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Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

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LE SOCIETÀ DI AUTOPRODUZIONE IN MANO PUBBLICA: CONTROLLO ANALOGO, DESTINAZIONE PREVALENTE DELL ATTIVITÀ ED AUTONOMIA STATUTARIA di Mario Libertini (Professore ordinario di Diritto industriale – Università di Roma “La Sapienza”) 21 aprile 2010 Indice – Sommario: 1. I “requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta in house” da parte di enti pubblici. – 2. L’iniziativa economica pubblica nel diritto europeo: l’art. 106 T.F.U.E. – 3. L’applicazione del principio di tutela della concorrenza alla materia degli appalti pubblici. – 4. Il problema dell’elusione dell’obbligo di procedure competitive: la nascita delle figure dell’ “organismo di diritto pubblico” e dell’affidamento diretto a società di in house providing. – 5. L’autoproduzione di beni o servizi da parte di enti pubblici: scelta autonoma o soluzione eccezionale di tipo sussidiario? - 6. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di requisiti per l’affidamento diretto in house: “controllo analogo” e “destinazione prevalente”, dalla sentenza Teckal (1999) alla sentenza Acoset (2009). – 7. L’evoluzione del concetto di “controllo analogo”: quattro diverse accezioni nel diritto vivente. – 8. Il “controllo analogo” come potere dell’azionista di determinare l’indirizzo strategico della gestione. – 9. Gli strumenti giuridici: i diritti amministrativi del socio nella s.r.l., i patti parasociali nella s.p.a. Critica alla tesi dell’ammissibilità di organi atipici destinati ad attuare il “controllo analogo”. – 10. La “destinazione prevalente” dell’attività produttiva e le clausole statutarie che la garantiscono. – 11. La “destinazione prevalente” e la capacità di diritto privato delle società di autoproduzione. federalismi.it n. 8/2010
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LE SOCIETÀ DI AUTOPRODUZIONE IN MANO PUBBLICA: CONTROLLO ANALOGO, DESTINAZIONE PREVALENTE DELL’ATTIVITÀ ED AUTONOMIA STATUTARIA

di

Mario Libertini

(Professore ordinario di Diritto industriale – Università di Roma “La Sapienza”)

21 aprile 2010

Indice – Sommario: 1. I “requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione

cosiddetta in house” da parte di enti pubblici. – 2. L’iniziativa economica pubblica nel diritto

europeo: l’art. 106 T.F.U.E. – 3. L’applicazione del principio di tutela della concorrenza alla

materia degli appalti pubblici. – 4. Il problema dell’elusione dell’obbligo di procedure

competitive: la nascita delle figure dell’ “organismo di diritto pubblico” e dell’affidamento

diretto a società di in house providing. – 5. L’autoproduzione di beni o servizi da parte di enti

pubblici: scelta autonoma o soluzione eccezionale di tipo sussidiario? - 6. L’evoluzione

giurisprudenziale in materia di requisiti per l’affidamento diretto in house: “controllo

analogo” e “destinazione prevalente”, dalla sentenza Teckal (1999) alla sentenza Acoset

(2009). – 7. L’evoluzione del concetto di “controllo analogo”: quattro diverse accezioni nel

diritto vivente. – 8. Il “controllo analogo” come potere dell’azionista di determinare

l’indirizzo strategico della gestione. – 9. Gli strumenti giuridici: i diritti amministrativi del

socio nella s.r.l., i patti parasociali nella s.p.a. Critica alla tesi dell’ammissibilità di organi

atipici destinati ad attuare il “controllo analogo”. – 10. La “destinazione prevalente”

dell’attività produttiva e le clausole statutarie che la garantiscono. – 11. La “destinazione

prevalente” e la capacità di diritto privato delle società di autoproduzione.

federalismi.it n. 8/2010

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1. Queste note sono rivolte all’esame delle regole, costruite dalla giurisprudenza europea

con riferimento alle imprese di autoproduzione (c.d. in house providing) controllate da

uno Stato o da altro ente pubblico. Si tratta, in altri termini, di un tentativo di analisi de

“i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta ‘in

house’”, per usare l’espressione dell’art. 23-bis, comma 3, d.l. 112/08, conv. con l.

133/08 e poi modificato con d.l. 135/09, conv. con l. 166/09. La disposizione stessa

precisa poi che devono essere “comunque rispettati i principi della disciplina

comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività

svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.

2. Per inquadrare il problema, è opportuno premettere che, al momento della redazione del

Trattato di Roma, la tradizione culturale in materia di imprese pubbliche vedeva due posizioni

di principio fra loro contrastanti:

a) una, più antica, era quella liberale classica, fondata sulla netta separazione (non-

concorrenza) fra pubblico e privato; su tali basi si poteva ammettere che i soggetti

pubblici svolgessero attività produttive o in funzione di autoproduzione di beni o

servizi (lavori “in amministrazione diretta”) ovvero in quanto investiti di compiti di

pubblico servizio (nel qual caso avrebbero potuto operare in proprio, anche mediante

aziende autonome, oppure avvalersi di concessionari privati); in ogni caso, non si

concepiva l’idea che l’ente pubblico producesse – direttamente o indirettamente – beni

o servizi per i mercati, in concorrenza con i privati; l’impresa pubblica poteva

giustificarsi solo con compiti di supplenza (oggi si direbbe: di fornitura del servizio

universale), in caso di insufficienza di quella privata1;

b) la seconda, storicamente più recente (e prevalente alla metà del XX secolo) teorizzava,

con varie sfumature di differenza, la superiorità del modello di “economia mista” sul

modello liberale classico, e perciò giungeva ad affermare la parità giuridica fra

iniziativa economica pubblica e iniziativa economica privata (tale impostazione –

com’è noto – si trova riflessa anche nel testo dell’art. 41, comma 3, Cost.); in questa

prospettiva i soggetti pubblici apparivano legittimati – politicamente e giuridicamente

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Per ampie citazioni di giurisprudenza francese, fino alla metà del sec. XX, v. D.PIAZZONI, In house providing e diritto della concorrenza: la fattispecie Teckal, tesi di dottorato, Univ. Bocconi – Milano, anno acc. 2008-9, 14 ss.Più in generale, sulla storia dell’impresa pubblica in Europa, v. P.A.TONINELLI, Storia d’impresa, Il Mulino, Bologna, 2006, 199 ss.

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– a costituire imprese di ogni genere e ad entrare nei mercati, con il programma di

realizzare fini socialmente positivi, cioè di attuare programmi pubblici di sviluppo, ma

anche – così spesso si diceva, allora – con funzioni riequilibratrici dei mercati, cioè di

bilanciamento del potere di monopoli privati; in altri termini, con funzioni

proconcorrenziali2.

Gli autori dei Trattati europei, a parte queste divergenze ideologiche di fondo, si trovavano di

fronte a mercati in cui operavano moltissime imprese pubbliche, e non potevano che muovere

da questa constatazione.

A distanza di mezzo secolo, le disposizioni di principio dettate in materia dal diritto europeo

appaiono però lungimiranti: il legislatore europeo ha cercato un punto di mediazione fra le

posizioni a e b, lasciando così aperta la possibilità di future, più avanzate mediazioni

politiche.

Il vecchio art. 90 del Trattato CEE, divenuto ora – senza modifiche testuali – art. 106

T.F.U.E., sancisce infatti due principi che possono ritenersi tuttora validi, anche

politicamente3:

a) il principio di parità concorrenziale fra imprese pubbliche e imprese private;

b) il principio per cui gli ordinamenti nazionali possono legittimamente attribuire a certe

imprese – ma indipendentemente dalla loro proprietà, pubblica o privata – diritti

speciali od esclusivi, purché il trattamento preferenziale delle imprese titolari di tali

diritti, rispetto alle altre imprese, sia strettamente necessario al fine del conseguimento

di una “specifica missione” di produzione di servizi di interesse economico generale,

affidata a tali imprese.

Com’è noto, per molti anni queste disposizioni di principio sono state interpretate in modo

tale da legittimare la più ampia autonomia degli Stati membri, in materia di costituzione e

gestione di imprese pubbliche (ciò anche per il combinato disposto con l’art. 345 T.F.U.E. –

ex art. 295 T.C.E. – per cui “I trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà

esistente negli Stati membri”).

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Cfr. F.GALGANO, Le istituzioni dell’economia capitalistica2, Zanichelli, Bologna, 1980. Una valida sintesi della problematica, come si presentava all’inizio dell’ondata di privatizzazioni e liberalizzazioni degli anni Novanta, è in M.T.CIRENEI, Le società per azioni a partecipazione pubblica, in Trattato delle società per azioni, a cura di G.E.Colombo e G.B.Portale, VIII, Utet, Torino, 1992, 14 ss. (ove, pur negandosi una piena equiparazione fra iniziativa economica pubblica e iniziativa economica privata, si ammette che la prima possa esplicarsi con la massima larghezza).

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Meno giustificabile (se non su un piano storico) appare invece la salvaguardia dei “monopoli fiscali” nazionali, non riconducibile a coerenza sistematica nell’ambito del diritto europeo della concorrenza.

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Tuttavia – com’è altrettanto noto – l’ondata neoliberistica degli anni ’80 e ’90 del secolo

scorso ha portato ad una profonda revisione dell’interpretazione dell’articolo 90 (poi divenuto

86, ed ora 106): le cause di giustificazione dell’attribuzione di diritti speciali od esclusivi sono

state progressivamente intese in modo più restrittivo e ciò ha portato alle note direttive di

liberalizzazione dei settori che, in passato, erano normalmente soggetti a regimi di monopolio

legale.

3. Accanto a questo imponente fenomeno, la spinta neoliberistica ha indotto le autorità

europee a disciplinare – a fini di tutela della concorrenza - anche un profilo di rapporti

fra azione pubblica e funzionamento dei mercati, che era rimasto estraneo all’impianto

normativo dell’art. 90, e cioè quello dell’impatto concorrenziale dell’azione degli enti

pubblici in qualità di committenti o di concedenti. La Comunità applica dunque il

principio di concorrenza anche al lato della domanda pubblica di beni e servizi, oltre

che a quello dell’offerta.

L’obiettivo primario diviene così quello di realizzare una concorrenza effettiva anche nel

campo degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi. Tale obiettivo è ben presto esteso

anche al campo delle concessioni. Viene perciò imposto in termini generali – con modalità più

rigorose di quanto fosse tradizionalmente previsto nei diritti nazionali – il dovere, per gli enti

pubblici, di far precedere la scelta dei contraenti da procedure competitive.

Questa scelta politico-legislativa nasce chiaramente dall’intento di “simulare il mercato”, in

un campo in cui erano state storicamente prevalenti (nel bene e nel male) scelte allocative di

natura politica.

A mio avviso, questa “simulazione del mercato”, per come si realizza nella disciplina degli

appalti pubblici, è assai imperfetta4: spesso, nei ragionamenti che si fanno sul tema “appalti

pubblici e concorrenza” si confonde “concorrenza” con “massima partecipazione alle gare”,

assumendo inconsapevolmente l’idea che le amministrazioni pubbliche si rivolgano sempre a

mercati in concorrenza perfetta, e dimenticando che la concorrenza reale è fatta, invece, di

offerte differenziate, di innovazioni, di informazioni aziendali riservate, e che i mercati

efficienti – almeno nel segmento c.d. B2B - si muovono per il tramite di negoziazioni

altrettanto riservate, e non certo in condizioni di piena trasparenza.

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Cfr. M.LIBERTINI, La tutela della concorrenza e i giudici amministrativi nella recente giurisprudenza, in Giorn.dir.amm., 2007, 637-8.

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Talora, poi, si tende a dare una patente di efficienza economica al meccanismo delle pubbliche

gare richiamando la distinzione fra “concorrenza nel mercato” e “concorrenza per il mercato”,

e supponendo che, con riferimento alla domanda pubblica, ci si trovi in presenza del secondo

fenomeno5. Ma, in realtà, la teoria della “competizione per il mercato” – come sostitutivo

della ordinaria “competizione nel mercato”, nasce, nella scienza economica, con riferimento

alle situazioni di monopolio naturale: si vuole, infatti, che in tali situazioni si attui, con mezzi

artificiali (quale può essere l’aggiudicazione temporanea, mediante gara, della posizione di

monopolio), una situazione di contendibilità della situazione stessa di monopolio.

Nella normalità dei casi, però, negli appalti pubblici non è in gioco alcuna situazione di

monopolio naturale: l’ente pubblico opera piuttosto in qualità di utilizzatore, e il suo processo

decisionale viene formalizzato e ritualizzato non tanto per realizzare una simulazione del

mercato, quanto piuttosto per la sfiducia che si ha verso la capacità di efficiente e imparziale

scelta da parte degli agenti pubblici.

Il meccanismo delle pubbliche gare non simula i mercati effettivi, bensì – come si è già sopra

notato – mercati ideali di concorrenza perfetta (piena trasparenza, assoluta libertà di entrata,

competizione incentrata sui prezzi). Nei mercati effettivi, in cui il gioco concorrenziale si

incentra invece, soprattutto, sulla differenziazione dell’offerta e sull’innovazione, i

meccanismi di mercato richiederebbero proprio una negoziazione libera e riservata, cioè tutto

il contrario di una gara pubblica standard. Paradossalmente, i sistemi di selezione del

contraente che meglio simulano il funzionamento dei mercati reali sono proprio quelli che la

disciplina dei contratti pubblici guarda con maggior diffidenza e circonda di cautele (appalto

concorso, dialogo competitivo).

Vi sono dunque alcune incoerenze di fondo nelle affermazioni comuni in materia di rapporti

fra appalti pubblici e concorrenza: si sovrappone di norma, infatti, la “massima partecipazione

alla gara” con il “massimo di concorrenza” e l’intera disciplina dei contratti pubblici, in

quanto intesa a garantire trasparenza e parità di accesso alle gare, è letta come una disciplina

di “tutela della concorrenza”6.

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Cfr., da ultimo, A.MASSERA, La disciplina dei contratti pubblici: la relativa continuità di una materia instabile, in Giorn.dir.amm., 2009, 1259.

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E’ questo il ragionamento che ha consentito alla Corte costituzionale di affermare la competenza esclusiva dello Stato in materia di disciplina dei contratti pubblici (cfr., da ultimo, Corte cost., 22 maggio 2009, n. 160). Si è trattato, probabilmente, di una felix culpa, perché l’uniformità nazionale di tale disciplina è certo auspicabile, ma la nozione di “tutela della concorrenza”, su cui si fonda la giurisprudenza costituzionale, appare invero troppo allargata.

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Se, per contro, la disciplina dei contratti pubblici viene analizzata alla stregua di criteri di

efficienza dinamica dei mercati, è facile segnalare che la stessa presenta diversi punti deboli:

a) non costituisce un deterrente decisivo contro la collusione tra soggetti pubblici e

soggetti privati (è relativamente facile, infatti, “manipolare” le gare, a cominciare dalla

determinazione dei requisiti di partecipazione);

b) costituisce una condizione facilitante per la collusione fra privati partecipanti

(soprattutto nei sistemi di gare ripetute, nei quali si facilitano accordi di ripartizione

dei mercati);

c) costituisce un fattore di irrigidimento dei mercati (l’oggetto dell’appalto è, in genere,

rigidamente predeterminato, al fine di limitare la discrezionalità dell’agente

aggiudicatore; di conseguenza, si determina un disincentivo all’innovazione).

4. Mettendo ora da parte questi problemi di politica legislativa, si deve sottolineare che

il diritto europeo, una volta stabilito il principio generale dell’obbligo di gara per le

commesse pubbliche, si è posto il problema di combattere l’elusione del principio

stesso.

Da qui, in primo luogo, la costruzione della nozione di “organismo di diritto pubblico”, intesa

ad evitare che privatizzazioni puramente formali consentissero ancora, agli enti pubblici, di

assegnare commesse senza gara, avvalendosi di società private da essi pienamente

controllate7.

Contemporaneamente, però, si è posto nel diritto comunitario il problema della compatibilità

con i principi di concorrenza del fenomeno dell’autoproduzione di beni e servizi da parte di

pubbliche amministrazioni. La risposta è stata, in linea di principio, positiva: l’autonomia

organizzativa delle pubbliche amministrazioni non è stata incisa dal diritto europeo; d’altra

parte, il fenomeno dell’autoproduzione, in sé considerato, può avere qualche valenza positiva,

sia sul piano della valorizzazione del patrimonio tecnico pubblico, sia anche sul piano della

partecipazione dei cittadini.

Ecco dunque che il fenomeno della “privatizzazione formale”, cioè della società formalmente

privata e lucrativa, ma interamente controllata da un soggetto pubblico e destinata a suoi fini,

emerso attraverso la figura dello “organismo di diritto pubblico” (con effetti, in quel caso,

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Cfr. M.LIBERTINI, Organismo di diritto pubblico, rischio d’impresa e concorrenza: una relazione ancora incerta, in Contratto e impresa, 2008, 1201 ss.

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limitativi dell’autonomia degli enti pubblici), riemerge sotto altro profilo, stavolta come

strumento idoneo a realizzare, in forme giuridiche diverse dalle tradizionali produzioni “in

economia” (e, in particolare, “in amministrazione diretta”), il fenomeno dell’autoproduzione

di beni e servizi.

Su questa base la giurisprudenza comunitaria costruisce la figura della società in mano

pubblica destinata ad attività di in house providing, riconoscendo la legittimità

dell’affidamento diretto di compiti di autoproduzione a società aventi questa specifica

funzione.

Com’è noto, la fattispecie viene costruita sulla base di due elementi:

(i) l’esistenza, da parte dell’ente pubblico socio, di un “controllo [sulla società] analogo a

quello che esso esercita sui propri uffici”;

(ii) la destinazione esclusiva o prevalente dell’attività della società in house a soddisfare

esigenze dell’ente pubblico socio.

Questi elementi sono stati definiti e precisati in una serie di sentenze, che sarà opportuno

riesaminare con qualche attenzione (infra, § 6).

5. Prima di passare all’esame delle decisioni giurisprudenziali comunitarie, mi sembra

opportuno aprire una seconda parentesi (oltre quella a cui si è dedicato il § 3), per

segnalare che sul punto cruciale, relativo alla collocazione del fenomeno

dell’autoproduzione pubblica nel quadro generale dei principi della disciplina delle

attività economiche, le indicazioni del diritto europeo appaiono un po’ sfocate. Non è

infatti chiaro se la scelta di un ente pubblico a favore dell’autoproduzione debba

ritenersi legittima in linea di principio, come espressione di autonomia dell’ente

stesso8 - alla stessa stregua del “diritto di autoproduzione” riconosciuto dall’art. 9, l.

287/1990, ai privati9 - o se sia da ammettere solo come scelta residuale, in caso di

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Così, in giurisprudenza, T.A.R. Sardegna – Cagliari, sez. I, 12 agosto 2008, n. 1721; T.A.R. Sardegna – Cagliari, sez. I, 21 dicembre 2007, n. 2407; T.A.R. Lombardia – Brescia, sez. I, 6 marzo 2008, n. 213. Altre sentenze, meno recenti, usano l’espressione “libertà di autoproduzione” degli enti pubblici (Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 1998, n, 477; T.A.R. Lombardia – Brescia, sez. I, 5 dicembre 2005, n. 1250).

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Per la verità, l’espressione “diritto di autoproduzione” non è contenuta nell’art. 9 della legge antitrust, che è scritto “in negativo” (il testo dice che l’istituzione di un monopolio legale non comporta il divieto di autoproduzione). Anche se la dottrina ha configurato la relativa situazione in termini di diritto soggettivo (così anche App. Genova, 5 aprile 1995, in Foro it., 1997, I, 3726; App. Torino, 17 febbraio 1995, in Giur.it., 1996, I/2, 288), la giurisprudenza amministrativa ha preferito parlare di interesse legittimo pretensivo (cfr. Cons. Stato, sez. II, 3 luglio 1996, n. 1177). Cass.civ. ss.uu., 7 maggio 2002, n. 6488, ha riconosciuto l’esistenza di un diritto soggettivo, precisando però che tale

www.federalismi.it7

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comprovata impossibilità o inadeguatezza di una scelta di outsourcing a favore di

imprese private.

Le indicazioni della giurisprudenza comunitaria sembrerebbero nel primo senso. Infatti, la

giurisprudenza, nel costruire (v. i §§ seguenti) i requisiti del “controllo analogo” e della

“destinazione prevalente dell’attività”, con riferimento agli affidamenti in house, non

aggiunge anche – come requisito di legittimità – quello della “indispensabilità” del ricorso a

tale affidamento, rispetto a soluzioni alternative (requisito ben noto, sotto altri profili, nel

diritto europeo della concorrenza: v. art. 101, § 3, T.F.U.E.). Sembrerebbe, dunque, che la

scelta dell’autoproduzione da parte dell’ente pubblico sia espressione dell’autonomia

organizzativa dell’ente e possa ritenersi legittima tutte le volte in cui via sia una ragionevole

motivazione, che potrebbe riguardare tanto la valorizzazione di capitale umano e know-how

già presenti nell’organizzazione stessa, quanto la volontà dell’ente di guidare in modo diretto

e completo la gestione del ramo di attività interessata. In altri termini, la scelta

dell’autoproduzione pubblica sembrerebbe godere di una presunzione di legittimità, che

potrebbe venir meno solo in caso di palese (o comunque prevedibile) inefficienza della scelta

medesima, sotto il profilo dei costi o sotto quello della qualità del servizio (o ambedue).

In sostanza, le indicazioni provenienti dal diritto europeo sembrano nel senso che l’ente

pubblico possa optare per l’autoproduzione di beni e servizi, a condizione che l’impresa,

incaricata della produzione del servizio, operi esclusivamente come organismo di

autoproduzione e non svolga poi attività in concorrenza con le imprese private, nei mercati di

riferimento. Il diritto europeo non esclude, peraltro, che l’ente pubblico possa partecipare a

società anche con finalità simili a quelle di un “investitore privato”10; ma, in tal caso, la

diritto può “degradare” a interesse legittimo, tutelato dinanzi al giudice amministrativo, in presenza di atti di natura pubblicistica che stabiliscano riserve e divieti particolari. V. anche Cass.civ., sez. III, 24 gennaio 2000, n. 746, con nota di M.GRIGOLI (sul diritto al risarcimento del danno per lesione del diritto di autoproduzione).

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Il punto è stato fissato, com’è noto, nell’interpretazione giurisprudenziale della disciplina comunitaria degli aiuti pubblici alle imprese. Cfr. Trib. I gr. CE, 6 marzo 2003, T-228/99, Westdeutsche Landesbank Girozentrale: “In base al criterio dell’investitore privato, per valutare se un intervento presenti il carattere di aiuto di Stato, va stabilito se, in circostanze simili, un operatore privato che agisce in condizioni normali di un’economia di mercato avrebbe potuto essere indotto a procedere all’apporto di capitali in questione. Occorre dunque stabilire se l’investitore privato avrebbe realizzato l’operazione controversa alle medesime condizioni. In caso di risposta negativa, bisogna poi esaminare a quali condizioni egli avrebbe potuto realizzarla. Infine, il paragone tra il comportamento dell’investitore pubblico e privato deve essere fatto in considerazione dell’atteggiamento che avrebbe tenuto, all’atto della transazione di cui trattasi, un investitore privato, alla luce delle informazioni disponibili e degli sviluppi prevedibili in quel momento”. Analogamente Trib. I gr. CE, 12 dicembre 2000, T-296/97, Alitalia; Corte Giust. CE, 3 ottobre 1991, C-261/89, Repubblica Italiana c. Commissione. Da ultimo v. Trib. I gr. CE, 9 luglio 2008, T-301/01, Alitalia, che sottolinea l’ampia discrezionalità della

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società a partecipazione pubblica non deve godere di alcun privilegio rispetto alle imprese

private, nei mercati in cui opera, e non potrà pertanto fruire di affidamenti diretti: l’ente

pubblico investirà, come farebbe un privato, con una ragionevole aspettativa di

remunerazione del capitale investito mediante i meccanismi di mercato.

La finalità che sta alla base delle società di autoproduzione pubblica è diversa: non è quella

dell’investimento di capitali, bensì quella della realizzazione di un certo, autonomo

programma di produzione del servizio con caratteristiche idonee a soddisfare al meglio

l’interesse collettivo curato dall’ente. In questa prospettiva, si legittima la sospensione del

ricorso al mercato e l’affidamento diretto alla società pubblica di autoproduzione.

Le indicazioni del diritto europeo sembrano fermarsi qui. Spetterà poi ai diritti nazionali far sì

che il meccanismo dell’autoproduzione pubblico non si trasformi in uno strumento di sprechi

e di inefficienze. La logica della ragionevolezza dell’investimento potrà operare, allora, come

limite: l’autoproduzione non può essere una scelta soltanto distruttiva di ricchezza pubblica,

sicché la scelta relativa diviene illegittima se il servizio fornito è inefficiente o se la gestione è

in perdita, senza compensazioni in termini di migliore qualità del servizio.

In questa prospettiva, la logica dell’autoproduzione, se sorretta dal rispetto del criterio di

economicità, si può presentare anche come scelta efficiente, così come può accadere nel

settore privato; anche se – si deve aggiungere – tale scelta sarà sempre accompagnata da

ragioni di carattere sociale o socioculturale.

Rispetto alle accennate indicazioni, il diritto nazionale italiano sembra però avere fatto un

passo avanti, in una direzione più “liberistica”. Infatti, almeno in materia di servizi pubblici

locali, il comma 6 dell’art. 23-bis, più volte citato, dispone che l’affidamento diretto a società

di autoproduzione possa legittimamente avvenire solo in “situazioni eccezionali che, a causa

di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto

territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”; il comma 4

dello stesso articolo dispone poi che, sulla legittimità del ricorso al providing in house, da

parte di un ente locale, è richiesto un parere obbligatorio dell’Autorità Garante della

Concorrenza e del Mercato.

Commissione nell’applicare il criterio dell’investitore privato, in un caso in cui si discuteva soprattutto della legittimità di una serie di prescrizioni imposte dalla Commissione per autorizzare la concessione dell’aiuto.In sostanza, il criterio dello “investitore privato in economia di mercato” si focalizza sulla ragionevole aspettativa di remunerazione dell’investimento (cfr. F.GHELARDUCCI – M.CAPANTINI, Gli aiuti di Stato e il principio dell’ “investitore privato” negli orientamenti della Commissione e della giurisprudenza comunitaria, in www.astrid-online.it, 2003).

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L’espressa indicazione testuale della “eccezionalità” della scelta dell’autoproduzione e del

necessario accertamento di “peculiari caratteristiche” del territorio, e della impossibilità di un

“efficace ricorso al mercato”, fanno pensare che il legislatore italiano abbia effettivamente

voluto confinare l’autoproduzione di servizi pubblici locali in un ambito residuale di

situazioni in cui risulti concretamente impossibile affidare il servizio ad un’impresa privata (le

classiche situazioni di “gara deserta”, e simili). Così, infatti, la norma è stata interpretata

dall’AGCM, nell’espressione dei suoi pareri11, ove si insiste sull’illegittimità dell’affidamento

diretto in house in mancanza di una previa “consultazione del mercato” e dell’accertamento

della mancanza di imprese private idonee a svolgere in modo efficiente il servizio.

Questa scelta normativa rappresenta un punto estremo di differenziazione fra la disciplina

dell’iniziativa economica privata e quella dell’iniziativa economica pubblica: mentre per i

privati l’autoproduzione è configurata come un diritto soggettivo, esercitabile anche in regimi

di monopolio legale di determinate attività (art. 9, l. 287/1990), per gli enti pubblici

l’autoproduzione non solo non sarebbe oggetto di un diritto, ma potrebbe essere

11

1

In realtà, la prassi applicativa della norma, da parte dell’AGCM, si fonda su un’interpretazione strettamente letterale dell’art. 23-bis, comma 6, sicché l’Autorità non esprime il suo parere, dichiarando il non luogo a procedere, nei casi in cui la scelta del providing in house non abbia ad oggetto un “servizio pubblico” in senso proprio (cioè un servizio offerto, dietro equo corrispettivo, alla pubblica utenza), bensì un servizio che dovrebbe essere oggetto di un contratto di appalto, con l’ente pubblico in veste di committente (v., da ultimo, AGCM, parere n. AS663 del 16 dicembre 2009, Comune di Sarule (NU) – Servizi di manutenzione immobili comunali e servizi socio-assistenziali). Lo stesso accade per i casi di affidamento a società miste o di affidamento plurimo di servizi, che l’AGCM ha considerato estranei al dato letterale dell’art. 23-bis (ivi). Ancora, in diversi casi l’Autorità ha espresso parere negativo senza entrare nel merito della scelta, ma limitandosi a ravvisare la mancanza dei requisiti del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, richiesti dal diritto europeo al fine di legittimare l’affidamento in house (v., come più recente, AGCM, parere n. AS657 del 10 dicembre 2009, Comune di Palmi (RC) – Servizi di illuminazione pubblica, lampade votive e riscossione TOSAP). Infine, in certi casi l’Autorità ha adottato una sua regola de minimis, ritenendo di non dovere esprimere un parere sulla base della considerazione dell’esiguo impatto della vicenda sui mercati interessati (v., come più recente, AGCM, parere n. AS664 del 10 dicembre 2009, Comune di Porto Torres (SS) – Servizio di scuola civica di musica).Tuttavia, nei casi (comunque abbastanza numerosi) in cui l’AGCM non si è potuta esimere dall’esprimere il parere, esso è stato sempre negativo (v., come più recente, AGCM, parere. n. AS668 del 13 gennaio 2010, Provincia Autonoma di Bolzano / Gestione aeroportuale), a meno che non fosse dimostrata la circostanza dell’inutile esperimento di una gara [così, di recente, nell’unico caso di parere incondizionatamente positivo (AGCM. parere n. AS669 del 13 gennaio 2010, Comune di Curiglia con Monteviasco (VA) – Servizio di gestione dell’impianto funiviario), che avrebbe peraltro ben consentito l’applicazione del criterio de minimis, dal momento che risultava trattarsi di un servizio destinato ad appena 18 abitanti di una frazione montana].

10

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legittimamente prescelta solo in caso di necessità, cioè dopo aver accertato l’insussistenza di

qualsiasi impresa privata idonea e interessata a svolgere il servizio. In altri termini, si

applicherebbe al fenomeno un criterio di sussidiarietà c.d. orizzontale: l’azione dell’ente

pubblico si legittimerebbe solo in caso di comprovata insufficienza del mercato a realizzare

l’obiettivo di cui si tratta.

A mio avviso, questo modo di intendere l’autoproduzione da parte di enti pubblici è

eccessivamente limitativo dell’autonomia degli enti medesimi e va oltre le indicazioni

desumibili dal diritto comunitario. Per questo riterrei plausibile una interpretazione dell’art.

23-bis che, pur nei limitati spazi consentiti dal dato testuale, intenda in modo non proibitivo il

requisito della “eccezionalità” delle situazioni socioterritoriali che giustificano la scelta

dell’in house providing. Peraltro, al di fuori dello specifico campo di applicazione dell’art. 23-

bis, e quindi con riferimento all’autoproduzione di servizi che potrebbero essere dati in

appalto a terzi, il riconoscimento dell’autonomia dell’ente pubblico può aversi in modo più

ampio, e sulla base di qualsiasi motivazione che permetta di valutare la ragionevolezza della

scelta12.

Problema diverso è poi quello della forma organizzativa in cui può esprimersi

l’autoproduzione pubblica. L’evoluzione dell’ordinamento ha portato a ritenere esclusa,

almeno in materia di servizi pubblici, la possibilità di utilizzare le vecchie forme di

amministrazione diretta13 o quella dell’azienda autonoma. Anche al di fuori dell’ambito di

applicazione dell’art. 23-bis, la scelta organizzativa della costituzione di (o partecipazione a)

una società di capitali dovrebbe considerarsi oggi – a differenza del passato – come la

12

1

L’autonomia implica anche la facoltà di rivolgersi a terzi per lo svolgimento di certi servizi, con il solo limite della non delegabilità delle funzioni autoritative proprie dell’ente. Non sempre è chiaro però il confine tra funzione autoritativa (non delegabile) e attività ausiliarie. Così, di recente, Cass.pen., sez. VI, 17 marzo 2010, n. 10620, ha ritenuto illegittimo l’affidamento in appalto ad un’impresa privata dell’attività di rilevazione delle infrazioni al codice stradale mediante apparecchi autovelox (soluzione probabilmente troppo rigida).

13

1

V. espressamente (per un caso di gestione del servizio di illuminazione di lampade votive in un cimitero), T.A.R. Emilia Romagna – Bologna, sez. I, 29 gennaio 2010, n. 460.

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soluzione standard14, sicché il ricorso a forme organizzative diverse dovrebbe ritenersi

legittimo solo in presenza di giustificazioni particolari, tradotte in idonea motivazione.

6. Veniamo adesso alla rassegna critica delle decisioni giurisprudenziali comunitarie in

materia di affidamenti diretti a scopo di autoproduzione.

6.1. Com’è noto, l’indicazione di principio, relativa alle società di providing in house, viene

espressa chiaramente, per la prima volta, nella celebre sentenza CGCE, 18.11.1999, C-107/98,

Teckal, in cui la Corte sancisce che non vi è appalto, soggetto alla relativa direttiva (e quindi

non vi è obbligo di gara) “nel caso in cui.. l’ente [pubblico] eserciti sulla persona di cui

trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa realizzi la parte

più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”. E’

abbastanza chiaro che i giudici hanno avuto in mente ipotesi di privatizzazione formale di

aziende pubbliche e di consorzi produttivi fra enti pubblici, cioè di strutture produttive che

erano soggette a vincoli gerarchici o comunque di indirizzo, all’interno delle organizzazioni

pubbliche di appartenenza, pur godendo di un ampio spazio di autonomia gestionale

nell’esercizio dell’attività produttiva.

14

1

In senso contrario v. E.LA MARCA, Gli appalti in house al cospetto del diritto societario: il problema delle società a capitale interamente pubblico, in Riv.dir.comm., 2008, I, 591 ss., il quale si chiede che senso abbia costituire società strutturalmente “monocliente” e quindi obbligate a non crescere, in contrasto con la naturale vocazione dell’impresa.L’osservazione non è peregrina, e l’esperienza delle società pubbliche che, pur essendo nate come organismi di autoproduzione, sono cresciute e si sono “aperte al mercato”, lo dimostra. E’ però noto che le strategie di queste società, che mantengono da un lato la sicurezza del mercato d’origine captive, e poi partono alla conquista di altri mercati, dà luogo ad una vivace conflittualità (v. infra, § 11).In effetti, in ordine a questo momento cruciale di possibile scelta strategica di passaggio dall’autoproduzione alla produzione per il mercato, c’è una differenza netta di disciplina fra l’impresa di autoproduzione privata, che può modificare le proprie strategie con scelte insindacabili, e le società di autoproduzione pubblica, che invece sono obbligate, in linea di principio, ad allargare i loro programmi, a meno che non rinuncino al “privilegio” dell’affidamento in house.Si deve però aggiungere che il rispetto del vincolo di autoproduzione non impedirebbe, ad una società pubblica che abbia sviluppato un suo know-how o altre risorse produttive, di valorizzarle opportunamente attraverso accordi di cooperazione con terzi, senza operare in proprio nei mercati esterni.Si può anche ricordare che, nelle più risalenti trattazioni di diritto dell’impresa, si affermava, con riferimento all’art. 2082 c.c., che l’autoproduzione (intesa come produzione non rivolta al mercato) non dà luogo ad attività d’impresa, ma poi si precisava che costituisce attività d’impresa anche l’attività rivolta ad un unico cliente o ad una cerchia ristretta di clienti (cfr. F.FERRARA jr. – F.CORSI, Gli imprenditori e le società13, Giuffrè, Milano, 2006, 29-30).

12

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La doppia formula – del “controllo analogo” e della “attività prevalente” – è destinata a

duraturo successo, ma non è definita in modo analitico nella sentenza Teckal, sicché finisce

per essere recepita con sfumature diverse, negli ordinamenti dei vari Stati membri. Da qui la

lunga serie di interventi successivi della Corte di Giustizia (19 finora, salvo errore, di cui ben

10 occasionati da vicende italiane).

6.2. Con la sentenza CGCE, 11.01.2005, C-26/03, Stadt Halle, la Corte sancisce che il

“controllo analogo” è qualcosa di più del controllo societario tipico (cioè della “influenza

dominante” che un socio può esercitare sulla società): da qui l’incompatibilità della figura del

“controllo analogo” con la presenza di un socio privato nella società di cui si tratta (nel caso

Stadt Halle l’azionista di minoranza deteneva una partecipazione pari al 25% del capitale).

La presenza di un socio di minoranza non impedisce certo il controllo societario individuale;

ma – nel ragionamento della Corte – non consente di esplicare quella pienezza di poteri che

l’ente socio poteva in precedenza esercitare, in un contesto pubblicistico. In altri termini, la

presenza di soci privati, con i relativi poteri – ancorché legalmente limitati a determinate

iniziative di controllo sulla gestione o di impugnazione di atti – sembrerebbe sufficiente a

rendere il potere dell’azionista pubblico di maggioranza sostanzialmente diverso da quello

che esso ha, per diritto amministrativo, sui propri uffici.

Questo orientamento, relativo alla incompatibilità fra “controllo analogo” e presenza di soci

privati, viene poi ribadito in diverse sentenze: (i) CGCE, 21.07.2005, C-231/03, Coname (in

un caso in cui esisteva già un socio privato di minoranza, alla data dell’affidamento diretto del

servizio); (ii) CGCE, 10.11.2005, C-29/04, Mödling (in un caso in cui una partecipazione del

49% era stata ceduta a privati poche settimane dopo l’affidamento diretto in house); (iii)

CGCE, 18.01.2007, C-220/05, Auroux / Commune de Roanne / SEDL (in questo caso c’erano

una pluralità di soci privati, con partecipazioni piccole ma non irrisorie).

6.3. Fino a questo punto, il “controllo analogo” sembra definirsi in un modo che potrebbe

essere compatibile con un controllo societario individuale totalitario, o quasi-totalitario (la

casistica non ha fatto ancora emergere casi di controllo plurimo o congiunto). Due casi

successivi sembrano però delineare un orientamento giurisprudenziale che richiede un quid

pluris, rispetto al controllo totalitario.

Con la sentenza CGCE 23.11.2005, C-458/03, Parking Brixen, la Corte sancisce che il

controllo totalitario del capitale non è sufficiente a configurare il “controllo analogo”, quando

siano in corso programmi (o comunque possibilità concrete) di privatizzazione, anche

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Page 14: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

parziale, della società; e, inoltre, sia previsto un programma di espansione imprenditoriale

dell’attività della società medesima, affidato alle scelte autonome dell’organo amministrativo.

Con questa decisione, il “controllo analogo” e la “destinazione prevalente” sono chiaramente

sintetizzati in una visione della società in house come puro strumento per la realizzazione di

attività di autoproduzione, come tale incompatibile con la vera e propria organizzazione ad

impresa, finalizzata alla produzione per il mercato, e con l’autonomia – strategica ed esecutiva

– dell’organo amministrativo, che un’efficiente gestione imprenditoriale richiede.

Questa ipotesi ricostruttiva sembrava riconfermata nella successiva sentenza CGCE,

11.05.2006, C-340/04, Carbotermo, con cui la Corte fa anzi un ulteriore passo avanti,

negando la sussistenza del “controllo analogo” in una situazione in cui vi era il controllo

indiretto della società aggiudicataria, mediante una holding controllata al 99,8% dal Comune

committente (gli altri azionisti, titolari di quote insignificanti, erano a loro volta enti pubblici);

la holding, a sua volta, deteneva il controllo totalitario della società affidataria.

L’aspetto più significativo della sentenza sta, comunque, nell’aver ritenuto mancante il

“controllo analogo” già per la sola circostanza che la società controllata fosse una s.p.a., “il

cui consiglio di amministrazione possiede ampi poteri di gestione esercitabili in maniera

autonoma”.

Questo profilo della motivazione sembra portare al punto finale l’equiparazione fra società

soggetta a “controllo analogo” e la tradizionale figura dell’azienda pubblica autonoma. Ma

sembra anche segnare la parola fine – o quasi - per l’affidamento diretto di commesse a

società in mano pubblica: dato che l’ampia (anzi: esclusiva) autonomia gestionale del

consiglio di amministrazione è sancita, per la s.p.a. nell’ordinamento italiano, da una norma

che – per solito – è considerata imperativa (art. 2380-bis, c.c.), sembra doversi desumere la

conseguenza che nessuna s.p.a. tipica può dirsi più soggetta a “controllo analogo”15.

Per superare questa impasse sembrava possibile saggiare – almeno per le società pubbliche di

autoproduzione operanti nell’ordinamento italiano – tre vie: (i) avvalersi della figura della

s.r.l. (che consente di attribuire diritti amministrativi al socio: (art. 2468.3, c.c.); (ii) costruire

dall’esterno un sistema di vincoli all’azione del c.d.a., mediante patti parasociali; (iii)

ipotizzare organi amministrativi atipici, in deroga alla disposizione dell’art. 2380-bis

(contestandone preliminarmente il carattere di imperatività).

15

1

Questa conseguenza era stata rilevata, con accenti critici, già a seguito della precedente sentenza Parking Brixen (cfr. A.CLARIZIA, La Corte suona il de profundis per l’in house (in www.giustamm.it - n. 10/2005).

14

Page 15: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

Si dovrà tornare su questi temi più avanti (§ ). Per ora conviene continuare però la rassegna

della giurisprudenza comunitaria, che ha in buona parte smentito lo scenario che sembrava

delinearsi dopo la sentenza Carbotermo, ed ha evidenziato una progressiva attenuazione dei

requisiti richiesti dalla giurisprudenza Teckal.

6.4. Il punto di svolta, ancorché non esplicitato come tale dalla Corte, si è avuto con la

sentenza CGCE, 19.04.2007, C-295/05, TRAGSA. In questo caso ci si trovava di fronte ad una

società di diritto speciale, che derivava dalla trasformazione della precedente azienda statale

spagnola per le foreste demaniali. TRAGSA è partecipata dal Regno di Spagna al 96% e da

alcune regioni (sempre soci pubblici, dunque) per il restante 4%. La sua attività è disciplinata

dalla legge: essa non è titolare di diritti speciali od esclusivi, bensì di “doveri speciali”,

avendo l’obbligo di prestare i suoi servizi, a semplice richiesta e a tariffe predeterminate in

via amministrativa, a tutti gli enti pubblici spagnoli (anche non soci); per il resto, può operare

liberamente sul mercato (anche se si tratta di un mercato molto particolare, qual è quello

costituito dall’offerta di servizi di sistemazione idrogeologica e forestali in genere, che non

sono certo destinati ai consumatori finali e vedono, dal lato della domanda, soprattutto

soggetti pubblici).

In questo caso, il “controllo analogo” è stato ritenuto sussistente, ma non tanto per l’esistenza

di un controllo quasi-totalitario del Regno di Spagna sull’organizzazione della società, quanto

piuttosto sulla base della rilevazione del carattere “servente” ex lege della società nei

confronti di tutte le amministrazioni pubbliche. Il “controllo analogo” starebbe dunque nella

mancanza di autonomia della società, nell’essere cioè questa un ente strumentale e di servizio

tecnico dell’amministrazione pubblica.

Con questa sentenza, il legame stretto fra controllo societario e funzione di autoproduzione a

favore dell’ente socio sostanzialmente sembra sfumare, e viene sostituito: (i) sul piano

organizzativo, dalla presenza di un controllo pubblico individuale quasi-totalitario, con soci

pubblici di minoranza e con la totale assenza di soci privati (ma questa circostanza non era

apparsa sufficiente, in casi precedenti); (ii) sul piano funzionale, dalla destinazione della

produzione a una sorta di servizio universale a favore degli enti pubblici [che però è cosa ben

diversa dal providing in house, di cui si era sempre ragionato nei casi precedenti; anzi, sul

piano funzionale, la situazione può essere ricostruita in termini di produzione per il mercato,

con attribuzione (se non di un diritto) di una posizione di fatto speciale e privilegiata su un

segmento – quello prevalente – della domanda nel mercato rilevante].

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Page 16: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

Pochi mesi dopo, il nuovo orientamento è sostanzialmente confermato in un altro caso

spagnolo riguardante una società di diritto speciale: CGCE, 18.12.2007, C-220/06, Correos.

Questa sentenza è, per certi aspetti, ancor più dirompente. Se nel caso TRAGSA si poteva

pensare (pur equivocando, sul piano dei principi di tutela della concorrenza) ad una sorta di

società di autoproduzione per il settore pubblico allargato, in questo caso non si trattava certo

di una società di autoproduzione, bensì di una società concessionaria di pubblico servizio

(postale, nella specie). Per altro verso, la sentenza è però più ambigua, poiché lascia sospeso il

giudizio sull’esistenza del requisito del controllo analogo, rinviando il caso al giudice

nazionale.

Queste due sentenze segnano certamente una rottura rispetto all’orientamento precedente.

Alcune società in mano pubblica, per il solo fatto di essere gravate per legge di compiti che

potremmo definire di servizio universale in certi settori, sono contestualmente legittimate a

ricevere affidamenti diretti dalle amministrazioni pubbliche, ma contemporaneamente sono

legittimate e a stare anche sul mercato (sia pure rimanendo sotto il pieno controllo

organizzativo di soggetti pubblici).

Sembrano dunque cadere i due pilastri, su cui si reggeva la costruzione precedente, a

cominciare dalla sentenza Teckal: il dominio totalitario di un ente pubblico

sull’organizzazione d’impresa e la destinazione esclusiva – o almeno largamente prevalente –

della sua attività allo svolgimento di compiti di autoproduzione.

Sul piano dei principi ispiratori, si può osservare uno slittamento dalla impostazione

liberistica precedente (fondata sulla netta separazione fra iniziativa economica pubblica e

iniziativa economica privata) verso una impostazione in termini di “economia mista”, fondata

su una piena legittimazione dello Stato imprenditore.

Si può invero osservare – per ridimensionare la portata della svolta16 - che la diversa logica

delle due ultime sentenze si trova affermata con riferimento a due società di diritto speciale

(come tali disciplinate dalla legislazione nazionale spagnola). Per vero, questo argomento non

può essere dirimente, in una prospettiva di diritto europeo, soprattutto dopo che

l’interpretazione ufficiale del(l’attuale) art. 106 T.F.U.E. è divenuta quella per cui gli

ordinamenti nazionali non godono di piena discrezionalità politica nella scelta di istituire o

mantenere determinate attività economiche in regime di monopolio legale. Certo, le società di

cui si tratta non erano monopoliste legali nei rispettivi mercati di riferimento; ma – a parte la

considerazione che, in tali mercati, erano comunque imprese dominanti – esse erano

16

1

Non sempre colta come tale, per la verità, nella letteratura in materia.

16

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comunque protette dalla legislazione nazionale con normative asimmetriche, che attribuivano

loro un regime speciale, abbastanza vicino alla costituzione di un monopolio di fatto.

Pur se sistematicamente debole, la soluzione poteva essere pur sempre inquadrata nella

disciplina dell’art. 106, in termini di attribuzione di diritti speciali funzionali alla “specifica

missione” di servizio pubblico assegnata, per legge, a determinate imprese. Questa situazione

sembra attenuare i requisiti del controllo analogo, sotto il profilo strettamente organizzativo.

Le due sentenze del 2007 sembrano introdurre, in tal modo, una sorta di doppio binario: i

requisiti Teckal sembrano rimanere necessari – ai fini di legittimare l’affidamento diretto - per

le società in mano pubblica costituite in base alle regole di diritto comune, mentre si delinea

una più elastica nozione di “controllo analogo” per le società in mano pubblica destinatarie di

un regime legale speciale (e, con ciò, di una “specifica missione”).

6.5. Anche quest’ultima ipotesi ricostruttiva è sembrata però superata, nella giurisprudenza

successiva.

Ciò è avvenuto con la successiva sentenza CGCE, 17.07.2008, C-371/05, ASI Comune di

Mantova. In questo caso la società affidataria vedeva una partecipazione pubblica prevalente

del Comune committente, ma non certo un controllo totalitario: i soci di minoranza erano, in

effetti, altrettante società a controllo pubblico, ma l’apertura del capitale ai privati era stata

ufficialmente programmata.

L’elemento del “controllo analogo” è stato però ugualmente riconosciuto per la ragione che

una convenzione tra il socio pubblico di maggioranza e la società prevedeva che un

funzionario comunale potesse dare direttive alla società per garantire l’efficace svolgimento

dei compiti, per cui la stessa era stata costituita.

In questi termini, il “controllo analogo” sembra rideterminarsi come una situazione di potere

di indirizzo e di controllo sulla gestione della società affidataria, non necessariamente

assoluto, e suscettibile di fondarsi su diversi strumenti giuridici. Nel caso di specie, esso si

fondava, sostanzialmente, su un patto parasociale (in tal modo può definirsi anche una

convenzione fra azionista di maggioranza e società).

Resta poi il punto – non chiaramente definito, rispetto alla giurisprudenza precedente – che il

controllo analogo viene riconosciuto in capo ad una pluralità di soggetti pubblici soci, anche a

quelli titolari di partecipazioni di minoranza.

6.6. Un ulteriore passo in avanti si registra con la sentenza CGCE, 13.11.2008, C-324/07,

Coditel Brabant. In questo caso si trattava di nuovo di una società di diritto speciale (Brutélé),

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incaricata da una legge belga della realizzazione e fornitura di reti di telecomunicazione, e

interamente partecipata da enti pubblici territoriali (anche in Italia abbiamo una struttura

simile, che è Infratel Italia s.p.a.). Il primo interesse della sentenza sta nell’avere espresso in

modo ancora più netto il riconoscimento della possibilità che il “controllo analogo” si presenti

nella forma di controllo congiunto, purché condiviso da soci tutti pubblici e fruitori dei servizi

della società strumentale.

Un secondo elemento significativo di questa sentenza è il fatto che, nell’iter argomentativo, si

riconosce che la “mancanza di vocazione commerciale” del soggetto affidatario è un elemento

corroborante – accanto al controllo analogo e alla destinazione prevalente – della legittimità

dell’affidamento diretto.

Questo nuovo elemento fa pensare alla definizione dell’organismo di diritto pubblico (in

particolare alla formula della destinazione a soddisfare “bisogni di interesse generale aventi

carattere non industriale o commerciale”). In ogni caso, esso segnala una logica differente,

che non è quella dell’autoproduzione, ma è piuttosto quella del servizio di interesse

economico generale. E’ la stessa logica che sta alla base delle sentenze TRAGSA e Correos,

che qui viene evidenziata in maniera più netta. Il fatto di presentare la “non vocazione

commerciale” come un elemento logicamente connesso al “controllo analogo” introduce, in

realtà, un equivoco: è bensì vero che, in una società “a vocazione commerciale” è necessario

garantire l’autonomia gestionale dell’organo amministrativo; ma è anche vero che questa

autonomia non esclude che il potere di direzione strategica sia collocato fuori del consiglio di

amministrazione (per esempio, nel consiglio di sorveglianza). In altri termini, la “vocazione

commerciale” non esclude la possibilità di un controllo pieno di un soggetto pubblico, almeno

al livello della direzione strategica (come si sottolineava nel dibattito di un tempo sulle società

a partecipazione statale).

6.7. Le decisioni più recenti compiono ulteriori passi avanti. In particolare, la sentenza CGCE,

10.09.2009, SeTCo, che decide una questione relativa ad una società di diritto comune,

soggetta a controllo congiunto di più enti pubblici, riafferma e precisa i principi affermati

dalla giurisprudenza precedente. In particolare, dalla sentenza si traggono le seguenti

statuizioni:

a) la circostanza che il soggetto aggiudicatario sia costituito in forma di società di capitali non

esclude l’applicazione dell’eccezione Teckal (non esclude, in altri termini, la possibilità di

“controllo analogo”) [§ 41];

18

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b) la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale della società di cui si

tratta esclude però che possa parlarsi di “controllo analogo” (§ 46);

c) l’esistenza di una partecipazione privata dev’essere valutata al momento dell’affidamento

dell’appalto; all’esistenza attuale della partecipazione privata dev’essere equiparata la

potenzialità in concreto (cioè l’esistenza di procedure di privatizzazione, già avviate o

comunque imposte dalla legge); non rileva invece la sola potenzialità astratta, discendente

dalla disciplina generale societaria (§§ 47-51);

d) il “controllo analogo” non è necessariamente un controllo individuale; è opportuno anzi

favorire il fenomeno dell’associazionismo fra enti pubblici al fine della gestione di servizi in

comune (§§ 55-56);

e) il “controllo analogo” può essere dunque anche un controllo congiunto, che può esprimersi

anche attraverso la partecipazione dell’azionista ad organi collegiali; occorre comunque un

controllo congiunto, in termini tali che l’ente affidante abbia “una possibilità di influenza

determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti” della società

affidataria (§§ 58-65);

f) il fatto che lo statuto consenta lo svolgimento in via accessoria di servizi a favore di

committenti privati “non è sufficiente per ritenere che detta società abbia una vocazione

commerciale che rende precario il controllo di enti che la detengono” (§ 79);

g) la validità di clausole statutarie, che deroghino a norme del diritto societario interno, al fine

di rafforzare il controllo sulla gestione societaria da parte degli enti pubblici soci è “una

questione interpretativa delle norme nazionali, la cui soluzione incombe al giudice di rinvio”

(§ 88).

6.8. L’ultimo passaggio evolutivo, sulla via dell’attenuazione dei requisiti richiesti dalla

giurisprudenza Teckal, riguarda la parziale riammissione delle società miste pubblico-privato,

come destinatarie di affidamenti diretti.

In materia, il chiarimento si è avuto, prima che in sede giurisprudenziale, nella

Comunicazione della Commissione del 12.04.2008 sul “partenariato pubblico-privato”, in cui

la Commissione tornava ad ammettere gli affidamenti diretti a società miste, sia pure a

condizione che il partner privato sia stato scelto mediante gara e che sia stato previamente

individuato il servizio a cui la collaborazione partenariale è destinata.

Questa linea di soluzione è stata pienamente confermata dalla sentenza di CGCE, 15.10.2009,

C-196/08, Acoset, che ammette “l’affidamento diretto di un servizio pubblico che preveda

l’esecuzione preventiva di determinati lavori” ad una società a capitale misto, purché la scelta

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del socio privato, all’interno di tale società, si avvenuta mediante una procedura di evidenza

pubblica, rispettosa dei principi di libertà di concorrenza.

7. Al termine di questo excursus giurisprudenziale si deve prendere atto – mi sembra –

che, nel diritto vivente, il requisito del “controllo analogo” si è ormai evoluto, fino ad

assumere quattro possibili significati, relativi a fattispecie diverse. Ciascuna di esse

pone però ancora all’interprete alcuni problemi di precisazione dei relativi requisiti,

che qui di seguito si cercherà di segnalare.

A. La prima figura è quella del controllo individuale da parte di un ente pubblico sulla

società affidataria. In ordine a questa figura, la giurisprudenza comunitaria ci dice che

il controllo individuale dev’essere totalitario e deve essere caratterizzato da un quid

pluris, rispetto al normale controllo societario; si aggiunge (v. in particolare la

sentenza SeTCo) che tale situazione è – in linea di principio – compatibile con le

forme giuridiche della società di capitali e che la validità degli strumenti giuridici

utilizzati per realizzare una situazione di “controllo analogo” dev’essere valutata alla

stregua del diritto nazionale. Il punto ancora da definire è in che cosa esattamente

consista quel quid pluris richiesto, rispetto al normale controllo societario.

B. La seconda figura è quella del controllo congiunto da parte di più enti pubblici sul

soggetto affidatario (che potrebbe essere un consorzio, una società o altra struttura

organizzativa). Anche in questo caso la giurisprudenza richiede che la proprietà

pubblica – anche se plurima e non individuale – sia esclusiva: non sono ammessi,

dunque, soci privati17. Per questa figura la giurisprudenza ha precisato che il controllo

plurimo è “analogo” se attribuisce a ciascun socio una influenza determinante sugli

obiettivi strategici e sulle decisioni importanti. Il punto ancora de definire è se “per

influenza determinante” si intenda la possibilità di esercitare un vero e proprio potere

di veto, e si intenda semplicemente la possibilità di partecipare, con propri esponenti,

agli organi interni alla società, investiti del potere decisionale sulle materie richiamate.

C. La terza figura è quella dell’affidamento diretto a società mista. Qui la giurisprudenza

richiede che il socio industriale sia stato scelto mediante procedura ad evidenza

pubblica, rispettosa dei principi di parità concorrenziale, e che l’affidamento si

17

1

V., come più recenti, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 9 febbraio 2009, n. 48; Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2009, n. 591; T.A.R. Puglia – Bari, sez. III, 2 marzo 2009, n. 440.

20

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riferisca a “servizi determinati”. Il punto ancora da definire è se la determinazione

dell’oggetto, così richiesta, si riferisca ad un vero e proprio progetto (avente, come

tale, un inizio ed una fine, nonché, concettualmente, un risultato da raggiungere) o se

sia sufficiente determinazione quella che si limita a descrivere un campo di attività

economiche, cioè un settore merceologico. Resta anche da precisare come la presenza

del socio privato si concili con il mantenimento di una situazione di “controllo

analogo” da parte dell’ente pubblico.

D. La quarta, ed ultima, figura si riferisce alle società di diritto speciale, istituite per

legge per la realizzazione di una specifica missione. In tal caso il requisito del

“controllo analogo” finisce per tradursi nel dovere, legalmente sancito, di perseguire

una determinata “missione” di pubblico interesse. Il potere pubblico di indirizzo e di

vigilanza sulla società trova in tal caso un fondamento nella legge istitutiva e solo in

secondo luogo negli statuti e norme interne della società18. Rimane non chiaro quali

siano i vincoli di carattere organizzativo, che si applicano a queste società di diritto

speciale. Sembra confermato il requisito della proprietà interamente pubblica del

capitale sociale, anche se questo requisito assume un significato diverso rispetto ai

casi tipici di autoproduzione: non vi è più, infatti, una necessaria corrispondenza fra

soggetti pubblici proprietari del capitale e soggetti pubblici destinatari dell’attività.

Non sembra poi escluso che questa figura possa combinarsi con quella sub C, e che

possano legittimamente configurarsi società di diritto speciale che adottano la formula

organizzativa del partenariato pubblico/privato.

8. Qui di seguito cercherò di indicare le soluzioni che mi sembrano più attendibili, in

relazioni ai punti lasciati aperti nel paragrafo precedente.

18

1

E’ dunque criticabile l’orientamento del giudice amministrativo italiano che ha tratto spunto dalla sentenza Coditel Brabant per configurare in termini “sintetici” il requisito del “controllo analogo” anche in presenza di società in mano pubblica di diritto comune (v. Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2009, n. 5082; Cons. Stato, sez. V, 9 marzo 2009, n. 1365). Si deve però subito aggiungere che, nell’applicazione concreta, i giudici italiani sono molto severi nel valutare l’esistenza dei requisiti del “controllo analogo”, sicché può dirsi che il diritto vivente italiano è conforme alle indicazioni del diritto europeo, così come si è cercato di delinearle nel testo.

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Page 22: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

Anzitutto, per ciò che riguarda il controllo individuale, una volta acquisito che il semplice

controllo azionario totalitario è necessario19, ma non sufficiente20 a configurare il controllo

“analogo”, il quid pluris, richiesto dalla giurisprudenza comunitaria, può ricostruirsi nel senso

che l’ente pubblico azionista deve mantenere una influenza dominante sulla direzione

strategica della società; non occorre invece anche un controllo diretto sul day to day

management21.

Questa soluzione appare razionale, ai fini dell’efficienza delle società di autoproduzione.

L’efficienza sarà tanto meglio raggiunta quanto più sarà valorizzata la capacità tecnica e

professionale dei manager designati dal soggetto pubblico; del resto, anche il successo delle

vecchie aziende municipalizzate, quando effettivamente conseguito, dipendeva dalla

valorizzazione di tecnici interni, a cui l’ente pubblico riconosceva elevata autonomia

gestionale.

A questa conclusione – per cui il “controllo analogo” non è altro che controllo diretto della

gestione strategica da parte dell’ente pubblico azionista - può giungersi mediante un confronto

sistematico con la giurisprudenza in materia di controllo congiunto: per quest’ultima ipotesi, è

ritenuta sufficiente la situazione di “influenza determinante” sulla gestione strategica e questa

ipotesi, in materia di controllo congiunto, non può certo implicare un potere pervasivo, tale da

consentire all’azionista la diretta determinazione di tutte le scelte amministrative. Non si vede

allora perché una soluzione analoga non debba valere anche per il controllo individuale

(peraltro, indicazioni testuali sul riferimento del controllo alla gestione strategica si ritrovano

anche in sentenze in materia di controllo individuale, come Parking Brixen); con la sola

differenza, che viene in re ipsa, che il controllo individuale sarà, in casi del genere,

strutturalmente più forte, perché non condizionato dal potere di veto di altri azionisti; esso

sarà quindi qualificabile piuttosto come influenza “dominante”, anziché semplicemente

“determinante”.

19

1

Sul punto della necessità la giurisprudenza interna è perfettamente allineata alle indicazioni del diritto comunitario: v., fra le sentenze più recenti, Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2009, n. 5814; T.A.R. Liguria – Genova, sez. II, 15 maggio 2008, n. 1013.

20

2

Cfr., p.es., Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2008, n. 136; T.A.R. Campania – Napoli, sez. VII, 5 dicembre 2008, n. 21241; T.A.R. Campania – Napoli, sez. I 14 aprile 2008, n. 2533 (in casi riguardanti società unipersonali pubbliche con statuti standard, che prevedevano il trasferimento delle quote e la competenza esclusiva alla gestione in capo al consiglio di amministrazione).

21

2

Conf. E.LA MARCA (nt. 11), 576.

22

Page 23: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

Per quanto riguarda il controllo plurimo, va innanzitutto ribadito che, anche in questa ipotesi

resta preclusa l’apertura al capitale privato22 (fatti salvi i casi specifici di “Partenariato

Pubblico/Privato” ad oggetto predeterminato: v. infra).

Posto ciò, rimane il dubbio se – ferma restando l’idea che questo tipo di controllo possa

esprimersi solo al livello della gestione strategica, e non di quella quotidiana23 - sia sufficiente

la partecipazione di tutti gli enti “controllanti” a organi collegiali di gestione strategica (sicché

sarebbe “controllante” anche chi possa poi rimanere in minoranza nel procedimento

deliberativo) o se invece occorra un vero e proprio potere di veto, almeno su alcune decisioni

strategiche. La risposta corretta è, ad avviso di chi scrive, quest’ultima. Ciò, oltre che in

considerazione della ratio della disciplina in esame, può sostenersi anche perché in tal senso

suona l’indicazione testuale delle sentenze della Corte (in particolare, in materia di controllo

plurimo, ASI Comune di Mantova e SetCo), in cui la Corte di Giustizia parla pur sempre di

“influenza determinante”: questa nozione, nella disciplina della concorrenza, implica qualcosa

di più dell’avere semplice “voce in capitolo”, e in particolare implica la disponibilità di un

voto determinante (i.e. un potere di veto) su alcune materia strategiche24.

Peraltro, se così non fosse, la nozione di controllo congiunto diverrebbe, per il profilo che ci

occupa, puramente formale: basterebbe a qualsiasi ente pubblico acquisire una partecipazione

societaria anche minima, e quindi acquisire formalmente voce in capitolo, per potere anche

legittimamente affidare direttamente alla società di cui si tratta un qualsiasi servizio. Ma, in

tal modo, il fenomeno si allontanerebbe dalla tipologia sociale dell’autoproduzione – pur

associata (o consortile che dir si voglia) e non individuale – per assumere il significato di una

società di produzione in mano pubblica, che godrebbe di una posizione privilegiata sul

mercato delle commesse pubbliche che le interessano.

22

2

Cfr. T.A.R. Lazio – Roma, sez. III-ter, 17 settembre 2008, n. 8356.

23

2

Su questo punto cfr. Cons. Stato, sent. 1395/09, cit. alla nota precedente, e su di essa il commento adesivo di M.GIORGIO, L’in house pluripartecipato: nuovo modello societario o apparato amministrativo?, in Giorn.dir.amm., 2009, 1269 ss.L’assunto è condivisibile, al confronto con la contraria tesi (T.A.R. Campania – Napoli, sez. I, 28 luglio 2006, n. 8055) che, richiedendo un controllo plurimo sulla gestione quotidiana, rende praticamente impossibile il riconoscimento di un “controllo analogo” nelle società pluripartecipate. La tesi non è però sufficiente a risolvere gli ulteriori problemi di costruzione della nozione, ricordati nel testo.

24

2

Cfr. M.NOTARI, La nozione di “controllo” nella disciplina antitrust, Giuffrè, Milano, 1996.

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Page 24: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

A tale proposito, non sembra sufficiente25 a configurare il controllo analogo che siano previsti

strumenti giuridici che assicurino all’ente interessato – e titolare di una partecipazione

minima, come tale insufficiente a dare un’influenza determinante nell’organizzazione

societaria – un potere di direzione dei lavori e un potere di veto sulle decisioni gestionali che

attengono al servizio che direttamente lo riguarda. Questo tipo di clausole – che riproducono

sostanzialmente la posizione di un committente in un contratto di appalto – attribuiscono

certamente poteri all’ente interessato; ma si tratta di poteri simili a quelli che nascerebbero da

un rapporto bilaterale di appalto, e non dei poteri di controllo sull’organizzazione, che sono

propri della logica dell’autoproduzione.

Infine, per quanto riguarda le società miste, ferma restando la necessità della scelta del socio

industriale tramite gara, le indicazioni del diritto comunitario non sembrano richiedere che la

società si costituisca con un progetto predeterminato e quindi con funzioni solamente

esecutive (come accadrebbe in un appalto su progetto esecutivo già approvato

dall’amministrazione); rimane invece necessario che l’oggetto sociale sia precisamente

determinato e che la società abbia anche un termine di durata ragionevole26.

La presenza del socio privato non fa venire meno l’esigenza di “controllo analogo” della parte

pubblica. Questa dovrà intendersi, quanto meno, come controllo congiunto e quindi come

influenza determinante del socio pubblico sulle decisioni strategiche inerenti alla gestione

della società.

9. Ciò posto, ci si deve chiedere se e quali strumenti, alla stregua del diritto societario

italiano comune – senza ipotizzare, al momento, deroghe ad esso - consentano di

raggiungere il risultato del “controllo analogo”, così come richiesto dalla

giurisprudenza europea.

Un primo problema, di più facile soluzione, riguarda il profilo della necessità del divieto di

presenza di soci privati. Clausole di questo tenore sono oggi ammissibili anche nello statuto di

una s.p.a. (arg. ex art. 2355-bis, c.c.). Per la verità, l’esistenza di una clausola statutaria

25

2

Contrariamente a quanto ritenuto da Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2009, n. 5808 e da T.A.R. Lombardia – Milano, sez. III, 10 dicembre 2008, n. 5759.Nel senso del testo v. invece T.A.R. Emilia-Romagna – Bologna, sez. II, 8 luglio 2008, n. 3273.

26

2

In questo senso anche la più recente giurisprudenza nazionale. Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 25 settembre 2008, n. 4603, in Giorn.dir.amm., 2009, 394, con nota adesiva di F.G.ALBISINNI.

24

Page 25: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

formale – richiesta dalla nostra giurisprudenza amministrativa27 - non parrebbe necessaria, né

sufficiente, alla stregua dei criteri sostanzialistici, normalmente seguiti nell’interpretazione

delle norme del diritto europeo della concorrenza: infatti, per diritto societario, una clausola

statutaria può sempre essere modificata, mentre un patto parasociale o un programma

pluriennale di gestione possono avere una solidità applicativa superiore a quella di una norma

statutaria. Ciò che conta – per la legittimità della scelta di autoproduzione - è dunque che non

vi sia alcun effettivo programma di privatizzazione della società in questione, ed anzi la

volontà effettiva degli enti soci sia nel senso del mantenimento della proprietà interamente

pubblica. Ciò non toglie che la clausola statutaria, fornendo un suggello formale a tale scelta,

rappresenti la manifestazione normale dell’esistenza di tale volontà.

Più complesso è il problema dell’attribuzione agli azionisti del potere effettivo di determinare

la gestione, almeno – come si è detto – a livello strategico28.

Va da sé che strumenti idonei a tal fine sono facilmente costruibili se si sceglie il tipo

societario della s.r.l., in cui la legge consente che l’atto costitutivo attribuisca al socio

particolari diritti amministrativi (art. 2468, comma 3, c.c.).

Lo stesso non può dirsi per la s.p.a. Infatti, anche se – come si è detto in precedenza – il

controllo analogo richiede – nella sua configurazione minima – solo un’influenza

determinante del socio pubblico sulle decisioni strategiche, la previsione statutaria di poteri

assembleari di autorizzazione, ai sensi dell’art. 2364, n. 5, c.c., anche se estesa, non sarebbe

idonea a superare l’autonomia dell’organo amministrativo: mancherebbe in ogni caso, sul

piano giuridico-formale, un potere gerarchico o anche solo di indirizzo, all’azionista.

Peraltro, non sarebbe strumento giuridico di per sé sufficiente ad assicurare il controllo

analogo neanche l’adozione del sistema di amministrazione dualistico, ancorché

accompagnata dall’attribuzione, al consiglio di sorveglianza, del potere di deliberazione in

ordine ai piani industriali e finanziari e alle operazioni strategiche (art. 2409-terdecies, comma

1, lett. f-bis, c.c.). Infatti, la sola previsione statutaria di tale sistema di amministrazione non

darebbe all’ente pubblico azionista, pur nella possibilità di scegliere i componenti del

consiglio di sorveglianza, un potere giuridico gerarchico sull’azione degli stessi.

27

2

Cfr. Cons. Stato, ad.plen., 3 marzo 2008, n. 1.

28

2

La sentenza dell’Adunanza plenaria, citata alla nota precedente, afferma recisamente che, nelle società in house, “il consiglio di amministrazione della società non deve avere rilevanti poteri gestionali”: affermazione che, sul piano del diritto societario (e non solo con riferimento alla s.p.a.) lascia piuttosto interdetti. Sul punto v. infra, nel testo.

www.federalismi.it25

Page 26: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

In sostanza, se si vuole garantire all’azionista un potere decisionale sulla gestione strategica

della società, gli strumenti giuridici utilizzabili sono – in astratto - quello dei patti parasociali

e quello della previsione statutaria di organi atipici.

Sulla possibilità di utilizzare – allo scopo di costruire una posizione di “controllo analogo” -

lo strumento dei patti parasociali, non vedrei difficoltà di principio. Ritengo infatti che la

disciplina vigente, così come consente di vincolare pattiziamente l’esercizio del diritto di voto

dell’azionista, consenta anche di vincolare pattiziamente le scelte gestionali degli

amministratori, purché per finalità lecite e non lesive dell’interesse sociale29. Del resto, se così

non fosse, sarebbe difficilmente concepibile (o, per lo meno, limitata alla sola ipotesi di patti

fra azionisti) la stessa ipotesi del controllo “contrattuale” dell’art. 2359 c.c.

E’ bensì vero che lo strumento del patto parasociale, secondo la tesi tradizionale e da ritenere

tuttora valida30, produce effetti soltanto obbligatori e non consente – a differenza di quanto

accade per le clausole statutarie – di invalidare eventuali delibere dell’organo amministrativo

contrastanti con gli impegni assunti. Ma ciò non mi sembra costituire una valida ragione per

negare che il patto parasociale possa costituire strumento idoneo a garantire all’azionista un

controllo effettivo: sul piano dell’effettività, un patto parasociale ben costruito e ben applicato

può costituire strumento di controllo anche più efficace di una clausola statutaria.

Nella prassi italiana, tuttavia, si è ritenuto possibile costruire una situazione di “controllo

analogo” in una s.p.a. attraverso clausole statutarie che prevedono organi atipici (p.e. comitati

paritetici formati dai sindaci dei Comuni soci o loro delegati, spesso denominati “Comitati di

controllo analogo”31) o meccanismi di controllo diretto dell’ente committente sulla gestione

del servizio (p.e. la nomina di un funzionario delegato dell’ente con compiti di direzione dei

29

2

Cfr. M.LIBERTINI, I patti parasociali nelle società non quotate. Un commento agli articoli 2341-bis e 2341-ter del codice civile, in Il nuovo diritto delle società – Liber amicorum Gian Franco Campobasso, Utet, Torino, 2007, IV, 481-2.Si deve pur dire che alquanto diffusa è pure l’opinione opposta, che ritiene contrari all’ordine pubblico i patti che limitino l’autonomia gestionale degli amministratori (v. per esempio F.VASSALLI, I sindacati di gestione, in Impresa e società – Studi dedicati a F.Martorano, E.S.I., Napoli, 2006, 1183 ss.; A.DE NICOLA, in Amministratori, a cura di F.Ghezzi, in Commentario alla riforma delle società, a cura di P.Marchetti e aa., Giuffrè, Milano, 2005, 94). A mio avviso, quest’ultima opinione è ispirata agli stessi pregiudizi che, un tempo, portavano a dubitare della validità dei sindacati di voto: non c’è ragione per contestare la validità di patti partecipativi (cioè volti ad influenzare, dall’esterno, le scelte degli organi societari, ivi comprese quelle gestionali dell’organo amministrativo), purché abbiano causa lecita.

30

3

Cfr. M.LIBERTINI (nt. 29), 482 ss.

31

3

Cfr., per esempio, la Deliberazione del Consiglio comunale di Torino del 6 ottobre 2008, in www.comune.torino.it

26

Page 27: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

lavori sull’esecuzione del servizio). La legittimità di questa prassi è stata avallata da diverse

pronunce giurisprudenziali32. In particolare, il Consiglio di Stato ha ritenuto che costituirebbe

condizione necessaria e sufficiente, per garantire il “controllo analogo”, la previsione

statutaria di una “Assemblea dei Sindaci, con la quale i Comuni soci si riserv[ino], oltre a

rafforzati poteri di controllo sulla gestione, il potere, ad esercizio necessariamente congiunto

di approvare in via preventiva tutti gli atti più rilevanti della società, ovverosia, tra le altre,

tutte le deliberazioni da sottoporre all'assemblea straordinaria, quelle in materia di acquisti e

cessioni di beni e partecipazioni, quelle relative alle modifiche dei contratti di servizio, quelle

in tema di nomina degli organi e quelle in ordine al piano industriale”33.

A tale proposito, c’è chi ha ritenuto che tale prassi statutaria trovi una legittimazione nella

norma speciale (proprio quella richiamata al § 1) che, per le società in house, fa riferimento ai

“principi del diritto comunitario in materia di controllo analogo”. Secondo questa prospettiva,

per le società di autoproduzione in mano pubblica, l’autonomia statutaria potrebbe esprimersi

anche con la creazione di modelli di organizzazione atipici, se e in quanto giustificati e

finalizzati alla realizzazione del “controllo analogo”, così come richiesto dalla giurisprudenza

europea. Pertanto, non sarebbe necessario verificare che tali organi atipici siano compatibili o

meno con la disciplina comune delle s.p.a. in diritto italiano.

Questa tesi non mi sembra condivisibile. L’art. 23-bis del d.l. 112/08, da cui prendono le

mosse le riflessioni del presente scritto, nel richiamare i principi del diritto europeo in materia

di “controllo analogo”, non detta alcuna disposizione che preveda deroghe al diritto societario

generale italiano. D’altra parte, la sentenza SeTCo ha chiarito che il diritto europeo non

impone ai diritti nazionali di adeguare i propri ordinamenti interni, in materia di diritto

societario, al fine di consentire la realizzazione del “controllo analogo” in qualsiasi tipo

32

3

Cfr. Trib. Mantova, 8 maggio 2007, in Il caso.it, 2007; Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2009, n. 5808; T.A.R. Sardegna – Cagliari, sez. I, 12 agosto 2008, n. 1721, T.A.R. Lombardia – Brescia, 2 maggio 2006, n. 433. V. anche T.A.R. Sicilia – Catania, sez. III, 4 gennaio 2008, n. 52, che ritiene legittima una clausola statutaria che attribuisce alla holding il potere di nominare amministratori e sindaci delle società controllate, nonché poteri di controllo ispettivi direttamente in capo agli azionisti.V. ancora T.A.R. Friuli-Venezia Giulia – Trieste, 10 gennaio 2007, n. 13, che, a fronte di uno statuto sociale che attribuisce al Comune socio ampi diritti di informazione e consultazione preventiva sulle decisioni gestionali più significative, ritiene insufficienti tali poteri al fine di determinare una situazione di “controllo analogo”, senza peraltro porre in dubbio la validità delle clausole statutarie esaminate.

33

3

Così Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2009, n. 5082.

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societario; piuttosto, ha sancito che il problema dell’esistenza o meno del “controllo analogo”

e degli strumenti giuridici che lo sorreggono è problema esclusivamente di diritto interno.

Si deve allora osservare che il diritto italiano, nell’art. 2449 c.c., consente sì che gli statuti

prevedano la nomina esterna di amministratori, da parte di enti pubblici soci, ma solo nelle

società “chiuse” e solo “in proporzione alla partecipazione al capitale sociale”; ciò che

sembra sistematicamente incompatibile con l’idea che lo statuto possa attribuire all’ente

pubblico socio, in quanto tale, diritti amministrativi diversi da quelli spettanti all’organo

amministrativo ufficiale34. Lo stesso art. 2449 sancisce poi – com’è noto – che gli

amministratori così nominati hanno gli stessi diritti ed obblighi di quelli nominati in sede

34

3

Cfr. C.PECORARO, Privatizzazione dei diritti speciali di controllo dello Stato e dell’ente pubblico nelle s.p.a.: il nuovo art. 2449 c.c., in Riv.soc., 2009, 947 ss.

28

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assembleare35, così ribadendo la difficoltà che lo statuto di una s.p.a. possa attribuire

all’azionista pubblico poteri amministrativi diretti.

Più in generale, una volta acquisito che il problema della validità delle clausole statutarie che

prevedono organi amministrativi o di indirizzo atipici nelle s.p.a. c.d. in house debba essere

risolto alla stregua delle norme generali della s.p.a., il discorso si incentra sulla imperatività o

meno dell’art. 2380-bis, c.c., che sancisce che “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente

agli amministratori”. L’orientamento corrente è, appunto, nel senso della imperatività, in

35

3

Più in generale, nel senso che, in mancanza di disposizioni speciali, le società di capitali in mano pubblica, debbano essere disciplinate solo dalla norme privatistiche generali del diritto societario, v. da ultimo G.D’ATTORRE, Società a partecipazione pubblica e giurisdizione, in Società, 2005, 877 ss. [in conformità all’orientamento corrente nella dottrina privatistica: v. M.T.CIRENEI (nt. 2), 57 ss.].Non convince, tuttavia, l’argomentazione secondo cui tale conclusione discenderebbe dalla “scelta compiuta dall’ente pubblico… di assoggettarsi alla disciplina privatistica per i relativi rapporti societari interni”. Non rientra, infatti, nell’autonomia dell’ente pubblico quella di assoggettare alla disciplina privatistica le proprie scelte, quando queste hanno carattere autoritativo o comunque discrezionale (nell’esercizio di funzioni di pubblico interesse), perché ciò consentirebbe di eludere i più penetranti controlli giuridici, che l’ordinamento impone all’esercizio dell’attività amministrativa. In altri termini, l’ente pubblico può scegliere di agire come “investitore privato”, rispettando interamente le logiche di tale figura; ma, se decide di usare lo strumento della società di capitali per il perseguimento di finalità pubbliche (ivi compresa la scelta dell’autoproduzione) non può pretendere di sottrarsi (del tutto) alla soggezione a norme di tipo pubblicistico.Non è questa la sede per affrontare l’intera problematica e i relativi dubbi sull’applicabilità di norme pubblicistiche alle società a partecipazione pubblica (dubbi che vanno dai profili di diritto penale, alla soggezione alla disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi, alla giurisdizione della Corte dei Conti, alla soggezione della disciplina dell’evidenza pubblica nei contratti, alla disciplina applicabile alla nomina e revoca degli amministratori). Va però ricordato che, nella giurisprudenza amministrativa, più recente, prevale (in contrasto con l’orientamento tradizionale della giurisprudenza civile: cfr. Cass.civ., ss.uu., 15 aprile 2005, n. 7799) l’idea che gli atti di nomina e revoca di amministratori, da parte dell’ente pubblico, siano atti amministrativi (soggetti alla relativa giurisdizione) e non negoziali: cfr. T.A.R. Campania – Napoli, 11 febbraio 2005, n. 963, in Società, 2005, 876 (sia pure come obiter dictum) e, soprattutto, T.A.R. Lazio – Roma, sez. III-ter, 8 novembre 2007, n. 11271 (nel noto caso Petroni – Rai), che non solo sancisce che gli atti deliberativi di revoca dell’amministratore di nomina pubblica sono soggetti al sindacato di legittimità proprio degli atti amministrativi (in contrasto con l’ìnsindacabilità della decisione di revoca dell’amministratore, nel regime privatistico delle società di capitali), ma anche che l’annullamento dell’atto deliberativo di revoca comporta anche caducazione della successiva deliberazione assembleare di revoca. Quest’ultima conclusione potrebbe oggi inquadrarsi nella più generale regola comunitaria (Dir. 2007/66/CE) che impone tutela piena ed effettiva dell’interesse legittimo del privato interessato, nella disciplina dei contratti ad evidenza pubblica, ed ha portato la Cassazione a riconoscere che la caducazione del contratto “a valle” di un’aggiudicazione illegittima costituisce una modalità di riparazione in forma specifica dell’interesse del concorrente leso, come tale rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo (Cfr. Cass.civ., ss.uu., 12 febbraio 2010, n. 2906). Rimane peraltro un forte dubbio sulla possibilità di estendere una conclusione, dettata per i contratti di appalto della p.a., alle deliberazioni assembleari di società di capitali a cui partecipi un ente pubblico.Dal diritto vivente (di cui si denunciano spesso, peraltro, le oscillazioni, legislative e giurisprudenziali: v., p.es., M.P.CHITI, Le carenze della disciplina delle società pubbliche e le linee direttrici per un riordino, in

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linea di principio, delle norme sull’organizzazione della s.p.a.36. Le ragioni di tale

orientamento sono due:

(i) la prima è una ragione di certezza dei rapporti, che si instaurano all’interno e

all’esterno delle imprese costituite in forma di s.p.a. (quella stessa ragione che ha

ispirato l’espansione massima della tutela dei terzi nei confronti degli atti del

rappresentante statutario, quale risulta dalla versione vigente dell’art. 2384 c.c.); la

precisa attribuzione di competenze inderogabili costituisce, da questo punto di vista,

un’ottima garanzia contro il possibile insorgere di controversie e contro la crescita dei

costi di informazione per tutti i soggetti interessati;

(ii) la seconda è una ragione di efficienza produttiva: la riforma ha certamente voluto un

organo amministrativo con maggiori poteri, ma anche informato e professionale, come

garanzia della stabilità e dell’efficienza della gestione dell’impresa sociale, e quindi

come garanzia di migliore cura degli interessi degli azionisti.

Perciò l’art. 2380-bis è stato inteso come una vera e propria disposizione di principio, dettata

dalla legge di riforma37; da ciò la maggior parte degli interpreti ha dedotto l’incompatibilità

con la disposizione in esame di clausole statutarie che prevedano lo spostamento di

Giorn.dir.amm., 2009, 1115 ss.) sembra comunque desumersi – in contrasto con gli orientamenti della disciplina commercialistica - una tendenza ad ammettere con larghezza deroghe al diritto privato, nella disciplina delle società in mano pubblica. Si deve peraltro opportunamente distinguere fra società “di mercato”, in cui la partecipazione pubblica si caratterizzi come quella di un normale “investitore privato” e società destinate ad operare come strutture strumentali dell’amministrazione (fra cui le società di autoproduzione e di servizio di interesse economico generale). Per le prime la disciplina privatistica si applicherà integralmente, mentre per le seconde si dovrà ricorrere a soluzioni combinatorie di norme amministrative e privatistiche (cfr. A.MASSERA, Le società pubbliche, in Giorn.dir.amm., 2009, 894).Resta comunque da riconoscere che, anche per queste ultime:

(i) la disciplina privatistica delle società continua ad essere applicabile, alle società di capitali in mano pubblica, almeno come disciplina residuale;

(ii) le deroghe, per quanto valutabili come non eccezionali, e così suscettibili anche di interpretazioni estensive, devono comunque avere una base normativa;

(iii) una simile base normativa di deroga non sembra oggi ravvisabile, per ciò che riguarda l’organizzazione interna delle società di capitali a partecipazione pubblica (v. infra, nel testo); anzi, può dirsi che regole organizzative speciali sono sì dettate per gli organi amministrativi delle società a partecipazione pubblica (art. 1, comma 729, l. 296/2006; art. 19, d.l. n. 78/2009, conv. con l. 102/2009), ma sono rivolte a contenere la spesa pubblica (numero e remunerazione degli amministratori), mentre non toccano le competenze dei consigli di amministrazione.

36

3

Cfr. M.LIBERTINI, Scelte fondamentali di politica legislativa e indicazioni di principio nella riforma del diritto societario del 2003. Appunti per un corso di diritto commerciale, in Riv.dir.societario, 2008, 214 ss.

37

3

Cfr. N.ABRIANI, in Il nuovo diritto societario, a cura di G.Cottino e aa., Zanichelli, Bologna, 2004, 669 ss.

30

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competenze dall’organo amministrativo all’assemblea38. A fortiori queste ragioni dovrebbero

valere per escludere l’ammissibilità di organi atipici, ai quali siano trasferiti poteri del c.d.a.,

che non potrebbero essere neanche attribuiti all’assemblea degli azionisti.

La soluzione non cambia se il “comitato di controllo analogo”, anziché essere costruito come

un organo dotato di poteri gestionali, sia costruito come un organo di controllo di gestione

(non è escluso che, in qualche esperienza applicativa, si sia ragionato equivocamente sul

doppio significato che il termine “controllo” ha nel diritto societario). In questa prospettiva, la

previsione del “comitato di controllo analogo” verrebbe a scontrarsi con il principio di

indipendenza e – se fosse prevista la gratuità delle cariche, come talora è effettivamente

avvenuto – anche con il principio della necessaria onerosità dell’esercizio della funzione di

controllo all’interno della s.p.a.

Lo stesso ordine di ragioni vale, a mio avviso, per escludere la possibilità di superare

l’impasse nominando direttamente amministratore la persona giuridica azionista. Per quanto

la tesi dell’ammissibilità della nomina di persone giuridiche come amministratori di s.p.a. sia

sempre più frequentemente sostenuta39, ritengo che la stessa sia inaccettabile, perché

comporta l’elusione di almeno due norme imperative: quella che attribuisce all’assemblea la

competenza alla nomina degli amministratori e quella che vieta di delegare a soggetti esterni

all’organo amministrativo della società i poteri di gestione dell’azienda sociale.

38

3

Cfr. M.FRANZONI, Società per azioni – III, Dell’amministrazione e del controllo – 1. Disposizioni generali. Degli amministratori – Art. 2380-2396, in Commentario al Codice Civile Scialoja – Branca, a cura di F.Galgano, Zanichelli – Foro it., Bologna – Roma, 2008, 9 (“una norma così inequivoca lascia propendere per la soluzione che nega la possibilità di impiegare l’autonomia statutaria per ampliare i poteri dell’assemblea a scapito di quelli dell’organo amministrativo”); nonché, fra gli altri, G.D.MOSCO, in Società di capitali, a cura di G.Niccolini e A.Stagno d’Alcontres, Jovene, Napoli, 2004, II, 589; nonché P.MORANDI, in Il nuovo diritto delle società, a cura di A.Maffei Alberti, Cedam, Padova, 2005, I, 650 ss. (anche se con critiche de iure condendo).

39

3

V., da ultimo, G.PESCATORE, Società di capitali amministratrice di altra società di capitali, in Giiur.comm., 2009, I, 1158 ss., che trae spunto dall’analogo parere espresso dal Consiglio Notarile di Milano.Fra gli argomenti avanzati da P., il più significativo mi sembra quello ricavato dal confronto sistematico con la disciplina delle società di persone e della s.r.l., in cui si ammette che una persona giuridica possa essere socia e, come tale, titolare di poteri amministrativi. Peraltro, mi sembra che l’elasticità di soluzioni ammessa dalla legge, per ciò che riguarda la funzione amministrativa nelle società a base personale, consente di considerare non decisivo tale confronto sistematico: è invece plausibile che, nella s.p.a., la cui disciplina è impostata secondo una logica istituzionale, sia necessario un consiglio di amministrazione composto da soggetti ben individuati e stabili, pienamente responsabilizzati per l’esercizio della gestione sociale, così come avviene di norma nell’organizzazione istituzionale di qualsiasi ente. L’inammissibilità del voto per rappresentanza nel c.d.a. (art. 2388.3 c.c.) è espressione diretta di questa scelta di principio del legislatore.

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In conclusione, sarei dell’idea che non è consentito, nel nostro ordinamento, dare agli

azionisti – foss’anche agli azionisti pubblici – un “controllo analogo” di fonte statutaria

mediante la creazione di organi atipici, direttamente partecipati dell’azionista, aventi – per

previsione statutaria – poteri di indirizzo o di controllo sostitutivo o di gestione diretta, o

quant’altro, con limitazione dei poteri attribuiti ex lege all’organo amministrativo. Non credo

che sia sistematicamente sostenibile che un organo atipico possa vedersi attribuire poteri che

lo statuto non potrebbe direttamente attribuire all’assemblea.

Peraltro, di fronte alla diffusione di questi fenomeni nella prassi statutaria, si deve

attentamente riflettere prima di accogliere definitivamente la conclusione della nullità delle

clausole sopra descritte e la loro eventuale conversione in patti parasociali (ciò che,

comunque, non sarebbe un dramma: ribadisco, infatti, che la costruzione di un efficace

“controllo analogo” parasociale è certamente possibile).

Un elemento di riflessione è dato dalla circostanza che l’ente pubblico azionista può acquisire

– come tale - un potere di “direzione e coordinamento” della, o delle, società controllate, ai

sensi dell’art. 2497 c.c.: l’art. 19, comma 6, d.l. 1° luglio 2009, n. 78, conv. con l. 3 agosto

2009, n. 102, ha infatti chiarito che “L'articolo 2497, primo comma, del codice civile, si

interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato,

che detengono la partecipazione sociale nell'ambito della propria attivita' imprenditoriale

ovvero per finalita' di natura economica o finanziaria”. E’ da ritenere che anche la finalità di

autoproduzione sia una “finalità di natura economica” e quindi consenta di configurare un

rapporto di direzione e coordinamento fra l’ente, o gli enti pubblici soci (con la sola

esclusione, politicamente discutibile e probabilmente incostituzionale, dello Stato) e la società

di autoproduzione da essi controllata.

Le clausole statutarie sopra descritte potrebbero dunque configurarsi, più che come semplici

patti parasociali, come norme di regolamento interno di un gruppo a dominanza pubblica. Ciò

non fa venir meno la conclusione dell’incompatibilità delle clausole in esame con norme

inderogabili sull’organizzazione della s.p.a., ma consente anche di inquadrare l’esigenza e gli

strumenti, che dette clausole rappresentano, in una disciplina ormai collaudata del diritto

societario, qual è quella dei gruppi, ex art. 2497 ss., c.c. Una disciplina che certamente muove

dal riconoscimento di un forte potere effettivo in capo al soggetto, o ai soggetti che stanno al

vertice del gruppo.

32

Page 33: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

10. Il secondo requisito delle società di providing in house, cioè quello della “destinazione

prevalente” dell’attività produttiva all’ente, o agli enti soci, è stato meno approfondito,

dalla giurisprudenza comunitaria, rispetto a quello del “controllo analogo”.

Il punto più interessante, in proposito, è costituito dal fatto che la giurisprudenza comunitaria,

fin dall’origine, non ha mai richiesto la destinazione “esclusiva” della produzione all’ente di

appartenenza, come pure sarebbe sembrato coerente con la finalità dell’autoproduzione.

Questa circostanza potrebbe far pensare che il requisito della prevalenza sia una sorta di

regola de minimis, cioè il riconoscimento di un margine di tolleranza puramente quantitativo,

che consentirebbe all’impresa di autoproduzione di esercitare normalmente i suoi affidamenti

diretti, facendo pure nei mercati esterni qualche incursione, purché limitata a casi sporadici,

peraltro non meglio identificati.

Questa interpretazione non mi sembra accettabile: le regole de minimis hanno senso se

servono ad evitare il sovraccarico di lavoro di qualche organo amministrativo, che deve curare

determinati interessi, ma non anche in una situazione del genere, in cui si pone il problema di

garantire che le società di autoproduzione si limitino a svolgere la loro missione curando al

meglio la missione affidata dall’ente di appartenenza e non si dedichino piuttosto a fare una

concorrenza differenziale alle imprese private, sfruttando la situazione di privilegio derivante

loro dalla fruizione di un mercato captive. Inoltre, una regola de minimis può funzionare solo

se una fonte normativa specifichi i confini, necessariamente convenzionali e pragmatici, della

regola stessa. Una fonte normativa di questo tipo manca, nella materia in esame.

Non resta dunque che pensare che il limite della “prevalenza” debba intendersi in senso

funzionale e qualitativo, e non meramente quantitativo. In altri termini, deve ritenersi che le

società di autoproduzione siano soggette ad un divieto di principio di prestare servizi a favore

di soggetti diversi dagli enti soci. Questo divieto può subire deroghe solo se la prestazione

eccezionale di servizi a terzi sia giustificata da ragioni speciali di continuità ed efficienza del

servizio principale, e quindi possa considerarsi, sul piano funzionale, come parte integrante di

esso. Si pensi, per esempio, ad un servizio di trasporto comunale di una grande città, che

estenda la propria attività anche ad alcuni comuni limitrofi, nei quali risiedono molte persone

che svolgono il loto lavoro nella città principale e quindi hanno l’esigenza di trasporti

pendolari.

Al fine di garantire il rispetto del requisito della “destinazione prevalente” occorre dunque che

lo statuto societario – se non si vuol parlare di destinazione esclusiva – chiarisca i limiti della

possibilità eccezionale di svolgere l’attività con soggetti terzi, nel rispetto dei criteri sopra

indicati.

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Page 34: Libertini Mario_le Societ Di Autoproduzione

11. Il requisito della “destinazione prevalente” non pone, peraltro, un limite alla capacità

di diritto privato delle società di autoproduzione.

E’ da ritenere, pertanto che eventuali contratti, conclusi dalla società di autoproduzione con

soggetti diversi dai soci, siano civilisticamente validi. Così pure, non può dirsi che il diritto

europeo imponga un limite di principio, a carico delle società di autoproduzione, per la

partecipazione a gare pubbliche aventi ad oggetto l’affidamento di servizi presso enti diversi

da quelli soci.

Il limite, posto dal diritto comunitario, è piuttosto quello del divieto, per la società di

autoproduzione, di fare concorrenza sleale nei confronti delle imprese private, offrendo i

propri servizi sotto costo a privati o formulando offerte anomale in una pubblica gara (è

questa l’indicazione di principio che mi sembra di poter desumere dalla recente sentenza

CGCE, 23 dicembre 2009, C-305/08, CoNISMa).

Poiché, tuttavia, il rispetto di questi vincoli di costo non è mai facile da verificare in modo

soddisfacente, appare del tutto legittimo che una norma di diritto nazionale – come quella

dell’art. 13 del nostro d.l. 223/08, conv. con l. 246/08 – ponga dei divieti di vendita a terzi e di

partecipazione alle gare, a carico delle società in house. Questo limite è giustificato da ragioni

di tutela della concorrenza40 e ciò induce a pensare che le relative norme non possano essere

qualificate come eccezionali e di stretta interpretazione, come invece ritiene l’orientamento

oggi prevalente nella giurisprudenza amministrativa italiana41.

40

4

In tal senso, nettamente, Corte cost., 1° agosto 2008, n. 326, secondo cui la norma ha lo scopo di evitare che società, che godono di posizioni privilegiate in certi mercati, possano far concorrenza alle imprese private nei mercati liberi. Sul punto v. anche infra, nt. 42-44.

41

4

Cfr. Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2010, n. 1282; Cons. Stato, sez. V, 7 luglio 2009, n. 4346; Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3767; Cons. Stato, sez. VI, 16 gennaio 2009, n. 215; Cons. Stato, sez. V, 14 gennaio 2009, n. 101; T.A.R. Lazio – Roma, sez. II, 5 gennaio 2010, n. 36; T.A.R. Lazio – Roma, sez. III-ter, 6 novembre 2009, n. 10892; T.A.R. Liguria – Genova, sez. I, 9 gennaio 2009, n. 39. Con formule simili e ricorrenti, le sentenze citate affermano che “la norma dell’art. 13, comma 1 [d.l. 223/06] ha carattere eccezionale e deve essere interpretata in stretta aderenza al suo dato letterale e senza possibilità di applicazione alcuna al di fuori dei casi in essa previsti”.Da questo assunto, già discutibile in linea di principio per le ragioni accennate nel testo, questa giurisprudenza deduce due conseguenze discutibili anche sul piano dell’interpretazione letterale:

(i) la prima è quella per cui la disciplina in questione non si applicherebbe alle società solo indirettamente partecipate dall’ente pubblico;

(ii) la seconda è quella per cui il divieto si applicherebbe solo “allorquando l’attività che le società sono chiamate a svolgere sia rivolta agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società per svolgere funzioni di supporto di tali amministrazioni pubbliche secondo l’ordinamento amministrativo”.

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Quest’ultimo filone giurisprudenziale interpreta la disposizione in esame alla luce di un

supposto principio di piena libertà d’iniziativa economica degli enti pubblici. In questo senso,

esso appare orientato in direzione opposta a quella dell’art. 23-bis, d.l. 112/08, che sembra

confinare a situazioni eccezionali la stessa facoltà di autoproduzione di beni e servizi da parte

di anti pubblici (v. supra, § 4).

In realtà, come sopra si è visto (§§ 4-5), i principi del diritto europeo tendono a distinguere

nettamente le attività dell’ente pubblico che operi come investitore privato – e che, in tal caso,

non deve godere di alcun privilegio – da quella dell’ente pubblico che svolga attività di

autoproduzione. Per quest’ultimo caso, il principio non è affatto quello della libertà di

ampliamento delle proprie attività per le società di providing in house, bensì il principio

opposto: la giustificazione dell’autoproduzione sta nella scelta di non fare ricorso al mercato.

Ne consegue che la società di autoproduzione pubblica, pur non essendo completamente

immune dal rischio di impresa, affronta certamente un rischio attenuato, come qualunque

impresa che abbia il vantaggio di una clientela captive. Inoltre, a differenza di quanto

potrebbe accadere per una società di autoproduzione privata, quella pubblica si caratterizza

per la presenza di un socio di controllo che è normalmente molto meno sensibile di una

holding privata, rispetto ai problemi di valorizzazione e di profittabilità dell’investimento.

Ciò spiega la scelta del diritto europeo di considerare la società di autoproduzione pubblica

come un organismo operante con logica non propriamente di mercato, e quindi non idoneo ad

operare in condizioni di parità concorrenziale con le imprese private. Le situazioni ibride non

sono consentite. Le norme italiane, che sanciscono, con modalità parzialmente diverse, il

In realtà, ambedue le conclusioni sopra riassunte sono il risultato di una interpretazione restrittiva, anziché letterale, del testo normativo. Infatti, le espressioni “capitale pubblico” e “partecipazione pubblica”, contenute nel testo dell’art. 13, sono idonee a comprendere, secondo il loro ordinario significato nel diritto societario, tanto le partecipazioni dirette, quanto quelle indirette, intestate ad una società intermedia, controllata dall’ente pubblico: l’articolazione della catena di controllo è infatti di norma indifferente, al fine di determinare l’ambito di applicazione di norme che a tale fenomeno si riferiscono. Invece, la giurisprudenza qui criticata (modificando un orientamento precedente: v. Cons. Stato, sez. VI, 7 ottobre 2008, n. 4829) intende restrittivamente i termini sopra ricordati, riferendoli alle sole partecipazioni di primo livello. Inoltre, il testo dell’art. 13 distingue chiaramente la “produzione di beni o servizi strumentali all’attività degli enti” (senza porre altro limite se non quello dell’attività concretamente e legittimamente svolta dall’ente) dallo “svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative” (clausola che sembra impiegata dal legislatore al fine di allargare l’ambito di applicazione del divieto anche al di fuori della “fornitura di beni e servizi” in senso proprio). Invece, l’interpretazione qui criticata richiede, per l’applicazione del divieto, che la società di cui si tratta svolga servizi strumentali all’esercizio delle funzioni amministrative in senso stretto (ciò che costituisce, appunto, interpretazione restrittiva del dato testuale). Sulle difficoltà applicative, connesse a questa ultima nozione, v. comunque anche supra, nt. 11.

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divieto per le società di autoproduzione pubblica di svolgere attività extra moenia, devono

essere inquadrate sistematicamente in questa indicazione di principio del diritto europeo42, e,

più in generale, devono essere viste come norme di attuazione del principio, anche

costituzionale, di tutela della concorrenza43. In questa prospettiva, non si giustifica l’idea di

una eccezionalità delle norme in questione, e tanto meno si giustifica l’idea della necessità di

una interpretazione restrittiva delle medesime44.

42

4

V. anche il considerando n. 4 della Dir. 18/2004/CE, che impone agli Stati membri di “provvedere affinché la partecipazione di un offerente che è un organismo di diritto pubblico a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico non causi distorsioni della concorrenza nei confronti di offerenti privati”.

43

4

Alcune critiche dottrinali (v., p.es., B.CARAVITA di TORITTO, E’ veramente proconcorrenziale l’art. 13 del decreto Bersani?, in www.Federalismi.it,, n. 9/2007), che ritengono sostanzialmente restrittiva della concorrenza una disciplina che ha l’effetto di limitare la partecipazione alle gare, risentono di una visione meramente statica della concorrenza (v. supra, § 3).

44

4

Nel senso del testo v. Cons. Stato, sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 4 settembre 2007, n. 719; T.A.R. Lombardia – Brescia, sez. II, 9 dicembre 2009, n. 2511; T.A.R. Sicilia – Catania, sez. III, 18 giugno 2009, n. 1161; T.A.R. Puglia – Lecce, sez. I, 6 maggio 2009, n. 908; T.A.R. Sicilia – Palermo, sez. I, 29 aprile 2009, n. 785; T.A.R. Toscana – Firenze, sez. I, 13 marzo 2009, n. 417; T.A.R. Lombardia – Brescia, sez. I, 26 novembre 2008, n, 1689; T.A.R. Lombardia – Brescia, sez. I, 17 dicembre 2007, n. 1375; T.A.R. Lombardia – Milano, 19 ottobre 2007, n. 6137. Il criterio di interpretazione estensiva, sostenuto nel testo, è espressamente enunciato da T.A.R. Sardegna – Cagliari, sez. I, 11 luglio 2008, n. 1371; esso è stato sostanzialmente adottato anche da Cons. Stato, sez. III, 25 settembre 2007, n. 322, che ha inteso il termine “amministrazioni locali”, contenuto nell’art. 13, come comprensivo anche delle Camere di commercio. V. anche T.A.R. Lazio – Roma, sez. II, 5 giugno 2007, n. 5192 (per cui, giustamente, “l’art. 13 del.. Decreto Bersani, lungi dal violare l’art. 41 Cost., ne costituisce immediata applicazione mirando dichiaratamente a preservare il mercato da alterazioni e fenomeni discorsivi delle regole di concorrenza”; però, come segnalato alla nota precedente, la giurisprudenza successiva del TAR Lazio è andata in contrario avviso).Nello stesso senso, in dottrina, I.PAGANI, Società pubbliche e mercato: quale equilibrio, alla luce dell’art. 13 del decreto Bersani?, in Urbanistica e appalti, 2008, 1177; nonché D.CASALINI, Oltre la tutela della concorrenza: le forme giuridiche di esercizio dell’impresa pubblica, in Giorn.dir.amm., 2009, 969 ss. (ove anche l’opportuna precisazione per cui il limite non riguarda le società che godano occasionalmente di affidamenti diretti, bensì quelle che siano state costituite con una specifica missione di autoproduzione).

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