un oggetto cittadino, aveva dentro di sé un’anima urbana: ancora oggi, nell’era dei superscooter della globalizza-

zione, vecchi appassionati del mondo a due ruote discutono di come in quegli anni Cinquanta ci si divideva fra motociclisti e vespisti. La moto, ruote grandi e pantaloni sporcati sovente dalla testata del motore, era un veicolo operaio, sportivo, virile; lo scooter, con le ruote a

raggio ridottissimo, almeno all’apparenza era un oggetto impiegatizio, borghese, al massimo «di tendenza» se lo usava nei primi barlumi difemminismo, per la verità piuttosto aristocratico, l’emancipatissima contessa Negroni, organizzatrice di gare femminili come il Giro

dei tre Mari (oppure un piccolo sta-tus symbol famigliare, con la mo-

glie comoda in gonnella sul sel-lino e il bambino in piedi da-vanti sul pianale).

Insanabile, la contrappo-sizione fra le due tifoserie.Così come ovviamente non

si è mai placato il disamorefra cultori della Vespa e ado-

ratori dell’altra invenzionescooteristica italiana, la Lam-

bretta. Storia di idolatrie settarie, che tuttavia non oscura l’orizzonte su cui corre la Vespa, l’Italia postbellica che si ap-presta a diventare post-rurale, che scopre la motorizzazione e compie le sue prime prove di modernizzazione: il che implica la

scoperta dello spazio e della mobilità, ma anche le primissime occasioni di fuga, i primi scarti nei comportamenti amorosi favoritidalla chance per i fidanzati di uscire dalla cerchia di città e paesi ed eventualmente di appartarsi.Oggi forse ciò che colpisce di più è l’“eternità” della Vespa. Che non soltanto ha resistito alla seconda ondata modernizzatrice, quella della Sei-

cento e della Cinquecento, ma si è via via fissata nell’immaginario di massa come un «frammento mitico» (Roland Barthes) sostanzialmente indif-ferente ai cambiamenti d’epoca. Se nei tardi anni Cinquanta la Vespa è anche un mezzo di corteggiamento di gruppo, in Poveri ma belli, e nel felli-

niano La dolce vita(1960) i paparazzi si scatenano attraversando Roma a cavalcioni dello scooter, l’immagine della Vespa arriva intatta fino ai no-stri giorni. Da un lato grazie ad alcuni autentici exploit di marketing, come la sensazionale e fortunata campagna pubblicitaria del biennio 1969-

1971 «Chi Vespa mangia le mele» uno dei nonsense più densi di senso che siano mai stati creati. Oppure per alcuni testimonial d’ecce-zione come John Wayne a Cinecittà, e

Vittorio Gassman affranto per ilfurto dell’amato scooter.

Ma per un altro aspetto laVespa deve la propria fortunaanche al fatto di essere rima-sta sempre la stessa, cam-biando pochissimo, mante-nendo e anzi accentuando ilprofilo delle proprie rotondità,sia che assumesse le sembianzedel “cruiser”, una granturismocon echi californiani, sia che mante-nesse le caratteristiche generazionali del “Vespino” di 50 cc, cult e passione dei teenager prima della patente B. Forse, con un procedimento warholiano,una specie di serializzazione del subconscio tecnologico, la Vespa si è fissata come Gestalt, forma assoluta, icona autoreferenziale, “cameo” e citazione dise stessa. È questo forse che le ha consentito di attraversare i decenni, e anche le fasi industriali (dai Piaggio a Roberto Colaninno), innumerevoli modellie adattamenti al trend modaiolo e al variare del consumo, dall’era hippie all’età yuppie. Il suo essere una combinazione inscindibile di prodotto e di im-magine l’ha resa immediatamente identificabile, sia che diventasse il feticcio di Nanni Moretti in Caro diario, oppure l’arma segreta e giovanilistica di

Cesare Cremonini ai tempi dei Lunapop («Vespe truccate, anni Sessanta, girano in centro sfiorando i 90, rosse di fuoco, comincia la danza…»). Chi ricorda Vacanze romane sa che l’amore impossibile del giornalista Gregory Peck e della principessa Audrey Hepburn è tutto giocato sulla consapevolezzafiabesca di ciò che poteva essere ma non è stato, fra il principio di realtà e la percezione di un’alterità inesplorabile. Probabilmente, ormai anche la Vespa, scoo-

ter che se la batte con i concorrenti giapponesi, opponendo alle loro dimensioni la propria linea perfetta, riesce ancora a correre sui mercati perché ogni esem-plare rappresenta non soltanto l’ultima variazione sul tema, un corollario del paradigma dello scooter, ma perché dentro ogni Vespa si manifesta l’idea pri-

migenia, quella sintesi provvidenziale che fa coincidere lo scooter fisico, materiale, ormai ipertecnologico, con l’idea intangibile di Piaggio e di D’Asca-nio. In questa miscela di amor platonico e di passione materiale, c’è il segreto irripetibile di un’invenzione che è qualcosa in più di uno scooter.

la memoriaMiti su due ruote

EDMONDO BERSELLI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006

Ha rappresentato il riscatto industriale dell’Italia del dopoguerra, ha conquistatoi divi di Hollywood, ha sedotto milioni di giovani. Oggi compie sessant’anniMa non li dimostra, perché il progenitore di tutti gli scooterha saputo attraversare i decenni senza perdere il fascino. Ecco il suo segreto

La sfida della Vespa

dal boom all’eternità

Gli esemplari della prima

serie messi sul mercato

50Le Vespe prodotte

nel 1950 a Pontedera

60mila

Il prezzo della Vespa 125 “U”

realizzata nel 1953

110mila lireLa velocità massima

delle prime Vespe 125

90 km/hÈ la quota di produzione

raggiunta nel 1953

500mila

Gli esemplari di Vespa

venduti dal 1946 a oggi

17 milioni

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 16 APRILE 2006

LE VITTIME

CESARE TERRANOVA

Magistrato siciliano,

nel ’68 istruisce il primo

processo contro Liggio

e i corleonesi.

Viene ucciso nel ‘79

DALLA CHIESA

Già protagonista della lotta

al terrorismo, il generale

viene inviato a Palermo

per combattere la mafia:

ucciso nel 1982

GIOVANNI FALCONE

Insieme a Paolo

Borsellino crea il pool

antimafia: viene ucciso

nella strage di Capaci

il 23 maggio 1992

PAOLO BORSELLINO

Divide con Falcone gli anni

della lotta a Cosa Nostra:

viene ucciso in via D’Amelio

il 19 luglio 1992 sotto casa

della madre

fuori dalla Fiat 131 un corpo ma in quel momento non ho capito chi fosse, poi ho visto suo fra-tello Sergio, io fotografavo da una parte e Letizia dall’altra fino a quando fermarono un’autoe lo portarono al pronto soccorso di Villa Sofia», è Franco che ricostruisce la scena del delittoventisei anni dopo.

Nel 1976 gli omicidi di Palermo furono sessantuno, ottantaquattro nel 1981, centocinquenel 1982. Fotografare la morte ogni giorno. Parla Letizia: «Mi ha sempre spaccato in due, fo-tografare un essere umano massacrato da un altro essere umano su un marciapiedi o suun’auto mi ha sempre sconvolto, era come se stessi profanando il momento più importantedell’esistenza di una persona». È ancora Letizia che rovista dentro di sé: «Ma da siciliana sen-tivo che dovevo dare testimonianza di quel fatto estremo, un’altra forza mi diceva che dove-vo in qualche modo comunicare al mondo cosa stava accadendo nella mia Palermo».

Dopo Mattarella uccisero il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Su a Monreale,nella notte della festa del santo patrono gli spararono mentre stringeva la figlia tra le brac-cia. E dopo Basile, ammazzarono anche il procuratore Gaetano Costa. Era il 6 di agosto.Un pomeriggio di afa e brividi.

Da quell’estate in avanti entrammo tutti in un lungo incubo.La guerra di mafia stava esplodendo e la città si fece sempre più cupa. L’odore del san-

gue e della paura che saliva dai cortili di Brancaccio, i sicari in motocicletta che scorraz-zavano tra via Emiro Giafar e i giardini di Maredolce, gli “incaprettati” di Ponte Ammi-raglio visti da vicino, uomini ai quali passavano una corda tra i polsi e poi tra le cavigliee poi ancora la legavano intorno al collo. Morivano soffocati quando i muscoli delle lo-ro gambe cedevano. Orrori. E le nuove armi che avevano sostituito i fucili a canne moz-ze, i kalashnikov che provavano sulle vetrine delle gioiellerie di via Ruggiero Settimo epoi li puntavano contro i grandi boss come Stefano Bontate o contro i generali come Car-lo Alberto dalla Chiesa.

E le minacce. Sottili, nutrivano a lungo cattivi pensieri. Le più infami venivano da cer-ti avvocati. Ricordavano la foto che avevi scattato o l’articolo che avevi scritto un mese oanche due mesi prima e poi sorridenti bisbigliavano: «I giornalisti e i fotografi non fannogli sbirri...». E se ne andavano lasciandoci tutti sudati. È capitato anche a Franco e a Leti-zia: «Una volta abbiamo ricevuto quel tipo di minacce e siamo andati dal giudice Falco-ne che ci consigliò di stare molto in guardia».

Erano diventati loro i fotografi di Palermo frontiera, una sacca infetta, impenetrabileper l’Italia lontana. Spiegano insieme: «Noi non lo facevamo per sbarcare il lunario, erala nostra vita, vedevamo cadere magistrati e poliziotti amici, vedevamo la città sprofon-dare nella violenza e non potevamo nasconderci dietro una presunta imparzialità pro-fessionale. Le nostre foto hanno dentro tutta la nostra passione e tutto il nostro dolore».

E dopo le sparatorie c’erano sempre i funerali. Pomposi. Surreali. Con Letizia andam-mo in un giorno di maggio dell’81 a quello di Totò Inzerillo. Sembrava di stare dentro unfilm. I cugini “americani” di Totò venuti da Cherry Hills che accompagnavano su una Lin-coln nera Filippa Spatola, la vedova del boss. Migliaia di corone di fiori appoggiate sui mu-ri della borgata di Passo di Rigano, tutti i negozi chiusi per lutto. E c’erano centinaia di pic-ciotti armati dentro la chiesa di via Castellana, a guardarsi le spalle uno con l’altro. Eranogià “ai materassi”, dormivano e mangiavano in case cheritenevano sicure, non andavano più agli appuntamenti,non si fidavano neanche dei fratelli. Una Cupola di para-noia. Era la guerra di mafia.

Con Franco ci avventurammo qualche anno dopo fino aSalemi per i funerali di Nino Salvo, l’esattore che era statouno dei viceré della Sicilia. Franco si aggirava tra le navatedella matrice, quando la vedova si accorse che stava scat-tando le sue foto. In ginocchio sulla panca, Franca Corleogli urlò: «Sporco comunista fuori da questa chiesa».

I vivi e i morti di Palermo che si inseguono sempre an-che tra un funerale e l’altro. Quello del segretario del Pci siciliano Pio la Torre dove c’erail giudice Chinnici, quello del giudice Chinnici dove c’era il commissario Beppe Monta-na, quello di Beppe Montana dove c’era Ninni Cassarà. Fino a Falcone e a Borsellino, fi-no all’estate del 1992. Fino a quando Letizia ha detto basta: «Basta con i morti di Palermo,a Capaci non sono più riuscita a fotografare la morte, non ce l’ho fatta più». Ci sono solofoto di Franco sull’autostrada sventrata e tra i fumi di via D’Amelio. Poi tutti e due se nesono andati via dalla Sicilia, Letizia è tornata, è partita ancora, è tornata un’altra volta.

Ha provato a mettere distanze e tempo da Palermo. «Ma quella Palermo non si può di-menticare», dice Letizia nel giorno del suo settantunesimo compleanno.

“Non potevamo nasconderciIl lavoro che facciamo si portadentro tutta la nostra passionee tutto il nostro dolore”

IL FESTIVAL INTERNAZIONALE “FOTOGRAFIA”

La quinta edizione del Festival internazionale di Roma

FotoGrafia durerà fino al 31 maggio prossimo.

Una rete di 120 mostre collegate da un unico tema —

quest’anno è il Novecento — si estende nell’intera città

(informazioni sul sito www.fotografiafestival.it).

L’esposizione delle opere di Letizia Battaglia

e Franco Zecchin, intitolata “Dovere di cronaca” e curata

da Marco Delogu (direttore artistico del Festival)

e Salvatore Ligios, è allestita al Palazzo della Calcografia,

Istituto Nazionale per la Grafica, in via della Stamperia

DELITTI, FUNERALI E ARRESTI

Ecco i soggetti delle fotografie che illustrano queste

pagine, da sinistra, in senso orario: “Palermo 1988:

la Confraternita del SS. Crocefisso” (Franco Zecchin);

“Il giudice Cesare Terranova, comunista, ucciso

davanti a casa” (Letizia Battaglia); “Funerali del sindaco

Vito Lipari ucciso dalla mafia” (Letizia Battaglia);

“Palermo 1983: la moglie e le figlie di Benedetto

Grado sul luogo dell’omicidio” (Franco

Zecchin); “Palermo 1980: arresto del boss mafioso

Leoluca Bagarella” (Letizia Battaglia)

GIORGIO BOCCA

Bernardo Provenzano, il boss dei boss, il capo dellamafia viveva in un covo nella campagna di Corleo-ne, dormiva in un sacco a pelo, teneva qualche mi-

gliaio di euro nelle mutande, si cibava di verdura bollitae di miele, passava le giornate a scrivere i suoi “pizzini”, ibiglietti con gli ordini e i consigli alle famiglie. Ed era pu-re malato.

Era un vero capo mafioso, ammalato come lo sono i ca-pi mafiosi, provati dalla latitanza e dalle angosce del po-tere. Il volto arcaico della mafia è segnato da una vita or-renda, per capire che cosa è un santuario di mafia biso-gna entrare nel quartiere Brancaccio di Palermo, alle ot-to di sera. Le luci di Palermo alle spalle, a Brancaccio ilbuio, la via centrale Conte Federico un tratturo fra duemarciapiedi rialzati, le auto issate sopra sui due lati co-me scarafaggi, lamiere appannate dall’umido marino.Qui vivono di comando e muoiono di lupara i miliardarimafiosi della droga. Case di tufo come il covo di Proven-zano, con i rialzi abusivi, una rete di antenne televisivesui terrazzini, porte blindate, verande di alluminio. Lasera che ci andai guidato dal nostro Bolzoni avevano ap-pena ucciso il diciottesimo di una resa mafiosa dei con-ti, la polizia aveva trovato il cadavere dietro un bidonedella spazzatura.

Non è cambiato niente, direi, il mondo mafioso rivela-to dalla cattura di Provenzano in un miserabile covo nel-la campagna di Corleone è sempre quel mondo di caniferoci per cui il potere è tutto, per cui “comandare carne”,comandare uomini è meglio di qualsiasi piacere, megliodi una vita dolce e comoda. Conta solo, viene inseguitosolo il predominio del più forte, del più feroce, del piùabile. Vita dura, vita infame ma con il potere allucinantedel comando. Fortunato tu, disse un capo in morte delmafioso Inzerillo, fortunato tu che hai provato, sin dagiovanissimo, il piacere sommo del comando, il piaceredi vedere uomini inchinati davanti a te.

Il morto dietro il bidone della spazzatura era Tano, losfasciacarrozze, quello che riciclava le auto rubate. Abi-tava in piazza Scaffa. Scese per andare alla pizzeria a far-si due arancini di riso e lo stesero vicino al bidone.

Il capo dei capi Bernardo Provenzano ha detto ai poli-ziotti che lo arrestavano: «Voi non sapete quello che fate,non sapete quale danno state facendo». E anche questoè il cuore immutato dell’ordine mafioso. Voi poliziottinon sapete quale intreccio di complicità state spezzan-do con la mia cattura, quali compromissioni fra la ono-rata società e lo Stato state rompendo con questa vostraazione poliziesca, quale tregua di sangue fra mafia e Sta-to, quale proficua rete di affari comuni state rovinando.Proprio ora che con i miei “pizzini” avevo convinto le “fa-miglie” siciliane a riporre le pistole e le bombe, a lavora-re in pace con la borghesia amica ai lucrosi affari in cor-so, finanziamenti europei, ponte sullo Stretto di Messi-na, autostrada Catania-Palermo, proprio quando la po-litica delle grandi opere saldava la nostra cooperazionecon lo Stato, voi teste di cuoio siete piombati nel nostroaccordo come un elefante in un negozio di cristalleria.

Questo, deve essere il cruccio maggiore del Provenza-no chiuso in una cella del carcere di Terni e dei suoi pa-renti che si rivolgono allo Stato con una preghiera com-plice: almeno curatelo, almeno fategli avere le medicinedi cui ha bisogno.

Ci manca, in questo delicato frangente, la sapienza, laconoscenza mafiosa di Sciascia. Lui sì che avrebbe potu-to decifrare meglio di chiunque altro i “pizzini” del capodei capi di Corleone.

Un potere arcaicocondannato a uccidere

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006

I BOSS

TOTÒ RIINA

Nasce a Corleone nel 1930.

Imputato in tutti

i più importanti processi

di mafia, viene arrestato

il 15 gennaio 1993

LEOLUCA BAGARELLA

In carcere dal 1995,

nasce a Corleone nel ’42.

Killer tra i più spietati,

è il fratello della moglie

di Totò Riina

GIOVANNI BRUSCA

È l’uomo che aziona

il telecomando che dà

il via alla strage di Capaci.

Finisce in manette

il 20 maggio 1996

BERNARDO PROVENZANO

Nasce a Corleone

nel 1933: latitante dal ’63,

dopo l’arresto di Riina

diventa il capo di Cosa

nostra. Preso l’11 aprile

PALERMO

Era appena finita la messa di mezzogiorno e sulla piazza restarono soli. Anche ibambini sparirono dai vicoli, gli uomini scivolarono fuori dai saloni da barba,qualcuno fece un cenno e chiusero pure il circolo dei nobili. Il paese sembravadisabitato. Colpi violenti di scirocco facevano dondolare i fogli di cartone dove

erano montate centotrenta foto, Franco andava da una parte all’altra cercando di rimetterliin piedi, Letizia irrequieta si guardava attorno. Era stato Joe Marrazzo ad accompagnarli inuna domenica di ottobre, l’inviato del Tg 2 li aveva convinti a portare la loro mostra nel luogo

più inviolabile. Una settimana prima avevano ucciso Cesa-re Terranova, un giudice. C’erano anche le immagini dell’ul-timo delitto eccellente sulla piazza deserta di Corleone.

L’anno, il 1979, per tutti noi che lavoravamo al giornaleL’Oraera cominciato con un rumore sordo di fucilate che ar-rivavano da lontano, dai paesini dell’entroterra. Quattro uo-mini di rispetto “sparati” a Castronovo. Un vecchio patriar-ca giustiziato nelle campagne di Casteldaccia. Il misteriosoagguato sulla corriera per Belmonte, tre ragazzi sfigurati dal-la lupara. Erano i segnali di una battaglia che stava avendoinizio alle periferie dell’impero, le avvisaglie della più gran-

de guerra che si sarebbe mai combattuta in Sicilia. Nei mesi e negli anni che seguirono furo-no quasi duemila i morti nelle province dell’isola che sta ad occidente.

Molti li fecero fuori per le strade, altri finirono in un pilone di cemento o in fondo al mare.L’aristocrazia mafiosa che aveva regnato per mezzo secolo fu spazzata via dai “contadini”Totò Riina e Bernardo Provenzano. Uno sterminio di massa. Fu in quei mesi e in quegli anniche Letizia Battaglia e Franco Zecchin raccontarono Palermo con le loro fotografie.

Lei era esuberante, generosa, andava sempre dritta al cuore. Era tornata in Sicilia nel 1977dopo un’esperienza come freelance a Milano. Da Milano era sceso anche lui, garbato, curio-so, innamorato aveva seguito Letizia. La loro casa di via Meccio era anche studio, c’era la ca-

mera oscura, c’era l’archivio, c’erano le foto appena stampate e ancora bagnate di acidi chepenzolavano come panni stesi sui fili tirati da parete a parete in ogni stanza. «Vivevamo in sim-biosi totale, ci sostenevamo a vicenda per resistere all’isolamento al quale ci aveva condan-nati la città», ricorda Franco della loro avventura siciliana.

Il 1979 fu spaventoso. Il 26 gennaio uccisero il cronista giudiziario del Giornale di SiciliaMa-rio Francese. Il 9 marzo assassinarono il segretario provinciale della Democrazia CristianaMichele Reina. Il 21 luglio toccò al capo della squadra mobile Boris Giuliano. Il 25 settembrefu la volta di Terranova e del suo agente di scorta Lenin Mancuso. Era cambiato tutto a Paler-mo. Quelli non si ammazzavano più solo «fra di loro».

La sera che Michele Reina rimase inchiodato al volante della sua auto, Letizia era lì che sifaceva largo tra una folla di notabili. Avevano facce bianche come lenzuola, tremavano.Racconta Letizia: «Solo qualche mese dopo mi accorsi chi c’era dietro il volto insanguina-to del segretario della Dc». Racconta Franco: «Certi dettagli delle nostre foto li scoprivamopoi, ritirando fuori le schede dall’archivio quando il giornale ci chiedeva di stamparne una».Dietro il cadavere di Michele Reina c’era il poliziotto che avrebbero ucciso l’estate dopo.C’era Boris Giuliano. I morti e i vivi di Palermo che si inseguono in uno scatto, che si mi-schiano tra una foto e l’altra.

Quella mattina ci incontrammo davanti al bar Lux che non erano ancora le 8. Strade tutteuguali quelle che passano vicino al Lux, la città costruita dai Vassallo e dai suoi prestanome,il piano regolatore di Vito Ciancimino assessore e Salvo Lima sindaco. Franco e Letizia arri-varono in Vespa. La saracinesca del bar sfiorava il pavimento per ordine di un commissarioche già a quel tempo godeva di cattiva fama. Disteso a terra c’era lo “sceriffo” con gli occhibuoni: Boris Giuliano. La foto della sua uccisione, fra tutti i delitti eccellenti, è la sola che Fran-co e Letizia non hanno mai avuto nel loro archivio. Il commissario sbarrò il passo ai reporter.Qualcuno disse che un sicario era strisciato alle spalle di Boris e poi aveva scaricato il suo re-volver. Era Leoluca Bagarella. Con Totò Riina stava spingendo Palermo all’inferno.

Incominciò male e finì peggio anche l’anno dopo, il 1980. Nel giorno dell’Epifania Letizia eFranco erano a passeggio in via Libertà, la Palermo più elegante. «All’improvviso le auto si so-no fermate, abbiamo pensato a un incidente», dice Letizia ripescando frammenti nella suamemoria. Un attimo prima avevano ucciso davanti alla moglie e al figlio Piersanti Mattarel-la, il presidente della Regione, l’uomo politico siciliano amico di Aldo Moro. «Ho visto tirare

il reportageFoto dal fronte

Le immagini di Letizia Battaglia e Franco Zecchinsono esposte a Roma in queste settimane. Lei siciliana,lui milanese, hanno documentato per 18 anni, dal 1975al 1993, gli orrori della criminalità mafiosaUna testimonianza che l’arresto del “boss dei boss”Bernardo Provenzano trasforma in un atto d’accusa

ATTILIO BOLZONI

Quella cominciata nel 1979fu la più sanguinosa guerra mai

combattuta in Sicilia: alla finele vittime furono quasi duemila

Il lungo corteodei morti di mafia

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006R

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“A volte siamo statiin disaccordosul piano religiosoMi è capitato all’iniziodi non capire subitoalcune sue scelteaudaci, aperte Poi ho compresoche aveva ragione”

Germania. Fummo separati per tutto iltempo della prigionia».

Quanto a lungo durò questa separa-zione?

«Io fui arruolato nel 1942, catturatodagli americani il 15 aprile 1945, e tornaia casa nel luglio 1945, dopo la fine dellaguerra. Per tutto quel periodo, primadella prigionia, ci vedevamo solo nei bre-vi momenti di mio congedo a casa. Lui fufatto prigioniero all’inizio di maggio da-gli americani presso Ulm e tornò a casaprima di me, alla fine di giugno».

Cosa fu l’esperienza del nazismo edella guerra per voi due fratelli giovanie cristiani?

«Fu un trauma continuo. Noi appenaadolescenti vivemmo lo stesso arruola-mento forzato come un obbligo in totalecontraddizione con la nostra fede. Ma eraun’epoca in cui obiettare sembrava im-possibile. Eravamo solo in unità ausiliarie,ma vivemmo entrambi quel momentocome un profondo conflitto interiore. En-trambi, quando fummo fatti prigionieridagli Alleati, vivemmo la cattura ela prigionia come una liberazio-ne. E dopo, rivedendoci a guerrafinita, noi due fratelli ce lo confes-sammo. Scoprimmo quel senti-mento in comune. Sembrerà pa-radossale, eppure fu così: la pri-gionia di guerra come liberazio-ne, come fine di un servizio cheper noi non era cristiano. La finedi una condizione di prigionieri difatto del nazismo».

Durante la prigionia ritrova-ste una dimensione cristiana?

«La grande svolta, in prigionia,fu avere di nuovo il servizio reli-gioso, sacerdoti accanto a noi perla messa e la preghiera. Poi in pri-gionia sia Joseph che io incontrammo stu-denti di teologia. Con loro avviammo di-scussioni appassionate sulla fede e sulsenso dell’impegno cristiano nel nostropaese devastato».

Quando decideste, lei e suo fratello, diabbracciare gli studi teologici e poi il sa-cerdozio?

«Fin dall’infanzia. Fui lui a deciderlo perprimo, e per primo lo confessò a me:“Amato fratello, il mio posto nella vita io lovedo nella Casa del Signore”».

Come fu la prima esperienza di studioreligioso?

«Fu al collegio, un istituto religioso ap-punto. Molto studio, molta preghiera, maanche tempo per la musica, che era im-portantissima per il sentimento religioso,e per lo sport. Il coro del seminario fu unmomento che non abbiamo dimenticato.La musica, e fare musica insieme, fu pernoi fin da giovani una dimensione delmessaggio divino».

Come fu il ritorno a casa dalla prigionia?«In prigionia non avevo più avuto no-

tizie della famiglia. Fu una gioia per mecome per Joseph tornare a casa, pressoTraunstein, e ritrovare i familiari in vita.Poi, sei mesi dopo la fine della guerra,fummo tenuti come tutti i giovani a sce-gliere un posto di lavoro o uno studio. Escegliemmo il seminario, la vocazione.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 16 APRILE 2006

il Papa L’inizio dello studio fu insieme, filoso-fia, a Freising. Poi lui proseguì gli studiteologici a Monaco. Il proseguimentodegli studi ci divise una prima volta: iorestai a Freising».

Come si sviluppò il vostro rapporto?«Restammo legatissimi, da fratelli.

Stringemmo nuove amicizie tra i compa-gni di studi. Un periodo molto bello fuquando lui era professore e io dirigevo ilcoro dei Domspatzenqui a Ratisbona. An-ni di gioia, non li dimenticherò: perché erafacile vedersi regolarmente, e spesso. Nel1977 lui divenne vescovo. Al mio corotoccò cantare in suo onore. Da allora gli in-contri cominciarono a essere relegati aiperiodi di ferie».

Quando ha cominciato a pensare chesuo fratello sarebbe stato chiamato a ungrande destino, a grandi incarichi, a unamissione per la Chiesa?

«Io ho sempre pensato che ogni cri-stiano avesse la sua missione. Per alcu-ni, come me, la missione cristiana è unavita normale. Per altri, come Joseph,

succede che la missione di-venti qualcosa di speciale.Cominciai molto presto a ve-dere che aveva un grande ta-lento, con il desiderio di met-terlo al servizio di Dio».

Quali sue qualità stima dipiù?

«Una è la modestia, quel suospirito semplice e umile. È unadisposizione profonda del suoanimo. E la serietà con cui af-fronta ogni compito».

Ha mai visto suo fratello du-bitare di sé?

«Prima del Conclave. Nonera neanche che dubitasse:semplicemente non pensava

che sarebbe stato eletto. Ma è successo,ha accettato. Tirarsi indietro non sa-rebbe compatibile con il suo modo disentirsi cristiano».

Quali sono stati secondo lei i momentipiù importanti del suo primo anno dipontificato?

«Sono contrario a fissare l’attenzio-ne sui momenti singoli. Vedo l’impe-gno cristiano come un continuo nelpresente, poi la storia giudicherà forsequale momento è stato più importanteper la Chiesa. Certamente l’enciclica èstata importante. Ma la sua prepara-zione è stata appunto un processo, uncontinuo, non un momento».

Le è capitato di essere in disaccordocon suo fratello?

«A volte, sul piano religioso. Mi è capi-tato all’inizio di non capire subito alcu-ne sue scelte audaci, aperte. Poi dopo hocompreso che aveva ragione. Joseph, loso da sempre, sa guardare alla fede e almondo da un’altra prospettiva. Io forsemi lascio limitare di più dal quotidiano.Vedremo come sarà al mio prossimo vo-lo a Roma. Anche in quel nostro prossi-mo incontro, ci vedremo vicini nell’af-fetto, ma diversi l’uno dall’altro. Per meil viaggio a Roma sarà una vacanza. Luiinvece, mio fratello il Papa, non si con-cede mai una vera e piena pausa».

Joseph RatzingerAll’inizio non prendemmo parte alla Gioventù

hitleriana, poi con l’introduzione dell’iscrizioneobbligatoria nel 1941, mio fratello dovette

iscriversi. Io ero ancora troppo giovane,ma in seguito fui iscritto dai responsabili

del seminario‘‘

Georg RatzingerEntrambi, quando fummo fatti prigionieri

dagli Alleati, vivemmo la cattura e la prigioniacome una liberazione. La fine di una condizione

di prigionieri di fatto del nazismo. E dopo,rivedendoci a guerra finita, noi due fratelli

ce lo confessammo‘‘

ALBUM DI FAMIGLIANella foto grande,

Georg e Joseph nel 1951,

con la madre Maria.

Qui sotto, Benedetto XVI.

In basso, i fratelli Ratzinger

oggi. Nella pagina accanto,

in alto Georg in una

immagine recente

e, sotto, i fratelli il giorno

dell’ordinazione

sacerdotale

Fabbrica di San Pietro, nel programma dei lavori di restauro della residenza oc-cupata per circa 27 anni da Giovanni Paolo II, la realizzazione di uno spazio do-ve ospitare il fratello. Una richiesta forse dettata anche dalla preoccupazioneche il Papa ha per i problemi di salute accusati fin dall’estate scorsa da monsi-gnor Georg e per i quali ad agosto questi fu ricoverato al Policlinico Gemelli diRoma. Quando fu dimesso, per qualche tempo, su decisione del Pontefice, l’an-ziano monsignore fu ospitato accanto alla camera da letto papale, nel salottooccupato durante la malattia di Giovanni Paolo II dal segretario — ora cardi-nale — Stanislao Dziwisz.

Si trattò di una sistemazione momentanea, in attesa dalla conclusione dei la-vori di restauro delle stanze papali al terzo piano e degli appartamenti ricavatinel sottotetto, lungo i cosiddetti “soffittoni” realizzati nel 1939, quando gli an-tichi e fatiscenti solai in legno di epoca cinquecentesca furono sostituiti dastrutture portanti in ferro. Da quei lavori di restauro furono ricavati dodici pic-coli appartamenti sormontati da un tetto con giardino pensile dotato di pian-te e fiori. L’appartamento di monsignor Georg è situato proprio sopra a quellopapale, accanto alle altre stanze occupate dai segretari e a quelle giù in fondo,in direzione di via di Porta Angelica, destinate alle consacrate laiche MemoresDomini, le quattro donne che accudiscono la residenza di papa Ratzinger. Il re-stauro — concluso verso la fine dello scorso anno dopo circa quattro mesi di la-vori — è stato eseguito da un centinaio di persone tra progettisti, tecnici, arre-datori, falegnami, elettricisti, imbianchini. Pare sia stato lo stesso papa Ratzin-ger a dare le necessarie indicazioni tecniche, specialmente sulla scelta dei co-lori chiari per le pareti. La cucina, ultramoderna e munita di avanzatissimi ac-cessori, è stata invece offerta da una nota casa produttrice tedesca.

JOSEPH

È nato il 16 aprile 1927

a Marktl am Inn, in Bassa

Baviera, in Germania.

Il 19 aprile 2005 è stato

eletto Papa con il nome

di Benedetto XVI.

È il 264esimo successore

di Pietro. Compie i primi

studi in seminario

sulle orme del fratello

maggiore e in guerra

conosce una sorte

analoga, fino

alla prigionia. Dopo

l’ordinazione sacerdotale

il 29 giugno del 1951

prosegue gli studi

di teologia e si dedica

per molti anni

all’insegnamento.

Nel 1977 Paolo VI

lo nomina arcivescovo

di Monaco. Sarà Giovanni

Paolo II a chiamarlo

a Roma, facendolo

nel 1981 prefetto

della Congregazione

per la dottrina della fede

e conferendogli poi

la porpora cardinalizia

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il fattoUn anno in Vaticano

“La sua elezionea Sommo ponteficenon ha indottonessun cambiamentotra noi dueIl dialogo e l’affettosono gli stessiUguale è il caloredegli incontri”

BERLINO

«Nel nostro affettonon è cambiatonulla, rispetto aquel 19 aprile. Jo-

seph e io siamo rimasti i cari fratelli inse-parabili di sempre, gli ultimi della fami-glia rimasti in vita. Ma questa è solo unaparte della realtà. La distanza tra Rati-sbona e Monaco è una cosa, quella daRoma un’altra. Proprio nell’autunnodella nostra vita, la volontà di Dio ci al-lontana». È ancora freddo e grigio a Rati-sbona, mentre ascolto padre Georg Rat-zinger, ex maestro del celebre coro deiDomspatzen — i passerotti del Duomo,le voci bianche più famose di Baviera —e fratello di Benedetto XVI.

Con padre Georg ci eravamo conosciu-ti proprio un anno fa, pochi giorni dopol’elezione di Joseph a successore di KarolWojtyla. Ero volato in tutta fretta in Bavie-ra, alla ricerca della casa natale edella giovinezza di papa Ratzin-ger e della sua famiglia. Ritrova-re padre Georg adesso è ancoraun’emozione in diretta. Alloralui si diceva preoccupato per lasalute del fratello, ricordava co-me aveva pregato che Dio gli te-nesse lontano il calice del papa-to. Ora è troppo tardi, il fratellominore è anche il pontefice cuiogni cristiano, anche padreGeorg, deve obbedienza.

Padre Georg, un anno dopol’elezione di suo fratello Josephal soglio di Pietro, com’è cam-biata la sua vita?

«Credo che non si possa parla-re di una particolare nuova via imbocca-ta dalle nostre vite. Il tempo va avanti, lavita continua a scorrere. Certo, lui e io ab-biamo due compiti ben diversi. Tutticompiti datici dal Signore. Penso ancoraa quando lui venne per la prima volta inGermania da pontefice, alle Giornatemondiali della gioventù di Colonia. Giàvederlo in tv mi commosse. Ma in un cer-to modo è stato anche così fin dall’inizioper noi, da quando avemmo la vocazio-ne e scegliemmo insieme, giovanissimi,di abbracciare il sacerdozio».

Ma come è cambiato il vostro rappor-to personale, affettivo, tra fratelli?

«In un certo senso direi che il nostro rap-porto affettivo tra fratelli non è cambiatoproprio per nulla. Dal punto di vista este-riore, certo, è stata una svolta. Questa fased’autunno della sua vita ora si svolge a Ro-ma, non più a Ratisbona o a Monaco. Mala sua elezione a Sommo pontefice non haindotto nessun cambiamento tra noi due.Il dialogo e l’affetto sono rimasti gli stessi,i toni che usiamo tra noi due sono quelli diprima. Non si è prodotto uno spartiacque,siamo rimasti fratelli. Uguale è rimasto ilcalore nel clima degli incontri personali.Ci sentiamo ancora oggi uniti dalla stessafede, dalle stesse passioni per la musica ela cultura, dai ricordi degli amici comuni.Ci piace constatare questa vicinanza in-

tatta nei nostri radi incontri a Roma, io emio fratello il Santo Padre».

Ma che cosa prova, appunto, a essere ilfratello del Papa?

«Io non vorrei fornire impressioni sug-gestive ma sbagliate. Noi siamo realisti:siamo rimasti fratelli in tutti i sensi, davve-ro. Curiamo il nostro rapporto affettivo,manteniamo il contatto umano. Ci telefo-niamo regolarmente e di frequente, ci ve-diamo ogni volta che è possibile. In questosenso tra noi non è cambiato nulla».

Vi incontrate spesso come prima omeno di frequente?

«Piuttosto meno spesso di prima. Cer-to, già da prima eravamo abituati alla se-parazione. Lui già prima di essere elettoal Soglio di Pietro trascorreva più tempoa Roma, io a Ratisbona. Però ricordo il no-stro colloquio di un anno fa. Rammenta?A caldo, subito dopo la fumata bianca inPiazza San Pietro, le dissi che nell’autun-no della nostra vita la sua nuova missio-ne ci avrebbe allontanati, ci avrebbe im-posto di vivere più soli. Adesso in parte

devo correggermi. Non è stato co-sì drastico. Continuiamo a sentir-ci, a consultarci, a sentire vivo l’a-more tra fratelli».

Quando lo vedrà la prossimavolta?

«Per la Pentecoste. L’appunta-mento non è ancora fissato conuna data precisa. Andrò a trovarloa Roma. Viaggerò privatamente.Ormai sono vecchio, non ricopropiù incarichi attivi per la Chiesa».

Lei ha già incontrato suo fra-tello a Roma. Come lo vede nelruolo di pontefice? Lo ha cam-biato o influenzato?

«Io non ho notato veri cambia-menti in lui. È un impegno estre-

mo, mette a grande prova le sue forze. Io loconosco bene, e questo aspetto del nuovocapitolo della sua vita mi preoccupò all’i-nizio, come dissi allora, e mi preoccupaancora oggi. Il suo nuovo, alto compito,questa grande responsabilità, richiedonoda lui l’impegno senza risparmio di ognienergia. Un pontefice deve sempre dare ilmeglio di se stesso, non può incorrere inleggerezze e rischio di errori».

Ecco: un anno fa lei si disse preoccupa-to per la sua salute. Dice, se capisco bene,di essere così preoccupato anche oggi?

«In un certo modo sì. Certo, so che è inbuone mani, affidato alla sorveglianza diottimi medici. Ma l’intensità dell’impe-gno che gli è richiesto richiede anche gran-di energie fisiche. Più di prima».

Quali sono i ricordi dei momenti piùimportanti nella vita della famiglia?

«I ricordi sono tanti, difficile dare prefe-renze a un momento o all’altro della me-moria. Ma rammento soprattutto la gioiadi quando ci rincontrammo alla fine dellaguerra, tornando entrambi a casa appenaliberati dalla prigionia. E poi l’inizio dellanuova vita: cominciammo insieme a stu-diare teologia, fummo ordinati sacerdotinello stesso periodo e cominciammo in-sieme il servizio spirituale».

Avete vissuto la prigionia separati?«Sì. Io fui fatto prigioniero in Italia, lui in

ANDREA TARQUINI

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 APRILE 2006

Mio fratello

CITTÀ DEL VATICANO

Quando vorrà, monsignor Georg Ratzinger potrà trasferirsi definitiva-

mente in Vaticano, dove ha un appartamento tutto suo. Glielo ha fatto prepa-rare il fratello Joseph, papa Benedetto XVI, in uno degli ambienti più belli edesclusivi della cittadella vaticana, nel sottotetto del Palazzo apostolico, la sto-rica sede ufficiale dei pontefici che domina piazza San Pietro, sul lato destrodel colonnato berniniano per chi guarda la basilica. Uno dei complessi archi-tettonici più conosciuti, più fotografati e più teleripresi al mondo, dal quale ilPapa ogni domenica recita l’Angelus e benedice la folla.

L’appartamento papale occupa quasi tutto il terzo piano del palazzo, con lacappella privata posta al centro dello spazio abitativo, lo studio privato e la ca-mera da letto in corrispondenza rispettivamente della penultima e dell’ultimafinestra a destra della facciata su piazza San Pietro. Una seconda finestra del-la camera da letto papale, posta ad angolo del palazzo, si affaccia invece lungola facciata che dà su via di Porta Angelica. È il lato dove sono ubicati gli altri am-bienti dell’appartamento pontificio: i servizi, il salotto, la sala da pranzo e la cu-cina. Tutto il complesso è posto a poche centinaia di metri da piazza della CittàLeonina, sede del palazzo dove per quasi 25 anni il cardinale Ratzinger ha abi-tato fino alla elezione papale del 19 aprile scorso, ospitandovi spesso e volen-tieri il fratello maggiore Georg e, saltuariamente, anche altri familiari.

Appena eletto, il successore di papa Wojtyla ha chiesto agli architetti della

Per monsignor Georgun miniappartamentosopra quello del ponteficeORAZIO LA ROCCA

Il maggiore dei due Ratzinger,anch’egli sacerdote, abitaa Ratisbona ma spesso viene a RomaCon Benedetto XVI, che oggi compie79 anni,ha condiviso le grandi sceltedi vita, a partire dalla vocazioneEcco il suo racconto

GEORG

Nato il 15 gennaio 1924,

è il maggiore dei due

fratelli. Mostrò ben presto

talento per la musica;

a 11 anni suonava l’organo

in chiesa. Entrò nel 1935

al seminario minore

di Traunstein, dove

ricevette anche

una compiuta educazione

musicale. La musica

resterà un’occupazione

dominante della sua vita:

dal 1964 al 1994 ha diretto

il celebre coro

dei Domspatzen

della cattedrale

di Ratisbona, alla cui guida

ha registrato opere

di sommi autori, da Bach

a Schütz. Alla fine

della guerra si avviò

al sacerdozio e dopo

gli studi di teologia prese

gli ordini insieme

al fratello nel 1951. Oggi

ottantaduenne, dopo aver

lasciato ogni incarico

vive a Ratisbona

con il rango di canonicoRep

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