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Lo Strano Caso Del Signor Mesina-Giorgio Pisano

Date post: 10-Jun-2015
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Page 1: Lo Strano Caso Del Signor Mesina-Giorgio Pisano

LO STRANO CASODEL SIGNOR MESINA

Giorgio Pisano

Il Maestrale

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LIBRISTANTE

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Giorgio Pisano

Lo strano caso del signor Mesina

Il Maestrale

Giorgio PisanoLo strano caso

del signor Mesina

CopertinaNino Mele

ImpaginazioneImago multimedia

Edizioni Il Maestrale

Redazione:via Massimo D’Azeglio 8

08100 Nuoro

Telefono e Fax:0784 31830

E-mail:[email protected]

Internet:www.edizionimaestrale.com

ISBN 88-86109-86-5

Proprietà letteraria riservata© Edizioni Il Maestrale 2005

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A mio figlio

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I

A casa

«Ce n’è ce n’è, da fare». Lo aspetta, per iniziare, unlavoro da magazziniere, poi magari torna in Sardegna esegue il forno del fratello, a Budoni. «Insomma, rico-mincio».

Graziano Mesina non ha più il fisico della fuga: po-chi capelli, pancetta dilagante, zampe di gallina sugliocchi. Un signore ingrigito, ormai. Intontito dall’effettoaria, dalle prime sei ore di libertà, confuso, uomo qua-lunque tra gente qualunque. Ballore, il fratello maggio-re, è andato a prenderlo alle Nuove di Torino con la suavecchia macchina e se l’è portato a casa, per sottrarlo al-la curiosità della gente e guardarlo dritto in faccia. «An-che se ha cinquant’anni, per noi i più piccoli restanosempre bambini». Deve dargli qualche consiglio im-portante per sopravvivere ora che va a scoprire, a risco-prire, un altro mondo.

Morto il padre Pasquale, il capofamiglia è lui. DaOrgosolo è fuggito nell’epoca del boom economico, èplanato a Crescentino, quaranta chilometri da Fiat city,in tempi non facili, quando tutti i meridionali venivanochiamati sbrigativamente “Napoli”. Non faceva diffe-renza essere siciliani o calabresi, pugliesi o sardi. «Hofatto le ossa alla vita».

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gilla. Per festeggiare, Ballore stappa una bottiglia d’ac-quavite scura, fatta macerare con bucce d’arancia. Gra-di tanti, tra quaranta e cinquanta. Buona, assicura unagiovane milanese che ha avuto il privilegio di essere in-vitata a questa tavolata di famiglia, destinata a pochi in-timi, santi bevitori.

Come succede? Chissà. Mezzanotte, cielo umido esenza stelle, Crescentino è a letto, domani la sirena dellafabbrica fischierà presto, lacererà la quiete di un’albaidentica a quella di ieri, alba fatta in serie. Qualcuno no-mina Orgosolo e Mesina fugge d’improvviso a perdifia-to sul filo sospeso della memoria.

Pare solo con se stesso, quasi fosse tornato in cella,guarda oltre la finestra. E riesce a rivedere la vecchiaabitazione di famiglia, pietra su pietra nella parte altadel paese. Chiusa, da tempo. Ogni tanto è meta di buscarichi di turisti che vogliono osservare la casa del ban-dito. Talvolta, se si è fortunati, si può incontrare la mam-ma dell’ex ergastolano. Certo, non è moltissimo ma al-meno il tour del brivido non va buco. Di solito il pro-gramma, oltre la sosta-meditazione davanti al vicolo do-ve Mesina ha trascorso l’infanzia, prevede una puntatasul Supramonte, pranzo all’aperto con l’arrosto cucina-to dai pastori, i grandi spiedi di legno e un’atmosfera va-ga da Far West d’Italia.

Zia Caterina neppure si accorge di chi la scruta concuriosità. Alle soglie del secolo di vita, fatica a reggersiin piedi, non può fare a meno di un’assistenza continua.Starle dietro, adesso che con la testa non c’è più, è moltofaticoso. Settimana dopo settimana si sposta in conti-nuazione: un po’ con Peppedda, un po’ con Antonia, unpo’ con Peppe. Dei suoi undici figli sono quelli rimasti a

Graziano lo guarda con grande rispetto, gli deve ob-bedienza. Soprattutto adesso che avverte una strana feb-bre: gli frullano in testa mille idee e mille progetti. Millepaure, forse, ma di quelle non parla. Nell’appartamen-tino di Ballore, palazzina popolare di mattoni rossi im-mersa in un centro operaio, cintura industriale senzastoria e senza presente, si sente al sicuro. Gli stannodando la caccia un centinaio di giornalisti: Mesina libe-ro, Grazianeddu (come piace chiamarlo ai milanesi)esce dal carcere. Oggi, 19 ottobre 1991, è tutta per lui laseconda notizia dei Tg nazionali, il titolone di primapagina di numerosi quotidiani. Uno condisce l’avveni-mento in salsa western: il ritorno di Graziano.

La cena è pronta: salsiccia, pane carasau, pecorino eun vino che lascia l’impronta color inchiostro sul bic-chiere. «Quanto avrà? Quattordici, quindici gradi nondi più». Si fa sentire, aiuta ad accendere la notte di eu-foria. Intanto Graziano, rigorosamente astemio, parla.Corre sul suo passato, salta da un episodio all’altro, ri-sponde al telefono che squilla in continuazione: «Deso-lato, non è qui. Terrà una conferenza stampa nei prossi-mi giorni». Gli piace questo giochino di smarcamentodei giornalisti, lo rende felice. E tanto per stupire i treamici a tavola, tira fuori referenze di tutto rispetto:«Devo ringraziare Maurizio Costanzo, mi ha mandatoun bellissimo telegramma. Devo ringraziare anche GigiRiva, mi ha regalato magliette e scarpe per la mia squa-dra di calcio, a Porto Azzurro». Campionato dietro lesbarre, entusiasmante. «Fino a quando non mi hannoportato via due titolari»: trasferiti, esigenze di giustizia.

Ogni tanto dà un’occhiata all’orologio, un patacco-ne d’oro massiccio. Un regalo, si capisce da come lo gin-

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Una mattina, ora di pranzo, gli tendono un agguatomentre si trova in un viottolo di campagna con due col-leghi. Tutti giù, faccia in terra. «Non abbiamo capito co-sa volessero, perché ci facevano mettere in quella posi-zione», racconterà più tardi uno dei due testimoni. Chevolevano? Facile: uno di loro doveva essere giustiziato.Quasi a bruciapelo, senza pietà, il viso poggiato sull’er-ba. La notizia rimbalza in paese nel primissimo pome-riggio, sibila velocissima tra le sedie sistemate davantialle case per sfuggire al caldo. Qualcuno ricorda ancorail grido ossessivo di un improvvisato banditore, un vec-chietto che tutti conoscevano per una sua donabbon-diesca fragilità. Tziu Leoni, lo chiamavano con velenosaironia. «Non ho visto niente, non ho visto niente, nonho visto niente», ripeteva scartando angoli e stradine,maratoneta impazzito. Correva, correva senza fermarsi.

Cos’è rimasto di tutto questo? Un ricordo polvero-so, la casa dell’infanzia dove si viveva in dieci, piccolama capiente. Quando Graziano è nato, nel 1942, Orgo-solo non faceva quattromila abitanti (3.937 al primogennaio). E gli altri, dove sono gli altri? Maestro Bassu,maestra Monni, la signorina Veronica. Erano i pionierid’una scuola elementare che i ragazzetti dividevano ametà con la custodia del gregge. Le bambine giocavanocon bambole di stoffa, realizzate con le loro mani, le piùbrave riuscivano a farle intrecciando foglie d’asfodelo.Il pomeriggio, coi maschietti, si giocava a bandidos esordados (la versione più aggiornata, banditi e carabi-nieri, è arrivata molto più tardi). Come molti suoi amici,Graziano aveva su carrozzinu, una tavola di legno suruote di sughero, per volare a tutta velocità in discesa,preistoria dello skateboard. Televisori ce n’erano po-

Orgosolo. Rosa e Antonio abitano a Budoni, Ballore eGraziano sono su, in Piemonte.

Rimettere tutti insieme, magari per un momento,per la festa dei cent’anni? Sarebbe bello, e troppo dolo-roso. Quando si trasferisce da una casa all’altra, zia Ca-terina prende con sé poche cose e i ceri dei tre figli mor-ti: Pietro se l’è portato via la cattiva salute, Giovanni as-sassinato d’autunno, nel ’62. Neanche un mese più tardiGraziano, che allora aveva vent’anni, ha pensato di ven-dicarlo uccidendo con una sventagliata di mitra il fratel-lo del presunto assassino: dente per dente.

Era una domenica d’ottobre, il bar del paese pienopieno per l’aperitivo. Andrea Muscau stava al bancone,il braccio posato sul laminato lucido dove andavano evenivano bicchieri colmi di birra. La porta si spalanca,Graziano toglie fiato e parole con quel cannone in ma-no. E spara, spara. Per un attimo Muscau sembra balla-re sotto la pioggia di proiettili, poi si affloscia, gli occhispalancati sul buio della morte. Graziano vorrebbe an-darsene, adesso, senza fretta: lo ferma una bottigliata intesta. Come nei saloon. È l’inizio di una faida sanguina-ria che finirà solo molti anni dopo. La sorellina di Mu-scau, che frequentava le elementari, ha indossato il luttoa partire da quel momento.

L’altro figlio che zia Caterina ha accompagnato alcamposanto è Nicola, assassinato nell’estate del ’76.Strana morte, rimasta inspiegabile perfino nei sussurridi paese. Lavorava nel cantiere del rimboschimento, ca-posquadra. Un uomo chiuso, tranquillo, pochi amici epoche chiacchiere. Dicono che stesse svolgendo una per-sonalissima indagine sulla morte di Pietrino Crasta, unpossidente di Berchidda rapito e assassinato anni prima.

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poco ha potuto esserci. Le prime evasioni sono stretta-mente familiari e puntavano sempre in campagna «do-ve ho imparato a conoscere animali, piante e odori». Dabambino si era riscoperto una forte insofferenza alla ge-rarchia, allo sconfinamento del prossimo nella libertà enella sua vita privata. Non ha esitato a massacrare dibotte un vicino che gli aveva ucciso il cane («una bellacagna, nera. Meruledda si chiamava»), a confrontarsi induello con un ex latitante.

Ma ora tutto questo va messo in soffitta. Oggi è ungiorno fortunato: il Tribunale di sorveglianza di Torino,aiutato da uno psicologo e un criminologo, lo ha messosotto torchio per capire fino a che punto è cambiato. Al-la fine gli ha concesso la libertà condizionale. Avrà l’ob-bligo di soggiorno in Piemonte fino al ’96, dovrà firma-re una volta la settimana in una caserma o in un commis-sariato. Senza un’autorizzazione precisa, non potrà usci-re da un ambiente che gli è stato cucito addosso. Nelsenso che deve abitare nella casa che a San Marzanottogli ha messo a disposizione un imprenditore di Fonni,Michele Quai, che lavora nel settore dell’edilizia. Per ipasti e i problemi di tutti i giorni può recarsi a casa delsuo “principale”, terzo piano di un edificio cadente adAsti. In via eccezionale otterrà presto il benestare peruna puntatina in Sardegna, a Orgosolo, per vedere lamadre.

Respinta da poco più di un anno, l’istanza di libertàha avuto un sostenitore acceso: il presidente del Tribu-nale di sorveglianza, Pietro Fornace. Che di Mesina sasoltanto quel che racconta il fascicolo del ministero diGrazia e Giustizia, date e condanne, condanne e date.Prima del verdetto, tenta di avere informazioni meno

chissimi. Quello più frequentato stava negli uffici dellaPoa, Pontificia opera di assistenza, affollatissimo alle 17per la tivù dei ragazzi.

In alcuni momenti Orgosolo ha raggiunto i cinque-mila abitanti. Villaggio povero, ma di povertà equamen-te distribuita. Non c’era miseria disperata e neppurericchezza gridata. «O, se c’era, cercavano di non sbat-tercela in faccia», ricorda Peppedda Mesina. Tanto èvero che la frequentazione delle chiese non seguiva unadivisione di classe. Tra la chiesa di Sant’Antonio, peresempio, e quella di San Pietro la differenza stava sol-tanto nella comodità degli orari della messa. Nella bellastagione si pregava anche in campagna, a San Michele, aSant’Anania. Nei paraggi di questa chiesa era stata ag-gredita, violentata e uccisa nel ’37 una ragazza del po-sto, Antonia Mesina: Giovanni Paolo II l’ha fatta beata.È stata la santa Maria Goretti della Barbagia.

La domenica si passeggiava nel Corso, dapprima in-titolato a Vittorio Emanuele e poi diventato Corso Re-pubblica. Il massimo della trasgressione suggeriva dispingersi fino a Su Cantareddu, una fontana a neppureun chilometro dall’ultima casa del paese, comunquefuori dall’itinerario obbligatorio. Il cinema parrocchia-le proiettava film di cowboys e storie d’amore, la favolatriste della principessa Sissi e pellicole di quel genere.Nella scena finale, quella dell’immancabile bacio, l’ope-ratore piazzava sistematicamente una mano davanti al-l’obiettivo: censura artigianale, buio sullo schermo, schia-mazzi in sala. «Leva la mano, le-va-la». Neanche i baci sidovevano vedere allora, sennò Gesù piangeva. Si sape-va da sempre, precetto da lezione di catechismo.

Di quel mondo a Graziano è rimasto poco, perché

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«Missione Sardegna», scherzava coi giornalisti. Equando la superprocura di Cagliari inizierà a mugugna-re sulla presenza e sul ruolo di Graziano in quella vicen-da, la risposta sarà secca, durissima: «Per quel che ne so,il Mesina non soltanto non sta creando problemi ma an-zi sta dando una mano a risolverli». La replica, un espo-sto al Consiglio superiore della magistratura, lo lasciaindifferente. Questo strano sorvegliato speciale lo affa-scina, gli dà la certezza che non si tratti di un bluff. Sache la carta-Farouk può significare la grazia e in qualchemisura un piccolo contributo a raggiungere questoobiettivo può darlo arche lui. Mesina non veniva forsedefinito la primula rossa del Supramonte? Bene, sguin-zagliarlo in una storia di sequestro a scopo di estorsione(dopotutto è il suo ramo, no?) non potrà che dare risul-tati incoraggianti.

Ci crede, ci si butta impegnandosi personalmentecon dichiarazioni di simpatia. Sarà una bruciante delu-sione professionale. Ma questo, la mattina di quel 18 ot-tobre, Fornace non lo sa. Ascolta con aria solidale, dagiudice di grande esperienza qual è, le parole che Ga-briella Banda, difensore dell’ex ergastolano, affida alleagenzie di stampa con qualche emozione: «Il verdettosulla liberazione condizionale non è solo un atto di giu-stizia. Credo che Mesina abbia abbondantemente paga-to il suo debito con la società. Tanto più che nella suatrentennale permanenza nei penitenziari italiani non hamai goduto di un provvedimento, come dire?, di bene-volenza. Oggi ha il diritto di rifarsi una vita».

Graziano lo sa. Per questo, nella lunga notte a casa diBallore, mentre Crescentino dorme, accetta, lui cheodia l’alcol, di fare un brindisi. Alza il bicchiere, bagna

scheletriche. Per esempio, quanti omicidi ha commesso?«Uno, signor presidente».– Uno solo?«Uno solo. Sono stato assolto dall’accusa di aver col-

pito a morte due poliziotti durante un conflitto a fuo-co».

– Vedo tra queste carte anche una storia di occulta-mento del cadavere d’un certo Miguel Alberto AsencioPrados Ponte…

«Quello è il suo nome vero, lungo lungo. Per noi eraMiguel, Miguel Atienza. Non ho occultato il suo cada-vere, l’ho semplicemente sepolto. Dopo un’evasione,era rimasto ferito seriamente in uno scontro coi “baschiblu”. Non ce l’ha fatta. Ho avvertito il padre, ma non siè portato via la salma. È sepolto nel cimitero di Nuoro,povero Miguel».

– Cosa rimprovera alla società?Ci sarebbe moltissimo da dire, ma è meglio sfumare.

«Nulla da obiettare. Rispetto e chiedo rispetto. Avrò bi-sogno di tempo. Per strano che possa sembrare, sento lanecessità di riposarmi».

La sentenza arriva nella tarda mattinata. Poi, portan-dosi dietro una borsa gonfia di fascicoli, Fornace correnel suo ufficio blasonato. L’anticamera è tappezzata divecchie locandine, molte del teatro La Scala, che creanoun’atmosfera particolare, molto ufficiale e nello stessotempo accogliente, quasi informale. Dietro un’enormescrivania, il magistrato conferma d’aver fatto una scom-messa. Crede in Mesina, e avrà modo di dimostrarlo du-rante il rapimento di Farouk Kassam. In quella occasio-ne gli darà carta bianca, una libertà di movimento senzavincoli di sorta.

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Mesina, i più vecchi l’hanno dimenticato, ne hannoperso le tracce in galera.

Non sono riusciti neppure a vederlo quand’è arriva-to, l’anno scorso. Il paese sottosopra, sembrava fosseaccaduto qualcosa di grave: polizia, carabinieri, il grac-chiare fastidioso delle ricetrasmittenti. Tutto questosoltanto per lui, per Graziano. Possibile, faceva ancoratanta paura? Eppure, che non avesse voglia di scappareera abbastanza chiaro per tutti. Non c’era l’intenzione eneanche la forza.

Nove evasioni sulle spalle, quel signore di mezzaetà in giro col borsello giustificava un piccolo spiega-mento di forze. In un passato non proprio remoto erastato un protagonista, uno dei numeri uno della crimi-nalità nazionale.

Di lì a poco sarebbe tornato sulla ribalta. Ma quellasera, a Crescentino, non poteva immaginarlo. Pensavaa un altro futuro, talmente anonimo da non giustifica-re una notizia in breve. Non poteva prevedere che loaspettava ancora qualche avventura, molto clamore,disprezzo e simpatia all’ingrosso. Assieme a una trap-pola per tornare all’inferno.

appena le labbra in una smorfia di disgusto. E la Sarde-gna, chiede, come va la Sardegna?

Benissimo: nel ’91 non c’è stato neppure un rapi-mento. Iniziando la conta degli ostaggi dal 1973, non èmai accaduto prima che l’Anonima saltasse un anno.Buon segno. Per quanto riguarda gli omicidi, c’è inveceuna crescita significativa: ci si ammazza più di prima, lestatistiche giudiziarie parlano chiaro. Per il resto, solitaSardegna: disoccupazione in aumento, in bilico perfinola sorte delle miniere, che sembravano una certezza as-soluta. Cortei e manifestazioni a Cagliari, davanti albrutto palazzo modernista che ospita il Consiglio regio-nale in via Roma: protestano gli agricoltori e i pastoriper la siccità, gli operai per la chiusura delle fabbriche, ipiccoli pescatori per il fermo biologico che li spediscedue mesi a casa senza una lira di indennizzo.

A proposito di lire: i campionati mondiali di calcionon hanno portato nulla o quasi. Qualche spicciolopubblico e nemmeno un turista: alla faccia di uno stra-garantito effetto trainante di Italia ’90. L’unica coda,se di coda si può parlare, è l’apertura di un’inchiestagiudiziaria nelle dodici città che hanno ospitato le par-tite. Nel rifare gli stadi, nel riorganizzare impianti ecentri di accoglienza sono volate mazzette. «La solitaItalia». A cambiare, in peggio, c’è solo la Sardegna checontinua a vivere, meglio a sopravvivere, con le pen-sioni. La popolazione diminuisce, i paesi si spopolanomantenendo soltanto vecchi, bambini e donne. So-prattutto donne. Con qualche eccezione: a Orgosologli uomini risultano più numerosi all’anagrafe. Scor-rendo gli elenchi, appare però una folla di bimbi epensionati. I più piccoli non sanno neppure chi sia

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II

Ritratto di pentito

La foto dei quindici anni, un polveroso ritrattino inbianco e nero, mostra un ragazzo magro, coppola egiacca scura, camicia dal colletto troppo largo, occhiche guardano lontano. Labbra serrate, neppure un ac-cenno di sorriso.

La foto dei cinquant’anni, primo piano artificiosa-mente pensoso, offre poco: è materiale per i giornali,costruito in studio, compresa la mano destra che sem-bra accarezzare il mento con casuale noncuranza. Giac-ca da grande magazzino, camicia candida e cravatta ve-stono un signore qualunque di mezza età che ha persola battaglia contro la calvizie e quella contro i chili ditroppo.

A osservarlo bene, Graziano Mesina pare un impie-gato con qualche pretesa, uno che vuole contrabbanda-re l’immagine di un altro uomo, di un’altra anima. Tan-to, la macchina fotografica è una spia stupida, non puòaccorgersene, non sa frugare dentro. Di autentico resta-no soltanto gli occhi. Mobilissimi, scaltri, diffidenti.Peccato non poterli rendere sereni, metterli in sintoniacon quest’aria tranquilla.

Sono gli stessi del ragazzo con la coppola, un dilet-tante della balentìa cresciuto in fretta nel deserto di Or-

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lettuali al ritorno da sporadiche spedizioni nel Nuorese,dov’erano andati a vedere da vicino uno strano popoloche, più di venti secoli prima, era stato capace di “inven-tare” una razza canina (il pastore di Fonni) per difen-dersi dai legionari di Roma.

Osservata al microscopio dell’antropologo, questafolla muta poteva contare su tante attenuanti. Sardegnaperché banditi, diceva molti anni fa il titolo di un libro-inchiesta per spiegare e tentare di capire (far capire) unaregione a pallettoni.

In questo clima Graziano Mesina cresce. Cresce intutti i sensi. E dietro di lui si preparano le nuove gene-razioni: qualche “resistente” convinto, molti macellai,mezzemaniche accecate dal sogno di una ricchezza fa-cile facile. Gente educata a non avere regole, codici, ri-spetto. Dice il giornalista Indro Montanelli: «Della suaisola non è rimasto che il nome, e poco altro. Sulle mon-tagne ora imperversano i criminali, nemmeno lontaniparenti dei banditi d’annata. E son convinto che lui,l’ultimo lupo solitario, li disprezza. Anche se non me lodirà mai. Il fatto è che ha sbagliato secolo. È l’ultimo re-perto vivente di un mondo che non c’è più. Se potessi,lo metterei sotto vetro. Come una reliquia».

Salvatore Contini, autotrasportatore di Olbia, è inqualche modo quello che rappresenta meglio di chiun-que altro i nuovi campioni dell’orrore. Sposato, va avan-ti e indietro con un piccolo camion quando gli propon-gono un colpo non impossibile: sequestrare il giornali-sta Leone Concato. Sta finendo la primavera del ’77 esulla Costa Smeralda arrivano i primi caldi e i primiospiti. Concato viene portato via il 27 maggio, inghiot-tito nel nulla. Non tornerà mai più a casa. Contini, uno

gosolo. I carabinieri già lo conoscevano: una notte, eraadolescente, neanche un pelo di barba, lo avevano bec-cato con un fucile rubato. Condanna a cinque anni. Da-vanti al magistrato che gli annunciava un futuro di gale-ra, c’era dovuto andare con la mamma, zia Caterina, un-dici figli e una vita di pietra nella Barbagia della miseria,del silenzio, dei morti ammazzati. Tenuto per un brac-cio, quasi trascinato in quel palazzo con gli androni scu-ri: il tempio della giustizia, affollato e rumoroso comeun mercato. Quanta gente conosciuta c’era.

Orgosolo, 1956. Poco più tardi la Rivista sarda dicriminologia pubblica i risultati di un’indagine sul ma-lessere: «Si può dunque, in ultima analisi, affermareche la geografia della pastoralità, della criminalità edella patologia mentale tendono in Sardegna a corri-spondere con la geografia dell’isolamento». Un que-stionario distribuito a quasi 250 persone rivela che il17 per cento è analfabeta e il 65 per cento ha la licenzaelementare. La “geografia dell’isolamento” raccontaanche qualche altro dettaglio: abitanti per chilometroquadrato 50,8; ovini 110, più del doppio. L’isola dellepecore. Conclusione: «Si può avanzare l’ipotesi che ilbanditismo non sia l’espressione di una cultura prima-riamente e immutabilmente violenta, ma che rappre-senti piuttosto una risposta, in forme devianti, a unaviolenza esterna. A una prevaricazione secolare che hamarginalizzato l’Isola, subordinandola politicamenteed economicamente, il mondo pastorale ha offerto di-verse forme di “resistenza” alla sua distruzione, che sisono esplicitate e si esplicitano anche con l’abnormefenomeno del banditismo».

Così dicevano, anzi scrivevano, accademici e intel-

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larga tiratura riesce a convincerla. Al termine di unalunga trattativa, accetta di parlare.

Appuntamento a mezzanotte in una certa periferiaalle porte della città. A Olbia non c’è più nessuno perstrada quando riaffiora il primo ricordo di un’avventu-ra incredibile. «Volevamo rifarci una vita fuori, lontanoda qui».

Anche perché in Sardegna la vita sarebbe appesa aun filo: la vendetta, diretta o trasversale, di chi hai fattofinire in cella, è sicura. C’è da mettere in conto un ag-guato: questione di settimane, di mesi, ma SalvatoreContini sa bene che per lui il calendario della vita va ve-loce, velocissimo da quando ha travolto con una confes-sione-fiume protagonisti e comparse della cosiddetta“Anonima gallurese”.

Appena uscito dal carcere per i meriti legati al suoruolo di “collaboratore di giustizia”, avverte che l’aria siè fatta stretta. Intuisce che ha perfino poco tempo perlevarsi di torno, farsi dimenticare se ce la facesse. Chie-de aiuto e qualcuno aiuto gli concede. La vedova diceche gli era stato procurato un nome nuovo e un passa-porto per fuggire in Corsica. Materiale, aggiunge, gen-tilmente fornito da qualcuno che sosteneva di far capoalla Questura di Sassari.

La partenza è fissata per una sera qualunque, pochibagagli, l’essenziale: non bisogna dare nell’occhio.Contini e sua moglie vengono accompagnati fino a Pa-lau da due “poliziotti in borghese”. Signori cortesissimie di poche parole: efficienti, sicuri. Quando il traghettoleva gli ormeggi sollevando un vortice di schiuma, sem-bra fatta sul serio. Salvezza raggiunta.

Di Contini si perdono le tracce: scomparso, si farà

che in famiglia parla poco, viene arrestato dal giudiceistruttore Luigi Lombardini tre mesi dopo. Il suo di-fensore, l’avvocato Bruno Bagedda, riesce a tirarlo fuo-ri: gli indizi non sono sufficienti, le tesi accusatorie nonreggono. Ci vogliono cinque anni perché lo spettro diquel rapimento-omicidio torni a galla. Sostenuto da unfurore investigativo che non mancherà di creargli qual-che fastidio, Lombardini riesce a mettere in angolo Con-tini. Che stavolta parla, straparla. Diventa quello che lacronaca definisce un “pentito eccellente”. A valanga, lasua confessione spalanca le porte del carcere a molti in-sospettabili. Tra questi c’è perfino l’avvocato Bagedda.«Mi aveva chiesto notizie di Concato», rivela Contini.Basta questo per dimostrare che Bagedda è coinvoltonel sequestro? L’avvocato viene condannato e solo lesue drammatiche condizioni di salute (un tumore chelo fa finire per due volte in sala operatoria) gli evitanol’onta della prigione. Quattordici anni dopo il primoverdetto, la Cassazione concede la revisione del proces-so. Si ricomincia.

E Contini? Morto. Ucciso nel carcere di Ajaccio daun commando di militanti del Fronte di liberazionecòrso.

La sua è davvero una storia esemplare. In un’intervi-sta mai smentita (e inutilmente offerta alla magistratu-ra), la vedova aggiunge particolari inquietanti. Deveavere paura, molta paura a parlare, ma le ribolle dentrouna rabbia sorda che rischia di farla impazzire. Si sentescaricata, abbandonata dalle istituzioni che fino a pochimesi prima garantivano protezione e danaro. Per que-sto vuole rompere la consegna del silenzio, gridare sepotesse. L’effetto-megafono offerto da un quotidiano a

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C’è però qualcuno che conosce, a prova di errore, lasua vera identità. Qualcuno che passa l’informazione,la fa uscire all’esterno e aspetta. Contini non sa di esse-re stato condannato a morte. Con o senza documentifalsi, la sua sorte è segnata. Una mattina, appena sve-glio, vede arrivare attraverso lo spioncino due detenu-ti incaricati di fare pulizie. Non immagina che tipo dipulizie debbano fare. Non li aveva mai visti prima, maquesto ha poca importanza. Così come sembra averepoca importanza il fatto che, a un certo momento, il“braccio” si spopoli. Non c’è neppure un agente di cu-stodia quando i detenuti-netturbini aprono la portadella sua cella, gli vanno incontro senza pronunciareuna parola. Lo fanno a pezzi. Contini non ha il tempodi gridare, di chiedere aiuto: eppoi, avrebbe trovatoqualcuno disposto a darglielo?

I detenuti-netturbini escono senza fare rumore, su-perano la cancellata che chiude quell’ala del peniten-ziario e, sempre senza fretta, arrivano all’uscita. Saluta-no, se ne vanno.

Il chiasso dei giornali è inferiore alle previsioni. Vie-ne aperta un’inchiesta, anzi due: una promossa dallamagistratura, l’altra dal ministero di Giustizia alla ricer-ca di talpe tra i suoi dipendenti. Si vogliono individuarecoperture e responsabilità, si vuole scoprire com’è pos-sibile che due estranei siano penetrati in una prigione diStato, abbiano messo a segno un delitto in assoluta tran-quillità e se ne siano andati senza sbattere la porta. A di-stanza di sette anni, per quel che se ne sa, non si è appro-dati a niente. La morte di Salvatore Contini rimbalza aOlbia con qualche ritardo. Commenti? A livello ufficia-le neppure uno. Chi è morto, Contini?, e chi è Contini?

vivo – se necessario – il giorno del processo. La moglieassicura che il primo periodo di esilio forzato non è sta-to terribile. Certo, c’era il problema di acclimatarsi, in-serirsi senza fare troppo chiasso. Fortuna che un lavo-ro, in un certo senso garantito dagli amici sardi, nonmanca; qualche soldino pure. Non c’è da preoccuparsi.Tutto procede nel migliore dei modi, vecchio tran trancasa-lavoro-casa fino a quando Contini non si sente tra-volto dal suo vecchio hobby.

Con l’aiuto di qualcuno rimasto sconosciuto rapi-sce un veterinario di Ajaccio, autorevole rappresen-tante del Fronte di liberazione. Le trattative per il rila-scio, ammesso che si trattasse davvero di un sequestroa scopo di estorsione, naufragano quasi subito. Alleprese con un ostaggio imbarazzante, Contini pensa diliberarsene senza indugi. Con un sistema collaudato,sostiene l’accusa: lo ammazza e brucia il cadavere conl’aiuto di una bombola a gas. Pare, ma su questo nonsi è mai riusciti a sapere molto, volesse sfigurarlo perrenderlo irriconoscibile. La fiamma ossidrica aveva in-somma il compito di cancellare qualunque traccia: delveterinario non si dovevano avere più notizie. L’opera-zione andava realizzata nel più breve tempo possibile.E sarebbe andata benissimo se all’ultimo minuto nonsi fosse messa di mezzo la gendarmeria francese e uncommissario un po’ tosto, di quelli che non mollano.

Contini viene arrestato e rinchiuso in carcere. Non sisa se all’ufficio matricola venga registrato col suo veronome o con quello preso in prestito al momento dellafuga da Olbia. È ragionevole pensare che, anche da de-tenuto, vivesse sotto falso nome: uno come tanti, in atte-sa di giudizio per omicidio.

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Al pentitismo, e alle confessioni in genere, Mesinacrede poco. È fatto d’un’altra stoffa, lui. Unico reclusonell’Italia del dopoguerra ad aver scontato ventinoveanni e qualche giorno. Unico recluso che si è vistocondannato all’ergastolo come somma di pene inflitteper diversi reati: una specie di prendi due e paghi trein versione giudiziaria.

Altra musica, vecchi spartiti, vecchie regole. Nellasua autobiografia, sostiene un’idea precisa che è stataun po’ l’idea-guida della sua vita. Quella che gli haconsentito di uscire vivo dalle peggiori carceri italiane:«Il pentitismo non riesco a digerirlo. Se uno fa unascelta, la deve portare avanti per tutta la vita…».

L’ha fatta, fino in fondo. Nel 1984, quando ottieneuna licenza di tre giorni, torna a Orgosolo e scopre unpaese che stenta a riconoscere. Si ricorda che venticin-que anni prima, giochi della gioventù barbaricina, an-dava fortissimo il tiro al lampione. Soprattutto di not-te, soprattutto quando c’era da far ammattire i carabi-nieri negli inseguimenti. Adesso soffia un altro vento.Otto sequestri in dodici mesi (nove a voler essere pre-cisi, visto che uno non va a segno), una quarantina diomicidi. Ma siamo soprattutto alla vigilia dell’offensivacontro gli amministratori pubblici: i sindaci, figure untempo intoccabili, stanno per diventare i bersagli diun’offensiva senza precedenti. Graziano, che non siè mai occupato di politica, appare frastornato. D’ac-cordo i murales, impronta d’arte naïf e di protesta co-rale. Ma che senso ha sfregiare il portoncino d’ingres-so del Municipio?, annunciare con gli slogan spray unarivolta che nessuno avrà mai il coraggio di scatenare?Prestissimo si arriverà alle bombe, agli attentati che

Uno, nessuno, un imputato tra i tanti della indagine sul-l’Anonima gallurese.

Un cadavere da dimenticare e basta. Possibile chenessuno si domandi quale fosse l’attendibilità del te-ste?, possibile che nessuno voglia riaprire certe pagine,dolorosissime, di quel processo? Bruno Bagedda, di-fensore di questo sconcertante “collaboratore di giusti-zia”, è stato in qualche modo riabilitato dopo un’attesainfinita. A Sassari lo aspetta il nuovo processo impostodalla Cassazione: si arriverà ad un indizio, indizio con-creto, sul sequestro-omicidio di Concato? Chissà. Pas-sata la tempesta e un eloquente silenzio in risposta allesue dichiarazioni, la vedova di Contini si è eclissata,buttata a capofitto sul lavoro, nella routine di una vitaqualunque, assolutamente e rigorosamente anonima. Aconti fatti, è una vittima anche lei. Non vuol più sentireparlare di giornali, interviste, aule d’Assise. Potesse,chiederebbe un certificato di non-esistenza.

Suo marito le ha lasciato in eredità soltanto un brut-to ricordo. Forse il peggiore nella storia del pentitismoin Sardegna: perché gli altri, i canarini, i quacquarac-quà (come li chiamano adesso) non hanno fatto quella fi-ne. Certo, qualcuno è stato assassinato, altri (come Lu-ciano Gregoriani, logorroico e spietato accusatore deisuoi ex complici) hanno fatto definitivamente i bagaglisenza rientrare in una cassa da morto. Sono insommariusciti a rifarsi un nome e una vita lontano dalla Sarde-gna. Detto brutalmente, hanno fatto un investimento cheha dato i suoi frutti: due o tre persone al massimo sannosotto quale identità si nascondono in una sperduta cittàdel mondo. A Salvatore Contini un’uscita di sicurezza,evidentemente, non andava bene. Voleva di più.

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renti che si sono riempiti il freezer. Intendiamoci, com-prare carne rubata in modica quantità non offre il tantoper far scoppiare una faida. Qualcosa però s’incrina, so-prattutto se abigeato e vendita avvengono nello stessopaese e comunque nelle vicinanze.

Aver risparmiato qualche lira può comportare il pe-ricolo di una disamistade, l’inimicizia. Gradino che pre-cede e prevede un sanguinario risarcimento.

colpiranno in particolare le amministrazioni di sinistra.Attenzione però a non cadere nella trappola ideolo-

gica: non è opposizione quella dei fucili che sparano nelbuio; spesso è soltanto la rabbia di chi non può più con-tare sugli amici degli amici, sull’impunità amministrati-va, sulla certezza che tra i suoi terreni non passerà unastrada comunale, che nessuno denuncerà l’abuso edili-zio compiuto nella via principale del paese.

Sono cambiate molte cose. E non solo a Orgosolo.L’unica traccia tradizionale è quella dell’abigeato: quasiottomila capi rubati, informano le statistiche delle forzedell’ordine. A Orune, a Sarule, a Mamoiada i carabinie-ri rischiano grosso durante le perlustrazioni notturne.Dopo le 20 chi può sta in caserma: aspettando l’alba. Al-la luce del sole tutto diventa più semplice.

Per Graziano Mesina questo è un altro pianeta. As-solto dall’accusa di aver ucciso due poliziotti duranteun conflitto a fuoco, ha sempre seguito regole diverse.Regole che nessuno ha mai scritto ma che tutti, banditi eforze dell’ordine hanno sempre rispettato.

Non è vero, come qualcuno ripete, che l’incolumitàpersonale è tutta da verificare nel rosario dei paesi caldi.Il segreto stava (e sta) nel fare una scelta. Basta un picco-lo esempio per capire. Se qualcuno offre carne, fuorimercato e a prezzi più che abbordabili, si tratta di un’of-ferta molto, molto particolare: quasi certamente bestierubate e macellate clandestinamente. Una buona regoladi sopravvivenza, quella che nessun manuale potrà maiscrivere, suggerisce di non comprarne. Meglio acqui-stare la carne calmierata e “ufficiale”, non l’altra. Al de-rubato, che prima o poi riuscirà a sapere chi l’ha fattofesso, arriveranno all’orecchio anche i nomi degli acqui-

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III

Le regole del gioco

Regola numero uno: niente morti. Regola numerodue: niente trucchi. Regola numero tre: rispetto per iperdenti. C’è polvere e sangue, soprattutto sangue, suquesto telegrafico galateo del buon bandito. Del buonbandito e del buon poliziotto. Antonio Serra, famosoispettore della Barbagia, è un esempio della vecchiascuola. “Costanza e riservatezza”. Non solo: pochissimiincontri con i cronisti, gente che in ogni caso è meglioevitare. Curriculum di assoluto prestigio dopo quaran-t’anni in divisa, ha attraversato due generazioni crimi-nali uscendone indenne. Intatto. Non sembra neppurefar parte di quelle forze dell’ordine che negli anni ’60circondavano i paesi nella febbrile ricerca di latitanti,rastrellamenti da golpe militare, violenze gratuite, arro-ganza dello Stato. Coi famigerati “baschi blu”, per ca-pirci, Serra non ha neanche un lontano rapporto di pa-rentela.

Altro stile. Prima ancora della scuola di polizia, rico-nosce come maestro un vecchio brigadiere di Orotelli,Pietro Paolo Lunesu. «Mi ha insegnato qualcosa di fon-damentale: fare il proprio mestiere rispettando sempregli altri, anche chi commette reati, non c’è bisogno di in-fierire, dobbiamo solo essere bravi a indagare. E indaga-

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micro-aggressioni ai diritti di gente che non protesta maricorda, nel solco di una costante resistenziale che passaattraverso i secoli.

Antonio Serra sa adoperare bene le armi ma se n’èservito raramente. Ha concluso con successo decine diindagini difficili (basta pensare al sequestro di Pasqual-ba Rosas o a quello di Carlo Travaglino) senza pretende-re cadaveri, aborrendo quelle cacce all’uomo (anzi almorto) che accendevano grande entusiasmo tra alcuniufficiali e tiratori scelti. Ragazzi nervosi, come spiegava-no con un pizzico di orgogliosa complicità i loro co-mandanti, pronti a scatenare un’apocalisse da piccolieroi del cinema.

Mesina è fuori gioco, e non soltanto perché sta in ga-lera, quando avanza, a piccoli passi, un imbarbarimentoche stravolge la Sardegna e i suoi figli in arme.

Effetto collaterale della società del benessere, dico-no i giornali. Colpa dell’opulenza, d’una ricchezza sfac-ciata che percorre itinerari turistici e ciondola in tivùparlando di un’isola-paradiso che non c’è. O meglio c’è,ma per pochi, pochissimi e resta in ogni caso lontana, ir-raggiungibile, per gli abitanti d’una regione con un tas-so di disoccupazione fra i più alti d’Italia.

Certe passerelle, vacanze che trasudano danaro, sonofrancamente fastidiose. Fanno parte del circo dell’esibi-zionismo, piccola borghesia all’attacco, nuovi e falsi ric-chi insieme per celebrare i riti dell’apparenza. Una mo-da, un costume che colpisce l’immaginazione di personein un certo senso indifese, vittime di una dolcissima vio-lenza che ha stravolto valori e punti di riferimento.

Il nuovo banditismo non è però l’epopea dei vinti, lalunga marcia verso la giustizia sociale di oppressi e cas-

re sempre meglio». Lui, soprannominato Penna Bianca(ma qualcuno lo chiamava anche l’Ultimo Cacciatore)l’ha fatto egregiamente, seguendo poche e chiarissimeregole del gioco tacitamente rispettate anche dalla con-troparte. Regola numero uno: niente morti…

Osposidda, 1985. In un costone di montagna si svol-ge il più drammatico conflitto a fuoco nella storia delbanditismo in Sardegna. Restano sul terreno, uccisi,quattro fuorilegge e un sottufficiale di polizia. AntonioSerra, che conosce riti, luoghi e uomini di quella terra,sostiene con sicurezza: quel massacro si poteva evitare.Una giornata inutilmente tragica. Non spiega però co-me e perché “si poteva evitare”. Ma proprio perché nonspiega è chiaro un trasparente e solido dissenso con latattica adottata dai suoi superiori: accerchiamento efuoco a volontà, piombo rovente come in un filmaccioda quattro soldi. Solo che qui i morti sono veri. Conqualche pennellata di macabro folclore, quasi fosse sta-ta una caccia al cinghiale, i cadaveri dei quattro banditiabbattuti in una sorta di battaglia campale vengono sca-raventati sul cassone di un camion, proprio come si facon la selvaggina. E via per le strade del paese, a mostra-re quell’orrido trofeo. Nella memoria della gente, dellagente che stava dalla parte delle forze dell’ordine e noncoi banditi, questo è un oltraggio, una violenza gratuita.I morti sono sacri, perché esporli in quel modo?

Il guaio è che certe norme di comportamento nonesistono più da una parte e dall’altra. Comunque si pre-senti, sa giustizia difficilmente può portare qualcosa dibuono. Quella che, con tono dottorale, parlamentari eministri definiscono la “vertenza con lo Stato” è fatta dipiccoli problemi quotidiani, iattanza col timbro tondo,

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disprezzo. «Eravamo in un casolare, ero legato mani epiedi». Arriva il bisogno improvviso, irresistibile di fa-re pipì. Troffa, industriale inossidabile e buon giocato-re di bridge, ha superato da tempo certi pudori: du-rante la prigionia non possono esserci più segreti coicustodi. «L’uomo è un animale che si abitua a tutto. Eperfino con rapidità. Sulle prime, l’umiliazione è pal-pitante: penso a quando dovevo soddisfare, semprebendato, le mie necessità fisiologiche sotto l’occhio at-tento di due carcerieri. Non l’ho dimenticato ma ram-mento anche che col passare dei giorni, delle settima-ne, tutto diventa routine, senza trascurare però ilbisogno di alimentare l’odio e la sete di vendetta. Trame e me cercavo spunti, argomenti per tenere viva ebruciante questa mia rabbia. Che non s’è spenta. Indiverse occasioni, hanno anche tentato di stabilire undialogo, quattro parole per ingannare il tempo chenon passava mai. Io non sono stato capace neanche difare questa piccola concessione. Preferivo parlare conme stesso piuttosto che col carceriere».

In quella mattina, nel casolare dove sarebbe stato li-berato, Troffa avverte la luce del sole attraverso la ben-da scura che gli copre gli occhi. È sfinito, spaventato, te-nuto in vita da una paura che crede di non aver lasciatointuire ai suoi custodi. Peccato per questa seccatura fi-nale, peccato dover chiedere un’ultima cortesia ma pro-prio non ce la faceva più. «Per favore, mi slacci i panta-loni?» domanda a un implacabile secondino. L’ha chie-sto centinaia di volte durante i mesi del sequestro. L’o-staggio, insaccato in una corda, non poteva far nulla dasolo, nemmeno la pipì. «Mi hai sentito, mi slacci i panta-loni per favore? Sto male». La risposta è una risata sec-

sintegrati. Salvo rarissime eccezioni, a sparare non è chicerca un riscatto sociale. La povertà non è un detonato-re della violenza, almeno di quella che si lancia sul fron-te dei sequestri.

Lo sa bene Emilio Pazzi, poliziotto dall’alluce ai ca-pelli, uno che potrebbe raccontare trent’anni di fatti emisfatti. Questore a Cagliari (dopo Nuoro e Oristano),ha diretto la Criminalpol per lungo tempo, inviato spe-ciale del governo in Aspromonte per combattere la’ndrangheta. Con la testa e non col mitra.

Perché Pazzi, buon conoscitore di Graziano Mesina,indagini su un centinaio di sequestri alle spalle, è poli-ziotto di testa. «Mai dato uno schiaffo», giura.

È una sfinge, affila gli occhi fino a farli diventare duefessure, sorriso da cerimonia e una granitica educazioneal silenzio. Potrebbe fare il paio con Antonio Serra. Ser-vitore fedele dello Stato, non carnefice. E durissimo conla sociologia d’accatto che tenta di trovare una qualchegiustificazione ai rapimenti. Conosce molto bene lacampagna di annientamento psicologico dell’ostaggio,la violenza segreta, la sottile crudeltà tra carcerieri e pri-gioniero, i meccanismi che regolano l’industria del se-questro di persona. Ritiene che il «romanticismo inter-pretativo del mondo criminale finisca per essere fian-cheggiatore e dunque complice».

La realtà, quella che la cronaca non può racconta-re, è terribile. Pupo Troffa, imprenditore sassarese ra-pito nell’inverno del ’78 e liberato nella primavera del-l’anno successivo, è stato tenuto legato a una catenaper duecentocinquanta giorni, più di otto mesi. Occhibendati, neppure un momento distensivo. Mai. Perfi-no il giorno del rilascio ha fatto capolino la ferocia, il

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larvata simpatia per i delinquenti di ieri». Quelli nuovi,classe dirigente dell’orrore con la quale lo stesso Gra-ziano Mesina dovrà fare i conti durante il rapimento delpiccolo Farouk Kassam, sono d’altro tipo. Non hannodebolezze e considerano il “fattore umano” un detta-glio irrilevante. L’ostaggio è soltanto un capitale in car-ne e ossa: come tale, bisogna renderlo redditizio, aiutar-lo con immondi e terrificanti stimoli a trasformarsi inuna macchina mangiasoldi, a diventare un gelido esat-tore dei beni di famiglia, un grottesco pubblico ministe-ro che addossa a moglie e figli i ritardi della sua libera-zione.

La violenza non è altro che un ingrediente del seque-stro. Un lavoro di pressing, direbbero amabilmente nelmondo del calcio. Che spesso prevede lo stupro. Po-trebbe testimoniare a questo proposito un professioni-sta rapito a Punta Sardegna insieme alla moglie e alla fi-glia sordomuta. Pazzi ricorda che quando venne libera-to, perché cercasse i soldi necessari al riscatto, era “unabelva”. Strano, di solito il ritorno alla luce, alla libertà,stravolge gli ostaggi rendendoli euforici, allegri, ubria-chi di gioia, di vita ritrovata.

Quello no. Davvero una belva. Nessuna dichiarazio-ne. Anzi, spara un cazzotto in pieno viso contro un re-porter troppo insistente. Come mai? Poco prima di es-sere liberato, un bandito lo aveva sodomizzato davantialla moglie e alla figlia aggiungendo poi un piccolo av-vertimento: «Sbrigati a trovare i soldi, perché fino aquando tu non paghi questo lavoretto lo faremo anche atua moglie e alla ragazzina». Promessa mantenuta. Percompletezza d’informazione, va aggiunto che – dopol’arresto – questo esuberante macellaio non è rientrato

ca, beffarda. Il bandito si avvicina e gli bisbiglia all’orec-chio: «Pisciati addosso».

Con Pupo Troffa la sindrome di Stoccolma, quel filomisterioso che lega la vittima al boia, non c’è. Semmaiodio, un odio stratificato che, a dispetto d’una dichiara-ta militanza cristiana, non riesce a pronunciare o imma-ginare il perdono. Difficile dargli torto, giocare ambi-guamente sul ritorno alla ragione. Otto mesi da cane liha vissuti lui e lui soltanto. È perfino irriguardoso cerca-re di spiegargli a tavolino perché dovrebbe dimentica-re. Troffa non ci sta. Ha portato dovunque questa suastoria, alla faccia di quegli accademici illuminati che di-scettano su attenuanti, generiche e specifiche, del se-questro.

Emilio Pazzi, che su vicende come queste potrebbescrivere un’antologia, assicura che non si tratta affattodi un’eccezione. Ha avuto occasione di verificare perso-nalmente cosa sia la paura andando a fare l’emissariodurante le indagini per alcuni rapimenti. Una volta,mentre parlava con un fuorilegge a notte fonda, gli èperfino cascato il registratore che teneva nascosto nelcappotto. L’ha salvato il buio, il bandito ha pensato auna sbadataggine legata all’emozione e non s’è chinatoa vedere di cosa si trattava.

Pazzi parla per esperienza personale. E non assolve,mai. Conosce ex ospiti dell’Anonima, come un penali-sta di Sassari, che dopo l’esperienza-sequestro si sonoriconvertiti. «Non riusciva più a fare l’avvocato, a difen-dere sempre e comunque gente che stava su un’altrasponda».

Sperando che nelle stanze alte del ministero degli In-terni nessuno lo senta, il poliziotto Pazzi confessa «una

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dell’Anonima possono dire altrettanto. Un senso di ri-pulsa vieta di riferire particolari che si apprendono fa-cendo il mestiere del cronista. Ma dev’essere chiaro finoin fondo che il sequestro di persona non ha giustifica-zioni di sorta. A parte il discorso sugli stupri, nessun al-tro reato riesce ad annientare e umiliare la dignità, il ri-spetto di se stessi. È per via del suo carattere continuati-vo, della ripetitività che, di ora in ora, mina l’equilibriointeriore. Lasciando, in alcuni casi, una specie di invali-dità permanente. Chi discute, più o meno volentieri, deisuoi giorni da ostaggio è riuscito ad assorbire il colpo.Ma quanti non riescono neppure ad accennarne?,quanti non l’hanno mai superato?

Nel suo lungo e paziente lavoro investigativo, Pazziha sempre sposato quello che chiama il metodo del-l’uomo comune. Vale a dire la ricerca della verità attra-verso sistemi che non prevedono l’uso della forza, l’ag-giramento delle leggi, furbizie innominabili. Insommaquella ragion di Stato che qualche volta finisce per di-ventare l’esatto opposto della democrazia. A osservar-lo per strada, coi giornali sottobraccio, questo poliziot-to dal sussiego impiegatizio lascia trapelare subitoun’anima civile. Sembra tener molto a un fisico minu-to, agli antipodi dello stereotipo ammazza-banditi dioggi. E, giusto per non stare al gioco del personaggio,inutile cercare riferimenti: di Maigret non ha la stazza,di Poirot il tronfio narcisismo, di Nero Wolfe l’occhiofurbo.

Molti anni fa, mentre si occupava del sequestro inCosta Smeralda della moglie di un grosso imprenditorelombardo, gli è capitato di andare a trovare i familiaridell’ostaggio in Brianza. In quel periodo comprava in

in carcere al termine di un permesso-premio di tre gior-ni. È stato arrestato solo molti mesi più tardi, coinvoltoin un nuovo sequestro di persona.

Non se ne può fare il nome perché non gli è mai sta-to contestato ufficialmente il reato di violenza carnale edunque almeno teoricamente, potrebbe addiritturapresentare querela per diffamazione. Sa bene che diqueste cose nei fascicoli processuali non si parla spesso,quindi (almeno su questo profilo) si riesce a farla francagrazie alla forzata complicità delle vittime. Può sem-brare un paradosso, ma in genere sono proprio gliostaggi che invocano il silenzio, che desiderano dimen-ticare e, soprattutto, evitare la torbida curiosità dellagente. Il timore di un processo spettacolo, che prima opoi sui giornali qualcuno non mancherebbe di definire“a luci rosse”, è più forte di un legittimo sentimento digiustizia.

Ci sono le eccezioni. Molto dipende dalla capacità diresistenza dell’ostaggio, dalla sua personalità. FabrizioDe André, rapito nel ’79 insieme a Dori Ghezzi e tenutoin una prigione a cielo aperto per quattro mesi, rivelache il problema della violenza è stato affrontato nei pri-missimi giorni del sequestro. «Sono riuscito a stabilireun accordo. Volevano danaro e io avrei tentato di dar-glielo. E qui doveva chiudersi il conto. Ho anche dettoche saremo stati al gioco, obbedienti. Ma in cambio ciavrebbero dovuto rispettare. Altrimenti, glielo avevodetto, mi sarei levato la maschera. Puntavano ai soldi ovolevano due cadaveri? Hanno capito che, se avesserotentato qualunque genere di violenza fisica, ci saremmofatti ammazzare».

È finita bene, ma purtroppo non tutti i prigionieri

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tua e quel dialogo appena sussurrato con un signore cheaveva la moglie in mano ai banditi, nella vicina e lonta-nissima Sardegna. Chissà cosa gli è passato per la testa aproposito dei discorsi sull’immoralità di certa ricchez-za, chissà se ha ripensato alle dichiarazioni di guerra dichi giustifica il sequestro dietro una brutale (ma neces-saria) redistribuzione del reddito.

Il poliziotto non svela quale sia la sua opinione con-clusiva. Ama la discrezione, il senso della misura. Certo:un monumento, come dire?, un monumento privatonon l’aveva mai visto prima. Ma c’è sempre una primavolta, no?

edicola una storia dell’arte in fascicoli settimanali. Chec’entra?

All’ingresso della villa, un’elegante cancellata in fer-ro battuto, viene ad aprirgli un maggiordomo. Cortesiaaffettata, pochissime parole e un freddo «si accomodi».Pazzi avanza lungo il viale guardandosi intorno, strettostretto nel suo completino senza un guizzo di fantasia:tutto, perfino le semplicissime panchine in pietra, rac-contavano di benessere, ricchezza. Dopotutto nel listi-no prezzi dell’Anonima, quella era la casa di un ostaggioda un miliardo (miliardo di allora, inizio anni ’80). Unadimensione che un funzionario dello Stato, qualifica divicequestore aggiunto, non può neanche sognare.

A un tratto, ecco il cavallo e il suo sontuoso cavalie-re: splendido monumento equestre che vigila con fie-rezza nella piazzola al centro di un parco pulito e ordi-nato. Quel monumento l’aveva già visto, ma dove? Fru-ga e rifruga nella memoria, mentre attende in un salot-to. Poi, la folgorazione: quel cavaliere bronzeo l’avevavisto in uno dei fascicoli che stava acquistando in edi-cola. Uguale? Simile, molto simile. Ai non esperti comelui sfuggivano molti particolari per poter valutare afondo. Comunque bello e grande, grande come un al-loggio-parcheggio, uno di quelli che le amministrazionicomunali adoperano per sistemare provvisoriamente (enon solo) i senzatetto.

«Straordinario, ne ho visto uno così su una rivistad’arte», azzarda timidamente poco dopo col padrone dicasa. «Non è “uno così”, dottor Pazzi. È proprio quelloche ha visto sulla rivista. Abbiamo autorizzato recente-mente la riproduzione fotografica. Bel lavoro vero?»

Emilio Pazzi non è riuscito a dimenticare quella sta-

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IV

Affari riservati

L’ombra dei servizi segreti si allunga improvvisa-mente durante il sequestro di Farouk Kassam. A Roma,dove il Sisde segue con attenzione le trattative coi ban-diti, decidono a un tratto di cambiare rotta: da un’atten-ta e comoda posizione di osservatori si passa a qualcosadi più diretto, più rischioso.

Succede, probabilmente, dopo che a Galanoli i rapi-tori lasciano vicino alla chiesa una “busta” per il parro-co, don Luigino Monni, crociato di Dio che assiste han-dicappati mentali gravi. La sua è una formidabile testi-monianza di fede, di solidarietà. Una scelta che lo portalontano dalle piste, molto battute, della carriera eccle-siastica. Don Luigino, figlio di un ex sindaco democri-stiano di Orgosolo, sceglie di stare con gli ultimi.

Il vescovo di Nuoro, monsignor Giovanni Melis, chebenedice la prospettiva di un intervento di Mesina e or-ganizza un incontro in episcopio tra Graziano e la ma-dre dell’ostaggio (Marion Kassam), gli affida l’incaricodi tenere i contatti con l’esterno. Anche i banditi, natu-ralmente, sanno. E proprio a lui fanno recapitare in unabusta un pezzetto di cartilagine sporco di sangue: l’o-recchio sinistro di Farouk. Per la precisione, la parte al-ta. Messaggio chiarissimo: se non si conclude in tempi

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Mesina, che di questa vicenda (come testimonieràmonsignor Melis) non si voleva occupare, si trova im-provvisamente tra due fuochi: da una parte ci sono iServizi, signori che non scherzano e che con i rapitorihanno un conto aperto, dall’altro c’è un’opinione pub-blica fortemente divisa: il partito dei mesiniani confidanell’“autorevolezza” del negoziatore (romanticamente,sarebbe l’azione buona d’un vecchio fuorilegge folgora-to sulla via della giustizia), un altro partito diffida inveceapertamente: Mesina non è altro che un vecchio delin-quente, a suo tempo sequestratore e assassino. Dunque,non affidabile. Si porta dietro un terribile patrimoniogenetico, il DNA del bandito.

Come uscirne? Pesa tra l’altro un problema di imma-gine: lo Stato può accettare che a trattare la salvezza diun ostaggio sia un ex ergastolano chiamato in passato“la primula rossa del Supramonte”? È davvero un ve-spaio, un maledetto imbroglio quello giocato sulle ulti-me, drammatiche battute del sequestro.

I Servizi ci sono, ma non si vedono. Mesina sa qual-cosa di loro. Nel 1968, latitante principe della criminali-tà nazionale, ne ha perfino incontrato un autorevole eintraprendente rappresentante: Massimo Pugliese, co-lonnello dei carabinieri in congedo, iscritto alla loggiaP2 (tessera 1914), che in quel momento è al culminedella carriera. Conversatore brillante, fulminee incur-sioni nella cultura per offrire la citazione giusta al mo-mento giusto, riceve il delicatissimo incarico (pare dalQuirinale) di mettersi in contatto con Mesina. Due gliobiettivi: trattare una resa (Graziano sostiene che glisiano stati offerti 150 milioni) oppure comunicargli, invia ufficiosa s’intende, che il Governo non gradirebbe il

ragionevolmente brevi, il prigioniero subirà un’altramutilazione. Il chirurgo che si è occupato dell’interven-to ha la mano pesante: quando Farouk tornerà a casa, losfregio sarà evidente. Gli hanno portato via quasi mezzoorecchio.

Erano stati certamente più professionali, ammessoche si possa adoperare questo termine, col costruttoreromano Giulio De Angelis, altra vittima dell’Anonima:a lui avevano mozzato proprio la punta dell’orecchio.Evidentemente volevano mandare ai familiari solo unsegnale, non un agghiacciante reperto della loro ferocia.

I Servizi irrompono nel sequestro Farouk non appe-na trapela la notizia della mutilazione. Decidono di av-viare una trattativa parallela a quella di Mesina senza in-formarne l’interessato che pure, in quel periodo, risultaessere l’emissario della famiglia. Graziano verrà a sape-re per puro caso. Nel corso di un abboccamento nottur-no, saranno gli stessi banditi a informarlo: non sei l’uni-co a occuparti del bambino. Le cose si complicano, l’af-fare esce dai binari della consuetudine e sembra arenar-si in secche pericolose. La frequenza degli incontri sub-isce un forte rallentamento, l’impegno di polizia ecarabinieri pare cercare sbocco nella riflessione. Mo-mento difficile: la realtà è che il ministero dell’Internosta decidendo che strategia adottare.

Sul magistrato che segue l’inchiesta e sullo stesso go-verno c’è intanto il fiato grosso d’un intero Paese, indi-gnato e offeso dall’odissea del piccolo Farouk. Riemer-ge, non è casuale, il dibattito sulla pena di morte; ungiornalista famoso invita gli italiani a stendere alla fine-stra lenzuola bianche: sarà un grido corale, un gridocandido e muto per chiedere il rilascio dell’ostaggio.

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che lo scenario abbozzato, con qualche brivido, al Vimi-nale era assolutamente realistico. E pensare che allorasembrava follia fantapolitica.

Mesina, che per alcuni anni ha la stessa sacralità delcalciatore Gigi Riva, pone alcune condizioni: vuole re-gistrare la chiacchierata con Pugliese che dovrà arriva-re solo, al volante della sua auto privata, seguendo unitinerario preciso. Ad aspettarlo troverà una sorta dimaggiordomo agropastorale. Al luogo dell’incontro ve-ro e proprio giungerà bendato e bendato dovrà stare fi-no a quando qualcuno, il solito Jevees di Barbagia, nonlo riaccompagnerà, frusciando tra i sentieri di una inac-cessibile guglia rocciosa, fino all’automobile. Testimo-nianza di Graziano Mesina: «Venne da me il responsa-bile del controspionaggio, Massimo Pugliese, inviatodal Presidente della Repubblica Saragat. Quella seranon c’era in giro una-pattuglia-una: strade sgombre,scomparsi carabinieri e polizia. Pugliese mi disse subitoche la sua stilografica era una pistola. Voleva spaventar-mi? Mi fece sorridere. Quando andai a prelevarlo, nelluogo concordato, mi chiese anche quanto ci sarebbevoluto per incontrare Mesina. “E io chi sono, secondote?” Ci rimase male».

Obbediente, l’uomo del Sid esegue con scrupolo leindicazioni e conclude la missione nel migliore dei mo-di: con 150 milioni in contanti, la certezza d’una deten-zione a Nuoro, la liberazione di alcuni reclusi “ingiusta-mente detenuti” perché considerati complici di Grazia-no, può anche offrire al ministero il latitante più ricerca-to d’Italia. In linea di massima, sembra che l’operazionepossa andare avanti. Al Governo interessa in particolarmodo per allontanare definitivamente il timore che il

matrimonio con l’extrasinistra, con quegli intellettualiche premono per trasformare la Sardegna nella Cubadel Mediterraneo. In caso contrario, la stretta sul Su-pramonte si farebbe più intensa, i rastrellamenti piùasfissianti: e per un latitante, sia pure “leggendario”, èfrancamente una seccatura. Meglio evitare.

Pugliese sa come metterla. A parte l’incarico ufficia-le nell’Arma, in quel periodo dirige il Sid (il servizio se-greto di allora) in Sardegna. Laureato in giurisprudenzaa Sassari con una tesi su «Forze armate e Costituzione»(relatore il professor Francesco Cossiga), è un uomo disuccesso. Riesce con facilità a entrare in qualunque am-biente, gli si spalancano i salotti delle case che contano.E questo provocherà inevitabilmente maliziosi sussurriche finiranno per rimbalzare fino a Roma, comando ge-nerale dell’Arma. Ovviamente Pugliese non ha mai con-fermato quello storico e singolare incontro alla mac-chia. Questione di deontologia professionale. L’appun-tamento viene definito nell’inverno del ’67 e fissato pergli inizi del ’68. Per quel che Mesina dice di saperne, lamissione della “spia” era ad ampio raggio: sulla base diun’informazione riservata che dava un grosso quantita-tivo di armi e danaro in arrivo nell’isola, il colonnelloaveva il compito di indire un referendum tra i latitanti (enon solo). In pratica, aveva bisogno di sapere se, di lì apoco, malavita comune e ultrasinistra armata avrebberostretto un patto d’acciaio. Il timore non era del tutto in-fondato, visto che diversi anni più tardi il commessoviaggiatore delle Brigate Rosse, Antonio Savasta, sbar-cò in Sardegna per un vertice (a Sa Janna Bassa) conquelli che all’epoca erano i pezzi da novanta del banditi-smo. Sia pure con la logica del dopo, si può affermare

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lomeno singolari, stile compassato e suadente da veroagente segreto, Mesina conserva un buon ricordo: uffi-ciale e gentiluomo, ha rispettato gli accordi. Non dicealtrettanto degli uomini dei Servizi che, durante la lati-tanza, dichiara di aver incontrato. A più riprese anzi, esenza che nessuno lo smentisse, riferisce di essersi senti-to proporre un minestrone eversivo. Di tutto un po’:dalla missione-lampo contro l’estrema destra altoatesi-na all’attentato contro la polizia nel bel mezzo di unamanifestazione. Difficile dire quale sia il confine tra ve-rità e delirio di potenza da balente. Qualcosa di verotuttavia dev’esserci se lui stesso, rinunciando per un at-timo a essere personaggio, afferma di non aver mai co-nosciuto l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Su questoincontro si è riversato un oceano di parole su quotidianie riviste. Ma Graziano resta fermo sulla sua versione:«Ho ricevuto un messaggio da Feltrinelli, diciamo purela richiesta per un incontro, ma ho cortesemente decli-nato l’invito». Il motivo? Semplice. «La politica mi faschifo». Talmente schifo da ripensarci con assoluto dis-gusto quando, ormai in carcere da tempo, il film dellamemoria gli ricorda che avrebbe potuto essere un otti-mo mercenario per un colpo di Stato.

Con queste premesse, appare ovvio che Mesina nonstraveda per uomini e metodi dei Servizi. Quando ap-prende che si stanno seriamente interessando del se-questro Farouk va su tutte le furie, pensa di ritirarsi dal-l’affare, poi arriva a una preoccupante conclusione: me-glio far finta di nulla per salvare la pelle. «Volevano, cer-cavano la strage», ripete ossessivamente subito dopo laliberazione del bambino. Per quanto lo riguarda, ipo-tizza una fine poco eroica: «Mi mettono in testa un cap-

nascente terrorismo agganci la delinquenza comune.L’unico ostacolo, che diverrà poi insormontabile, riguar-da la scarcerazione di alcuni reclusi (non si sa né quantiné di chi si trattasse). A Roma non vogliono correr il pe-ricolo di uno scandalo. Meglio lasciar perdere. Prima opoi Mesina abbasserà la guardia.

Pugliese, che lascerà poco dopo i carabinieri e la Sar-degna, viene arrestato alla fine di marzo del 1984: a fir-mare l’ordine di cattura è un magistrato celebre, il giu-dice istruttore Carlo Palermo, che lo accusa di esserecoinvolto in un colossale traffico d’armi. In un libro-in-chiesta del 1986 sulla clamorosa indagine giudiziaria,l’eccellentissimo indiziato viene presentato così: «Poic’è Massimo Pugliese, tenente colonnello dei carabinie-ri, legato ai generali Vito Miceli e Giuseppe Santovito,suoi superiori ai tempi del Sifar e del Sid, procacciatored’affari sui mercati internazionali. Si era fatto un nomein Sardegna… Attraverso la rete degli informatori erastato il primo a conoscere i tentativi dell’editore Gian-giacomo Feltrinelli e di alcuni suoi amici francesi chepensavano di trasformare in guerrieri i banditi sardi…Ebbe la prova che nel novembre del 1967 il briganteGraziano Mesina, certamente il più noto tra i ricercatisardi, aveva ricevuto offerte concrete: armi e denaro incambio di un’insurrezione. Un uomo, quel MassimoPugliese, molto coraggioso, perché nel clima di un ban-ditismo fatto di agguati, sequestri, uccisioni, era riuscitoa entrare in contatto con lo stesso Mesina dalla cui voce,registrata segretamente, si era appreso che i latitantinon avrebbero appoggiato il terrorismo politico. Gra-zianeddu si sentiva brigante e non guerriero».

Di Massimo Pugliese, incontrato in condizioni per-

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sare dall’ingresso principale, pericolosamente affaccia-to sulla strada. Don Luigino Monni è uno di questi. Hauna sorta di “pass”: appare all’improvviso, quasi fosseun miracolato, all’improvviso scompare. Il trucco è ba-nale: da una porticina aperta alla fine di un anditino èpossibile, sia pure con qualche acrobazia, finire in unavia parallela a quella principale. Ci vuole un attimo.Questo cosa significa? Significa che Mesina riesce adavere incontri non registrati dai Servizi, in qualche casoriesce pure ad andarsene con lo stesso sistema. «Quantevolte credevano fossi a casa. Io ero in giro». Neppureper un attimo accoglie la possibilità che i suoi angeli cu-stodi, come gli piace chiamarli, sapessero anche dell’u-scita secondaria ma, naturalmente, non ci hanno fattosopra tanto chiasso.

Per Mesina questa ipotesi non regge per una ragionesoltanto: «Se davvero li avessi avuti sempre dietro, pri-ma o poi sarebbe stato un macello».

Il timore di un conflitto a fuoco lo terrorizza. Se Fa-rouk morisse, l’Italia non glielo perdonerebbe. Se fosseucciso o venisse arrestato qualcuno della banda, sareb-be considerato un traditore, un infame. Letto e inter-pretato con l’occhio d’una certa cultura barbaricina,questo significherebbe l’apertura di una faida, la proba-bilissima morte della sorella e dello zio. La stessa vitadella madre, nonostante l’età, potrebbe essere in bilico.Conto non chiuso se accadesse qualcosa del genere,Graziano non potrebbe più tornare in Sardegna, do-vrebbe pensare anche a un killer in trasferta ad Asti, ro-vinerebbe la sua fama di bandito corretto, rispettosodelle regole d’un tempo. Soprattutto perderebbe, insie-me al buon nome faticosamente conquistato nell’arci-

puccio, m’ammazzano e vanno a dire che nella bandac’ero anch’io».

Nella sua autobiografia, scritta frettolosamente epiuttosto vaga, non entra nel dettaglio di questa ipotesi.Che, a suo tempo, preferisce affidare ai giornali. Fino adire che la prova provata della sua innocenza sono pro-prio i Servizi. «Mi hanno seguito senza tregua, sono sta-ti il mio angelo custode. Telefoni sotto controllo e lorosempre dietro. A meno che non decidessi di seminarli»,puntualizza con la solita dose di spacconeria.

Pur immaginando di essere guardato a vista e ascol-tato minuto per minuto, ricorre a un piccolo test per sa-pere in che misura lo stanno tenendo sotto tiro. Dallacasa della sorella, a Orgosolo, telefona a un amico, glichiede di andare a Nuoro a prendere certe foto e di far-gliele avere in serata. L’amico, che la sera precedente erastato avvertito dell’esperimento, parte portandosi die-tro una scia di segugi. Al ritorno, pochi chilometri dalcartello stradale trasformato in colabrodo dai palletto-ni, incappa in un posto di blocco. «Polizia, documentiprego». Patente e carta di circolazione. Subito dopo co-mincia un’accurata perquisizione, saltano fuori due fo-to che un agente studia con grande attenzione cercandoforse di capire chi ritraggono. Alla fine è tutto a posto.«Può andare». Sempre marcato a vista, fino al modestoappartamento dove Graziano abita quando sta a Orgo-solo: soffitti bassi, arredamento da offerta speciale, ungrande televisore bianco e nero nel soggiorno davanti aun piccolo tavolo tondo.

Uscire da quella casa senza essere visti può apparireimpossibile. Ma un sistema c’è: Mesina lo scova e lo co-munica a pochissime persone che gli preme non far pas-

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verità di Stato. Durante lo scontro frontale con i giudicidella procura antimafia, Mesina vomita esclusive suesclusive. Perfino sul suo passato. E, a un tratto, smen-tendo se stesso e le cose che aveva scritto nella autobio-grafia, dice anche d’aver conosciuto Giangiacomo Fel-trinelli. Quando? Nel ’67 a Siniscola. Incontro rapido einconcludente, almeno per Feltrinelli se sono vere le in-tenzioni che gli vengono attribuite. Vero o falso? Tral’altro: perché Mesina, che ha sempre negato con deci-sione, rivela d’aver avuto un abboccamento con l’edito-re milanese?

Incomprensibile. Meno incomprensibili sono invecele rabbiose smentite del capo della polizia. Ricordanol’atteggiamento processuale di imputati che navigano inacque agitate: negare sempre. Durante il sequestro Kas-sam sono intervenuti i servizi segreti? Stupidaggini. Ri-scatto pubblico, una specie di contributo a fondo per-duto per Farouk? Stupidaggini.

Stupidaggini?

pelago carcerario italiano, l’aureola dell’uomo d’onore,del detenuto che non si vende e che non vende gli altri.

Per conquistare questa vetta di popolarità e di ri-spetto, ha lavorato molto, troppo. Non può e non vuoleperderla in una mattina. Ha trascorso in prigione quasitrent’anni senza chiedere sconti proprio per questo mo-tivo, per potere un giorno tornare da vincitore, uno cheha pagato e pagato da solo, uno che non deve niente anessuno (men che meno alla magistratura).

Ecco perché ha paura. Qualcuno potrebbe rovinareil suo sogno, la marcia trionfale del rientro a Orgosolo.A cose fatte, ovviamente: con Farouk che sorride tra igenitori finalmente libero. E lui, ex ergastolano, la pri-mula rossa del Supramonte, salutato quasi come un pa-dre della patria da Indro Montanelli e da quella fetta delPaese che vive la passione civile come il tifo da stadio.Graziano pensaci tu, scrivono a Cagliari su un muro vi-cino alla facoltà di Lettere.

Graziano ci pensa volentieri: questa è la sua grandeoccasione. È che tutto si sta terribilmente complicando.C’è la questione del riscatto, per esempio: sarà pagato?,chi lo pagherà? Ancora una volta riaffiora lo spettro deiServizi, di un uomo con valigetta nera che atterra a Ol-bia, scende da un Falcon ministeriale e scompare suun’auto-civetta. Era il postino del Viminale, portavacon sé – come sosterrà più tardi Mesina – un miliardo incontanti, prelevato dai fondi riservati del Sisde? «Nondiciamo stupidaggini», tuona inferocito il capo dellapolizia. Salvo scoprire poi che proprio stupidaggini nonerano.

Non si sa chi apra le danze, ma il valzer delle bugiecomincia subito. E non è detto che riguardino sempre le

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V

Fateh Kassam

«Per la liberazione di Farouk Kassam sono stati pa-gati due miliardi. Da persone diverse, in occasioni di-verse, nella stessa giornata». Lo dichiara Graziano Me-sina la sera del 24 marzo 1993, parlando al telefono conun giornalista del quotidiano cagliaritano «L’UnioneSarda». È una bordata violentissima alla tesi ufficialedelle forze dell’ordine e della magistratura. Casomai cifossero dubbi, aggiunge divertito: «Due miliardi vole-vano e due miliardi hanno avuto. Lo Stato ha pagatocontestualmente al rilascio del bambino». Altro chebanda in fuga, altro che fuorilegge costretti a mollarel’ostaggio sotto la morsa di un gigantesco accerchia-mento.

Secondo la verità di Graziano, la mattina del 10 lu-glio la banda incassa un miliardo da un uomo di sua fi-ducia. I soldi, banconote da centomila lire, sono stipatiin una sacca sportiva scura. Seicentoquaranta milionisono dei Kassam, altri trecentosessanta arrivano da unacolletta. Quel giorno stesso, probabilmente di pomerig-gio, il cassiere dei rapitori riapre lo sportello: qualcunogli consegna un altro miliardo. Stavolta in maniera ap-pena più elegante, i quattrini sono ordinatamente dispo-sti in una valigetta nera. «È andata così, ve lo assicuro».

Attorno alla questione-riscatto ruotano i segreti di

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Non ne avrebbe parlato neppure Mesina se, subitodopo la liberazione del bambino, non fosse scoppiatauna guerra a distanza tra lui e la magistratura. Una guer-ra combattuta all’inizio a colpi di fioretto e, subito do-po, a randellate. Molti, troppi cambiano versione con lavelocità di un pony-express.

Lo stesso Graziano si mantiene fedele alla linea delsilenzio fino a due giorni dal rilascio di Farouk. Chiusoa Orgosolo nella casa della sorella Peppedda, in CorsoRepubblica, in attesa di onori che non verranno, segue inotiziari su un vecchio apparecchio televisivo e, ognitanto, commenta a voce alta. «Non so se sia stato pagatoriscatto», dice, «non mi sono passati soldi tra le mani».Troppo furbo per sostenere il contrario e magari ag-giungere che il bimbo è stato consegnato personalmen-te a lui. Giusto per scansare un’eventuale incriminazio-ne per favoreggiamento (incriminazione che, alla fine,gli piomberà comunque addosso), assicura deciso: «Nonho compiuto reati, mi sono semplicemente occupatodel sequestro. Non ho visto né bambino né soldi, siachiaro». Si guarda bene però dallo smentire la voce piùinsistente di quei giorni, una voce che parla di riscattoda tre miliardi e ottocento milioni, perfino più alto diquello pagato per la liberazione del costruttore romanoGiulio De Angelis.

Mesina cambia idea all’improvviso poco dopo. Uncoro gli dà del bugiardo, il procuratore della Repubbli-ca lo definisce “un venditore di gazzosa”. Ma pare tenerbotta, anche quando scende in campo Fateh Kassam,con l’obiettivo dichiarato di farlo a pezzi, disintegrare ilmito, dimostrare che è soltanto un bandito. «Quandouno ha alle spalle la vita che ha lui, non credo che cambi.

una vicenda davvero inquietante. È fin troppo evidenteche qualcuno mente, e clamorosamente. Chi? Il sostitu-to procuratore antimafia Mauro Mura afferma che la li-bertà di Farouk non è costata una lira. Il primo marzodel ’94 Mesina ribadisce l’esatto contrario durante uninterrogatorio durato sei ore. Al suo avvocato affida an-che due parole a uso esterno poiché tiene molto all’ideache si può fare di lui l’opinione pubblica: «Se sarò con-dannato perché ho aiutato un bambino a tornare a casa,pazienza. Mi sono mosso dove altri non riuscivano». Ilproblema, in realtà, è più sottile. Si tratta di capire chista barando e perché.

Cagliari, autunno 1992. Nel corso di una visita uffi-ciale, il capo della polizia Vincenzo Parisi viene blocca-to dai cronisti all’ingresso del palazzo viceregio, cheospita la Prefettura. Deve presiedere un vertice sullacriminalità. Faccione da mastino buono, perde le staffesolo quando lo pizzicano sul tema del giorno: «Per la li-berazione di Farouk non abbiamo pagato. Mesina, chein questa storia ha creato solo impicci, racconta baggia-nate. Il Sisde non ha affatto contribuito al rilascio del-l’ostaggio».

Roma, autunno 1994. Interrogato al processo per loscandalo dei fondi neri dei servizi segreti, il funzionariodel Sisde Maurizio Broccoletti parla genericamente didanaro destinato a operazioni speciali. Quando il presi-dente della Corte lo invita a spiegarsi meglio, dice cheuna certa quantità di soldi veniva utilizzata, in casi parti-colari, per «sbloccare, ad esempio, sequestri di perso-na». Il rapimento di Farouk Kassam rientra tra questi“casi particolari”? Forse. Broccoletti, comunque, nonfa cenno a episodi precisi.

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zione di benestante, ma nulla di più. Più giusto sarebbeparlare di uno che lavora per tenere in piedi l’azienda.In un mare di difficoltà: «Ho impiegato cinque anniper avere l’autorizzazione ad aggiungere trenta stanzeal mio hotel».

Ovvero non è affatto un vip, uno di casa nei postigiusti. In caso contrario non avrebbe dovuto subire, co-me un qualunque suddito della repubblica, le lungaggi-ni della burocrazia regionale a proposito di urbanisticaalberghiera. In conclusione, uno (quasi) qualunque. Nel-lo studio della villa di Pantogia ha una piccola collezio-ne di fucili in vetrina. Ama andare a caccia. Probabil-mente durante una pausa nelle battute al cinghiale, haparlato di sé e della sua famiglia suscitando una perico-losa curiosità. Il basista del sequestro ha dato informa-zioni sbagliate, ha lasciato credere che si sarebbe apertoil canale con l’Aga Khan. E invece.

Cortese, una passione per i sigari cubani, Fateh Kas-sam ha la capacità di sdoppiarsi: un conto è il padre chesoffre, un altro quello che si occupa del rapimento disuo figlio. All’indomani del ritorno a casa di Farouk,sposa la linea ufficiale, niente riscatto. «Questa vicendami è costata soltanto un treno di gomme della mia mac-china e carburante». Appena Mesina comincia a spara-re ad alzo zero, sulle prime sta ad ascoltare. Poi esplode.Con classe, naturalmente. Ma quelle che indirizza a Gra-ziano sono pallottole dum dum. Esordisce sostenendoche l’ex ergastolano è stato un suo emissario solo perbreve tempo («È lui che s’è proposto, io non sapevonemmeno chi fosse»). Poi affonda il colpo: «Intendia-moci, Mesina è stato utile per ottenere un contatto. Ze-ro assoluto invece per quanto riguarda il rilascio e molte

La gente dice: ha pagato il conto con la giustizia, è un al-tro. Io non ci credo». Anche Kassam tuttavia scivola inalcune vistosissime contraddizioni, cambia rotta, smen-tisce se stesso.

Ma chi è questo giovanissimo personaggio che mo-stra i denti ai fuorilegge, sfidandoli sul loro terreno? Ner-vi d’acciaio, cuore momentaneamente in parcheggio, ri-vela il suo segreto: «Ho vissuto questo sequestro come sefosse stato rapito il figlio del mio vicino. Non poteva enon doveva essere un fatto personale». Se proprio deveavere qualche debolezza, gli umani non c’entrano. Par-lando della sua Alfa Romeo rossa, per esempio, scrive:“… questa macchina mi ha tenuto compagnia, mi ha ac-colto e consolato nei giorni della disperazione e sbaraz-zarmene oggi mi sembrerebbe di tradirla”.

Nato a Bruxelles nel ’56, confessa di non avere radi-ci. Il padre è di origine pakistana ma è nato in Tanzania,la madre belga. Ha sposato una francese di Nizza, Ma-rion Bleriot, donna di grande compostezza ed elegan-za. S’è sposato a Parigi, ha bruciato un po’ d’anni aVancouver in Canada per frequentare una scuola di bu-siness management, gestione amministrativa. Breveapprendistato alberghiero all’estero e poi l’approdo inCosta Smeralda, direttore e piccolo azionista della so-cietà proprietaria dell’hotel “Luci di la muntagna”,quattro stelle, sessantadue camere, trecentoventimila lasingola in alta stagione. Il padre è un gran visir ismaeli-ta, l’equivalente dei nostri vescovi: questo dettaglio au-torizzerà alcuni giornali a fare un collegamento di ami-cizia-parentela con l’Aga Khan. «L’avrò visto in vita miauna volta o due». L’ipotesi di una grande ricchezza, siapure indiretta, crolla in un baleno. Accettata la defini-

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stare in disparte, quasi una comparsa, come se la faccen-da riuscisse a interessarla soltanto alla lontana. Non si safino a che punto l’idea di stare in panchina sia stata solosua, visto che il marito non ha voluto accanto neanche ilfratello, amici carissimi. Aveva bisogno di muoversi intotale solitudine e libertà, senza la zavorra di parenti im-pegnati a tenere viva la stagione della solidarietà.

Nel momento dell’emergenza, Marion ha avuto unaintuizione straordinaria e non ha esitato un secondo adattuarla senza informarne polizia e carabinieri. Il giornodi Pasqua, nessuno immaginava nulla, è arrivata a Or-gosolo. Durante la cerimonia dell’Incontro, la Madon-na che ritrova suo Figlio, ha chiesto la parola per lancia-re un appello coraggioso e straziante davanti a una pla-tea ammutolita e scioccata da questa splendida donna-coraggio. «A voi, a tutte le mamme di quest’isola, lancioil mio grido perché so che voi potete capirmi».

L’avvio della festa in hotel, poco più di un anno do-po, è rigorosamente formale, le chiacchiere rigorosa-mente banali, gli sbadigli rigorosamente di rito. Qual-cuno, per rompere la monotonia, parla del libro di Fa-teh, libro pubblicato da appena un mese, cronaca di unrapimento. Con molti, significativi vuoti: nessun accen-no alle polemiche sul riscatto, alla lunga notte della libe-razione, ai veleni con le autorità dello Stato. Non mancacomunque qualche (involontaria?) frase rivelatrice. “…Mesina vuol solo conoscere la nostra risposta. E io pre-ferisco tenerlo sui carboni accesi, anche perché, proprioin quei giorni, si stanno aprendo altri spiragli…”. Qua-li spiragli?, è un riferimento indiretto a una trattativaparallela? Poco più avanti, in un altro passo sulle fasi fi-nali della vicenda, scrive: “Evidentemente Mesina è an-

altre cose che non voglio dire». Sono cose che non vuoleo che non può dire?

– Signor Kassam, mai avuto rapporti con uomini deiservizi di sicurezza?

«Mai. È Mesina che parla di loro, non io».– Crede davvero che i banditi abbiano rilasciato Fa-

rouk sotto la pressione delle forze dell’ordine?«La conoscenza della malavita sarda ha consentito

ad alcuni uomini delle forze dell’ordine di fare in modoche il sequestro finisse com’è finito».

– Lei non ci ha messo una lira?«Ora vi racconto una cosa strana. In prima battuta, i

banditi mi hanno chiesto dieci miliardi. Dopo che Mesi-na ha avuto un incontro con loro, sono passati a quindi-ci. Singolare, di solito giocano al ribasso. Poi sono scesia sette. E lì si sono fermati. Io mi domando perché maiavrebbero dovuto accontentarsi di due, uno messo daMesina e l’altro dai Servizi».

Porto Cervo, estate 1993. A un anno esatto dalla li-bertà conquistata, Fateh Kassam organizza una grandefesta. Seicento invitati, ricevimento interclassista: ci so-no il vescovo e il campione di calcio, il giardiniere e lacolf, la signora-bene e l’americano un po’ squinternatoche fa vita da bohémien. Rallegra la serata, come si dicenei cartoncini d’invito, un complessino che ha scrittouna canzone per Farouk. Marion Bleriot fa gli onori dicasa, saluta gli ospiti uno per uno, sorride finalmentedistesa, affida il compito di dare il benvenuto all’arti-glieria dei brut. Misurata, attenta a non strafare, confer-ma una grande forza interiore. In apparenza non lasciaveder nulla, ma si coglie una forte capacità di autocon-trollo. Durante le fasi calde del rapimento, ha scelto di

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Mesina sarebbe stato pagato dai Servizi, non si può na-turalmente sapere nulla. È denaro che non puzza, chesoprattutto non deve essere registrato in un libro ma-stro. Appare e scompare, operazioni speciali no? Purammettendo che il Sisde abbia pagato, nessuno potràmai accertarlo con sicurezza. È un investimento chenon lascia traccia, ma solo l’ombra del sospetto.

L’esistenza di un fondo da destinare ai sequestri dipersona è sempre stata negata con vigore. Lo stesso Pa-risi, che col comandante generale dei carabinieri Viestiha seguito passo passo il caso Kassam, s’è preoccupatodi definire “follie, fandonie” tutte le voci contro. Qual-cosa tuttavia dev’essersi mossa se Graziano Mesina èstato poi sentito dal Comitato parlamentare per i servizidi sicurezza e il segreto di Stato. Qual era l’obiettivo del-l’interrogatorio?, non bastavano le confortanti dichia-razioni del capo della polizia, della superprocura?

Nella questura di Asti, di fronte al senatore GerardoChiaromonte – che presiedeva il Comitato – riproponela sua versione. Quello che dice non esce dagli uffici dipolizia. Pochi mesi più tardi Chiaromonte muore e diquella audizione non si saprà più nulla.

Impossibile sapere se e dove Mesina stia mentendo,stia tessendo insomma una poderosa montatura perscreditare lo Stato e i suoi servitori. Le nebbie che avvol-gono questo caso, sicuramente il più singolare e inquie-tante nella storia dei rapimenti in Sardegna, non aiuta acapire. Quando Kassam afferma che alcuni dettagli nonverranno mai alla luce, che vuol dire? Qual è la svolta ra-dicale nelle indagini che mette da parte l’ex ergastolanoe imbocca la strada conclusiva? Tutto questo per soste-nere che se anche Mesina sta sfornando bugie, le forze

cora convinto che sarà lui il tramite per la liberazione diFarouk. Non sa che ormai è stato tagliato fuori e chequalcos’altro sta intanto accadendo dalle sue parti. Perla verità, cosa esattamente si stia muovendo in questeore non lo so nemmeno io”.

Se davvero non lo sa, sicuramente lo immagina. Di-fatti nel cuore della festa in albergo, scioglie la briglia alrancore verso i giornali, colpevoli d’essere troppo ficca-naso: «Mettetevelo bene in testa. Sul sequestro di miofiglio ci sono cose che non saprete mai. Mai». Riguarda-no il riscatto e la generosa partecipazione del Sisde?

È soltanto uno dei tanti interrogativi che affollanol’ambiguo finale di questa storia. In un’intervista (letta eapprovata dall’interessato prima della pubblicazione),Fateh Kassam dice di aver rotto i rapporti con Mesinacon qualche anticipo rispetto al terribile finale di partitacoi fuorilegge. Poi però dice anche che la mattina del 10luglio il suo amico Gianmario Orecchioni e don Luigi-no Monni, spalla di Graziano (ma come, non era statomesso fuori gioco?) gestiscono 640 milioni da conse-gnare in giornata alla banda. Per ragioni di sicurezza,hanno preferito nasconderli. Saggio proposito: duranteil tragitto da Orgosolo verso Olbia, la macchina guidatada Orecchioni viene intercettata a un posto di blocco eperquisita. C’era da immaginarlo: il magistrato che diri-ge le indagini, Mauro Mura, vuole stroncare sul nascerequalunque tentativo di avviare un dialogo coi rapitori,pagare un riscatto. «Coi banditi non si tratta».

Quei soldi, comunque, ci sono. Come ci sono gli altri360 milioni rastrellati presso amici a Porto Cervo. Senon sono mai stati versati ai carcerieri di Farouk, che fi-ne hanno fatto? Sull’altro miliardo, quello che, secondo

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Broccoletti al processo di Roma. Sarebbe stato più cor-retto dire “ostaggi particolari”, confessare che una deci-sione d’intervento veniva presa volta per volta. L’odis-sea di Farouk, straniero e di appena otto anni, stava co-prendo di vergogna l’Italia. Bisognava muoversi, con ladelicatezza della ruspa se necessario.

dell’ordine mostrano qualche spericolato lampo di sme-moratezza.

La chiave per scoprire la verità sta nell’incidenteche provoca l’esclusione di Mesina dalle trattative. Al-trimenti non si spiegherebbe l’improvviso giro di boa:dopo aver ossequiosamente rispettato la ricostruzioneufficiale («Non so se sia stato pagato riscatto, nelle miemani non è passata una lira, il bambino non è statoconsegnato a me personalmente…»), Graziano cambiaidea nell’arco di quarantott’ore. Perché, gli era statopromesso qualcosa? Tutti sanno che in questa opera-zione si sta giocando la concessione della grazia: un at-teggiamento di scontro con le autorità può soltantonuocere alla sua causa. Eppure sceglie proprio la viadel ring, furioso combattimento che per qualche gior-no fa la felicità dei giornali. Alla fine, cosa resta? Unclamoroso insuccesso su tutti i fronti: disfatta della cre-dibilità dello Stato, dubbi atroci sulla trasparenza del-la versione di Mesina.

Un sondaggio non poteva mancare in un Paese cheda qualche tempo sembra non riuscire a vivere, a capiree interpretare la realtà senza il conforto d’un costanteventaglio di opinioni. E il sondaggio, commissionatodal quotidiano di Milano «Il Giornale», fa sapere chesoltanto una modestissima parte di italiani crede al mi-nistro Mancino, al capo della polizia Parisi. Alla fine re-stano dunque in piedi più che mai i dubbi e i sospettiche hanno accompagnato le fasi finali del sequestro. Perliberare Farouk è stato pagato o no un miliardo dalloStato? L’interrogativo è interessante, ancor più interes-sante sarebbe conoscere i criteri che facevano aprire alSisde i cordoni della borsa. «Casi particolari», ha detto

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VI

Missione a rischio

Non ne valeva la pena, operazione troppo rischiosa.Per cavarne cosa, poi? «Soldi, molti soldi», spara FatehKassam buttandogli addosso tutto il suo disprezzo e in-dicando l’unico metro di misura che può stare a cuore aun bandito: il denaro. Graziano Mesina ha accettato difare l’intermediario perché voleva tirar su col prezzo,imposta sul valore aggiunto del riscatto. Per questo irapporti tra i due – che non sono mai stati amichevoli –hanno finito per deteriorarsi. Anzi, c’è stata una vera epropria rottura.

È probabile che, in realtà, l’onorario di Mesina fossedecisamente più alto. Ma l’interessato non può andarloa raccontare in giro e men che meno a Fateh Kassam, unuomo che gli suscita profonda antipatia fin dal primomomento. Tanto è vero che, salvo assoluta necessità,evitano di incontrarsi. Preferiscono dialogare attraver-so Gianmario Orecchioni, amico fraterno di Fateh, unoche in gioventù è stato grande ammiratore dell’ex erga-stolano di Orgosolo.

Dietro le quinte del rapimento del piccolo Farouk simuovono altri interessi. Di quattrini Graziano sembranon avere bisogno: tanto più che, salvo casi eccezionali,rilascia solo interviste a tassametro. Si amministra con

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ce istruttore che lo sta interrogando su tutt’altro: Cossi-ga è da apprezzare perché “quando ha voglia di esterna-re, esterna”. A un buon conoscente comune avrebbeesternato, per esempio, l’intenzione di aiutare l’ergasto-lano. Non immaginava che improvvisamente la situa-zione politica potesse precipitare travolgendolo. Tant’èche quando lascia il Quirinale, la pratica della graziagalleggia in alto mare.

Un po’ come la speranza di rimetter piede a Orgo-solo. È questo il vero obiettivo di Mesina: rientrare inpaese da uomo libero. Chiusa con una storica pacifica-zione la faida con i Grussotto, spera in una sorta di ri-lancio sociale. Lo sostiene, in questo, una non comuneconsiderazione di se stesso e la certezza che trent’annidi carcere non sono comunque riusciti a metterlo fuo-ri gioco. Lo si capisce quando, in licenza premio, pas-seggia avanti e indietro in Corso Repubblica con l’aria(finta) di uno qualunque, uno che vuol far sapere di es-sere tornato per annunciare, gattopardescamente, chenulla è cambiato.

A dargli una mano c’è anche Indro Montanelli, pen-na principe del giornalismo italiano, che va a pranzo dalui con inviato al seguito, manifesta simpatia per l’exbandito, mangia porcetto arrosto per ricordarsi gli annidell’infanzia (suo padre faceva il preside a Nuoro). Escrive di pugno, subito dopo, che Mesina è un uomoperbene, merita di tornare in libertà senza vincoli disorta. Quando le acque giudiziarie riprendono ad agi-tarsi, va alla carica senza ripensamenti, ironizza pesan-temente sul magistrato del sequestro Kassam e riaffer-ma il suo giuramento di fede nei confronti di Mesina:«Casomai dovesse darsi nuovamente alla latitanza, sap-

intelligenza spiegando ai giornalisti che trasecolano perle sue richieste (cento milioni tondi tondi per una chiac-chierata in esclusiva all’indomani dell’uscita dal carce-re): «Voi speculate sulla mia vita, sui miei racconti. Ven-dete più copie, gonfiate il personaggio, in parole pove-re, fate affari sulla mia pelle. Perché dovrei regalarviun’intervista? A me nessuno ha mai regalato nulla».

Nel caso Kassam cos’ha da guadagnare? Ci sono mol-te ragioni che gli impongono di portare a termine nel mi-gliore dei modi il lavoro da intermediario, al di là che lacosa piaccia o non piaccia a Fateh. Prima di tutto deverendere conto all’“altissimo” che lo ha costretto ad ac-cettare l’incarico. Deve trattarsi di qualcuno che contasul serio se Mesina, messo a un certo punto fuori giocodai familiari dell’ostaggio, decide comunque di andareavanti, addirittura fare una colletta. In un momentomolto delicato delle trattative coi fuorilegge, inizia a cer-care febbrilmente soldi per un riscatto parallelo. Quan-do gli si chiede come mai non molla tutto, per quale mo-tivo va pure in cerca di contanti, risponde in maniera si-billina: «Lo faccio per un amico». E che l’amico abbia unpeso importante lo conferma anche il vecchio vescovo diNuoro, ma di più non dice. Il nome di questo misteriososignore non è mai trapelato.

Certo è che si tratta di qualcuno con buone entraturenel mondo politico, unico particolare che monsignorMelis si lascia scappare. È anche qualcuno che, in cam-bio della mediazione, offre una contropartita di tutto ri-spetto: la grazia, per dirne una. E con la grazia il ritornodefinitivo in Sardegna.

Mesina ha grande stima di Francesco Cossiga, giustoper fare un nome a caso. E ne confida la ragione al giudi-

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ero presente, potrei testimoniarlo». E sempre lui, la pe-cora tornata all’ovile dell’onestà, ha «consentito di ri-portare quella creatura a casa».

L’ex vescovo di Nuoro rivela soltanto una minuscolaparte di quello che sa. Durante le trattative per il rilasciodi Farouk, ha affidato le “relazioni esterne” a don Lui-gino Monni ma nel frattempo ha proseguito a lavorareper conto suo. Nelle lunghe ore di meditazione, e forsedi noia (ma questo non glielo sentirete dire), rimuginasu una vicenda che non considera affatto conclusa.

Se ne intende: anni e anni di attività pastorale in Bar-bagia non ne hanno fatto soltanto un vescovo “storico”.Ha detto messa per i funerali di almeno un centinaio dimorti ammazzati. Violando una regola che rende i pretiintoccabili e imponendo loro nello stesso tempo di nonmettere il naso in casa d’altri, ha chiamato a raccolta lasua gente contro la violenza. Ha insultato la sedicenteciviltà della balentìa, sempre con durezza e senza sfu-mature. Il fatto di essere del luogo lo ha forse salvato manon è riuscito a farne un presenzialista da cerimonia.Quando è stato necessario ha polemizzato con gli intel-lettuali che processavano l’omertà. «Facile parlare dicoraggio civile quando si sta lontano da qui o ben pro-tetti nelle redazioni dei giornali». In altri termini, non lagiustificava ma capiva l’omertà. Monsignor Melis è for-se stato il solo ad avere accettato fino in fondo il princi-pio della espiazione della pena e della redenzione, il so-lo ad avere accolto e trattato l’ex bandito come nessunoavrebbe fatto: il cittadino, il fratello Mesina, senza lapretesa di considerarlo sempre sotto esame.

Graziano se ne accorge e anche per questo impegnatutto se stesso nel tentativo di portare a buon fine la mis-

pia che per lui la porta della mia casa è sempre aperta.Troverà un letto e un piatto di minestra».

Con una protezione così autorevole, il caso Faroukdiventa un trampolino di lancio verso la ribalta naziona-le, sotto quei riflettori che Graziano ama tanto. Anchese sa molto bene che si tratta dell’esame più difficile del-la sua esistenza. Comunque vada a finire, non potrebbein ogni caso tirarsi indietro, l’amico a cui non si può direno ci resterebbe male. Si tratta, dopotutto, di muoversicon intelligenza e cautela: l’esperienza maturata in pri-gione e nella vita alla macchia basta e avanza. L’impor-tante è che l’ostaggio torni a casa e che nessuno dellabanda dei rapitori venga ferito o arrestato a ridosso del-le trattative. A risponderne sarebbe lui.

Monsignor Giovanni Melis conosce il nome del mi-sterioso personaggio che ha convinto Mesina, molto ri-luttante, a occuparsi del caso Kassam. Il suo non è unsegreto confessionale, ma rifiuta di svelarlo perché è ri-masto in qualche misura vincolato a una sorta di pattodi sangue. A distanza di tempo, nella casa d’accoglienzaper sacerdoti in pensione, un ampio appartamento nelquartiere di Sant’Avendrace a Cagliari, si stupisce chel’altissimo-onnipotente uomo del mistero non si sia fat-to più vivo. Neppure quando Mesina viene arrestato adAsti e pare scomparire definitivamente nell’oceano car-cerario. Impossibile dargli una mano in quel momentooppure c’è stata qualche incomprensione? MonsignorMelis, che gli anni hanno reso ancora più saggio, am-messo che sia possibile, non vuole mettere il dito sullapiaga. Un sorriso solare gli attraversa il viso rugosoquando conferma, mano sul cuore, che Mesina si è oc-cupato del sequestro solo perché è stato costretto. «Io

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sta nel lanciare una notizia verosimile e, come dicono ivecchi cronisti, inzupparci il biscotto per qualche gior-no. Tanto la gente se la beve. Eccola la signora avvocato,eccola, non ha resistito al fascino del bandito famoso (esardo, tanto per puntualizzare con orgoglio regional-popolare). Tanto più che non è affatto il primo caso:non è accaduto qualcosa del genere qualche anno primaanche alla marchesa Guglielmi? Rapita mentre rientra-va nella sua villa di Latina, s’era innamorata del suo car-ceriere, Gianni Cadinu, basso, grossolano, occhi chiari.Oltre il limite previsto dalla cosiddetta sindrome diStoccolma, ha raccontato nel diario dalla prigionia unastoria d’amore romantica e struggente, mano nella ma-no sotto la luna nei faticosi trasferimenti da un rifugioall’altro. Cosa poteva aver fatto incontrare una donnacolta, aristocratica e un latitante neppure di prima fila?Quindi nessun stupore se qualcosa del genere, fascinodella categoria, avesse colpito al cuore anche un’elegan-te avvocatessa di Torino.

Nonostante una dignitosa e sofferta smentita, il val-zer delle voci su Gabriella Banda continua a girare esembra segnarla a fondo. Quella della calunnia era unavariabile che non aveva considerato. Prosegue comun-que nel suo lavoro, aiuta Mesina a scrivere un’autobio-grafia, ma qualcosa si spezza. Quando Graziano finirànel carcere di Novara per detenzione d’armi, non saràpiù il suo difensore. Perché, non lo dice, esce di scena insilenzio. Come se questa avventura professionale, chepure le ha dato forte notorietà, sia naufragata nelle sab-bie mobili della sfiducia. Ha scoperto che il suo assistitole ha mentito, le ha nascosto qualcosa? Gabriella Bandapreferisce non rispondere. «Un capitolo chiuso». Chiu-

sione. Un aiuto consistente gli arriva dal suo difensore difiducia. In un’età imprecisata sotto i quaranta, figlia del-la buona borghesia torinese, Gabriella Banda è una don-na che vive con grande passione civile la sorte del suocliente. Quando riceve il telegramma dell’incarico, esul-ta: assistere in giudizio Graziano Mesina significa con-quistare il successo, far scoppiare d’invidia molti colle-ghi, bruciare le tappe della carriera forense. E difatti nelgiro di poche settimane, finisce su tutti i quotidiani ita-liani. Supera la timidezza, regge bene, spegne l’aggressi-vità della stampa mantenendo toni pacati, nessuna pla-tealità. Si batte con grande determinazione in aula. Ilprimo, drammatico intoppo – il fermo di Mesina a Par-ma, fuori dai confini del soggiorno obbligato – la vedevacillare solo per un attimo. Studia i verbali d’interroga-torio, il rapporto dei carabinieri e sferra l’offensiva perevitare che il suo assistito possa perdere la libertà condi-zionale. Bontà sua non se la prende, come vorrebbe uncollaudato copione nazionale, con la tesi del complotto.

Comincia in quel momento una partita destinata agiocatori più che abili, ad avvocati che hanno fatto i ca-pelli bianchi nei palazzi di giustizia, ma Gabriella Ban-da – quasi un’esordiente in campo professionale – riescea spuntarla mostrando fermezza, rigore, preparazione,intelligenza. Mentre il suo celebre cliente è in Sardegnaa occuparsi del sequestro Kassam, un quotidiano rivelache tra lei e Graziano c’è ben altro che non un semplicerapporto di lavoro o d’amicizia. Esplode, minaccia que-rele: «È una squallida bugia».

Non s’è accorta di essere finita nel meccanismo stri-tolante del giornalismo-spazzatura. È tutto clamorosa-mente falso, ma questo ha poca importanza: il segreto

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Nel fuggi fuggi generale, più o meno dignitoso, c’èuna donna che resiste. E continua a scrivergli, ancheadesso che sembrano essere perduti perfino gli ultimiscampoli di libertà. È Valeria Fusè, milanese. Il suo no-me vien fuori nella primavera dell’85. Allo scadere diun permesso di dodici ore, Mesina non rientra nel car-cere di Vercelli. I carabinieri lo sorprendono con que-sta ragazza, carnagione chiara e sguardo smarrito, in unappartamentino di Vigevano. L’amante del bandito: alprocesso per direttissima arrivano tivù e giornali dimezza Europa. Per Graziano è una clamorosa afferma-zione di balentìa («l’uomo è uomo») con una qualchepennellata di colore da rotocalco ultrapopolare. Vale-ria Fusè schiva l’attenzione generale e rientra («assoltaperché il fatto non costituisce reato») nella casa dovevive coi genitori. Nel ’91, quando Mesina acquista la li-bertà – sia pure dimezzata da orari ristretti e rigidissimilimiti di movimento – un incontro a due mette a fuoco“un bellissimo rapporto d’amicizia”.

Amicizia commovente e profonda che resta in piedi,quasi solitaria, anche mentre infuria una terribile tem-pesta, giudiziaria e umana.

so anche per Mesina che, in un primo momento, chiedesoccorso a un suo vecchio legale (Giannino Guiso), poisceglie di essere difeso da un avvocato d’ufficio.

Non sono frammenti di storia personale, questi.Non sono spezzoni di vita privata. È che dopo la vicen-da del sequestro Kassam, la buona stella di Grazianodeclina velocemente: la liberazione di Farouk si trasfor-ma in un boomerang. Scontro aperto tra chi giura chel’impresa è tutta sua e chi invece lo accusa di averci spe-culato. Affidandosi a un’antica e ipocrita certezza: unbandito è sempre un bandito.

Tempo dopo ad Asti, a un processo per armi e seque-stro di persona, c’è scarso interesse, pochi inviati seguo-no le udienze che si trascinano stancamente fino allasentenza di condanna. Lo stesso giornale di Montanellinon dà grande rilievo alla notizia, addirittura non pub-blica una riga il giorno del verdetto. Mesina non fa piùtitolo? Qualcosa non quadra. Forse circola sottobancol’indiscrezione che prova la sua colpevolezza: insommain quel pasticcio c’è dentro fino al collo, ha peccato dionnipotenza, di presunzione e di certezza dell’impuni-tà. Ore e ore di intercettazioni telefoniche sono lì a di-mostrarlo. Un’ipotesi di questo genere spiegherebbe leragioni dell’insolito disinteresse verso un personaggioche ha fatto girare al massimo le rotative.

Il mito pare finire a pezzi, miseramente scivolato suuna buccia di banana ha rivelato la sua anima: di gesso.Ha tradito la fiducia di molte persone, dunque fa bene ilpubblico ministero a definirlo “delinquente abituale” ea ironizzare pesantemente su un dio minore che rotolaverso il disastro. «Per uno come lui non posso chiedereuna condanna lieve, non sarebbe rispettoso».

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VII

Il dio tritolo

Bandito pre-tecnologico, Graziano Mesina avevadialogato a pallettoni negli anni verdi della vecchia cri-minalità. Quasi un adolescenziale tempo delle mele: mi-nacce, intimidazioni e avvertimenti passavano attraver-so la legge del fucile. La voce del tritolo, più professio-nale e sicura, non aveva ancora avuto modo di sentirla.Fortuna che stava in carcere a macerarsi in uno speran-zoso conto alla rovescia: uno come lui non avrebbeneanche capito. Lo avrebbero messo da parte come si facon certe macchine che finiscono fuori mercato. Almassimo, una volta uscito dai “garage” penitenziari, loavrebbero potuto esibire come pezzo d’epoca. Anti-quariato. Un fantasma che in vita adoperava doppiette acanne mozze, il numero di matricola abraso.

Agli uomini della dinamite farebbe perfino tenerez-za. Oltre duecento attentati in dodici mesi, sessanta aNuoro con un record regionale incoraggiante: novebotti in soli ventidue giorni nel ’90. Alle spalle di questoscenario che occupa la ribalta della cronaca, alcuni insi-stono con la ricetta tradizionale: nei moduli grigi da in-viare al comando generale per le statistiche, i carabinie-ri registrano in tutto 130 colpi di arma da fuoco. Pochi,lampi rancorosi degli ultimi sopravvissuti che si ostina-no a credere in una sorta di linguaggio degli avi: ditelo

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L’uso distorto e degenerato della legge emerge quasisubito in tutta la sua evidente gravità, ma le scappatoiesono poche. Ai vertici dell’amministrazione della giusti-zia ci si lamenta apertamente. «Qualcuno ha fatto menoprigione di quella fatta patire all’ostaggio in un seque-stro di persona», s’infuria il direttore del penitenziarionuorese riferendosi all’incredibile viavai di detenuti.

La procedura per ottenere questo significativo privi-legio, che rende più civile e meno repressiva la detenzio-ne, passa attraverso una serie di autorizzazioni, a co-minciare da quella del giudice di sorveglianza. Il magi-strato messo sotto tiro con un ordigno a basso potenzia-le si era evidentemente opposto a una richiesta di lavoroesterno. Ha scontentato qualcuno e glielo hanno man-dato a dire con un po’ di gelatina sotto casa.

A far da cornice ci sono poi i fuochi d’artificio legatiagli appalti, alle vendette tra grossisti, gelosie di concor-renza. Quando il messaggio esplosivo non ottiene il ri-sultato voluto, c’è sempre la piazza dei sicari a paga-mento. Nel 1989 Nuoro strappa un terzo posto assolutosul fronte-omicidi in campo nazionale: in rapporto alnumero degli abitanti, produce morti ammazzati pocomeno di Reggio Calabria e Catania. Quasi un secolo pri-ma, un deputato della Sardegna al Parlamento di Tori-no scriveva affannato al ministro dell’Agricoltura, Ca-millo Benso conte di Cavour: “Si uccide di giorno e dinotte, si uccide in piazza, in campagna, nelle case, all’u-scire di chiesa”.

Adesso la situazione non è così drammatica, proprioperché c’è il tritolo. Tritolo che, come gli incendi estivi,è legato a doppio filo con l’occupazione, la povertà dif-fusa, la mancanza di prospettive, lo straniamento di

col piombo. Ditelo pure, se vi pare ma alla fine degli an-ni ’80 l’esplosivo tira di più. È quasi una scoperta in unaterra che pullula di cave e miniere e che dunque può of-frire materia prima a volontà.

A differenza di altri sistemi, il tritolo ha il vantaggiodi essere meno impegnativo dell’agguato, non richiedela presenza sul posto, è convincente quando si fa senti-re. E ancor più sul dopo, immagine di devastazione epaura, effetto secondario nient’affatto trascurabile e dilunga durata: vivere con le macerie sotto gli occhi signi-fica crescere fianco a fianco al terrore. In un mare agita-to come questo, Mesina si sarebbe perduto in un atti-mo. Era uno specialista d’altro genere, lui.

Le nuove tecniche di guerra sono sofisticate. L’utiliz-zazione degli esplosivi offre un ventaglio di possibilitàdavvero interessante. Ne sa qualcosa un giudice di sor-veglianza del Tribunale nuorese e un’educatrice peni-tenziaria di Badu ’e Carros. Ricevono bombe: e la cittàtrema. Cosa c’è sotto? In questo caso, il discorso appareabbastanza semplice. Racket alla rovescia: la malavitaaiuta alcuni commercianti in crisi, garantisce un consi-stente sostegno economico in cambio di un piccolo fa-vore, proporre un posto di lavoro a un certo detenuto.La legge sulla libertà condizionale impone che i reclusiabbiano trovato un’occupazione, altrimenti si restadentro. Grazie a una norma come questa, la criminalitàorganizzata riesce a recuperare alcuni suoi uomini. Inquel periodo i reclusi di Badu ’e Carros sono poco menodi duecento. Almeno una trentina ha ottenuto la libertàcondizionale con questo sistema: escono dal carcere dibuon mattino e vi rientrano soltanto dopo il tramonto,per dormire.

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aperta. Nel Sulcis, dove invece ci sono mafiosi in sog-giorno obbligato, l’economia di sussistenza non apre lavia al racket. La crisi economica è di proporzioni tal-mente gravi che, davanti alla minaccia di un taglieggia-mento, i commercianti abbasserebbero all’istante le sa-racinesche. Cosa resta da fare, allora? Anche in questocaso, come per San Teodoro e altri investimenti in Gal-lura, si fanno soltanto congetture: mancano le stampelledei fatti. Si dice che i mafiosi anticipino danaro ai nego-zianti in crisi e incassino a vendita avvenuta. Insommapiccolo, piccolissimo strozzinaggio, a cappio sufficien-temente largo. Dopotutto, se i commercianti vengonostrangolati ha da perdere anche la mafia e i suoi esattori.

Le mille voci del dio-tritolo continuano comunque afarsi sentire. Nelle campagne di Orgosolo, casa Mesinadunque, viene aperto un cantiere per realizzare una di-ga sul Cedrino. Appalto da quaranta miliardi (quarantamiliardi del 1990), sessanta buste-paga garantite per treanni. È una formidabile valvola di sfogo contro la disoc-cupazione locale e, dettaglio non secondario, si tratta diun progetto serio. A cose fatte, consentirà l’irrigazionedi tremila ettari di terra. La ditta che ha vinto la gara ini-zia e interrompe i lavori in brevissimo tempo. Cos’è ac-caduto? Prima viene incendiata l’auto del direttore delcantiere, qualche giorno dopo una ruspa devasta e di-strugge un prefabbricato dove sono custoditi gli attrez-zi. In una lettera inviata al cosiddetto ente committente,il Consorzio di Bonifica, vengono poste precise condi-zioni per riprendere l’attività: “… ogni possibile e con-creto provvedimento per garantire l’incolumità di uo-mini e mezzi”. Al sindaco di Orgosolo, che protesta perl’ennesimo attentato capace soltanto di far andar via im-

contadini e pastori riciclati a suo tempo nell’industria eora scaraventati nel purgatorio della cassa integrazione.Nel conto bisogna mettere anche la rete del commercio,gonfiata a dismisura proprio per fronteggiare la man-canza di lavoro: nella sola città di Nuoro sono state con-cesse millecento licenze, seimila in tutta la provincia.Quanti riescono a stare a galla nell’imbuto vorticosodella crisi?, quanti riescono a mantenersi onesti? Il var-co per l’infiltrazione di mafia e ’ndrangheta, che hannobisogno di lavare danaro e operare in terre pulite, di-venta più facile.

Ma dopo anni e anni di accertamenti non si riesce achiudere il cerchio. Con molta presunzione, i sacerdo-ti della sarditudine a oltranza avvertono che non c’èpericolo: la Barbagia, giurano, è impermeabile a cultu-re-altre. Ci crede anche Salvatore Mulas, questore diNuoro: «Qui mafia e camorra non possono combinaregranché. Al di là delle ataviche allergie dei sardi, il pro-blema è quello delle braccia. Se pure pensassero di im-boccare la strada dell’estorsione programmata, avreb-bero bisogno di manovalanza locale. E non ne trove-rebbero».

Altri ritengono invece che mafia e camorra non vo-gliano, almeno in Sardegna, imporre il racket, cioè l’abi-cì della piccola delinquenza di casa loro. Forse è verol’esatto contrario: la grande criminalità chiede in Sarde-gna discrezione e possibilità di fare buoni investimenti.Nei primi mesi del ’94 la Guardia di Finanza apre un’in-chiesta sull’acquisto di alcuni residence a San Teodoro,località sacra nell’industria delle vacanze: sembra sianostati comprati con denaro riciclato proveniente da se-questri e traffico di stupefacenti. L’indagine è tuttora

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250 iscritti in tutta la provincia al sindacato di categoria.Padre di una ragazza rapita dall’Anonima e liberata incircostanze avventurose, vive sul filo di lana. A capo diun consorzio che si aggiudica un appalto da cinquanta-sei miliardi per costruire la strada di circonvallazione,gli viene riservato un trattamento particolare. Si comin-cia con i pettegolezzi al veleno: il suo progetto ha vintononostante non proponesse il prezzo migliore, anzi loscarto è talmente grande da gridare vendetta. Da qui asussurrare che c’è collusione con il Municipio ci vuolpoco. Per giorni e giorni l’argomento divora la noia del-le serate nuoresi, affoga nei bianchini ingollati nei bardel Corso, nelle chiacchiere che seguono fino a nottetarda in ristorante. L’imprenditore getta acqua sul fu-riosissimo incendio della polemica, ma non riesce a fer-mare l’avviamento di voci incontrollate e malevole. Poigli arriva qualcosa di più, un segnale preciso: una bom-ba lanciata in piena notte contro la sua villetta. Per uncaso non esplode. «Eravamo tutti in casa».

Da quel momento cominciano appostamenti e con-trolli telefonici. Polizia e carabinieri vogliono arrivare aimandanti. Interessa soprattutto al governo regionale,fortemente preoccupato dalla possibile reazione di altriindustriali. Le delicate condizioni economiche dellaprovincia non potrebbero reggere un esodo imprendi-toriale verso centri meno esplosivi, più tranquilli. Treanni dopo, situazione immutata, il procuratore generaledella repubblica Francesco Pintus lancia solennementel’allarme: «…desta particolare preoccupazione l’attua-le situazione economica, nella quale il pericolo di unadefinitiva vanificazione dei tradizionali posti di lavoro,l’assenza di alternative occupazionali e la sempre meno

prenditori e sogni d’occupazione, arriva la vendetta tra-sversale: una bomba contro l’abitazione di un suo pa-rente.

La politica del tritolo è questa, il pane del nuovobanditismo lievita insieme la farina della vecchia crimi-nalità e quella di un esercito di dilettanti pronti a tutto.In pieno fuoco incrociato irrompe la nuoreseria a deno-minazione d’origine controllata attraverso la requisito-ria d’un consigliere regionale della sinistra: “Una socie-tà pastorale arretrata caratterizzata da un immobilismoarcaico, rivelatasi impermeabile ai processi di moder-nizzazione, incapace di aprirsi al nuovo, impregnata diuna cultura spesso portatrice di valori deteriori, prigio-niera di miti e codici che si perdono nella notte dei tem-pi. Una società che teorizza la violenza quale strumentoper dirimere le controversie e i conflitti; animata da unmalinteso senso della balentìa che altro non è se nonviolenza gratuita e fine a se stessa; da un individualismoonnipotente e indefinito che calpesta qualsiasi interessecollettivo”. È un siluro, questo, che va a colpire quellasorta di strapaesano orgoglio barbaricino. E fa ancorapiù male perché il tiratore scelto è locale, nuorese da ge-nerazioni. Comunque, ce ne sarà anche per lui: il nego-zio di famiglia, al centro del centro della città, viene de-vastato da un ordigno. Gli attentatori non cercavano lastrage: volevano giusto mandare un messaggio in un co-dice adeguato ai tempi. Miccia a lenta combustione, an-notano i carabinieri. Miccia a depressione rapida perchi se la vede balenare tra i piedi.

Tra i bersagli c’è anche un personaggio duro, tutt’al-tro che disponibile a certe smancerie sociologiche: Re-mo Berardi, presidente degli industriali nuoresi, circa

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nato, cosa ha fatto da apripista al partito della dinamite?Ogni anno piovono in Procura generale oltre centomilafascicoli, una montagna di carta che cresce senza sostamortificando le aspettative di migliaia di cittadini in li-sta d’attesa per una sentenza. Giocoforza, la ricerca diuna giustizia che non trovano e che in ogni caso tarda adarrivare, suggerisce di imboccare strade nuove e perico-lose. L’attentato, per esempio. La politica delle bombe.Se non altro, sembra avere almeno la forza di far sapereche si è vivi.

Il tritolo contro prefetture, municipi, contro abita-zioni, proprietà di sindaci e assessori viene spiegato conun’interpretazione colta: è che la società barbaricina vi-ve ancora in una condizione pre-liberale, vale a dire (co-me sosteneva più di trent’anni fa la rivista “Ichnusa”),precedente il contratto sociale. “Gli amministratori so-no visti, da un lato, come la personificazione dello Sta-to, del potere pubblico, titolari di tutte le competenze,dall’altro sono giudicati partecipi di un complessivo si-stema di potere, che concede o nega diritti, e imponedoveri, ma da cui, comunque, essi traggono vantaggio”.

Sulla scia di questa considerazione che fa parte del li-bro infinito scritto dall’ultima Commissione regionaled’indagine sulla criminalità, vien facile capire come siformi un nuovo banditismo, quale impasto di rabbia econtraddittoria politicizzazione riesca a cementarlo.

Un brivido di paura scuote l’isola quando un ordi-gno devasta un finestrone del Comando militare dellaSardegna, in via Torino a Cagliari. Una bomba qualun-que che in quel momento depista clamorosamente gliinquirenti lasciando credere che sotto la cenere stia na-scendo un partito armato, qualcosa a mezza strada tra

praticabile valvola di sfogo rappresentata dall’emigra-zione, sono tutti fattori che rischiano di alimentare la ri-cerca individuale delle fonti illecite di guadagno».

A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio deglianni ’90, la voce delle bombe continua a farsi sentire.Ma è più flebile rispetto a un passato di fuoco. L’ondalunga, quella che inizia a ridosso della vittoria elettora-le delle sinistre nel ’75, comincia a rientrare. A un trat-to sembra quasi vi sia una specie di ritorno a codici emetodi che si ritenevano sorpassati, dimenticati. Si ci-ta fra tutti un esempio-simbolo: Orune, tremilacin-quecento abitanti e quattro omicidi l’anno contro unamedia nazionale che dà un assassinio ogni centomilaabitanti.

Gli antropologi avvertono che “bisogna sfuggire aun’analisi sostanzialmente basata sulle categorie tradi-zione-modernità”. Non la consentono variabili che han-no profondamente modificato la realtà quotidiana: vi-deotape, tivù. Cambiano le fonti di informazione, simodificano i punti di riferimento scatenando la sindro-me da emulazione, detonatore dell’invidia, del confron-to, della drammatica evidenza dei fatti: da un lato c’èun’isola con centocinquantamila disoccupati, dall’altro– per quattro mesi l’anno – straripa la ricchezza dell’in-dustria vacanziera. Inevitabile che vi sia una reazione,confusa e pasticciona, ma dura, violenta. Secondo alcu-ni, come il decano dei penalisti sardi, l’avvocato sassare-se Giuseppe Melis Bassu, la “cultura della violenza esi-ste dappertutto e non la estirpa definitivamente nessu-no: la si può e la si deve costringere in limiti tollerabili”.

Tra la fine dell’87 e l’88 i limiti di questa violenza so-no invece tutt’altro che tollerabili. Cosa non ha funzio-

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gliabile. A parte i modesti risultati che si ottengono, que-sto spiegamento di forze determina effetti psicologicinegativi sulle popolazioni interessate».

Imbarazzato dalla grossolana irruenza del ministro,lo Stato maggiore dell’Esercito precisa di non andare inSardegna “per stanare i rapitori di Farouk Kassam” maper una ragione diversa: controllare il territorio, popo-larlo. “Farci camminare la gente”. D’altra parte si trattadi raccogliere l’appello del difensore civico GiovanniViarengo che, a più riprese durante la sua carriera dimagistrato, aveva invocato una presenza in divisa nellezone interne. Presenza non significa militarizzazione,puntualizzava a scanso di equivoci.

Nonostante il controcanto dei due quotidiani sardi,Fortza Paris inizia nel luglio del ’92 e si conclude tre me-si dopo, a settembre. Impegna complessivamente dieci-mila uomini che si danno il cambio – guardia permanen-te di quattromila soldati – in aree arroventate dal silen-zio e dal sole. La circolazione di campagnole, camion eun enorme schieramento d’uomini ottiene tuttavia ri-sultati degni di nota. Il Comando sforna un bollettinodella vittoria per segnalare una netta flessione degli at-tentati (76 per cento in meno rispetto allo stesso perio-do dell’anno precedente) e degli incendi dolosi (53 percento).

A sentire i militari crolla anche il reato dei reati, quel-lo più tradizionale, l’abigeato: meno 88 per cento. Entu-siasmante, ma il merito non è solo dei soldati. In quelperiodo hanno iniziato a funzionare seriamente le com-pagnie barracellari. E questo spiega in gran parte il tra-collo dei furti di bestiame.

Fortza Paris non passa inosservata. A Lula una bom-

una rivolta confusamente dinamitarda e il terrorismocòrso. Niente di tutto questo: la fiammata antimilitari-sta rientra nel calendario delle tradizioni isolane. Le al-tre bombe, e sono davvero tante quelle che esplodonosoprattutto nel Nuorese, fanno parte soltanto di unamodernissima disamistade tra pubblico potere e priva-to cittadino. Una specie di ufficio reclami un po’ parti-colare.

A Roma possono stare tranquilli: quella che sta scop-piando in Sardegna non è guerra contro la Repubblicama lampi di un furore popolare che ha smesso da unpezzo di credere alle istituzioni.

Bisogna tuttavia far qualcosa, far sentire in qualchemodo la presenza dello Stato. Mentre il sequestro Kas-sam è alle battute finali, e quindi in una fase molto deli-cata, il ministro della Difesa, Salvo Andò, annuncia l’in-tenzione di inviare un corpo militare a presidiare la Sar-degna, inquieta periferia dell’impero. Lo annuncia contale brutalità che la memoria storica dei sardi torna su-bito ai famigerati “baschi blu”, alla dannosa e arrogan-te occupazione con le stellette degli anni ’60. L’opposi-zione a un ritorno in massa di soldati è massiccia: tra lerighe di uno scontro che non si è mai sopito, qualcunosottolinea i pericoli per una buona conclusione del rapi-mento di Farouk. Una presenza inutile, e non solo inuti-le, quella dei militari pure per il vecchio senatore Medi-ci che nel suo rapporto al Parlamento sulla criminalitàisolana, agli inizi degli anni ’70, afferma con sicurezza:«Anche se i reparti speciali, formati da giovani idonei aeseguire servizi di squadriglia nelle zone montane, tal-volta hanno dimostrato una loro validità, è da ritenereche, di regola, l’impiego in massa di militari sia sconsi-

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L’artiglieria dell’opposizione si spegne, resta qual-che fuoco isolato, l’immancabile incursione sui giornalidell’intellettuale ad ascensione finto-separatista. Si ri-parla di colonizzazione, di inammissibile ingerenza nel-la vita d’una regione. Come dire, battendo un chiodo ri-masto caldo nei secoli: Roma mandava le sue legioni, ilministro Andò le sue brigate. Con lo sberleffo finale dichiamarle pure Fortza Paris, come se i sardi c’entrasse-ro davvero qualcosa.

ba ferisce un gruppo di persone che passeggiano: traqueste ci sono anche ragazzi di leva. Una bravata piùche un attentato vero e proprio. Altrettanto potrebbedirsi del ferimento di alcuni alpini a Mamoiada, presi dimira a fucilate. Nessun volantino di rivendicazione eneppure una parola di sostegno da parte della popola-zione.

Il caso più clamoroso avviene a Orgosolo, storicoepicentro della resistenza antimilitarista. L’arrivo deisoldati è accolto con molta freddezza venata, a tratti, dievidente intolleranza. Nel campo allestito nelle collinevicine al paese, si fa finta di nulla e si lavora alacrementefacendo molta attenzione a evitare la scintilla della ri-bellione. I medici militari fanno lastre, piccoli interven-ti di chirurgia e di odontoiatria, qualche prestazione dipronto soccorso. Altri si occupano di bonificare i terre-ni riarsi dagli incendi, disinfestano aree appestate dazecche e altri parassiti, assestano malandate stradinecampestri, garantiscono la qualità dei rifornimenti idri-ci. Al contrario di quanto è avvenuto una trentina d’an-ni prima, l’Esercito mostra un’altra faccia: quella del-l’efficienza e della solidarietà civile.

E pian piano il ghiaccio si scioglie, perfino Orgosolofinisce per gradire il pacifico arrembaggio dei soldati.Sull’onda di questo successo, seguono altre due opera-zioni nel ’93 e nel ’94 ma non hanno il peso e la portatadelle altre. L’importanza di Fortza Paris 2 è meramentestrategica e interessa esclusivamente le Forze Armateche, per la prima volta dalla fine della guerra, speri-mentano il trasporto rapido di due brigate (circa cin-quemila uomini e un numero incredibile di mezzi) dallapenisola alla Sardegna.

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VIII

Matteo Boe

Negli archivi dell’Interpol occupava un posto di tut-to rilievo nella lista dei ricercati d’Europa: ventesimo,piazzamento d’eccezione. Nessuno era mai arrivato atanto.

La faticosa scalata verso queste posizioni non s’im-provvisa, parte da lontano e si trascina almeno gli ultimidieci anni del banditismo sardo. Del nuovo banditismosardo, quello che Graziano Mesina incrocia di sfuggitanella veste di emissario durante il rapimento Kassam. Eche ha un solo grande protagonista: Matteo Boe, uomodi buone letture, di Lula per l’anagrafe ma cresciutoculturalmente a Bologna, nell’effervescenza del mondogiovanile che ruota intorno all’Università.

Frequenta la facoltà di Agraria quando incontra lacompagna della sua vita, Laura Manfredi («Ma io sonoragioniera, una semplice ragioniera»), lì intreccia cono-scenze e amicizie che lo proiettano un paio di spannesopra lo standard della criminalità isolana: ai principidella civiltà agropastorale aggiunge quelli metropolita-ni, una miscela che esplode a sinistra, che cerca e trova –con ampie motivazioni politiche – le ragioni della di-sobbedienza, della trasgressione, della guerra alle istitu-zioni. D’altra parte era stato lo stesso Mesina, semianal-

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dinate?, da che parte sperava di fuggire? Mistero, nonsi è mai riusciti a saperlo. L’unica certezza è che all’im-provviso affiora dal mare, come un Nettuno col fiatocorto dopo una lunga nuotata, il detenuto Matteo Boe.Saltare a bordo e squagliarsela è un giochino. Quandole sirene dell’allarme tagliano il silenzio e arrivano astraziare un cielo trasparente, l’evaso è quasi al sicuro.Irraggiungibile. Addio galera.

Un colpo da maestro, clamoroso. Non era riuscitoneppure a un altro “campione” della categoria, Carmeli-no Coccone, classe 1940, orunese accusato di omicidioe di nove sequestri, tra tentati e riusciti. Un curriculumdi tutto rispetto, insomma. Addetto al controllo d’unamandria di mucche, al tramonto doveva rientrare in unacella-camerone. Per tutta la giornata, in pratica, stavaall’aria aperta. «Si era d’estate e la luna chiara illumina-va quasi a giorno le serate dell’isola…». Coccone rac-conta di essere stato assalito dal raptus d’una passeggia-ta (lui la chiama proprio così), quattro passi sotto le stel-le. Una notte, appena i compagni si sono addormentati,ha smontato l’inferriata della finestra del bagno e via, fi-nalmente libero. «Ero all’aria aperta, da quanto nonsentivo il profumo delle notti di campagna… respiravoa pieni polmoni l’odore piacevole del fieno inumiditodalla rugiada…».

Respirando respirando, s’è allontanato fino a quan-do «mentre svoltavo l’angolo del muro di un vigneto»non si scontra con due agenti di custodia. Che non cre-dono per nulla ai desideri poetici d’un pastore errante.Anche perché «trovarono lì vicino un vecchio paio dipinne da subacqueo e pensarono che me le fossi procu-rate io col proposito di attraversare a nuoto lo stretto di

fabeta, a intuire in quale direzione puntava il futuro deilatitanti. Parole profetiche le sue: «Attenti a dire che illatitante non ha un’ideologia. È una stupidaggine, la ve-rità è che nel mondo c’è troppa disparità, troppa ingiu-stizia. La vita alla macchia ti può aiutare a vederla».

Trentasette anni, molti dei quali vissuti lontano dallafamiglia e dal paese d’origine, Matteo Boe vive sulla suapelle questo precetto. Esordisce con discrezione. Poipian piano, il suo nome comincia ad acquistare autore-volezza, credito. Soprattutto un’impresa lo rende d’untratto celebre: alla fine dell’estate 1986 evade dall’isola-galera dell’Asinara, dove stava scontando una condan-na a diciotto anni di reclusione per il sequestro di SaraNiccoli. Non era mai accaduto prima: da quel peniten-ziario, paradiso e inferno, non è mai scappato nessuno.«L’evasione è tecnicamente impossibile», spiegava confierezza il direttore del carcere.

L’evasione è tecnicamente fattibile. Basta aspettare ilmare giusto e avere un piano semplice semplice ma as-solutamente segreto: nessuno o quasi deve sapere. Legrandi fughe, quelle di massa, sono soltanto un buonsoggetto cinematografico. Nella realtà è meglio muo-versi da soli.

Il primo settembre di otto anni fa un maestralinocirconda questo stupefacente lembo di terra mostran-done l’esaltante bellezza. A qualche miglio dalla riva,proprio di fronte a cala d’Oliva, dunque davanti agli uf-fici della direzione, dondola pigramente un piccologommone. Dentro, se è vera la ricostruzione ufficiosa,c’è Laura Manfredi: che aspetta. Com’è riuscita ad arri-vare fin là, a dribblare le motovedette del servizio di vi-gilanza?, come ha trasmesso il suo arrivo, l’ora, le coor-

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per aver preso parte al rapimento di un imprenditore inCalabria. E siccome tutti i suoi ostaggi, almeno quelliche gli sono stati attribuiti, sono stati puntualmente mu-tilati, passa alla cronaca come “il tagliatore d’orecchie”.

L’hanno arrestato il 15 ottobre del ’92 in Corsica, alricevimento dell’hotel “U Palmu” a Portovecchio. Suamoglie era in camera con due dei tre figli nati durante lalatitanza. Strano blitz quello in tandem della polizia ita-liana e francese. Strano perché Boe si fa prendere comeun pivellino portandosi dietro un ingombrante arsena-le. Stranissimo perché tiene in tasca un rullino di fotodavvero compromettenti che lo ritraggono, M 16 sotto-braccio, davanti alla grotta dove è stato tenuto prigio-niero Farouk Kassam. Farsi fare foto di questo genere èfolle, a meno che uno non voglia portarsi dietro, caso-mai lo fermassero, la prova della sua colpevolezza. Ameno che non voglia insomma concordare una fintacattura che potrebbe rivelarsi poi una resa concordata atavolino.

A Lula, dove Matteo Boe è un totem, nessuno credeal compromesso, all’accordo con le forze dell’ordine. Emen che meno che possa aver trascinato nella sua cadu-ta gli amici-complici, due compaesani: Ciriaco Baldas-sarre Marras e Mario Asproni, scomparso un minutoprima che i carabinieri bussino alla sua porta per notifi-cargli l’ordine di custodia cautelare.

Per dirla tutta, c’è chi non crede anche che LauraManfredi non si sia accorta del pedinamento: è una vitache, al volante di un’utilitaria, lascia la casa dei suoceri eraggiunge suo marito. Per sei anni riesce puntualmentea depistare il (folto) gruppo che le sta dietro. Un attimodi disattenzione? Può darsi, ma appare tuttavia poco

mare che si interpone tra l’Asinara e il resto della Sar-degna…».

Cinquantadue chilometri quadrati, l’Asinara appar-tiene allo Stato dal 1885. Dovrebbe diventare, comedispone una legge varata nel ’91, un parco naturale. Nelfrattempo, resta galera. Una bellissima, inimmaginabilegalera al sole. Ospita – in un territorio che è una sorta dilungo budello – sette vecchie fattorie. “Diramazioni”,secondo il triste dizionario penitenziario. La diramazio-ne più famosa è quella di Fornelli, che ospitò a suo tem-po esponenti di spicco delle Brigate Rosse. Stretti corri-doi, portoncini blindati, telecamere dovunque, anchedentro le celle, luci perennemente accese. A Fornellidovrebbe esserci Totò Riina, ritenuto il più pericolosoboss mafioso del dopoguerra. Le altre “diramazioni” –caseggiati di semplice e funzionale architettura ruraleche ricordano le fazendas messicane – sono più aperte: idetenuti escono al mattino, lavorano nei campi, badanoalle greggi, rientrano la sera. Complessivamente l’Asi-nara dà una grande sensazione di libertà, di carcere (fat-ta eccezione di Fornelli, forse il braccio “più speciale”d’Italia) in qualche modo civile, sopportabile.

Ma oltre questo sipario, è un’Alcatraz di Stato. Diffi-cile da raggiungere per i parenti dei reclusi, lontana e, inun certo senso, crudele: panorama da cartolina, riservanaturale d’una suggestione mozzafiato. L’Asinara urlala bellezza della libertà. Matteo Boe aveva capito moltobene tutto questo e dall’isola-prigione ha preso il viabeffando tutto e tutti. Da quel momento gli sono statiattribuiti numerosi reati. In particolare, il sequestro delcostruttore romano Giulio De Angelis e quello di Fa-rouk Kassam. Recentemente è stato incriminato anche

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Perché distruggere l’immagine di Boe? Perché, se-condo lei, i giornali che hanno avuto la colpa di gonfiar-lo, di farne una sorta di mito («per la stampa dev’essercisempre un super-ricercato impegnato in una grande sfi-da con polizia e carabinieri»), ora debbono fare rapidis-simamente marcia indietro. Per qualcuno Boe sta di-ventando un punto di riferimento, dunque bisogna but-tarlo giù, distruggerlo. Cosa c’è di meglio del venticellod’una calunnia che insinua l’ipotesi del tradimento, diuna cattura concordata con le forze dell’ordine? Per ilmomento i fatti dicono solo che Boe esce di scena dalprocesso.

L’altro protagonista del dibattimento si chiama Gra-ziano Mesina. I giudici lo citano per “reato annesso”, fa-voreggiamento. Avrebbe coperto la banda dei rapitorie, naturalmente, Boe. «Boe? Non lo conosco, ne ho sen-tito parlare sui giornali. Mai incontrato. Quando io fa-cevo il bandito lui non era neanche nato». Sarà. Tuttoquesto rende però la faccenda ancora più difficile, piùcomplessa. Più misteriosa. Si aggiunge all’enigma del ri-scatto pagato-non pagato, al ruolo dei servizi segreti, alnome del personaggio che “impone” a Mesina di occu-parsi del rapimento. Già, perché Graziano non ne vole-va sapere, non voleva avere problemi con banditi e tan-tomeno con uno come Boe. Dopo la concessione dellalibertà condizionale, aveva deciso di imboccare un’altrastrada, quella di un quieto grigiore quotidiano. Comegià accennato, c’è stato qualcuno, potentissimo, ha det-to l’ex vescovo di Nuoro, monsignor Giovanni Melis,che l’ha tirato dentro. E forse è stata la sua disgrazia. Inche senso? «Nel senso che questo ha scatenato tutto ilresto».

credibile in una donna come lei. Ancora meno credibileè la vicenda delle fotografie che, tra l’altro, non inchio-dano soltanto Boe.

Laura Manfredi respinge con durezza questa inter-pretazione: «Matteo», dice, «non ha tradito nessuno».A insistere su questa storia, c’è il timore, neppure tantoteorico, che possa scoppiare una faida. E accusa i gior-nali di aver tirato fuori l’ipotesi della “resa condiziona-ta” alla vigilia di un processo importante. Nel frattempoFarouk Kassam ha riconosciuto i luoghi fotografati, laprigione: tradotto con le norme del codice penale, que-sto significa una condanna sicura. E pesante.

Pesantissima. Però, al processo che si apre nell’au-tunno del ’94 a Tempio, il principale imputato non c’è.La pratica per l’estradizione, che in un primo momentosembrava imminente e scontata, s’inceppa nelle proce-dure burocratico-giudiziarie internazionali. Due anninon sono bastati per ritrovare la rotta giusta e approda-re in un’aula di Tribunale. Colpa dell’eccesso di zelodella magistratura italiana, dice qualcuno, che ha pre-sentato ben quattro richieste di estradizione mentre nebastava una. Ma proprio per questa ragione, secondoaltri, si voleva dare all’operazione un salutare effetto ri-tardante. Risultato: la posizione processuale dell’impu-tato Boe Matteo viene stralciata. Salta, dunque, la pre-senza di uno degli uomini-chiave della vicenda Kassam.

Laura Manfredi respinge anche questa interpreta-zione dei fatti, sottolinea che il suo compagno è testimo-ne a difesa per Asproni e Marras, parla apertamente dimontatura, di giornalismo prezzolato e imbeccato dallamagistratura per creare il caso, per distruggere l’imma-gine di Boe.

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la sentenza di concessione della libertà condizionale.All’interno delle prigioni circolano personaggi d’ognigenere. Per esempio Vittorio Andraus, killer peniten-ziario per conto della ’ndrangheta, conosciuto a Badu ’eCarros. Poi c’è Pasquale Barra “O’ animale”, squartato-re scelto, anche lui conosciuto a Nuoro, specialista dellavivisezione: durante un’ora d’aria ha letteralmente af-fettato il gangster Francis Turatello concludendo l’ope-ra con un morso di disprezzo al palpitante fegato dellavittima. Tra le altre conoscenze importanti ci sono poiAngelo Epaminonda (detto “il Tebano”), il nappistaMartino Zichitella. L’elenco potrebbe essere infinito.

Quel che ha salvato Mesina è stata forse la sua natu-rale ritrosia, anzi la diffidenza a stringere amicizie, aconcedere familiarità. Ha sempre preferito l’isolamen-to, anche duro, ai soggiorni di gruppo con delatorecompreso.

Pochi sanno che in carcere ha tenuto un diario. Pagi-ne e pagine di quaderno a righe che nascondeva nel ce-stino della cartastraccia. «L’ho distrutto quando mi so-no accorto che avevo troppi occhi addosso». Stessa de-cisione quando la noia gli ha fatto prendere in mano ilpennello. Dipingeva soprattutto nature morte: quandoil direttore della prigione gli ha chiesto un quadro-ri-cordo, ha fatto a pezzi le tele. Non voleva si pensasseche dietro la richiesta del dono, ci fosse una proposta diprotezione o comunque di benevolenza nei suoi con-fronti.

Lo sostiene la convinzione che quando si tradisce oci si vende è «perché uno, così, ci è nato. Quando unamela non è buona prima o poi fa il verme. Per fare cer-te cose devi averci l’indole». Lui, che una certa indole

Profondamente diversi sotto numerosi punti di vi-sta, Matteo Boe e Graziano Mesina hanno qualcosa incomune: coerenza, un poderoso istinto di conservazio-ne che li aiuta a uscire da situazioni pericolose, capacitàdi sopravvivenza in condizioni dove altri cedono più fa-cilmente al patteggiamento. Eppure l’uno e l’altro ca-dono da dilettanti. In Barbagia si dice che il latitante de-ve avere paura delle tre effe: fontana, festa, femmina.Per Boe è fatale l’ultimo caso: la moglie va a trovarlo inCorsica portandosi dietro, bagaglio al seguito, un re-parto di poliziotti. Che, quando arrivano sul posto, lointrappolano, gli trovano addosso un’inutile carta d’i-dentità (intestata a un inesistente Giulio Manca di Bor-tigali) e la prova-bomba della sua partecipazione al ra-pimento Kassam, le foto-ricordo scattate davanti allagrotta nelle campagne di Lula.

Non è meno stupefacente la “caduta” di Mesina, chepure riesce ad attraversare molte stagioni da latitante e,prova forse più impegnativa, quasi trent’anni di galera.Intercettazioni telefoniche disposte dalla procura di-strettuale antimafia portano alla luce il progetto d’unsequestro su commissione: glielo chiedono due genove-si un po’ così che vogliono vendicarsi del teleimbonito-re Mendella, colpevole di aver divorato i loro risparmi.In vista di quello che si annuncia un colpo clamoroso,da mettere a segno addirittura a Montecarlo, Mesinachiede ai suoi “clienti” un piccolo rifornimento d’armi.E quelli vanno a portargliele senza sapere di essere scor-tati dai carabinieri.

Più che vivere da ricercato, per Mesina è stato certa-mente più rischioso vivere da carcerato «per anni venti-nove e giorni sette», come gli ha ricordato il giudice nel-

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mente un suo peso l’età che incalza, la stanchezza, il de-siderio di rivedere la madre. Al presidente del Tribuna-le che gli chiede incuriosito se ha beni di proprietà, ri-sponde sicuro: «Non ho niente. Quelli che avevo, me lihanno sequestrati». Sequestrati, ha detto sequestrati?Per un attimo gli viene da ridere, avrebbe dovuto ado-perare un altro verbo. Poi torna sulle sue e, a propositodi ravvedimento, fa presente: «Certo, è chiaro che nonripeterò gli sbagli che ho commesso. Badi però che senon mi fossi trovato in certe circostanze, non avrei fattoquel che ho fatto. I miei sono reati di sopravvivenza».Come vuole il rito, a quel punto il presidente del Tribu-nale domanda qual è il parere del signor procuratore ge-nerale. Il signor procuratore generale si alza lentamentedalla poltroncina di panno rosso, guarda dritto negli oc-chi l’imputato e annuncia: «Contrario. Siamo contrarialla concessione della libertà condizionale».

E Mesina resta in carcere ancora per un anno, a me-ditare sulle parole pronunciate quella mattina nell’aula-frigorifero del Tribunale di Torino. Forse avrebbe potu-to essere un po’ più disponibile. Certo, non dichiararsipentito ma insomma. Lo spiritello del duro a oltranzagli ha suggerito in aula parole di cui, più tardi, ha forse ilcoraggio di pentirsi solo con se stesso. Quando nessunolo vede e lo sente, quando nessuno può immaginare cheil balente Mesina sa essere anche un uomo disperato,aggrappato alla vita. Ma queste sono cose che non sidebbono dire in giro, ne risentirebbe eccessivamente lafigura del detenuto che non vuole compromettersi.Neanche con una dichiarazione di fede che, dopotutto,è soltanto una formula di rito; inutile ed effimera, valegiusto il tempo di recitarla quasi a memoria. «Sì, signor

non l’ha avuta, ha tuttavia seguito una sorta di terapiapreventiva, una cura che gli imponeva di mantenereuna certa distanza di sicurezza dagli altri, carcerieri ecarcerati.

Per via dei suoi nove tentativi di evasione oltre che dicondanne senza fine, è stato in quasi tutti i penitenziariitaliani: dall’Asinara (dove c’era un direttore che dormi-va tenendo un fucile accanto al letto) al manicomio cri-minale di Montelupo fiorentino, dalle Nuove di Torinoal braccio speciale di Viterbo, dal carcere di massima si-curezza di Trani a Regina Coeli. Potrebbe scrivere unarabbrividente guida Michelin delle prigioni italiane.«Non hanno segreti per me. La peggiore è certamentequella di Buoncammino a Cagliari. Ma non scherzanoneppure a Volterra, Porto Azzurro. Ho trascorso interimesi in celle scavate dieci metri sotto terra, sotto il livel-lo del mare. Tane dove sui muri cresce l’erba e tu sei co-stretto a vivere come un animale. Devi muoverti in con-tinuazione per non morire di freddo, per evitare che l’u-midità ti trasformi in un invalido. Condizioni di vita im-possibili».

Per “anni ventinove e giorni sette” Mesina accettache queste siano le sue prigioni e rifiuta qualunque tipodi collaborazione. Nel marzo del ’90, quando il Tribu-nale di Sorveglianza di Torino gli nega la libertà condi-zionale, sa bene che il primo requisito per ottenerla è ilcosiddetto “ravvedimento”. Pur sapendo quanto glipuò costare una sparata del genere, dichiara di sentirsiquello di sempre, non rinnega affatto il passato. Il suocomportamento, che “evidenzia un graduale e totale ri-pristino del rispetto delle regole penitenziarie” è detta-to solo in parte dal bisogno di tornare libero. Ha certa-

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IX

La Coop dei sequestri

Prima artigianale poi sempre più industriale; primaruspante poi sempre più professionale. Col passare de-gli anni, meglio dire dei secoli, il sequestro di persona ascopo di estorsione affina nella sua terra d’origine, laSardegna, una tecnica che non teme raffronti. D’altrocanto se la storia patria non mente, il primo rapimentodi cui si ha notizia risale alla fine del ’400.

Stiamo parlando dunque di qualcosa che arriva dalontano. E che, come certi prodotti dell’agricoltura bio-logica, ha mantenuto l’uso di alcuni ingredienti cam-biandone altri (senza sciocchi rigidismi) per venire in-contro a esigenze nuove. Non c’è solo il problema del ri-ciclaggio del danaro sporco, un’operazione difficile cherichiede buone conoscenze bancarie e la capacità dinon farsi strangolare da cambisti troppo voraci. Secca-tura, questa, che fino a una ventina di anni fa neppure siponeva: le banconote, sia pure segnate dagli investiga-tori, riuscivano a prendere il volo e risciacquarsi in unaqualunque banchetta della penisola.

Il sistema di comunicazioni di massa ha poi enorme-mente migliorato i rapporti tra il portavoce dei banditi ei familiari dell’ostaggio: le polaroid con una copia digiornale tenuta bene in vista sono, ad esempio, un siste-

presidente, mi sono ravveduto», equivalente giudizia-rio d’un cristiano atto di dolore: …mi pento e mi dolgocon tutto il cuore dei miei peccati…

Un’assurda educazione gli ha fatto balbettare chenon ha nulla da sconfessare del suo passato. Chi vuolecapire, capisca. Quanto a lui, sa bene quale può essere ilconto da pagare per un’affermazione di questo genere.

Preferisce tornare in carcere, com’è sua abitudine,soffocato dall’orgoglio. Tre anni più tardi, a libertà fi-nalmente conquistata, in attesa che il Presidente dellaRepubblica gli conceda la grazia, accetta da due scono-sciuti la proposta per un sequestro miliardario. E cascanella rete della giustizia come una matricola della crimi-nalità, un esordiente da quattro soldi.

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re come possa diffondersi un reato così terribile, un rea-to che prevede – volentieri o meno – una ferocia che siripete, si proietta giorno dopo giorno in uno stillicidioche annienta. E che talvolta coinvolge intere comunità.Cosa può importare a “gente ferrigna” delle sofferenzedi un povero miliardario? Dopotutto, molta di quellagente fa una vita quotidiana che non è molto diversa daquella dell’ostaggio. L’alimentazione, pane formaggio esalsiccia, fa parte della vita di migliaia di contadini e pa-stori. Resta da parlare della privazione della libertà, mo-desta e temporanea seccatura, che viene ritenuta sop-portabile. Non ci sarà mai nessuno tra Mamoiada e Oru-ne, tra Nule e Benetutti, che lo dichiarerà apertamente,ma non è vista – in un certo senso – molto diversa dallaprigionia del latitante o da quella di un pastore, imbava-gliato dal silenzio, condannato a stare per intere setti-mane a non vedere anima viva. Imprigionato senza cate-ne certo, ma comunque imprigionato in una cella gigan-tesca, infinita, senza porta e senza sbarre ma pure senzavia d’uscita.

Ascoltate le discussioni nei bar, il chiacchiericcio perstrada: la custodia dell’ostaggio non è affatto considera-ta la parte più orribile del sequestro. Stando al paragonedi prima, non si venga a dire che il pastore se vuole puòandarsene, può lasciare la sua galera. Non è vero, nonpuò: glielo vieta il senso del dovere e della famiglia, so-prattutto un destino segnato e immutabile. L’alternati-va fin quasi agli inizi degli anni ’70 è stata soltanto una:emigrazione. Senza scivolare nella retorica, sarebbe in-teressante scoprire quali siano i punti di riferimento e ilsignificato di libertà per centinaia di migliaia di sardiche si sono rifugiati all’estero o nel nord Italia, inseguiti

ma garantito e sicuro della cosiddetta “prova di vita”.Bisogna dire, a onor del vero, che i primi a servirsene so-no stati i terroristi delle Brigate Rosse durante il seque-stro di Aldo Moro, presidente della Dc, nel 1978. Chinon ricorda la foto del “prigioniero politico” che tenevain mano un quotidiano di Roma? Indifferente e distrat-to verso altri fenomeni d’importazione, un certo bandi-tismo sardo – quello più evoluto – ha fatto tesoro diquesta indicazione e l’ha sfruttata immediatamente.

Il resto, ma non tutto il resto, ha mantenuto la vec-chia ricetta. Giusto per non tradire la cucina locale.Giuseppe Medici, senatore della Repubblica incarica-to, alla fine degli anni ’60, di stendere una relazione suquella che sarà poi chiamata società del malessere, siguarda intorno e coglie alcuni aspetti che non giustifica-no ma comunque spiegano in un certo senso nascita esviluppo di un fenomeno profondamente sardesco,molto imitato e mai uguagliato pur essendo uno dei po-chissimi prodotti regionali che ha riscosso (e riscuote)un robusto successo nel resto d’Italia e all’estero. Aiu-tandosi col bastone in un incedere che tradiva l’animaaristocratica, il senatore scoprì una terra ingrata, secca eventosa, arida e sterile. Scrive preoccupato: “In questoambiente agropastorale di montagna, vive una popola-zione ferrigna: soltanto gente di ferro può reggere a unsimile ambiente e amare la vita del pastore nomade”.

Davanti agli occhi aveva l’immagine del Supramon-te, il sipario roccioso di Montalbo di fronte a Lula, laBarbagia e il suo sterminato deserto. Insomma, le con-dizioni geo-ambientali per forgiare un popolo duro c’e-rano tutte. L’annotazione di Medici è tutt’altro che su-perficiale, paesaggistica: in qualche modo cerca di capi-

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libro, che tentano di dare spessore e autorevolezza a in-chieste di cronaca come questa. Stimolante, anche senon rientra tra i testi da ricordare obbligatoriamente aproposito di Sardegna e dintorni, è l’analisi di due do-centi universitari che hanno messo a fuoco i confini delterreno di gioco: “Il banditismo in Sardegna non è ge-nericamente rurale né tantomeno contadino. Bandito epastore appartengono allo stesso sistema, allo stessomondo socio-economico e culturale e, benché esistanonei complessi rapporti che legano le popolazioni pasto-rali al bandito notevoli ombre di ambivalenza e ambi-guità, ciò spiegherebbe la sostanziale integrazione delbandito nel gruppo pastorale di estrazione, i processi diidentificazione tra pastore e fuorilegge, la possibile i-dealizzazione e mitizzazione del bandito e, conseguen-temente, la protezione (definita in termini e secondoun’ottica esterna al mondo pastorale ‘omertà’) di cuigode il bandito, condizione indispensabile alla sua esi-stenza e sopravvivenza”.

Citazione lunga, questa: ma ha il merito di esprimerecon chiarezza (nonostante il linguaggio per addetti ai la-vori) una realtà che appartiene alla Sardegna come isuoi monti, i suoi fiumi.

Graziano Mesina è cresciuto in un ambiente chiuso,dove i “valori” della criminalità resistono al tempo, sten-tano a raccogliere novità dall’esterno, ad aprirsi. Salvorare eccezioni, le cosiddette regole del gioco sono consi-derate eterne e ripetono rituali antichi. Uccidere unconfidente delle forze dell’ordine richiede ad esempiouna piccola operazione chirurgica: il taglio della lingua.Il moncone qualche volta viene infilato tra le natiche.Quando si tratta di assassinare un dongiovanni di paese

dalla miseria e dalla disoccupazione. Alcuni sostengonoche gli emigrati siano stati non meno di cinquecentomi-la nell’arco di trent’anni, altri riducono questa cifra(centocinquanta-duecentomila) tenendo conto esclusi-vamente del criterio dell’emergenza, cioè del bisognoispirato e suggerito dalla fame.

Esistono tre chiavi per aprire la porta dei sequestri etentare di coglierne in qualche misura le ragioni profon-de. La prima offre una prospettiva esclusivamente eco-nomica: si ruba e si sequestra per un motivo antico, ildanaro. Col danaro, comunque guadagnato, si diventaricchi. Col benessere ci si affranca da mille catene. Lachiave poliziesca chiude qualunque interpretazione conle norme del codice penale: come dire, il delinquente èdelinquente, inutile girarci attorno. La chiave del socio-logo trova invece un angolino, quello della disuguaglian-za tra classi. Il sequestro, detto in altri termini, non è al-tro che un meccanismo di ridistribuzione della ricchez-za. Teoria piuttosto debole, questa: anche ammettendo-ne la validità, la ricchezza espropriata all’ostaggio fini-rebbe nelle tasche di uno sparuto gruppo di persone.Più consistente la tesi che parla di emulazione, ossia deldesiderio di rubare-sequestrare per essere uguali agli al-tri, rivendicando una sorta di diritto assoluto ad avere lestesse cose, gli stessi beni. Beni piccolo borghesi, ovvia-mente.

E qui bisognerebbe dire quale sia la responsabilitàdei media, d’una cultura televisiva che ha creato unapropria scala di valori e l’ha venduta come reale, ogget-tiva. Il mondo come una telenovela.

Sarebbe noioso sfoderare le citazioni d’obbligo chegarantiscono il vuoto per pieno nelle bibliografie di fine

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sce a fare dell’ospedale di Ozieri un fiore all’occhiellodella sanità pubblica. Per raggiungere obiettivi che ri-tiene importanti, come l’acquisizione di un tomografoassiale computerizzato (Tac), interpreta a modo suo leleggi e utilizza a modo suo i contributi del fondo sanita-rio. I militanti della sinistra – suoi storici oppositori –gli rinfacciano violazioni su violazioni. Lui, che ha uncuore ricucito coi by-pass, nemmeno s’arrabbia. Amafare il patriarca, il padre-padrone di una comunità chegli tributa affetto, amicizia e voti (quando servono). È,dunque, un uomo troppo importante perché qualcuno –Mesina compreso – possa pensare di oltraggiarlo se-questrandolo. Con l’aggravante poi di un temperamen-to notoriamente grintoso, incapace di inchinarsi, spa-ventato, all’arroganza di un rapimento.

Nonostante ai tempi dell’imboscata avesse passatocinquant’anni, è considerato alla stregua di un bambi-no. E i bambini sono, in qualche modo, sacri. Tali resta-no, per Mesina, anche quando nel ’92 torna a occuparsidi un rapimento, stavolta nella veste di emissario. Du-rante uno degli abboccamenti, vede Farouk Kassam conl’orecchio tagliato e si accorge che la ferita sta andandoin suppurazione. S’infuria, litiga violentemente coi fuo-rilegge: su pizzinnu va trattato bene, va rispettato, vacurato. Già è inammissibile che sia stato rapito (tempinuovi, incomprensibili per un ex che ha passato la vitain galera), ma l’attenzione e la cura del suo stato di salu-te non possono essere messi in discussione.

Ai nuovi criminali, ai “ragazzi” di una generazionetroppo lontana dalla sua, dedicherà molti mesi dopouna riflessione che è una decisa e orgogliosa presa di di-stanza: «Nessuno dei miei ostaggi si è mai costituito

e si vuole, col delitto, indicare pubblicamente il moven-te e (in un certo senso) il mandante, è prevista una orri-bile variante: il sesso va amputato ed eloquentementesistemato in bocca al cadavere.

Anche il sequestro di persona ha le sue regole. Finoagli anni ’70 – fatti salvi rarissimi casi – donne e bambinisono stati considerati intoccabili. Quando rapisce nel’68 l’imprenditore ozierese Nino Petretto, GrazianoMesina si guarda bene dal portar via anche il figlio del-l’ostaggio, Marcello, che aveva cinque anni. Anzi, chiac-chiera con lui, gli dà i soldi per comprare un bigliettoferroviario e tornare a casa tranquillamente. Questonon gli impedisce di acquisire una concezione indu-striale del sequestro: tanto è vero che con Petretto, gliostaggi a carico della sua banda in quel momento sonodue (l’altro è Giovanni Campus). Sarebbero stati addi-rittura tre se la vittima designata, Nanni Terrosu, nonfosse riuscito a fuggire beffando il cosiddetto “re delSupramonte”.

Su Terrosu bisogna fare una parentesi. Non è esclu-so che le voci di una sua fuga siano bugiarde, inventated’accordo con banditi che avevano preso un granchio.Sfiorato un intoccabile. Presidente prima dell’ospedaledi Ozieri e poi della Unità sanitaria locale, Terrosu è unpotentissimo democristiano in grande confidenza conFrancesco Cossiga. Molti lo detestano per questo suoruolo di alcalde, dittatore dolce che non discute, ordi-na; non suggerisce, impone. Decisamente benestante,ha un vaccino che lo protegge dalle maldicenze: è indi-scutibilmente onesto. Uno che in linea di massima nonconsente ai medici della sua Usl di esercitare libera pro-fessione (ritenuta in un certo senso immorale), che rie-

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ti a poche ore dall’agguato. Quattordici non sono piùtornati a casa. Il sequestro più lungo è del ’78, riguardal’imprenditore sassarese Pupo Troffa: otto mesi. A ruo-ta segue quello dell’ingegnere londinese, Rolf Schildche fu prelevato da Punta Sardegna nell’estate del ’79insieme alla moglie Daphne e alla figlia Annabelle: oltresette mesi di prigionia. Le curiosità statistiche diconoche l’Anonima ha mantenuto le sue vittime per quasi4.500 giorni, poco più di dodici anni. Tenendo contodei riscatti ufficiali, ha incassato – stiamo sempre par-lando degli ultimi vent’anni – quasi trentun miliardi,esentasse. Il costo medio di permanenza per ogni gior-no di prigionia sfiora i sette milioni (sei milioni e otto-centomila, per la precisione). Visto con l’occhio del chi-rurgo che, bisturi in mano, osserva freddamente il cam-po operatorio, c’è da chiedersi: ne vale la pena?, econo-micamente il sequestro rende?

Per organizzarne uno con un minimo di serietà,quindi a livello professionale (vale a dire considerandonei dettagli pro e contro di un fallimento), occorre mo-bilitare sul serio da quindici a venti persone. Sugli orga-nici, prima e seconda indagine sulla criminalità concor-dano. Si può quindi agevolmente sostenere che la rivo-luzione tecnologica non ha lambito questo settore né haimposto tagli (giusto per adoperare una parola decisa-mente sinistra parlando di sequestri). L’immutabilitàdel metodo sottolinea la necessità di una “lunga e pa-ziente preparazione”. Secondo il senatore Medici, l’en-trata in azione prevede certezza su almeno cinque pun-ti: la vittima deve essere realisticamente in grado di farfronte a un riscatto; lo studio dei suoi orari e delle sueabitudini deve ridurre i rischi al minimo; la prima pri-

parte civile. Anzi, con qualcuno sono pure diventatoamico». Discorso molto chiaro. Stando al regolamento(mai scritto, naturalmente), il rapimento di Farouk rap-presenta una doppia violazione: non si tratta soltanto diun bambino, ma anche di uno straniero. E gli stranieri,in una terra celebre per la sua ospitalità, non possono enon debbono correre pericoli di sorta.

Prima e dopo l’era Mesina, la storia del banditismosardo elenca tuttavia una serie di trasgressioni. Alla finedel diciannovesimo secolo vengono rapiti a Gavoi duecommercianti francesi, nel ’25 viene sequestrata unabimba di Aidomaggiore, nel ’33 viene portata via e uc-cisa la figlia del podestà di Bono. Aveva sei anni. Le va-riabili, quindi, non mancano. Ma sono talmente pocheda giustificare chi parla di codice d’onore, chi storiciz-za – come Antonio Pigliaru – leggi e regolamenti dellacriminalità. E non solo della criminalità, poiché le nor-me di buona convivenza riguardano anche la vita dellecomunità, i piccoli dissidi, le liti per ragioni di pascolo.

In questo binario viaggia la “civiltà” dei sequestri. InSardegna, avverte dottamente la seconda indagine sullacriminalità svolta dal Consiglio regionale, si tratta di“aggregazioni temporanee di 15-20 persone (il gruppoche effettua il sequestro, il gruppo che custodisce l’o-staggio, i collegamenti per gli approvvigionamenti ai la-titanti custodi dell’ostaggio, i collegamenti con emissaridelle famiglie che trattano)”.

Negli ultimi vent’anni, dal 1974 a oggi, sono state ra-pite in Sardegna 89 persone: nel conto rientrano ancheemissari trattenuti provvisoriamente (il tempo necessa-rio per il disbrigo di certe pratiche, quasi si trattasse diun ufficio ministeriale) e i pochissimi che si sono libera-

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mettere insieme somme che permettano di realizzare unprogetto. Il riscatto, sia pure nella misura di qualche mi-lione di lire, copre questo bisogno. Al secondo puntoc’è il latitante che ha continuamente necessità di dana-ro: visto che deve stare nascosto, perché non far fruttarela situazione?»

L’aspetto singolare è che in Sardegna si possa costi-tuire una cooperativa tra soci che sono, per vocazioneregionale, profondamente individualisti. Questo spiegal’arretratezza di tanta economia sarda, l’indifferenzaverso nuove iniziative. Basta pensare alla pastorizia:movimento di ventimila persone, coinvolge appena cin-que su cento addetti alle attività produttive. Se non ti-rasse avanti con sistemi arcaici, se seguisse le indicazio-ni e gli stimoli del mercato, sarebbe un formidabile mol-tiplicatore di benessere e occupazione.

L’incapacità dei sardi a “fare società” ha sempre te-nuto la pastorizia al palo. Figuriamoci se si può “faresocietà” per un rapimento: la convergenza di interessitra persone diverse (appartenenti a mondi e a culturedifferenti) comincia e finisce col riscatto. D’altra parte,il basista – spesso un personaggio molto vicino all’o-staggio – non ha nulla da spartire con i carcerieri o colcommando noleggiato per il colpo.

L’ultimo mito da sfatare è quello della miseria. Areadepressa uguale area violenta: è soltanto un luogo co-mune. Ricerche economiche hanno dimostrato esatta-mente il contrario. Più la società è ricca, più alto è il tas-so di criminalità; più la società è squilibrata, più nume-rosi sono i reati contro il patrimonio pubblico e le suefragili truppe. Nella catena del sequestro, il latitante èl’anello finale. Non gli appartiene l’organizzazione né la

gione deve essere allestita preventivamente assieme allascelta degli itinerari da percorrere, i luoghi in cui incon-trare gli emissari. Deve essere infine previsto un even-tuale trasferimento per evitare che l’ostaggio memorizzirumori (aerei, treni) e particolari (un certo tipo di vege-tazione, un tetto in lontananza). Nulla deve essere la-sciato al caso. Durante il rapimento dei fratelli torinesiGiorgio e Marina Casana uno dei carcerieri, per pigri-zia, acquistava a giorni alterni nella stessa bottega quat-tro etti di mortadella. Troppi per non destare sospetti.

Per l’economista Antonio Sassu (docente presso l’u-niversità di Cagliari), più che di fronte a un’azienda(«mancano le strutture organizzate per parlarne in que-sti termini»), siamo davanti a una cooperativa che nascee muore col rapimento. Senza l’ancoraggio all’ambientepastorale, qualunque iniziativa sarebbe destinata al fal-limento: a parte i liberi professionisti raccattati per l’oc-casione (il basista, i vivandieri, i riciclatori), serve unamanovalanza sicura, secondini della criminalità assolu-tamente bisognosi di danaro fresco. La solidarietà checonsente al latitante di sopravvivere alla macchia non èfatta solo di parole. C’è un costo da coprire: rifugi not-turni, ospitalità, cibo, vestiti e silenzi hanno un prezzo.La vita fuori dalla legge costa molto, fortuna che l’indu-stria dei rapimenti tira e solo raramente ha manifestatosegni di crisi. In ogni caso non rende ricchi. Il professorSassu è dell’opinione che comunque valga la pena digiocare la partita. «Due sono gli aspetti dietro chi faqueste scelte. Primo: scarsità di danaro liquido da partedi chi deve fare il sequestro. Pastori, operai del settoreagricolo e industriale, generici senza una specifica pro-fessione: hanno di che vivere ma non riescono mai a

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mico non ha senso quando si parla di sequestri. Al di làdei vantaggi e degli svantaggi sotto il profilo dei guada-gni e delle ricadute sul codice penale, continueranno aesserci finché ci saranno latitanti. Spingendosi più in là,anni fa qualcuno scatenò una furiosa polemica a Nuorosentenziando: «I sequestri ci saranno fino all’ultima pe-cora». Messaggio laconico e facile da decifrare: liberia-moci dalla cultura agropastorale, dai pastori, e dimenti-cheremo l’isola dei sequestri.

regia. Il suo è soltanto un compito di custodia senza po-tere decisionale. Fa parte di quelle che gli antropologichiamano “culture subalterne”. Diversa è la condizionedi chi ha ideato il sequestro e ne tira i fili.

Nella lunga stagione dei processi alle varie Anonimesarde, dietro l’industria dei sequestri sono saltati fuoriimpiegati e studenti, operai e artigiani, un laureato ineconomia e commercio. Risulta un po’ in salita, conquesti requisiti, avvalorare la tesi del bisogno sociale,del brigantaggio che si fa banditismo in nome dei pove-ri. Il cantautore Fabrizio De André – rapito assieme asua moglie, Dori Ghezzi, nel ’79 e rilasciato dopo quasiquattro mesi per 550 milioni – ricorda lunghe discus-sioni coi banditi proprio sul tema della povertà comedetonatore della violenza. «Chiedevano il diritto a esse-re uguali, ad avere quel di più che cambiava la qualitàdella nostra vita». Era una menzogna, nessuno di loro –come si è scoperto poi al processo davanti al Tribunaledi Tempio – aveva l’acqua alla gola, nessuno di loro na-vigava fuori dalla rotta della gente comune.

Meno di sette milioni al giorno da dividere in venti,al lordo del riciclaggio (che ingoia fino al 30 per centodel riscatto) non fanno una fortuna. Soprattutto se sitiene conto di una legislazione che, in questo campo, èparticolarmente dura e severa. Forse ha ragione chi dicesia più redditizio, e meno penalizzante dal punto di vi-sta del codice, l’assalto in banca. Nei piccoli centri, lerapine alle casse di credito agrario offrono poche lire:ma non sono “segnate”, non richiedono una grande or-ganizzazione per arraffarle, non prevedono (se va male)pene eccessivamente pesanti.

Il problema è che un discorso squisitamente econo-

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X

Una star del crimine

Raggiante e intontito. Pericolosamente in bilico.Euforico e confuso. Vischiosamente stretto d’assedio.Schiacciato da una notorietà che non immaginava.

Come si sente un uomo che torna alla vita dopotrent’anni di carcere? Graziano Mesina sembra ipno-tizzato quando s’accorge della folla che lo aspetta neicorridoi del Tribunale di Torino. L’indomani sarà unuomo qualunque, davvero il cittadino Mesina. In quelmomento però vacilla la sua calma e la sua storia, bar-collano certezze, perfino l’avvocato – Graziella Banda– fa difficoltà a farsi una ragione di luci così accecantinello spettacolo-informazione. Trent’anni sono passatisulla Sardegna col ritmo lento di sempre: quali segnaliha raccolto l’ex bandito?, cosa crede di trovare fuoridalla galera?, che dice di questo pubblico da stadio chegli fa corona?

Chissà quali meccanismi scattano, quali segreteenergie riemergono dagli abissi di una coscienza asso-pita, da un mondo spiato attraverso giornali e tivù, dal-le lettere degli amici e dei parenti. Il resto, per trentalunghissimi anni, sono le notizie e le informazioni di ra-dio-carcere, i pettegolezzi sul Belpaese corrotto, l’ago-nia della prima Repubblica. Com’è cambiata l’Italia lo

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Mesina, amici come prima». Frazione di secondi, unlampo attraversa lo sguardo di Graziano. Forse fa intempo a pensare cosa direbbero a Orgosolo di una sce-netta così, le risatine soffocate che sentirebbe nei bar, imormorii per strada. Eppure la proposta, autorevolissi-ma perché arriva dalla prima rete televisiva nazionale, èlì. Bisogna rispondere subito. «Coraggio, signor Mesi-na. La facciamo questa cosetta di chiusura? I carabinie-ri sono d’accordo». È vero. Uno dei due, baffoni all’um-berta, ammicca per quella che potrebbe essere la meta-fora sul trionfo della giustizia. Anche i peggiori possonotornare sulla via del lecito e dell’onesto. «Allora, signorMesina?»

Risposta telegrafica e brutale. Arriva insieme a unosguardo che attraversa il giornalista come una lastra ra-diografica. «Mi faccia il piacere, mi faccia». Quello, chenon ha capito bene, domanda sorpreso: «No?». Altrapausa, stavolta con l’aggiunta di un evidente fastidio:«No».

A qualcuno poteva sembrare una sciocchezza. PerMesina, e un certo ambiente che lo aspetta e che lo staper mettere sotto esame, non è così. Coi carabinieri, almassimo, si può dire buongiorno e buonasera. La liber-tà condizionale non prevede abbracci e strette di manocon gli “sbirri”.

Scampato pericolo. Fortuna che Graziano ha fatto intempo ad accorgersene, un momento di disattenzione esi sarebbe giocato anni e anni di onorata carriera carce-raria.

È lì, proprio in quell’androne del Tribunale di Tori-no, che avverte i pericoli esterni, drizza le antenne, ria-pre la valigia della diffidenza che lo ha salvato in molte

sappiamo. Ma un uomo, come cambia un uomo dopouna terapia penitenziaria di questa lunghezza?

L’ammaraggio di Graziano è folgorante. D’accordocol presidente del Tribunale si organizza una veloce con-ferenza stampa, i carabinieri trattengono a fatica i gior-nalisti che premono sulla porta dell’aula dove si sta dis-cutendo sulla concessione della libertà condizionale. Inattesa del verdetto, ecco finalmente il bandito, il miticore del Supramonte, la primula rossa, il criminale buono,il vecchio Mesina. Che sorride divertito, ma è come sefosse ubriaco. Non sa che dire, non si era preparato perun incontro di questo tipo. Stringe tra le mani un bor-sello passato di moda da molte stagioni, sgrana gli occhiper uno stupore che non riesce a mascherare. Però èscaltro, rapido a intuire che sta vivendo un attimo im-portante, fondamentale. Tra un’ora entrerà in tutte lecase, la sua immagine passerà su televisioni e quotidiani.Dunque attenzione: Mesina deve salvare Mesina, anchese ormai è quasi un pensionato, il balente di un tempodeve assolutamente dimostrare di essere stato imper-meabile alla prigione, deve far capire di essere fatto deisoliti ingredienti: vento e granito.

La prima trappola scatta all’improvviso. E per unsoffio, soltanto per un soffio, non ci casca. Al terminedella inevitabile raffica di interviste, un giornalista delTg1 lo chiude in angolo: «Signor Mesina le dispiace sele facciamo qualche ripresa con due carabinieri a fian-co?». E lui, vagamente corrucciato: «Beh, non possooppormi». Ridacchia amaro, diplomazia. Ma non ne haaffatto voglia. Quello, intanto, torna alla carica: «SignorMesina possiamo chiudere questa chiacchierata con leiche stringe la mano al carabiniere? Come dire, signor

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– È vero, signor Mesina, che quando i carabinierihanno sfondato la porta, lei era in camicia e calzoni?

«No, senza».Strana caduta di stile, questa, perché il personaggio

– timido e riservato nonostante una forte carica di nar-cisismo – non ama entrare nei dettagli delle sue avven-ture, non adopera neppure un linguaggio volgare. Cer-to che apparire gli piace, tanto più che non gli chiedonodi farlo per la gloria. E lui, che deve costruirsi un picco-lo capitale, vende ricordi e memorie solo per amatori.Non fa sconti, insomma.

Se deve fare una gentilezza, allora rinuncia volentieria qualunque compenso. Qualche volta l’ha fatto. Quan-do Maurizio Costanzo l’ha invitato a registrare unapuntata della trasmissione che teneva settimanalmentein una tivù di Cagliari, Videolina, accetta con entusia-smo. Sempre che il Tribunale di sorveglianza autorizzila trasferta.

Nulla osta. Ed ecco Mesina sbarcare all’aeroportodi Elmas. In tasca ha un permesso di tre giorni. Mentresi avvicina a un’auto che dovrà accompagnarlo in alber-go, la fabbrica del mito gli tributa onori. Molte personelo salutano con simpatia, altre lo bloccano e gli stringo-no la mano. Un divo, l’equivalente di un calciatore al ri-torno da una grande partita. «Ciao Graziano». Pocopiù tardi succede anche durante la visita a un giornale(«L’Unione Sarda»), accoglienza davvero calda. Du-rante una chiacchierata coi tipografi scopre tra l’altro ilproprietario di un mulo che aveva rubato durante la fu-ga con lo spagnolo Atienza. «Ci è stato utile, quel mulo.Poi ve l’ho rimandato a casa. Non era un furto, soltantoun prestito». Risate, ancora strette di mano, molti auto-

occasioni. Forse conservare una buona immagine di sestesso e più difficile da queste parti che dietro le sbarre.Dunque bisogna pensarci, soprattutto in questi giornidi febbrile disorientamento, di festa allucinata ed esal-tante per il ritorno del bandito.

Di fronte alla domanda se gli piacerebbe ricomincia-re con un altro nome brucia qualunque sospetto: «SonoGraziano Mesina, resto Graziano Mesina. Non rinnegoil mio passato».

Le parole, in ogni caso, restano parole. Sa bene che apartire da quell’istante c’è chi l’ha messo in quarantenae lo sta studiando, un po’ come si fa con gli astronauti alrientro da missioni spaziali. La Barbagia, una certa Bar-bagia, vuol sapere cosa resta delle ceneri di Mesina, cosaè venuto fuori da quel ragazzo costretto alla prima eva-sione che non aveva neppure vent’anni.

C’è qualcosa, nell’aria, che coglie subito: il super-mercato Italia ha bisogno di personaggi e, quel che con-ta, non dà nulla gratis. Ha un’anima commerciale: com-pra e vende. Allora bisogna darsi una regolata: passaggitelevisivi col contagocce e, naturalmente, a caro prezzo.Graziano scopre il fascino della ribalta e gongola. Fa sa-pere che in carcere gli è capitato di ricevere anche centolettere in un solo giorno. A scrivergli sono in netta mag-gioranza donne, parecchie innamorate di lui. Quale al-tro detenuto può vantare un simile primato? Nei limitidel possibile, e tenuto conto che si aggrappa disperata-mente all’intuito, essendo semianalfabeta, tenta di evi-tare scivoloni. Ma qualcuno, inevitabilmente, gli scap-pa. Quando gli chiedono di raccontare l’irruzione dellapolizia a Vigevano, dov’era in compagnia di Valeria Fu-sè, gli piace fare il James Bond di provincia.

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molte persone: il fatto che abbia scontato fino in fondola sua pena, che possa avere espiato (come si dice) è que-stione formale, sciocchezze della letteratura giuridica.Ciò che irrita e indigna una sonnolenta minoranza silen-ziosa è poi la simpatia suscitata da un ergastolano assas-sino. Che piaccia o no, la gente è con lui. Con RaffaellaCarrà e le soap opera, ma anche con lui. Nessuno che siattardi a domandarsi le ragioni di questo successo: se ipunti di riferimento sono i calciatori e i drammi in diret-ta televisiva, la tragedia privata raccontata minuto perminuto, perché mai non dovrebbe essere un eroe que-sto sardo un po’ tarchiato che ha passato un’esistenza inprigione? Intorno ha l’aura del criminale gentiluomo,generoso e incapace di fare del male. Non fosse per undelitto giovanile, correrebbe il rischio di poter fare do-manda d’iscrizione al Rotary.

A meno di un anno dalla libertà riconquistata, il suocarattere salta fuori da una vicenda minima, una disob-bedienza al regime imposto dal Tribunale di sorve-glianza. Violando le disposizioni della magistratura chegli vietano di uscire dal circondario di Asti, Mesina vie-ne fermato in un ristorante a Parma. Con sé ha una vali-getta che contiene dieci milioni in contanti, in una tascadella giacca i carabinieri trovano una busta con la foto-grafia di un pubblico funzionario della regione Emiliache ha avuto qualche problema con la giustizia. In unbaleno tornano sui giornali i titoli di scatola: Mistero aParma. Grazianeddu rischia il carcere. «Dai e dai, ilmio è solo uno sconfinamento di pascolo», dice. «Sonouscito dal tancato che mi aveva assegnato il giudice For-nace». In questo frangente le battute non fanno neppu-re sorridere: che ci faceva Mesina fuori dalla riserva?

grafi. Qualcosa del genere, così piena e partecipata, av-verrà molti mesi più tardi quando visiterà il giornale unex Capo di Stato, Francesco Cossiga.

In albergo, mentre sta cenando con alcuni amici,Mesina riceve la visita di due nipoti che gli annuncianoun grande seguito; nella hall ci sono una ventina di ra-gazzi, amici loro, che vogliono conoscerlo. Benissimo,appuntamento al bar dell’albergo per una bicchierata epresentazioni ufficiali. È evidentissimo, durante quel-l’incontro, quale sia la forza e la suggestione di un prota-gonista della cronaca. Cronaca nera, sicuro, ma non fadifferenza.

La mattina successiva, negli studi dell’emittente,l’entusiasmo fa il bis. Maurizio Costanzo, navigatore dilungo corso del mare dello spettacolo, tradisce un po’ diemozione nel conoscerlo. E gli mostra subito molta sim-patia. A uno degli ospiti della puntata, un professoreuniversitario accusato di non far nulla per consentirel’accesso degli handicappati in facoltà, fa arrivare unoscherzoso ultimatum di Mesina. Che avverte: «Tra unmese torno e ci vediamo, professore». Il dialogo, chepure ha un tono cameratesco, non piace al docente emen che meno alla città istituzionale. Non si può con-sentire a un ex bandito di minacciare un onesto cittadi-no. Quello che dà fastidio sono soprattutto gli applausi,la reazione del pubblico.

Comincia Fateh Kassam: «Non avete capito, nonavete capito nulla. Mesina non è credibile, è un uomoche ha ucciso. E voi, quando appare in televisione daCostanzo, lo applaudite. Perché, spiegatemi perché?»C’è pure l’aggravante della non umiltà, dell’incapacitàdi chiedere perdono. Mesina era e resta un omicida per

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mio locale è frequentato da gente rispettabile, mi ha da-to molto fastidio quel che è accaduto». E che è accadu-to? Nulla di grave. Salvo che tutti, nessuno escluso, so-no accuratamente perquisiti. Minuti di tensione, tavoloper tavolo, vengono fatte aprire borse, controllati por-tafogli e documenti. Che c’entrano gli altri clienti col so-lito sardo del tavolo in fondo? Niente, ma non si sa mai.Con Mesina, che viene signorilmente portato via, lacautela non è mai troppa.

Mercoledì 14 ottobre 1992, l’imputato ha scarne di-chiarazioni da fare. Esordisce dicendo che la sua vita èuna galera; una galera soltanto un po’ più grande diquelle che era abituato a frequentare. Non l’aveva mes-so in conto, ma le misure restrittive della sorveglianzaspeciale sono intollerabili: divieto di uscire da casa pri-ma delle sei del mattino, rientro non più tardi delle 23 eogni giorno firma in caserma o in questura. «D’accordonon dovevo andare a Parma, ma non ho fatto nulla dimale. Non posso continuare a vivere come se fossi an-cora in carcere. Perciò non fuggo, sto al mio posto.Non credo che per una sciocchezza come questa possa-no decidere di sbattermi nuovamente dentro». Mesinafinge di non capire che, a parte il fastidio delle sue pri-gioni, il Tribunale vuole sapere altro: perché avevaquelle foto? La vicenda dei dieci milioni viene nel frat-tempo chiarita. «Danaro che apparteneva legittima-mente all’imputato».

Si tratta, ed è il primo caso in Italia, di revocare lacondizionale a un detenuto condannato all’ergastolo.Per un perverso segno del destino, rientrando in carce-re Mesina non ha più la possibilità di uscirne, visto cheha una condanna a vita. Al di là della sorte di un uomo, è

Perché quella domenica di settembre, san Pacifico, hacorso seriamente il rischio di tornare in galera in via de-finitiva.

«Avevo appuntamento con un mio cugino che abitalà. Sto cercando lavoro». E le foto? «Quali foto?» Mesi-na mente su tutta la linea. Neppure una parola si avvici-na, sia pure vagamente, alla verità. Cosa nasconde? L’a-spetto singolare e inquietante è che non sia stato arre-stato. I soldi in valigia erano puliti? «Pulitissimi. Soldidi un’intervista. L’ho dimostrato, altrimenti sarei uscitocon le manette dalla caserma». Che senso ha tenere die-ci milioni in contanti come bagaglio a mano? «Non mifido. La mia casa a Crescentino è una specie di colabro-do. Circola brutta gente di questi tempi». Meglio farfinta di avere un portafoglio gonfio e portarselo appres-so. Anche se è grande e, in un certo senso, imbarazzan-te. Ma coi ladri che ci sono in giro, meglio non fidarsi. Ereggere il colpo di un cugino («cugino in non so che gra-do») che spazza via senza pietà un fragilissimo alibi.Graziano cercava lavoro da quelle parti? Non gli risul-ta. Avevano un appuntamento? Non esattamente. Alle11 del mattino il suo telefono è squillato, sono Grazianoti devo parlare. Un’ora dopo era da me.

Solo? No, in compagnia di un amico. Giuseppe Me-sina, titolare della spaghetteria Mariposa, un passo dapiazza Garibaldi e dunque dal Tribunale, dice di non sa-pere nulla a eccezione di una specie di carica dei carabi-nieri. Mancava qualche minuto alle 14, i clienti, unaventina, l’occhio felicemente spento di chi è arrivato al-la frutta dopo un buon pranzo, quando appaiono tre si-gnori in divisa e, subito dopo, una decina in borghese.Grosso modo, un carabiniere ogni due avventori. «Il

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non inizierò adesso». Se l’ex compagno di cella non sifosse fatto vivo, avrebbe pagato in silenzio. «Quandoun amico ti chiede un favore, non devi stare a chiedere,a domandare. Un favore lo fai o non lo fai. A me è statochiesto di consegnare quelle foto, niente di più».

È un suo principio da sempre. Non ha voluto venirmeno all’impegno neppure considerando molto proba-bile l’ipotesi di un rientro in carcere. La piccola disav-ventura di Parma – che si concluderà alla fine con un ir-rigidimento delle già severe misure restrittive per quan-to riguarda movimento e orari – conferma una veritàche Mesina ha ripetuto ossessivamente: «Non sonocambiato». Un messaggio che, più che a se stesso (vistoche si conosce bene), sembra indirizzato ad altri. Ri-spetto al tumultuoso passato di evasioni, sequestri econflitti a fuoco, non è cambiato neppure l’elementodella spettacolarità. Graziano vuole una platea, ha bi-sogno di ostentare impunibilità e sicurezza come unbalente di paese alle prese con un furto di bestiame.

C’è soprattutto vanità (e una buona dose di presun-zione) quando decide durante il sequestro Kassam diutilizzare tre anelli molto, molto particolari in vista de-gli incontri coi fuorilegge. Li acquista ad Asti in unagioielleria dove, secondo la magistratura cagliaritana,ha investito una parte dei suoi risparmi, i proventi di in-terviste e ricordi a puntate. Oro giallo, molto vistoso, ilprimo anello è un ramarro con gli occhi di rubino; il se-condo un serpente, il terzo una pantera. Mesina se neserve per marchiare i fuorilegge incontrati negli abboc-camenti. Poiché deve discutere con banditi incappuc-ciati e comunque irriconoscibili, vuole la certezza diparlare sempre alla stessa persona. Così al primo ap-

in discussione anche un principio giuridico contraddit-torio: un ergastolano non può, di fatto, ottenere i bene-fici della legge che prevede scarcerazioni per buonacondotta. Per certi versi, a complicare le cose arriva an-che una puntualizzazione della magistratura di Parmache fa sapere: primo, Mesina non è indagato; secondo, ilsuo ruolo, di testimone, può considerarsi esaurito. In al-tre parole, nulla da contestare.

Il mistero è tutto legato alle foto. Il presidente delTribunale, Pietro Fornace, decide di prendere tempo esolleva un’eccezione di costituzionalità. La proposta,cara al procuratore generale, di revocare la libertà con-dizionale non gli piace. «Decideremo indipendente-mente dal risultato dell’inchiesta di Parma. Comunquevadano le cose, disporremo prescrizioni più severe;provvedimenti che si adattino alla personalità di Mesi-na, un uomo che ritiene di essere ancora vitale, che nonvuole fare il pensionato». Il colpo di scena finale salvatutto e tutti quando le cose sembrano mettersi male.Mesina però tiene la bocca cucita, su quelle foto non di-ce una parola. Fino a quando non si presenta sponta-neamente a deporre un suo vecchio compagno di carce-re. E confessa d’essere stato lui a consegnare quelle fotoa Graziano. Ritraggono un funzionario pubblico all’u-scita di un night insieme a qualcuno. Mesina ha soltantoil compito di consegnarle, fare il postino per quello cheassomiglia a un avvertimento, una minaccia, un ricatto.Ricatto che lo vede, come viene accertato, spettatore,assolutamente fuori gioco.

Anziché tenere tutti col fiato sospeso, non poteva di-re la verità subito? Risponde mostrando il lato imper-scrutabile del suo carattere: «Non ho mai fatto la spia,

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XI

La notte delle menzogne

La notte delle menzogne comincia presto quel 10luglio. Comincia prima che il sole cali e sui monti in-torno al Cedrino s’affaccino circa trecento uomini, tu-te mimetiche, infrarossi, messaggi telefonici in codice.Un’operazione gigantesca. E attorno migliaia di solda-ti impegnati nell’operazione Fortza Paris. Il conto allarovescia per liberare Farouk Kassam inizia di primissi-mo pomeriggio, quando il sostituto procuratore Mau-ro Mura atterra a Nuoro con un elicottero dei carabi-nieri.

Aria incandescente, il lato peggiore della lunga esta-te sarda. Dov’è Graziano Mesina in quelle ore? «Se hagiocato un ruolo in questa vicenda, è un ruolo di distur-bo», spara il capo della polizia Parisi. Ma è la logica deldopo, quella che fa pensare a milioni d’italiani che un exbandito abbia beffato tutti, da solo. È stato lui a liberareFarouk oppure è attendibile la versione ufficiale?

Quella mattina a Olbia accade qualcosa che impri-me una svolta decisiva alle indagini sul sequestro di unbambino. «Li abbiamo individuati, ma non abbiamovoluto prenderli per non mettere a repentaglio la vitadell’ostaggio». Nell’insistenza del capo della polizia c’èun filo scoperto. Davvero Farouk non era libero dalle

puntamento arriva con l’anello-sigillo: permette un tim-brino sul polso? Pare che, superato l’attimo di sorpresa,i rapitori non abbiano avuto nulla in contrario. Se tantobastava per dare sicurezza all’emissario di famiglia, per-ché non accontentarlo?

Chissà da quale film, da quale magazzino dell’avven-tura è stata pescata l’idea degli anelli. Certo è che a Me-sina, alle prese con una vicenda delicatissima che po-trebbe fargli avere la grazia o spedirlo al cimitero, piaceda impazzire. Quei tre anelli avrebbe voluto farli vedereall’agente del Sid che molti anni prima l’aveva fatto cre-pare d’invidia: «La vedi questa penna? È una pistola».

Nel reparto giocattoli d’una fantasia che non ha me-moria dell’infanzia (perché infanzia non ne ha, in realtà,mai avuto), gli anelli sono un innocente capriccio. Chi liporta ha l’impressione d’essere il protagonista di unagrande cavalcata, piena di trabocchetti e di perfidie. Aguardar bene, c’è forse anche un delirio di onnipotenza.La libertà, riacquistata dopo tanto tempo, lo scaraventasulla ribalta di una storia che tiene il Paese col fiato so-speso. Non è bellissimo tutto questo? È la favola di unex bandito che si trasforma in principe per salvare unbimbo rapito.

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lancio d’orrore: tre morti, due agenti (che si erano col-piti a vicenda) e il giovane amico di Graziano, lo spa-gnolo Miguel Atienza. Mesina ha poi riferito di aversparato circa 900 dei colpi che aveva a disposizione,lanciato almeno venti delle trenta bombe che aveva consé, l’arsenale di un latitante.

Molti anni dopo, quel giovedì di luglio del ’92, Gra-ziano è sicuramente tornato con la mente a Sorasi. Harivisto Atienza alzarsi all’improvviso da un cespuglio ecadere a terra, colpito a un fianco. Aveva appena fatto intempo a gridare «ci arrendiamo». Pochi minuti più tar-di, quando la morsa dei “baschi blu” stava facendosisempre più stringente, ci aveva riprovato: «Non spara-te, ci arrendiamo». A venti metri di distanza, protettidai macchioni di lentischio c’erano ragazzi più spaven-tati dei banditi, ragazzi piombati in uno scontro cheavrebbe inevitabilmente lasciato qualcuno sul terreno.«Venite a prenderci», urlava Graziano mentre Miguel,ferito a morte, implorava: «Non uccidere, promettimiche non li ucciderai». Aveva pensato in tutt’altro modoalla sua avventura d’evaso assieme al più famoso bandi-to sardo, una miscela di romanticismo e di paura. Perquesto si era sollevato a fatica una seconda volta facen-dosi raggiungere da una raffica di mitra alla schiena.

Ripensando a quello scontro furioso e sanguinario,Mesina rammenta di aver sentito piangere. C’era qual-cuno che non aveva resistito all’emozione e intanto chestava appostato, piangeva. Forse era un tentativo di al-lontanare la paura, spingere lontano da quelle campa-gne un terrore fatto di pallottole che fischiavano ta-gliando l’aria. Come nei film. Nel processo che è seguitoal conflitto a fuoco, Mesina è stato assolto dall’accusa di

23?, davvero è stato trovato in aperta campagna dalleforze dell’ordine?

La verità su quella notte forse non si saprà mai. Rico-struirla serve tuttavia a capire come si sono mossi i pro-tagonisti di questa storia, dove hanno cercato di bluffa-re, in che modo hanno tentato di darsi scacco matto.

Messo alle corde da una notorietà che cominciava adiventare ingombrante, lo Stato aveva bisogno di liqui-dare Mesina e riprendere le redini del gioco. Dall’altrofronte, Mesina aveva bisogno invece di portare perso-nalmente a termine l’operazione. Era qualcosa che vale-va la grazia. E forse di più, visto che in quei giorni si rac-contava una strana leggenda. Voci di piazza dicevanoche poiché il figlio dell’Aga Khan era invalido, inchio-dato su una sedia a rotelle, non sarebbe potuto diventa-re il pontefice degli ismaeliti. Quindi, al momento delritorno alla terra di Sua Altezza Karim, ci sarebbe statoun problema di successione. Farouk, per via di una pa-rentela molto lontana e mai chiarita fino in fondo, veni-va indicato come il possibile futuro Aga Khan. Ripor-tarlo a casa significava, di conseguenza, compiere unamissione di grande rilevanza politico-religiosa.

Non si sa se Mesina abbia creduto a questa storia. Aridosso del 10 luglio aveva altro da pensare. Aveva so-prattutto paura. «Paura che finisse in un bagno di san-gue». Aveva appreso che stavano per entrare in azionele teste di cuoio, reparti speciali. Questo significavaguerra. E lui ne conosceva bene il significato. Una seradi giugno del ’67 aveva ingaggiato uno spaventoso con-flitto a fuoco nella vallata di Sorasi. Stava tornando alsuo rifugio dopo un incontro con l’emissario di unostaggio, quando si è accorto di essere circondato. Bi-

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denti il rilascio c’è tra l’altro a Orgosolo troppa gente,soprattutto troppa strana gente. Compreso un milaneseche si presenta da Mesina come fratello di un colonnellodei carabinieri. «Voglio andare al Supramonte, lei devedirmi con chi e con che cosa». Facilissimo: «Sul Supra-monte vada da solo. Sta là, lo vede? Piuttosto, si ricordidi portarsi dietro un chilo di sale grosso. Casomai do-vesse perdersi, ha i chicchi per segnare la strada». Dovefinisce l’incursione di personaggi folcloristici e comin-cia quella dei servizi di sicurezza?, dove finisce la passe-rella dei megalomani e comincia quella del Sisde? Tral’altro, Mesina non vuole confessarlo neppure a se stes-so, ma è infuriato: si sente tradito dal padre dell’ostag-gio (che ha imboccato una trattativa parallela), sa chemai e poi mai potrà sedersi al tavolo della vittoria. «Vel’immaginate una conferenza stampa con me, Parisi,Mura e Farouk?». Impossibile, sa bene che le forze del-l’ordine non possono stringere alleanze con uno comelui. Anzi, stanno tentando di metterlo ai margini dellavicenda per evitare che passi come un salvatore dellapatria.

Bisogna tenere presente questi particolari per capirel’intreccio degli avvenimenti nel giorno più lungo delrapimento. La verità di Graziano Mesina, così come av-viene nella polemica sul pagamento del riscatto, è moltolontana da quella ufficiale. Dice di aver saputo che poli-zia e carabinieri si apprestavano a catturare la banda.L’avevano individuata, accerchiata e, pian piano, avan-zavano verso la prigione di Farouk. In un primo mo-mento l’offensiva era prevista per lunedì, poi era statarinviata per ragioni sconosciute. Probabilmente si stavastudiando il modo di ridurre i rischi al minimo, cattura-

aver ucciso i due agenti. Ma questo non è bastato a can-cellare l’ombra terribile di quella sera. Ecco perché, adistanza di tanti anni, ha fatto il possibile per aggirare esventare il blitz che avrebbe dovuto portare alla catturadei rapitori di Farouk.

Caldo, caldo infernale e un’umidità che incolla i ve-stiti alla pelle. C’erano trentasette gradi all’ombra quel10 luglio del ’92. Pino Scaccia, inviato del Tg1 è a Orgo-solo da due giorni. Vuole incontrare Mesina e si fa ac-compagnare da un fotografo di Olbia che lo conoscemolto bene. Insieme fanno una passeggiata lungo Cor-so Repubblica, parlano del sequestro, della possibilitàche nelle ore successive l’ostaggio torni a casa. È a que-sto punto che Graziano ha un’intuizione che viene dalontano, dalla frequentazione carceraria con esponentidel terrorismo politico. Sorprendendo il suo interlocu-tore, chiede: «Ce l’hai un telefonino? Dammi il numero.Ti chiamo appena il bambino è libero, così tu puoi darela notizia in televisione».

Quella informazione è arrivata alle 23,05. Pochi mi-nuti dopo, la prima rete televisiva ha interrotto le tra-smissioni: “Farouk Kassam, il bimbo sequestrato circasei mesi fa a Porto Cervo, è stato liberato”. Trillano i te-lefoni del ministero dell’Interno, esplode la rabbia diStato: “Non è vero, Farouk non è affatto libero”. A chicredere? Rintracciato a Orgosolo, Mesina gioca al rilan-cio della sua immagine: «Vedete un po’ voi a chi crede-re. Io vi dico che il bambino è sano e salvo, una personadi mia fiducia l’ha consegnato a un rappresentante dellafamiglia Kassam».

La confusione, in quei minuti, è grande. Non biso-gna sorprendersene. Nei giorni immediatamente prece-

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Ma “mattina dopo” cosa significa? A che ora squillail telefono nella villa di Pantogia? Mentre i giornali sol-levano un polverone senza precedenti, mentre Monta-nelli dice ai suoi lettori “ne sono sicuro, l’ha liberatoMesina”, parte la controffensiva della magistratura. Ilprimo rimprovero riguarda “la stampa che non credealle istituzioni”.

Al di là del fatto che gli anni bui delle veline sono for-tunatamente alle nostre spalle, non si tratta di mancaredi rispetto alle istituzioni, al lavoro di magistratura, po-lizia e carabinieri. Si tratta più semplicemente, di riven-dicare il diritto alla verità, insomma a penetrare in queirisvolti che “non saprete mai”, per dirla con le parole diFateh Kassam.

Il procuratore della Repubblica, Franco Melis, rico-nosce a Mesina qualche merito. «Non credo che avreb-be tagliato l’orecchio a Farouk. È lontano anni luce dal-la nuova criminalità». Cioè da una ferocia condannatasenza appello dal galateo del banditismo. Aggiunge dinon aver avuto alcun incontro con l’ex ergastolano che,nelle interviste, adopera frasi ambigue, strani ammicca-menti. «Ribadisco con la massima determinazione che ilMesina non ha avuto contatti di alcun genere con que-sta procura e con le forze dell’ordine. Non posso esclu-dere che egli possa essersi attivato per ottenere informa-zioni o altro. Se lo ha fatto, è stato sollecitato da terzi».In un italiano meno ufficiale e più terra terra, il procura-tore ha detto che le forze dell’ordine si sono guardatebene dall’avere qualunque tipo di collaborazione conMesina. Che, se qualche informazione ha raccolto, èperché gliel’ha chiesta il padre del bambino e non certola magistratura. La polemica è dura, talmente dura che

re i banditi senza perdite e, soprattutto, fare in modoche il bambino ne uscisse vivo.

Che fare, allora? Attraverso una persona di fiducia,Mesina dà appuntamento ai fuorilegge. Si tratta dell’ul-timo incontro perché, a suo dire, il riscatto è già statopagato. Concorda la liberazione del piccolo e, quel chepiù conta, il nome della persona alla quale deve essereconsegnato. Dettaglio finale è la definizione di un pianoper depistare le forze dell’ordine attirandone l’attenzio-ne su un versante opposto a quello del rilascio. Chi, senon Mesina personalmente, può fare da esca? Il suo rac-conto va avanti senza pause: «Erano convinti che, pedi-nando me, sarebbero arrivati al bambino». Per questoGraziano esce tardi quella sera e si avvia a passo sicuroverso la campagna attraversando, dice lui, uno schiera-mento militare impressionante. «C’era un uomo dietroogni cespuglio, bisognava fare attenzione a non sfiorar-li». Marcato a distanza di centimetri, s’intrufola nellaboscaglia lasciando credere che di li a poco appariràqualcuno della banda. A qualche chilometro di distan-za, intanto, Farouk viene liberato. Mesina, che ha pro-grammato i tempi con precisione, a quel punto rientra acasa e chiama, come promesso, Pino Scaccia. «Il bambi-no è libero, puoi darne notizia in tivù». Per rafforzare laversione, rivela anche di aver telefonato subito dopo aMarion Kassam: «Signora, Farouk sta tornando a casa,è contenta?»

Il confine tra verità e bugie si fa sottile. E partendoproprio da quest’ultima telefonata, si tenta di demolirela versione Mesina. «Quella chiamata effettivamente c’èstata, ma soltanto la mattina dopo, quando il bambinodormiva già da molte ore nel suo letto».

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una beffa. Mesina, che non ha fatto assolutamentenulla per ottenere il rilascio di Farouk, è riuscito ad at-tribuirsi i meriti delle forze dell’ordine utilizzando laprima rete televisiva nazionale e il nuovo totem deglianni ’90, il telefonino cellulare. Sapendo che nonavrebbe mai potuto sedersi al fianco delle autorità perla conferenza stampa post-liberazione, ha pensato difarne lui, una brevissima, addirittura fulminante, daimicrofoni del Tg1 attraverso un improvvisato e ignaroportavoce, Pino Scaccia. Se questo non fosse vero,meglio archiviare la notte delle menzogne. In casocontrario, bisognerebbe riconoscere a Mesina una ge-niale creatività criminale.

Comunque non tutto torna, troppe circostanze ap-paiono sfuggenti e la verità parallela, quella dello Stato,in qualche passo tentenna acrobaticamente. Le con-traddizioni sono parecchie ed evidenti. Vincenzo Pari-si, il capo della polizia, assicura che la banda era stata in-dividuata e che i fuorilegge non erano stati bloccati «pernon mettere a repentaglio la vita del bambino». Il gior-no dopo il rilascio dell’ostaggio, quando gli domanda-vano se è vero che si stava sul serio addosso ai banditi, ilprocuratore della Repubblica risponde: «Forse c’è sta-to un rastrellamento, ma non ci è stato detto nulla». Macome, la prigione viene individuata e nessuno lo comu-nica ai titolari della indagine? Melis lascia pensare a unavaga sensazione di disagio quando ammette: «Avrem-mo dovuto saperlo». Non foss’altro perché dei rapitorisi sono perse le tracce.

Se è vero che era in corso un accerchiamento, orga-nizzato e messo a punto con qualche giorno d’anticipo,come mai non s’è vista neanche l’ombra di un bandito?,

si profila perfino uno scontro tra la Procura di Cagliari eil giudice Fornace di Torino che nel frattempo ha allen-tato le misure restrittive alla libertà vigilata di Mesina fi-nendo addirittura per ringraziarlo a cose fatte.

Detto questo, il procuratore Melis propone minutoper minuto l’altra ricostruzione dei fatti, quella delloStato, delle istituzioni snobbate dalla stampa. Per co-minciare, la magistratura non è andata dietro Mesinaper scoprire dove stavano i banditi. I rapitori di Faroukerano stati grosso modo individuati già da qualche gior-no e si stava progettando di farli finire nella rete. Come?Con un attacco di reparti speciali, rischi minimi e altissi-ma probabilità di successo. Poi si decide per una sortadi stato d’assedio che costringa la banda ad arrendersi.Alle 0.45 dell’11 luglio – il nuovo giorno è cominciatoda tre quarti d’ora – mentre l’accerchiamento continua,una pattuglia trova Farouk. È solo, non è bendato né in-cappucciato. In quel momento e soltanto in quel mo-mento, l’ostaggio può considerarsi libero. E di Mesina,che dire? «Sta barando. È un venditore di gazzosa. Simette le penne del pavone. Che l’altra sera ci fosse mo-vimento lo avevano capito tutti. Dunque Mesina, chesapeva della liberazione imminente del bambino, hagiocato d’anticipo». In pratica, avrebbe dato una noti-zia verosimile che sarebbe diventata vera solo cento mi-nuti più tardi. Perché l’abbia fatto, è fin troppo eviden-te: riscattare una vita da bandito, conquistare la grazia ela benevolenza degli italiani.

Tenuto conto della scaltrezza del personaggio, latesi del procuratore della Repubblica non appare as-surda. Se fosse vera, però, le cosiddette istituzioniavrebbero ben poco da esultare. Saremmo di fronte a

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affondare i suoi colpi, per sbeffeggiare uomini e cose.«Il bambino l’ho salvato io», ripete con un sorriso finoalle orecchie.

Casomai ce ne fosse bisogno, questa incredibile gi-randola all’italiana trascina in pista e fa ballare nuove,inquietanti comparse: si sente parlare di loro quando siaffacciano i dubbi sul riscatto. Ma questo è un altro ca-pitolo, un’altra sequenza. Serve a gettare fumo sul fu-mo, a intorbidire ancor più le acque. Gli elementi certi,sicuri, sono talmente pochi da lasciare il varco aperto aqualunque soluzione. Che arriverà, se arriverà, in ungiorno impreciso di un anno da decidere.

Comunque vadano a finire le cose, resta un’amarez-za di fondo. Graziano Mesina deve essere consideratocredibile fino a prova contraria. Dopo “anni ventinovee giorni sette” di reclusione ha il diritto di essere consi-derato un cittadino uguale agli altri. Se ha mentito, deveessere condannato, rispedito in quelle galere dove hatrascorso gran parte della sua vita. La replica alle sue af-fermazioni non può essere quella squallida tiritera che,anziché rispondere fatto su fatto, colpo su colpo, rivan-ga un passato penitenziario che in questo contesto nonha alcun senso. Pretendere una sorta di certificato diinattendibilità soltanto perché Mesina è stato un dete-nuto (e, tra l’altro, un detenuto modello) diventa estre-mamente scorretto, non serve a raggiungere la verità, aesorcizzare gli spettri che affollano questo caso.

A nessuno può essere chiesto un certificato di credi-bilità. Neanche a chi, come Fateh Kassam, “rapisce”suo figlio subito dopo il rilascio per sottrarlo, dice, al-l’assalto macinatutto dei giornalisti. Salvo poi, pochissi-mi giorni dopo, concederlo in esclusiva ai settimanali e

come mai non si è riusciti a catturare nessuno? Non so-no interrogativi provocatori, non è in discussione l’one-stà intellettuale del procuratore della Repubblica e tan-tomeno il rigore professionale di Mauro Mura, il sosti-tuto antimafia che ha seguito dall’inizio alla fine la storiadi questo rapimento. Le domande nascono spontaneeascoltando la stessa ricostruzione ufficiale e ripropon-gono, insieme ad alcune perplessità, il dubbio che at-torno a Farouk abbia circolato troppa gente, troppastrana gente.

Fateh Kassam racconta nel suo libro di aver appresodella liberazione del figlio dal capo della Mobile di Sas-sari, Antonello Pagliei, alle 0,45. Era a bordo della suaAlfa a circa 150 chilometri da Porto Cervo quandosquilla il solito telefonino. «Farouk è con me sta bene. Èaffamato, sembra che non mangi da giorni. Ora sta di-vorando un panino, una mela e una cocacola». Anchesecondo il padre del bimbo, l’ostaggio è dunque liberosoltanto quando manca un quarto all’una dell’11 luglio.Così gli comunicano, così riferisce.

È possibile che fosse al corrente d’una trattativaparallela e, quindi, della possibilità di un rilascio in luo-ghi e orari diversi da quelli ufficiali? È un altro mistero.Davanti all’ipotesi che Fateh possa aver giocato su duetavoli, il procuratore Melis dichiara che non ci crede.Ma non se la sente neppure di escluderlo.

Impossibile inoltre ignorare gli aspetti, tutt’altro chesecondari, che il caso Farouk fa scoppiare nella trinceaistituzionale. Nella notte delle menzogne, delle confer-me e delle smentite a distanza di un minuto una dall’al-tra, pochi hanno capito quale sia la rotta giusta. Certo èche Graziano Mesina approfitta della confusione per

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XII

Armi ad Asti

Graziano Mesina viene arrestato la mattina del 29 lu-glio ’93 ad Asti. Armi. «Mi hanno incastrato, dovevanofarmi pagare la liberazione di Farouk Kassam», dice. Ilpubblico ministero replica stizzito mentre chiede unacondanna esemplare: «Per un bandito del suo calibrouna pena bassa sarebbe quasi un affronto». Ma quelloche gli preme sottolineare è ben altro, smontare la tesidell’imputato, zittire le voci che parlano di trappola.«Non c’è stato complotto da parte di nessuno, tantomeno dei servizi segreti. Mesina è un delinquente abi-tuale, seguendo la sua vocazione si è tradito».

Il 10 ottobre del ’94 arriva la sentenza pesantissima:otto anni e mezzo di reclusione per “introduzione e de-tenzione illegale di armi da guerra”. I suoi complici, duegenovesi molto speciali, se la cavano con pene al di sottodei due anni, dunque al riparo dalla condizionale. L’av-vocato Pier Navino Passeri, nominato difensore d’uffi-cio, accusa: «Intorno al mio cliente si respira un’aria ca-rica di veleni, da quando sbugiardò le autorità dello Sta-to e liberò il piccolo Farouk». Riappare, insomma, unvecchio scheletro che tormenterà l’intero processo conla sua presenza ingombrante e carica di misteri. Mesina,che ha abbandonato l’aula dopo alcune udienze, sem-

alle televisioni di Silvio Berlusconi. «È qualcosa a cui hopensato dopo, soltanto dopo», si giustifica. Anche se di-venta francamente molto difficile, è giusto credergli:non esiste prova contraria, non c’è la certezza che abbiavenduto l’esclusiva sulla liberazione di Farouk in uno“scellerato” patto commerciale.

Bisogna stare ai fatti. E i fatti dicono che la notte del10 luglio, a ore 23,05, Graziano Mesina ha passato lapalla alla tivù. È un po’ come se avesse scelto di appari-re a reti unificate, come se avesse dimostrato che avevala possibilità di prendersi la televisione pubblica. Pro-prio come un presidente, come un potente della terra.Molti però questo lo hanno capito soltanto troppi gior-ni dopo.

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ciale. Sebbene nessuno possa sostenerlo ufficialmente,è evidente che l’offerta di Quai sia un segno di solida-rietà, una mano tesa verso un amico che stava da troppianni in carcere.

Mesina, che ha l’obbligo di rientrare entro una certaora, ha un buon rapporto coi carabinieri del posto. Lapattuglia incaricata di verificarne la presenza a casa, glitelefona con una mezz’ora d’anticipo. «Graziano, traun po’ passiamo». Mesina li aspetta al balcone o sullaporta, qualche volta scambia una parola per combatterenoia e solitudine, offre un bicchierino della bottiglia diVecchia Romagna che tiene su un pensile della cucinot-ta. Non c’è moltissimo da fare, salvo osservare il passag-gio veloce delle automobili o ascoltare il ronzìo perma-nente di zanzare giganti, più fastidiose e aggressive delleloro consorelle sarde.

Di solito la mattina Graziano arriva ad Asti di buo-n’ora. Bussa all’appartamento di via Guttuari, propriodi fronte alla stazione ferroviaria, dove Michele Quaiabita con la sua compagna Stella Bianco, il figlio Clau-dio e Annie, un vecchio e aristocratico levriero afganonero. Porta la biancheria da lavare e aspetta il pranzoleggendo i giornali. Di pomeriggio, pennichella e poi ri-entro a San Marzanotto.

I rapporti col padrone di casa sono eccellenti. Mi-chele Quai, che ha passato i sessanta, è un sardo da ma-nuale, bronzetto nuragico: carnagione scura, guance in-cavate e capelli ebano, il tutto concentrato in un’altezzache forse non va oltre il metro e sessanta. Emigrato dellaprima generazione, è arrivato ad Asti nel ’62, muratore.Mattone su mattone, fatica su fatica, è riuscito con glianni a metter su un’impresina edile che, nei momenti

bra essersi definitivamente arreso. Ai carabinieri che loaccompagnano al cellulare durante una pausa del dibat-timento, confida sconsolato: «Non vengo più, ormai èinutile. Hanno fatto tutto loro, completino pure l’ope-ra, io non ci posso fare più nulla».

Parte da lontano questa storia. Ha una premessa cheva fatta per capire una delle chiavi interpretative. Neparla il sostituto procuratore Francesco Saluzzo, pub-blico ministero al processo di Asti. «Una vendetta daparte dello Stato? Mesina mi disse che l’ex capo dellapolizia Parisi, il giudice Mura e addirittura il ministrodegli Interni, Nicola Mancino, avevano giurato di far-gliela pagare. Troppi protagonisti sulla scena perché lacosa possa sembrare credibile».

Non resta che rimettersi ai fatti.Rientrato nel soggiorno obbligato sulla scia delle

polemiche legate al sequestro Kassam, Mesina rilasciaun’intervista a un giornale di Asti: «Non mi stupirei semi rischiaffassero dentro». Questa sgradevole sensa-zione lo perseguita, ne parla in ogni occasione, dovun-que gli capiti di vedere gente. Si sta precostituendo unalibi? Certo è che adesso è tornato a una vita meno mo-vimentata anche se stretta in angolo da rigorose misuredi vigilanza. Trascorre parecchie ore nella casa di SanMarzanotto, neanche cinque chilometri dalla città, do-ve fa il magazziniere per conto di Michele Quai, l’im-presario edile di Fonni che, offrendogli un lavoro, l’hafatto uscire in libertà condizionale. Un’occupazione ve-ra e propria Mesina non ce l’ha, deve giusto badare (maneanche tanto) agli attrezzi sistemati in garage e, quan-do ne ha voglia, coltivare pomodori e melanzane nelminuscolo orticello che si affaccia sulla strada provin-

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le Quai viene fermato dai carabinieri accanto all’ingres-so di casa. «Documenti». Concluse le formalità dell’i-dentificazione, iniziano a frugare nell’orto. Altri due,nonostante le chiavi siano a disposizione, preferisconomandare in frantumi il vetro della porta di un garage.Dentro, c’è la carcassa d’una vecchia macchina. Sulleprime pensano di smontarla, poi rinunciano. Troppocomplicato, porta via parecchio tempo e tempo da per-dere non ce n’è, neppure un minuto. Al piano terra rovi-stano un salottino per passare, subito dopo, alla cucina,una stanzetta quadrata con un piccolo tavolo al centro.Danno un’occhiata dappertutto, dietro i mobili, neicassonetti delle serrande, tra riviste ingiallite, barattoli.Che cercano? Due rampe di scale ed eccoli al primo pia-no dove ci sono due stanze da letto e un bagno. Stessaoperazione con moto ondoso in aumento: materassi ro-vesciati, un grande armadio messo di traverso, via i co-modini, i cassetti. Quasi fossero pezzi di un’offerta spe-ciale, ammonticchiano disordinatamente abiti, calze,mutande, un ombrello. Scattano un paio di fotografie aun armadio bianco inutilizzato, vuoto. Nello sprint fi-nale salgono sul sottotetto, strappano qualche telo delcontrosoffitto. Vanno via senza aver trovato nulla, sfio-rano i pomodori, quasi maturi, e scompaiono senzaneppure un buongiorno. Sconcertato e infastidito, Mi-chele Quai continua a chiedersi cosa cercassero, senzatrovare una risposta. Soldi? C’erano un milione e mezzoin contanti. Puliti.

Alla fine di una giornata convulsa, finalmente i nomidegli arrestati. Insieme a Mesina finiscono in carcere idue sconosciuti che erano andati a trovarlo. Uno, Do-menico Anfossi, 39 anni, fa il contabile in una piccola

d’oro, ha avuto quattordici dipendenti. Poi l’onda lun-ga della recessione ha cancellato più o meno tutto. Gli èrimasta soltanto la casa di San Marzanotto, acquistataquando sembrava che l’età del riscatto sociale non do-vesse finire.

Nell’estate del ’93 Michele Quai, incensurato e cit-tadino irreprensibile, vive di piccoli lavori; robetta chegli consente giusto di tirare a campare. Non si lamen-ta. Dice che i tempi sono grigi per tutti, perché do-vrebbe essere fortunato lui che non lo è mai stato invita sua? «Gente come me deve sempre lottare per sta-re in piedi».

Alle 9,40 del 29 luglio, giovedì, è a San Marzanottoinsieme a Claudio e a un geometra del Tribunale peruna perizia tecnica. Alla stessa ora Stella Bianco è fuori,in giro tra i negozi di Asti a far la spesa. Graziano Mesi-na è nell’appartamento di via Guttuari. Bussano, va adaprire. Sul pianerottolo ci sono due signori che fa entra-re, li guida in un anditino che termina in un salotto: undivano, due poltrone, alla parete un arazzo col disegnod’una sfinge, sul comò una bottiglia artistica di liquoreverde e la tivù, che troneggia vicino a vecchi orologi. Itre fanno appena in tempo a sedersi quando la portad’ingresso viene giù, sfondata. «Polizia, fermi dove sie-te». Perquisizione lampo e un po’ rude. Quando rien-tra, Stella Bianco trova tutto sottosopra come se ci fos-sero ladri. «Lei non sa chi aveva in casa», dice un sottuf-ficiale. «Chi, Mesina?», domanda lei. No, si riferiva aglialtri. Chi sono gli altri? Si saprà solo qualche ora dopoche, tra stridio di gomme da filmetto americano, vengo-no tutti portati via.

In quello stesso momento a San Marzanotto, Miche-

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stituirsi un alibi per scaricare tutto sui soliti, invadentis-simi servizi segreti?

Molti mesi più tardi, l’avvocato Pier Navino Passeri,che nonostante sia stato nominato d’ufficio profondegrande impegno in questo difficile processo, non man-cherà di farlo rilevare in aula. «Perché non è stato fattoalcun accertamento per verificare se sulle armi vi fosse-ro le impronte del mio cliente?». Una domanda che re-sta, insieme ad altre purtroppo, senza risposta. Favo-rendo, indipendentemente da quella che è la verità, lacultura del sospetto, la sindrome del complotto, comela chiama ironicamente un magistrato. Il sostituto pro-curatore Mauro Mura accetta intanto di dare qualcheinformazione alla pubblica opinione. E racconta chel’inchiesta sulle armi di Asti è nata «per pura casualità»durante intercettazioni telefoniche e ambientali dispo-ste nel corso del rapimento di Farouk Kassam. «Questastoria viene fuori da una rilettura di quegli atti». Una ri-lettura, che significa? Il giudice della procura antimafiaspiega con chiarezza: «Avevamo acquisito materiale divario genere che, a suo tempo, abbiamo vagliato conun’ottica particolare, quella di un’indagine su un seque-stro di persona. Poi abbiamo rivisto tutto in chiave di-versa. E da lì siamo partiti». Mura non si sbilancia suuna vicenda che appare così improbabile, così poco cre-dibile, così assurda per certi versi: a un passo dalla gra-zia, Mesina è impazzito? «Non ne ho idea. Io so cheognuno deve vivere facendo quello che sa fare. Gli inci-denti di percorso capitano proprio a questa gente, ai vi-gilati speciali voglio dire».

Man mano che ci si interroga su cosa possa essererealmente accaduto, emergono nuovi particolari. Pare

azienda dell’area industriale di Genova. L’altro, ElioFerralis, 65 anni, è titolare di una piccola agenzia di im-port-export. Gli inquirenti sono avari di dettagli sull’o-perazione. Dicono comunque che i genovesi stavanoconsegnando a Graziano sei caricatori di kalashnikovcomprati in Svizzera. Si sono fatti precedere da una te-lefonata: «Abbiamo trovato sei cioccolate. Te le portia-mo domattina».

E la mattina, puntuali, salgono su un rapido che par-te alle 7,55 dalla stazione di Genova-Brignole. Arrivanoad Asti, dove il termometro segna 35 gradi, alle 9,35. Incinque minuti coprono, a piedi, la distanza e premonoun campanello in via Guttuari 5. Ferralis, che non si èmai ripreso dopo un brutto incidente stradale, è invali-do e non riesce a muoversi con sicurezza per via di unaparalisi alle braccia. L’amico, che non ha di questi pro-blemi, tiene una sacca dove ci sono le “cioccolate” com-missionate (così dichiarano) da Mesina. Alle loro spalle,discreti e invisibili, decine di poliziotti. Due pistole, 500cartucce, un passamontagna e (pare) un mitragliatorevengono invece trovati a San Marzanotto. Da chi equando? Il rigore non deve essere eccessivo se quellacasa, visitata e fotografata dai cronisti del quotidiano«L’Unione Sarda» dopo il primo sopralluogo, vieneperquisita una seconda volta il giorno successivo. Nonc’erano sigilli, indicazioni di nessun tipo che vietasserol’ingresso o comunque informassero che l’accesso eraproibito ai non addetti ai lavori. Nel mostrare l’apparta-mento sottosopra a uso e consumo della stampa, Mi-chele Quai rammenta che qualche tempo prima Mesinaaveva notato alcune stranezze: una serratura forzata, unvetro sostituito. Anche questo è un tentativo di preco-

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Salvatore: «Sì, sì».La registrazione di questa chiacchierata è agli atti

processuali. Porta la data del 13 luglio 1993. RobertoPiazza, un tecnico che a suo tempo si è occupato delleintercettazioni delle telefonate tra le Brigate Rosse e i fa-miliari di Aldo Moro, conclude la perizia fonica: l’atten-dibilità sul fatto che si tratti della voce di Graziano Me-sina oscilla tra il 95 e il 99 per cento. Margine di erroreche va dall’uno al cinque per cento. Dunque non sem-brano esserci dubbi su chi stia realmente parlando neinastri registrati dalla procura distrettuale antimafia. Ilfatto è, sostiene il pubblico ministero, che quello messosotto osservazione è un periodo di grande libertà perMesina. Contattato per fare l’emissario nel corso del ra-pimento Kassam, Graziano si muove senza problemi disorta, disattiva i suoi personalissimi sistemi di vigilanzae di diffidenza. Non immagina che per la magistraturaquello è invece il momento giusto per osservarlo con lalente d’ingrandimento, l’occasione propizia per verifi-care le vere intenzioni di un ergastolano in libertà vigila-ta. Una sola controdeduzione: durante il rapimento diFarouk non era stato proprio Mesina a lamentarsi deicontinui pedinamenti, del telefono costantemente sottocontrollo? Difficile far conciliare queste affermazionicon un uso dell’apparecchio a dir poco spregiudicato,oltre che ingenuo.

Durante le indagini seguite ai clamorosi arresti di lu-glio, Elio Ferralis viene tenuto in carcere per appenadieci giorni: ottiene gli arresti domiciliari per ragioni disalute. Anfossi resta dentro per cinque mesi, in isola-mento. Il primo marzo del ’94 concede un’intervista te-lefonica che apre ambigui squarci sulla vicenda.

cioè che i due genovesi abbiano chiesto a Mesina unavendetta contro Giorgio Mendella, telefinanziere chegli avrebbe soffiato risparmi per circa un miliardo. Gra-ziano, sempre stando a voci incontrollate, non avrebbesoltanto garantito la rappresaglia ma si sarebbe spintoun po’ più in là: perché non sequestrare la fidanzata diMendella, Patricia Palmero, a Montecarlo? Si potrebbepretendere un riscatto di venti miliardi di lire e il gioco èfatto, risparmi restituiti a un interesse prodigioso. Soloche per mettere a segno un rapimento come questo inCosta Azzurra, servono caricatori per kalashnikov: po-trebbero, visto che Mesina è quasi prigioniero nei confi-ni del comune di Asti, andarglieli a comprare? Ne ba-stano sei, si acquistano facilmente in Svizzera.

Per quanto possa apparire strana, questa è, grossomodo, la tesi dell’accusa. Tesi, importante ribadirlo,che si basa sulla testimonianza di Ferralis e Anfossi. Adavvalorarla si aggiungono le intercettazioni telefonicheche vedono l’ex ergastolano, letteralmente scatenato, incrisi di astinenza da crimine.

In una conversazione telefonica ascoltata dai carabi-nieri e inserita poi nel teorema della pubblica accusa,sta parlando ad esempio con un certo Salvatore e glichiede notizie a proposito di un banchiere di Alessan-dria ritenuto socio di Gianni Agnelli. È uno che ha mol-ti quattrini, uno che può pagare? Gli interrogativi deldialogo sono di questo tipo fino a quando non si scendenei particolari.

Mesina: «Ma questo ne ha figli?»Salvatore: «Tre, e tutti sono grandi».Mesina: «E se se ne prendesse uno e ci si facesse por-

tare un miliardo in giornata? Li recupera i soldi?»

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na ci ha fregato. Cosa ricordo di quel momento? Laconfusione e la ricerca di armi, che non sono state trova-te».

– Dopo l’arresto le hanno chiesto di accusare Mesi-na?

«No. È successo di peggio. Mi volevano implicare instorie strane. Per sessanta giorni non mi hanno fattodormire. Mi insultavano dallo spioncino della cella op-pure facevano rumore. Ininterrottamente, senza smet-tere un attimo. Credevo di impazzire. Ricordo rumorimetallici contro la parete. Tutta la notte. Tutta. Ognitanto arrivava qualcuno che, senza qualificarsi, mi chie-deva di firmare verbali in cui mi autoaccusavo di avercompiuto azioni terroristiche».

– La interrogavano uomini dei Servizi?«Servizi segreti, vuol dire? Non lo so. L’ho detto, era

gente strana. Mi hanno riferito di aver perquisito la miacasa. Ho scoperto poi che l’avevano praticamente di-strutta. Non ho dimenticato, continuo a fare indagini».

– Indagini su cosa?«Su Mendella, perché il caso Mendella e quello di

Graziano Mesina marciano insieme. Al momento op-portuno dirò di più».

Al processo, che si apre sette mesi dopo, non dirà af-fatto di più. Anzi, dovrà superare qualche momento dievidente imbarazzo. Per esempio quando l’avvocatoPasseri gli chiede se è un confidente delle forze dell’or-dine. «A questa domanda preferirei non rispondere»,dice rivelando sicuramente molto più di quel che avreb-be voluto.

A parare i colpi della dietrologia pensa il pubblicoministero, Francesco Saluzzo, soprannominato Saluzzo

– Conosceva Mesina?«No. Io ed Elio Ferralis abbiamo pensato a lui quan-

do ci siamo accorti che non avremmo mai più rivisto isoldi che avevamo dato a Mendella. Di mio c’erano cin-quecento milioni, soldi che mi hanno lasciato mio padree mie zie. Ho detto tutto alla polizia francese, sono incollegamento con un ispettore».

– Che doveva fare Mesina?«Farci restituire i soldi. Dai giornali abbiamo saputo

che abitava ad Asti e allora siamo andati a trovarlo. Loabbiamo incontrato complessivamente quattro volte.Una volta gli ho detto che la polizia ci aveva pedinato fi-no a casa sua. Non importa, ha risposto».

– Lei è, come si dice, un collaboratore di giustizia?«No, all’inizio pensavo lo fosse Mesina. Sì, proprio

lui. Mi faceva pensare non vederlo preoccupato per tut-ta quella gente che avevamo attorno. Poi, durante il ter-zo incontro, ha domandato se potevamo fargli un favo-re. Aveva bisogno di sei caricatori per kalashnikov».

– E in cambio si sarebbe occupato di Mendella?Anfossi: «No, no. Mendella era un discorso a parte.

Elio gli aveva portato una sua pistola, regolarmente de-nunciata. Non ricordo se gliel’avesse chiesta Mesina.Ricordo invece che ci disse dove avremmo potuto tro-vare i caricatori. In Svizzera».

– Quando avete comprato i caricatori?«Subito dopo. Li abbiamo sistemati in una busta di

pane, dentro uno zainetto. Poi abbiamo telefonato di-cendogli abbiamo cioccolatini per te. Sapevamo cheavrebbe capito. Nella casa del suo datore di lavoro, invia Guttuari, siamo arrivati puntualissimi. Subito dopodi noi, i carabinieri. In quel momento ho pensato: Mesi-

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to pedine di una trappola organizzata a una manciata disettimane dalla concessione della grazia. Un discorsoche per il Tribunale non vale, si arrampica sugli specchipoiché, nei fatti, le tesi dell’imputato «appaiono astrusee contraddittorie».

Sei anni e mezzo di reclusione. L’avvocato Pier Navi-no Passeri ha presentato ricorso in Appello. Forse iltempo può far sedimentare certe asprezze e consentireuna riflessione più ponderata, comunque più attenta al-le argomentazioni della difesa.

Il resto è fatto di impressioni, sensazioni che – fattosalvo il riconoscimento della buona fede – spalancanola porta a troppe domande. Roberto Gonella, giornali-sta del quotidiano torinese «La Stampa», ha seguitopasso passo il processo di Asti. «E debbo dire che hoavvertito qualcosa di strano fin dall’inizio. Ho visto iverbali di arresto di Anfossi e Ferralis: uguali, sembra-vano in fotocopia. A parte questo, mi stupisce un Mesi-na che si fa trovare armi in casa. Ingenuo, no? Com-plessivamente debbo dire che il dibattimento mi ha la-sciato perplesso. Ci sono molti punti a favore della tesidella colpevolezza, ma altrettanti che lascerebberopensare a una montatura. Da quando faccio il cronistagiudiziario, è senz’altro il processo più singolare che misia capitato di seguire. Adesso, a sentenza fatta, a vicen-da dimenticata o comunque archiviata, mi succede dipensarci ancora. Mi succede di domandarmi, di inter-rogarmi e non trovare un percorso logico».

Cioè un sufficiente ventaglio di prove che giustifi-casse la condanna, e una condanna così severa. Il pub-blico ministero Francesco Saluzzo aveva addiritturasollecitato una pena più consistente: quattordici anni.

il Duro per il suo rigore. Sventolando le dodici pagineche compongono la fedina penale di Mesina, taglia cor-to sostenendo che si tratta di un “delinquente abituale”eccessivamente fiducioso in se stesso, convinto che ilruolo di emissario nella vicenda Kassam gli desse unasorta di impunità. Nessun accenno all’ipotesi che pos-sano essere entrati in gioco i servizi di sicurezza. Anchese, come si sa, non sarebbe una novità: nel marzo del ’93il Comitato parlamentare per i servizi di informazioneaveva ascoltato a lungo Graziano sui risvolti della libe-razione di Farouk.

Per Saluzzo non suscitano perplessità neppure le mi-steriose incursioni nella casa di San Marzanotto (unaserratura forzata e la sostituzione di un vetro). La Corte,nella motivazione della sentenza afferma: «Inequivoca-bili sono le espressioni usate nelle telefonate intercetta-te». La conseguenza è che «l’argomentare difensivo diMesina è alquanto debole, soprattutto nelle ragioni cheavrebbero determinato il complotto».

«I falsi eroi finiscono nella polvere», dichiara, quasistesse dettando un epitaffio, l’ex ministro degli Interni,Nicola Mancino. Per lui, come per altri del resto, il casoè chiuso. Nessuno che si chieda come mai Ferralis e An-fossi, che pure sono dichiaratamente complici di Mesi-na, riescano a strappare una condanna così lieve. O al-meno lieve quanto basta per non doverla scontare in ga-lera. E Graziano, che dice? Prima di rientrare definiti-vamente nel carcere di Novara rifiutandosi di continua-re ad assistere alle udienze, ha sostenuto di non avercommissionato a nessuno l’acquisto di armi. «Quellaroba è stata sistemata da qualcuno nella villetta di SanMarzanotto». Anfossi e Ferralis, conclude, sono soltan-

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colpevole, sarebbe riuscito a beffare tutti: anche se poiavrà poco da esultare di tale vittoria. Ma questo è un al-tro problema.

Troppi? «Mai abbastanza per un delinquente abituale».Ne è convinto anche Fateh Kassam che, pur rifiutandoqualunque commento sul verdetto, si limita a dire dinon essere sorpreso. Grande amarezza, invece, nelle pa-role del giudice Pietro Fornace: «Mesina ha tradito lanostra fiducia, la simpatia che gli avevamo dimostrato.Non merita indulgenza».

Inutile chiedere al magistrato un’opinione sulla sen-tenza di Asti, si asterrebbe – com’è giusto – da qualun-que giudizio. Ma questo non dissolve i dubbi: chi haforzato la serratura di San Marzanotto, chi ha sostituitoil vetro? E ancora: davvero Mesina era così stupido danascondere armi in casa, una casa visitata ogni giornodai carabinieri? Se tutto questo è vero, perché non èstato eseguito dalla Scientifica un esame dattiloscopi-co, perché non sono state cercate le sue impronte digi-tali sull’arsenale nascosto nella villetta?

Non si tratta di volere Mesina innocente a tutti i co-sti. La questione è più ampia. Si tratta di dimostrare finoin fondo la sua colpevolezza. L’inchiesta di Asti tradiscepiù di una fragilità e riempie di incertezze il camminoverso la sentenza. In una civiltà giuridica avanzata, co-me la nostra, non si può non tener conto dei veleni delcaso Kassam. Tanto, che piacesse o no, quei veleni sonocomunque penetrati nell’aula del Tribunale.

A chi ha giovato tanta fretta, qualche evidente super-ficialità d’indagine e alcune palesi manchevolezze? Perquanto possa apparire grottesco a causa di un amarissi-mo finale, tutto questo torna utile proprio a Mesina.Che rientra, certo, definitivamente in galera, ma si fa ac-compagnare dal dubbio che, in fondo in fondo, possaessere sul serio una vittima. Ancora una volta, se fosse

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XIII

Polvere di mito

Nel suo studio di piazza Statuto ad Asti, l’avvocatoPier Navino Passeri legge e rilegge copia del ricorso inappello sullo strano caso del signor Mesina. Lontanoper educazione dai toni apocalittici e roboanti, privile-gia la riflessione alle urla. È stato designato d’ufficio.E la qualifica di “difensore d’ufficio” ha mantenutoper tutta la durata del processo. Il suo cliente, eufori-camente querulo nei giorni del successo, lo ha quasiignorato. Dai colloqui in carcere è riuscito a tirarglifuori ben poco, salvo un ritornello ossessivo: «Mi han-no incastrato».

Nello strano caso del signor Mesina, dice l’avvocatoPasseri, c’è innanzitutto un imputato che «ha rinuncia-to totalmente a difendersi». Potrebbe trattarsi di tatticaprocessuale, finezze a effetto psicologico garantito dautilizzare nei momenti difficili. Resta il fatto che senzauna linea difensiva diventa piuttosto difficile uscire vivida un dibattimento come quello sulle armi trovate aSan Marzanotto. «Può anche darsi che l’abbiano in-trappolato, ma ci vogliono prove per dimostrarlo».

E le prove ci sono? Più che prove vere e proprie, in-dizi, segnali inquietanti. Quando è stato arrestato, nel-l’estate del ’93, Mesina sapeva ad esempio che nell’ar-

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Poi c’è l’incongruenza delle perquisizioni eseguite a ri-dosso della visita di giornalisti (e di chiunque altro aves-se voluto approfittare), le piccole preoccupanti mano-missioni a una serratura e a una finestra.

«È tutto, tutto insensato» per un difensore, sia pured’ufficio, con la pretesa di voler capire, possibilmentearrivare alla verità. Certo, resta la terribile prova delleintercettazioni, telefoniche e ambientali. Mesina ha det-to che qualcuno ha imitato la sua voce. Ammesso che siavero (ma non è possibile a meno che non si voglia scon-finare ai limiti delle conoscenze tecnologiche), potreb-be essere accaduto solo per le intercettazioni sul telefo-no. Ma che dire di quelle ambientali, cioè delle “pulci”nascoste nella villetta di San Marzanotto? Registraredialoghi familiari e successivamente sovrapporre vocidiverse per irrobustire il castello dell’accusa è impensa-bile, un’operazione che metterebbe in difficoltà perfinogli eroi polizieschi d’un romanzo.

Tutto questo non impedisce di avvistare qualchenebbia. Domenico Anfossi, altro protagonista del pro-cesso, è stato sottoposto a perizia psichiatrica e dichia-rato sano di mente. La sua, hanno detto i medici, è unapersonalità di tipo schizoide ma questo non ne alteral’attendibilità né la fondatezza delle deposizioni.

Mettendo insieme tutti questi elementi, viene dapensare che nei suoi diciotto mesi di libertà GrazianoMesina abbia cercato inconsciamente di tornare in pri-gione: prima rischiando di bruciarsi (e difatti s’è brucia-to) col sequestro Kassam e, subito dopo, con la storiadelle armi ad Asti. Troppe domande restano senza ri-sposta, sospese sul filo della imperscrutabilità dell’ani-ma o di qualcosa che le somiglia. La logica non aiuta a

co di una ventina di giorni la sua pratica per la graziaavrebbe ricevuto la spinta finale. Possibile, s’interrogal’avvocato Passeri, che a un soffio dalla libertà definiti-va, decida di attraversare un vespaio? L’altro mistero,ammesso che sia corretto definirlo così, riguarda a suoparere la rottura del rapporto tra Mesina e il vecchiodifensore, Gabriella Banda. Nella fase immediatamen-te successiva all’arresto, quella dei primi interrogatorinel carcere di Novara, è anche comparso l’avvocatoGiannino Guiso, designato con un telegramma difen-sore di fiducia. Avrebbe dovuto lavorare in tandemcon Gabriella Banda. Invece accade qualcosa di singo-lare: Guiso assiste a un incontro tra imputato e pubbli-co ministero, poi si ritira. A distanza di pochi giorni, falo stesso l’avvocato Banda. Che sulla questione, comeabbiamo già avuto occasione di dire, non intende par-lare: «Il caso è chiuso». Rimanda i chiarimenti a un fu-turo vago e imprecisato, limitandosi a puntualizzare,quasi fosse davanti ad allievi che studiano diritto pena-le, che un difensore può rinunciare al mandato in qua-lunque momento. Perché non nascano dubbi di carat-tere personale o privato, rammenta di aver svolto il suolavoro con impegno e partecipazione, augura «a Gra-ziano buona fortuna, ne ha bisogno». Chiude con unafrase enigmatica: «Mi dispiace».

Cos’è accaduto? È uno degli interrogativi di questavicenda. Alcuni hanno preso corpo nelle tesi che l’avvo-cato Passeri proporrà in Appello. A cominciare dallamancanza di un esame dattiloscopico sulle armi. «Pos-sibile che chi ha un’arma in casa non la maneggi, non lasfiori, non ne verifichi in qualche modo la funzionali-tà?» Deplorevole dimenticanza, nessuno ci ha pensato.

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pagato un miliardo per il rilascio di Farouk, Borghezioaveva più di un sospetto non troppi mesi fa. Ora glissasottolineando tuttavia che la deposizione di Broccolettial processo sui fondi neri del Sisde «lascia pensare». Co-sa lasci pensare non lo dice esplicitamente, un vicemini-stro non può. Stesso discorso, anzi vagamente più ecu-menico, per la condanna inflitta a Mesina dal Tribunaledi Asti. «Il nostro ordinamento prevede diversi gradi digiudizio perché si possa, se occorre, aggiustare il tiro,essere più equi, più giusti». Ovvero: se avete sbagliato,per gentilezza rimediate.

Borghezio deve aver fatto uno sforzo notevole peracquisire un linguaggio che ricorda le encicliche papali.Il 10 agosto del ’93, in un’intervista dal titolo provoca-torio (“C’è da salvare un sudista”), parlava su registriassai differenti. Al ritorno da un incontro nel carcere diNovara, aveva sparato sicuro: «Mesina mi ha detto chevogliono fargli pagare le rivelazioni sul sequestro Kas-sam. Io so che ha creato enormi imbarazzi. Le sue rive-lazioni, chiare e sincere, contrastano con la versione uf-ficiale, poco credibile. Mesina poi ha avuto il torto diopporsi al blitz che le forze dell’ordine volevano com-piere per liberare l’ostaggio». Di più. Al ministro Man-cino e alla sua certezza che prima o poi i falsi eroi fini-scono nella polvere, Borghezio replicava: «Al ministroMancino potrei dire che c’è più pulizia morale nelle pa-role di Mesina sul caso Kassam che nelle dichiarazionidi tanti politici». E a proposito di un certo mutismo cheavvolgeva la vicenda, aveva concluso con un colpo digrazia alla sua stessa categoria. «La mia è una battagliadi principio. Anzi, debbo dire che mi stupisce il silenziodei politici attorno a questo episodio».

capire, a spiegare la scelta suicida di un uomo che cerca-va aria pulita dopo una vita da recluso.

Un tarlo che rode anche la mente di Mario Borghe-zio, torinese di 46 anni, avvocato civilista ma, soprattut-to, deputato della Lega e sottosegretario alla Giustizia.È l’unico rappresentante ufficiale di un partito a essersipreso cura della disavventura di Mesina. Oggi che nonfa più parte dell’opposizione in Parlamento, non può ri-petere le durissime dichiarazioni di un anno fa. Però,mostrando rispetto di se stesso e coerenza, non le rinne-ga. Cosa aveva detto? Gli appariva decisamente singo-lare che Graziano, arrestato alle 9,40 del mattino, aves-se potuto vedere le armi sequestrate soltanto dopo mez-zogiorno. «Ho rilevato troppi punti oscuri, già evidentidalla testimonianza resa davanti alla Commissione par-lamentare sui servizi di sicurezza. Negli ultimi tempiMesina ha respinto una processione di ambigui perso-naggi che andavano a trovarlo, che volevano parlargli.Uno nascondeva perfino un registratore nella giacca».Borghezio, che tra l’altro aveva presentato un’interro-gazione per conoscere quale forza di polizia avesse fer-mato Mesina il 29 luglio ad Asti, ha manifestato la ne-cessità di una mobilitazione per scongiurare il pericoloche Graziano esca dalla galera coi piedi davanti.

Chissà se il sottosegretario alla Giustizia, passato daibanchi dell’opposizione a quelli della maggioranza e delGoverno, è rimasto nel frattempo della stessa opinione.La violenza delle parole pronunciate poco più di un an-no fa ha ceduto il passo al soffice dizionario ministeria-le. Ma a ben guardare, non è cambiato nulla. Si attenuasoltanto la brutalità dei colpi, la sostanza resta quella disempre. A proposito della voce che lo Stato possa aver

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pio che l’espiazione della pena renda davvero liberi,davvero uguali. Dopo centocinquant’anni di carcere,Graziano Mesina resta Graziano Mesina, non è affattovero che abbia gli stessi diritti di un qualunque cittadi-no. O, più esattamente, ha gli stessi diritti soltanto inteoria. In pratica, nella pratica della durissima battagliapolitica quotidiana, è soltanto uno straccio, basta un ali-to di tramontana per farlo volare.

I principi dell’ordinamento giuridico valgono fin-ché restano nell’ambito dei dibattiti, delle tavole ro-tonde, delle aule di Tribunale. Valgono nei dispositividelle sentenze, nelle solenni cerimonie d’inaugurazio-ne dell’anno giudiziario. Poi bisogna fare i conti con larealtà. Manca la sensibilità e il coraggio culturale perfare il salto, accettare che un diverso possa essere ugua-le a noi.

Un detenuto che sconta una pena, e soprattutto unapena come quella scontata da Mesina, non è molto dif-ferente da un handicappato. Ha davanti insormontabilibarriere architettoniche: che non dovrebbero esistere,che non dovrebbero esserci in nome della civiltà del di-ritto, ma che invece sono lì. A ricordargli, lugubre me-mento mori, che la galera può continuare anche fuori.Basta pensare ai casi di quegli ex reclusi che non riesco-no a trovare lavoro (ma il lavoro non lo trovano neppurequelli che hanno una fedina penale adamantina), che fa-ticano a reinserirsi e allora bombardano i giornali di let-tere piagnucolose e offese.

Un accidente parallelo a quello di Mesina riguarda ledisgrazie miliardarie di Marcello Scomazzon, ex cassie-re capo della Regione Sardegna colpevole di aver ra-schiato poco più di novemila milioni dalle pubbliche

E qui tocca il cuore del problema. Perché la vicenda-Mesina non diventa un caso politico?, come mai le se-greterie di partito, di solito così prodighe di commentifluviali su qualunque tema, tacciono chiudendosi in di-fesa? A sostenere il diritto alla verità per il sardo Mesinaè soltanto un onorevole leghista. Perché in Sardegnanon ci si domanda cos’è veramente accaduto, se esistauno spartiacque tra colpevolezza e rappresaglia?

Per capire, bisogna conoscere a fondo i meccanismiche regolano la vita dei partiti, almeno di quelli storici,istituzionali. Al di là delle buone intenzioni, dell’even-tuale indignazione dei singoli, sopravvale su tutto e tuttiuna “ragion di partito” che è uguale e parallela a quelladi Stato. Mesina, che in quei giorni pareva a buona par-te degli italiani vittima di una clamorosa ingiustizia, ècarne che scotta.

In pieno caos, quando le fiamme si alzano pericolo-samente minacciando i vertici dello Stato, in Sardegna ipartiti della sinistra si avvicinano, annusano e si allonta-nano. Quelli di centro e di destra non si pongono nep-pure il problema: il caso non esiste, faccende quasi pri-vate che investono magistratura e giornali.

A pensarci bene, cavalcare una campagna per soste-nere l’innocenza del popolarissimo Grazianeddu avreb-be potuto far comodo. Allora perché, fatta eccezione diun soldato di Bossi, nessuno lo fa? Perché Mesina rap-presenta una scommessa ad altissimo rischio. Nel sensoche tutto potrebbe risolversi in una sconfitta bruciante:un partito che difende un criminale? Inammissibile. Laverità è che, sia pure inconsciamente (nel senso che nes-suno avrebbe mai il coraggio di confessarlo neppure ase stesso), il sistema dei partiti respinge di fatto il princi-

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ti, a far parlare le prove senza lasciarsi condizionare (oallontanare) dal nome Mesina.

Nella breve parentesi di libertà, Graziano ha comun-que sferrato un uppercut alla credibilità delle istituzio-ni. È stato molto più duro, e di conseguenza più danno-so, di quanto non fosse da latitante inafferrabile, da pri-mula rossa del Supramonte. Lavorando fianco a fiancoalle forze dell’ordine, senza far cantare mitragliette ebombe a mano come nella tempestosa gioventù, ha di-mostrato che nel sequestro di Farouk una soluzione c’e-ra, un’uscita di sicurezza che consentiva di riportare acasa il bambino senza scatenare l’inferno delle teste dicuoio.

Poi forse s’è fatto prendere la mano da un ispido sen-so di balentìa: non gli bastava una vittoria ufficiosa, vo-leva anche provare l’ebbrezza della beffa, l’incorona-zione a campione per kappaò. Per questo ha scelto disfidare magistrati, ministri e capo della polizia. Quellosulla liberazione del piccolo Kassam è stato uno deiconflitti a fuoco più impegnativi della sua lunga naviga-zione criminale.

In ogni caso, quando verrà il momento di collocarlonella galleria del banditismo, accanto al ritratto di tantiprotagonisti di una millenaria civiltà di sangue e di ven-detta, avrà la consolazione di essere considerato l’ulti-mo allievo d’una vecchia scuola. Più che vecchia, incar-tapecorita. Anzi, morta e sepolta nell’avanzata di unmondo nuovo, senza regole e senza dèi, dove la vita nonvale più di una cartuccia.

Altri tempi e altre storie sgomitano per conquistarespazio in cronaca. Il 6 ottobre del ’94, quindici anni do-po la scoperta di un gigantesco arsenale delle Brigate

casse. Il dottor Scomazzon, funzionario al di sopra diogni sospetto e ladro dichiarato, ha confessato le suecriminali acrobazie finanziarie ed è stato condannato.Quando è uscito dal carcere, dopo essersi detto pentitoe redento, dopo aver presentato alla collettività le scusedi ex gentiluomo, ha trovato un posto di lavapiatti inuna trattoria e, più tardi, di operaio in un’agenzia di pu-lizie. Il suo è stato un tonfo sordo, dalle stelle alle stalle,senza passaggi intermedi che potessero attutire l’urto.Ha fatto tutto quello che deve fare un cittadino disone-sto che ammette le sue responsabilità. E poi? Vaga, neldisperato tentativo di trovare un impiego stabile (vistoche ha moglie e due figlie), un futuro appena più solidodi quello che gli si prospetta davanti, prigione all’ariaaperta, dietro le sbarre tra gente libera di commiserarlo.

Nel caso di Graziano Mesina, bandito con un certifi-cato penale che va da pagina uno a pagina dodici, tuttodiventa ancora più complicato. A difendere non un’i-potesi di innocenza ma la certezza del diritto è sceso inpiazza soltanto l’onorevole Mario Borghezio. Gli altri sisono fatti in là, come una folla spaventata.

Non avvicinarsi, pericolo. A molti deve essere sem-brato che il semplice interrogarsi a voce alta, pubblica-mente, potesse configurare una specie di favoreggia-mento. Oppure, visto da tutt’altra prospettiva, l’affian-camento a quella curva sud che tifa un bandito propriocome si fa per un goleador. Con o senza trent’anni di ga-lera sulla groppa, nonostante questo sia tutt’altro chemarginale, un fuorilegge può suscitare al massimo in-differenza. Non troverà intellettuali disposti a sottoscri-vere un manifesto per sollecitare indagini più approfon-dite, qualche autorevole penna disposta a valutare i fat-

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bile che non abbia abbandonato la partita e ci stia ripro-vando: da tempo sta tentando di scoprire dove finisca ildanaro sottratto al fisco, l’attivo di bilanci commercialipalesemente addomesticati.

Nel mare piatto della nuova delinquenza, cresciutasoprattutto sui profitti legati allo spaccio di stupefacen-ti, uno come Mesina non potrebbe fare neppure il ba-gnino. Durante la reclusione non ha mai legato con de-tenuti che provenissero da questo ambiente. Ha sceltola frequentazione di assassini famosi e guerriglieri messiin pensione dalla Corte d’Assise. Le amicizie forti, quel-le che restano, le ha strette però con poveracci che vale-vano sì e no qualche anno di carcere. Per esempio, ilcompagno di Parma, quello che gli ha domandato unacortesia che poteva costare il ritorno all’ergastolo.

L’inferno, che credeva di aver definitivamente la-sciato, gli ha riaperto le porte all’improvviso. Travol-gendolo. E travolgendo per l’ultima volta la sua sicu-rezza, ma soprattutto la sua paura, quel senso di solitu-dine che l’ha accompagnato passo dopo passo nell’av-ventura di un povero detenuto troppo famoso, sorve-gliato speciale. Era solo, solo contro tutti verrebbe dadire, in uno sciagurato ruolo da emissario nella torridaestate ’92 in Sardegna; solo ad Asti, circondato da armie da un progetto di sequestro al limite del possibile, ad-dirittura con una sortita all’estero per la cattura dell’o-staggio. Sul serio pensava a un rapimento? Ritorno alleorigini, al mestieraccio d’un tempo, ammesso che le co-se stiano davvero così.

A ripensarci su, questa breve cavalcata in libertàcondizionale offre a tratti la sensazione di una corsa ver-so l’autodistruzione, come se irrompesse improvvisa-

Rosse a Monte Pizzinnu, i carabinieri trovano una san-tabarbara agropastorale nelle campagne di Austis. È ilpiù grosso quantitativo d’armi mai rinvenuto in Sarde-gna: fucili, pistole, bombe a mano, ottomila munizioni eperfino qualche pezzo d’amatore come un Beretta a si-ringa col calcio inciso (“Sesta brigata Nello”) perfetta-mente efficiente. Un campionario strepitoso che com-prende silenziatori per pistola, caricatori per kalashni-kov, Winchester, Mab, Garand, Mauser. L’operazione ègrossa, tant’è che nei titoli di coda, quelli destinati airingraziamenti, figura anche il Sismi, il servizio segretomilitare.

A chi servivano le armi scovate dai carabinieri? Scar-tata l’ipotesi di un gruppo eversivo, un’improbabile rie-sumazione del cadavere d’un qualunque partito arma-to, resta quella di un’evoluzione della criminalità orga-nizzata. Le armi servono a garantire e proteggere il rici-claggio delle narcolire, gli investimenti immobiliari del-la mafia, il mercato dell’eroina che vanta in Sardegnaalmeno ventimila affezionati clienti. La piazza cresce,pare rastrelli risparmi da piccoli commercianti che nonsi accontentano degli interessi bancari o di quello cherendono i Bot. Una catena di montaggio: quello che uf-ficialmente è un banalissimo prestito, in realtà diventaun investimento in droga. Ma chi mette i quattrini non ètenuto a saperlo e può dunque continuare a indossareuna maschera di rispettabilità. A distanza di tre-sei mesiriavrà indietro i suoi soldi con interessi che neanche l’a-vidità del miglior strozzino potrebbe garantirgli. Annifa a Cagliari la Guardia di Finanza ha frugato tra i regi-stri contabili di alcuni negozianti, ha raccolto qualcheindizio ma non è riuscita a chiudere il cerchio. È proba-

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Capitolo XIV

Dieci anni dopo

Dieci anni dopo, primavera 2003, Graziano Mesinaè in carcere a Voghera: speranze d’uscita, nessuna. Hascontato in abbondanza le ultime condanne – una perle armi trovate nel suo casale d’Asti, l’altra per aver fat-to l’emissario nel sequestro Kassam – ma un perversomeccanismo giudiziario lo conserva in galera con l’esal-tante prospettiva “fine pena mai”. Ergastolano, insom-ma. Anche se nessun Tribunale della Repubblica hamai pronunciato un verdetto del genere.

Istinto di sopravvivenza e un lampo della vecchiaastuzia gli suggeriscono che non è il caso di fare resisten-za, non servirebbe. Meglio star zitti, mantenere un com-portamento esemplare, non fraternizzare. E seppellirsiin attesa di una fine che, a sessantadue anni compiuti,non può essere lontanissima. Il guaio è che il fisico,nonostante uno zavorramento di chili dovuto alla vitada recluso, continua a reggere. Finora ha marcato visitasoltanto per un’ernietta e manifesta stress attraverso vi-stose macchie sulla pelle. Vitiligine? Macché vitiligine,dice lui: tutta colpa di un dopobarba scaduto che gli harovinato collo e guance. E il gomito? Beh, il gomito si èinfettato perché «grattandosi, è inevitabile».

Soffre di una seria forma di depressione, ma non lo

mente il bisogno, la volontà di perdere dopo l’ultima,grande smargiassata da attempato miles gloriosus dellaBarbagia. Colpisce quel che ha detto il suo avvocato ve-dendolo andar via dall’aula del Tribunale dove lo stava-no processando: «In pratica Mesina ha rinunciato a di-fendersi».

Forse ha ragione Montanelli quando dice che biso-gnerebbe conservarlo in teca, esemplare da custodirecon cura sotto vetro. Basso. Fragile. Maneggiare con at-tenzione. Di tutto quello che è stato, non è rimasta chepolvere.

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ti. Invece questo signore anziano, piegato dalle conti-nue sconfitte, dalla depressione e dal desiderio ossessi-vo di poter vivere ancora molti anni, ma da uomo libero,è l’ultima immagine di un mito non ancora corroso da-gli anni. Perché Graziano Mesina, ex re del Supramon-te, bandito e balente della Barbagia, è un mito. Con tut-ti i rischi della retorica. Fuorilegge e gentiluomo. Taci-turno, solitario, orgoglioso, fiero, perdente e dannata-mente famoso. Pastore per nascita, divo per vocazione».

O per necessità, per rabbia, o addirittura per un di-sperato bisogno di non annegare in una vita miserabile esenza storia.

La questione delle crisi depressive deve essere tutta-via davvero allarmante se finisce in un rapporto inviatodalla direzione del carcere – in via riservata – al Dipar-timento di amministrazione penitenziaria, l’ufficio ro-mano dove si ammonticchiano le proposte d’intervistache Mesina non ha voluto degnare.

Lo stizzoso furore che anima le smentite («A noi ri-sulta in buona salute, non ha chiesto visite specialisti-che») rafforza il sospetto che sia tutto vero e che lo si vo-glia tenere nascosto. Testimoni e familiari riferisconointanto di strani colloqui: «A tratti, sembra che nemme-no ti stia ascoltando: distante, dietro pensieri che lo fan-no muto e strano».

Chiacchierone, Graziano non lo è mai stato. Piùsemplicemente, ha fatto due più due: preso atto che in-torno gli si è creato il vuoto, tenuto conto che la libertàpare definitivamente irraggiungibile, tanto vale lasciarsiandare, imprigionarsi dentro una prigione.

Fin dal giorno dell’ultimo arresto, sceglie una lineadi passività assoluta: non rivendica un solo giorno di

ammetterebbe nemmeno in compagnia di uno specchioe nessun altro. Eppure la signora sardo-emiliana che lova a trovare con regolarità, svela che «per un certo pe-riodo abbiamo addirittura temuto un gesto definitivo».Alla depressione accenna pure la direttrice del carcereper smentire poi, con energia e vigore, appena la faccen-da arriva ai giornali. Durante una chiacchierata telefo-nica con un giornalista che aveva chiesto un incontrocol detenuto Mesina, s’era detta assai preoccupata.

I segnali, d’altra parte, sono eloquenti: nessun con-tatto coi vicini di cella, rifiuto di partecipare ad attivitàcollettive, disinteresse verso i problemi comuni, allergiaai programmi di socializzazione. Non gioca neppure acalcio: durante le ore d’aria concesse per lo svolgimentodi partitelle inserite in un campionato interno, preferi-sce passeggiare – solo e pensoso – ai bordi del campo.Teme che anche una partita di pallone possa trasfor-marsi in trappola, possa accendere inimicizie pericolo-se. «Lo sport, se non è sport veramente, può suscitarescontri, antipatie, vendette. Meglio evitare».

Contrariamente al passato, nessuna voglia di vederegente dei giornali. La sindrome da celebrità, la voglia diapparire e mostrare il cammino percorso in un’esisten-za di travolgente solitudine, è totalmente scomparsa. Dipiù: al fratello Salvatore, che una volta al mese va a tro-varlo, confida che i riflettori dei media gli hanno soltan-to nuociuto. Meglio quindi, per il momento, tenerli lon-tani e allungare il silenzio-stampa iniziato all’indomanidell’arresto nel ’93. Pazienza se si continua ininterrotta-mente a scrivere di lui. Come fa, per esempio, CristinaGiudici che ne traccia sul “Il Foglio” un ritratto di ele-gante profondità: «In apparenza un detenuto come tan-

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Ogni tanto cena insieme a un compagno di braccio,conosciuto in carcere, che presenta così: «È un sardotrapiantato a Milano. Vegetariano. Certi giorni ci fac-ciamo minestroni stupendi». E se da casa hanno man-dato del vino rosso, si può fare perfino uno strappo allaregola: «Io sono astemio, il vino che passa lo spaccio faschifo ma se ne arriva da fuori, un mezzo bicchiere melo faccio volentieri».

La casa circondariale di Voghera è un prefabbrica-to grigio, incorniciato da un reticolato alto. Riflettel’ortodossia integralista degli anni di piombo, massimasicurezza, massimo squallore, nessuna concezione al-l’estetica (per non dire all’umano). Chi ha un appunta-mento – regolarmente autorizzato dal ministero – deveinfilare la carta d’identità in una buca da lettere, unicopunto di contatto esterno d’una garitta sigillata da cri-stalli antiproiettile. Oltre il vetro, un agente di custodiamanovra il passaggio dei documenti e governa una se-rie di tasti e pulsanti che aprono e chiudono i cancellicome in una città spaziale. Se dietro il vetro ci fosse unpesce rosso, sembrerebbe tutto più ovvio e naturale.

Ogni movimento avviene nel massimo silenzio, uncenno di saluto appena abbozzato. Consegnata la car-ta d’identità, l’attesa è di un minuto appena: quantobasta per verificare la corrispondenza tra la foto deldocumento e il visitatore che sta lì davanti. Poi, un ci-golìo annuncia la lentissima apertura di una porta blin-data che immette in un budello di pochi metri quadri,pareti scure e sporche, armadietti dove depositare tele-fonini cellulari e tutto quello che non può arrivare alla

permesso e neanche altri benefici previsti dalla leggeche pure gli spetterebbero. Unica eccezione nel ’98,quando muore sua madre, zia Caterina, chiede di poterassistere ai funerali: permesso negato, tanto più che ave-va manifestato il desiderio di poterci andare con le guar-die ma senza manette.

Adesso pare quasi preferisca rimuginare su se stesso,imbrigliato in una cella singola e comoda nel braccioEiv (Elevato indice di vigilanza), ascoltare per ore e orela musica di Celine Dion. «Ha il potere di stregarmi,quella cantante. Una voce speciale, una voce che mi fauscire da qui e mi porta in luoghi lontanissimi». Lonta-no, nei chilometri e nel tempo: «Mi rivedo a Orgosoloquand’ero ragazzino. Rivedo mia mamma che, in prati-ca, non ho conosciuto. Tornavo da scuola (ho fatto finoalla quarta elementare) e andavo al gregge: in casa nonc’ero mai. Mio padre è morto che avevo tredici anni, loricordo benissimo perché era almeno un anno che nonci incrociavamo». Struggimento della memoria, dellecose perdute. Nostalgia, in senso stretto, no: «Però nonè che lo rimpiango tanto, il paese. Se penso a quand’erodavvero bambino, mi dico che la cultura era quella, ilposto era quello, la povertà era quella: cosa potevauscirne da uno come me?»

Non ha consolazioni religiose perché non è creden-te: «In tutta la mia vita, ho sempre creduto solo inquello che ho visto e toccato». Perciò gli manca l’ad-dolcimento interiore della preghiera che in molti casi –soprattutto nelle prigioni – è un prozac efficiente e ras-serenante, certamente meno pericoloso delle inalazionidalle bombolette di gas che garantiscono un caritate-vole rincretinimento di qualche ora.

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chiuso da un’inferriata che rimanda ad altri androni, al-tre inferriate. Chissà se finiranno mai.

Nella sala-colloqui, dove l’amministrazione carce-raria mette a disposizione seggiole da camping e tavo-lino in plastica da picnic, arrivano i rumori sordi dichiavi che girano nelle serrature e il sinistro concertodi apertura-chiusura gabbie. La porta ha uno spionci-no che consente la vigilanza in via permanente, l’am-biente – un’aula scolastica anni ’50 con la tinta lucida amezzo muro, per non sporcare l’imbiancatura – è tuttaun rimbombo. Per riuscire a capirsi, occorre parlareforte, scandire bene le parole. Graziano, che ha perdu-to il leggendario udito di gioventù (quello che gli se-gnalava a distanza l’avvicinarsi di un carabiniere), tienela testa piegata e l’interlocutore vicino: solo così riescea sentire senza eccessivo sforzo: «Sordo, io? Mannò, èche in questa stanza c’è l’eco». Vero, ma è altrettantovero che i timpani hanno perduto quei sensori divenu-ti vitali durante la lunga stagione da latitante.

Quarant’anni di prigione hanno fatto di Mesina unesperto di questioni carcerarie, un involontario storicodell’antropologia detentiva, un professore della materia.Che scardina fin nei suoi più sacri principi: «Io dico, eposso dimostrarlo, che nessun penitenziario riuscirà arecuperare nessuno. Nessuno di nessuno si può salvare.Quella della rieducazione è una balla, anzi una beffa.Chi rieduca chi? Ognuno gestisce se stesso e la propriavita. Quando ce la fa, se ce la fa». Assicura che il veroproblema è reggere, stare a galla. Ci vuole tempo, moltotempo, per educarsi alla vita tra le sbarre, imparare ad

sala colloqui. Passano cinque-sei minuti, sufficienti apensare che in un posto così un claustrofobico diven-terebbe pazzo in un lampo. Arriva il comandante dellapolizia penitenziaria. Cortese, sardo (come buona par-te dei suoi colleghi), esordisce precisando che «Mesinaè come se non ci fosse: tranquillo, calmo calmo, maiche ci abbia dato noia». Prima cancellata, enorme. Ilcomandante preme un pulsante e inizia l’operazione diapertura alla moviola. Si finisce in un grande stanzonecieco, soffitti alti e unica via d’uscita un altro cancelloche si trova dalla parte opposta, proprio di fronte.«Ancora un po’ di pazienza e siamo dentro il peniten-ziario», avverte la guardia.

Finora, dunque, si è trattato di attraversare sbarra-menti preventivi. Nello stanzone senza finestre c’è unpassaggio obbligato per i visitatori, un metal-detectordove (per evitare di perder tempo) si transita senzachiavi, senza monete, senza zaino, senza occhiali, senzaun grammo di metallo. Altrimenti un fischio e un lam-peggiante blu danno l’allarme.

Nudi o quasi alla meta, dopo questa sorta di check-up che spinge verso un nuovo cancello. Movimentazio-ne automatica. Oltre la porta, un immenso cortile grigioaddolcito da alcune aiuole. Il braccio dove sta Mesina èin un caseggiato sulla sinistra, primo piano. Per arrivar-ci, bisogna fare una sosta operativa davanti a un ingres-so sbarrato e attendere l’arrivo di un secondino che pe-sca con sicurezza da un cassetto di legno, appeso albraccio come un borsone, la chiave giusta.

Le chiavi, di proporzioni medievali, sono decine: co-me fa a individuare in un secondo proprio quella cheserve? Due rampe di scale si affacciano su un androne

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attraverso la concessione di piccoli benefici, privilegiinfinitesimali che tuttavia contano molto in un ambien-te dove di solito si hanno solo doveri e incidentalmentequalche diritto.

A questo si aggiunge il fatto che per Graziano la fo-bìa da spione è una specie di malattia infantile mai deltutto risolta. Lo ha accompagnato quando faceva il lati-tante ma anche (e soprattutto) quando si è trasferito inuna prigione di Stato. Il DNA barbaricino ne ha fattoun impareggiabile malfidato, assolutamente incapacedi stabilire un rapporto leale e aperto di primo acchito.Regola numero uno, diffidare. Regola numero due, evi-tare confronti. «Non è proprio il caso che io, proprioio, mi metta a dare pagelle». Manco una sillaba, dun-que, sul banditismo degli anni ’80, sui nuovi soci del-l’Anonima sequestri e l’affiorare di un inedito e impre-vedibile icerberg malavitoso. «Posso dire soltanto dime. Donne? Non ne ho mai preso, ai miei tempi non sidoveva. Bambini, neanche. Una volta me n’è capitatouno ma l’ho rimandato a casa: a me interessava il padre.Non mi ricordo quante persone ho rapito ma di una co-sa, a parte il fatto che qualcuno se lo meritava pure, so-no certo: le ho sempre trattate bene. Difatti mai unache si sia costituita parte civile ai processi. Neanche perun giorno, neanche quando le cose sembravano metter-si male, ho dimenticato che l’ostaggio è un uomo, cheavevo davanti un cristiano. I sequestri non si fanno conentusiasmo: se hai coscienza, pesano, danno fastidio.Quando leghi a un albero uno come te non sei altro cheun carceriere nel senso peggiore del termine. Se non seiuna bestia, te ne rendi conto. Li ho fatti i rapimenti, liho fatti. Non rinnego nulla».

avere rispetto di sé e degli altri. «Ogni mattina, quando tisvegli, devi autodisciplinarti perché ci sarà sempre un in-toppo, una delusione, una contrarietà a buttarti giù. Cipuoi provare, ma non riuscirai mai, assolutamente mai,ad avere un giorno davvero sereno. Basta che un sorve-gliante si svegli di malumore e ti becchi un rapporto».

I numeri ufficiali gli danno ragione, sono moltissimiquelli che non ce la fanno. In una popolazione carcera-ria di oltre cinquantasettemila persone (dati ministeria-li), i primi sei mesi del 2003 hanno fatto registrare qua-ranta suicidi. «Il fatto è che se vivi in un posto comequesto non puoi permetterti il lusso di essere fragile, al-trimenti crepi. La differenza rispetto a voi, voi del mon-do libero, è che qui si muore piano piano. E a morirenon sono soltanto quelli che trovano appesi a un len-zuolo e finiscono sui giornali accompagnati da un’im-mancabile interrogazione parlamentare. Anche noi altritogliamo il disturbo, senza fare rumore però».

Dietro il velo del pugile messo definitivamente kap-paò, Mesina nasconde una rabbia immensa. «Certe vol-te mi chiedo come ho fatto a vivere quarant’anni quidentro senza prendere un ergastolo, un ergastolo verodico». Il pericolo di spalancare le porte alla violenza stadietro i ritmi quotidiani della galera. «La tensione è nel-l’aria che respiri. Sperano sempre di farti passare dallaloro parte. Non te lo domandano apertamente, certidiscorsi bisogna capirli. È quasi un miracolo riuscire asopravvivere dentro posti come questi e non diventaredelatore. Qui non sai mai chi ti avvicina, perché ti avvi-cina e cosa vuole. Certe volte ti capitano in cella compa-gni che puzzano di spia a un miglio di distanza». Altrevolte la “collaborazione” di un detenuto viene stimolata

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hanno passato nemmeno lettere. Manco una per sba-glio». Per quanto tempo si può reggere una terapia co-me questa?, come si fa a non scoppiare? Stupisce che inuna condizione così greve, così usurante, Mesina riescaa conservare un briciolo di humour. Quando gli doman-dano di pronunciare un verdetto su se stesso, imputatoche ci vuole un treno a elencarne tutte le colpe, accettala sfida, sorride, infila un’immaginaria toga e pronunciaserissimo in nome del popolo italiano: «Un bel po’ dianni me li darei». Quanti, per la precisione, vostro ono-re? «Un bel po’, non sottilizziamo».

Durante l’ultima detenzione, l’apparato giudiziariocomunque non lo dimentica a riprova che forse ha ra-gione quel partito giustizialista secondo il quale «Mesi-na deve stare in carcere perché quello è il suo habitat».Agli inizi del ’97 riceve una comunicazione giudiziariaper “traffico di stupefacenti”. La faccenda riguarda ilperiodo di Asti, i giorni da vigilato speciale, subito dopole polemiche e i veleni legati al ruolo di emissario duran-te il rapimento di Farouk Kassam.

Contrariamente al solito, stavolta ha tuttavia un ruo-lo di secondo piano. I protagonisti sono altri: Carlo Ri-trovato e il clan familiare che gestiva insieme a lui lospaccio di droga nel basso Piemonte. La Dda (direzio-ne distrettuale antimafia) lo ha intercettato e scopertoproprio mentre era in corso un sanguinoso regolamen-to di conti: il cadavere di un uomo del boss Epaminon-da – tale Carmelo Nicosia – era stato fatto trovare in uncascinale vicino Alessandria. La proprietaria di quellacasa si chiama Carmela Ritrovato, è la madre di Carlo.

Il ravvedimento, per usare un termine che detesta, èevidente. Si coglie nelle sfumature di un discorso cheper uno come lui è difficile da fare, complicato. Inutilesperare di poter andare oltre: Graziano Mesina non ar-riverà mai all’autoflagellazione, nessuno riuscirà a ve-derlo in ginocchio invocare perdono, peggio ancoracontrattare la resa. Che pure c’è, sta dentro parole epensieri che lascia liberi di volare durante un colloquioconcesso nel mese di aprile 2003 a Voghera. Si tratta diun’intervista che non deve essere pubblicata subito.Vuole sia un assaggio, un rincontrarsi, riprendere il filodove si era lasciato. Una questione quasi privata.

Perché accade solo in quel preciso istante, dopo die-ci anni di silenzio e infiniti no a qualunque richiesta diincontro? Probabilmente scambiare due parole con uncronista è l’unico modo per far uscire all’esterno furoree indignazione. In Parlamento si discute in quei giornidella cosiddetta “pena certa” e Mesina, che l’ha sconta-ta fino in fondo (anzi di più) non riesce a mostrare anco-ra una volta il solito distacco, un’indifferenza remota eindecifrabile, come se certi dibattiti non lo riguardasse-ro affatto.

In una personalissima guerra con se stesso, sta pro-vando adesso a sconfiggere definitivamente lo spettrodella passività, dell’inerzia totale. Che ha, come tuttisanno, il retrogusto bruciante della disfatta.

Occorre tener conto poi che per non crollare, biso-gna avere un sistema nervoso decisamente solido. Unabuona via di fuga, per stare a galla e non comprometter-si, è la lettura. Ma non sempre si può, non tutti i capiconsentono. «Lei non se ne fa niente dei libri, mi dicevaun vecchio direttore. E per due anni, due anni, non mi

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cie di catena di Sant’Antonio, eroina che corre dall’unoall’altro quasi per gioco. Quando le domandano quantoabbia speso per comprare il chilo di droga, Angela Ot-taviano spiega di aver bruciato il fornitore (cioé Mesina)perché tanto «sapevo che doveva essere arrestato peruna storia di armi». Previsione assolutamente esatta: dilì a poco la polizia farà irruzione nel casale di San Mar-zanotto, scoverà il misterioso arsenale e neanche unaprova che possa collegarlo a Graziano.

Al processo per la droga gli imputati sono comples-sivamente trentasette, alcuni latitanti, altri rottamati co-me criminali e riconvertiti in lavoratori socialmente uti-li per la giustizia. I quali ribadiscono le famose accusede relato ma l’inconsistenza e la fragilità sono tali che di-venta quasi impudico portarle in aula. Nell’estate del2000 (a soli nove anni dall’apertura dell’inchiesta) Me-sina viene assolto. Il pubblico ministero non presentaappello, a dimostrazione che la cosa non stava né in cie-lo né in terra.

Il verdetto fa esultare la vecchia primula rossa delSupramonte che, a quel punto, si illude due volte: credeabbiano finito di tormentarlo e che la liberazione condi-zionale possa essere nuovamente vicina. Su queste spe-ranze accoglie l’ennesimo trasferimento (da Novara aVoghera), accantona in via definitiva l’idea di approda-re in un penitenziario sardo e si prepara a tornare in li-bertà. Su quest’obiettivo lavorano a tempo pieno unsuo storico difensore (Gabriella Banda) e un nuovo,grintoso avvocato: Enrico Bucci. Il quale, sicuro dellecarte che ha in mano, si limita a una breve dichiarazio-

Nel mondo della mala la chiamano affettuosamente “lacartomante” per la passione e l’abilità a farsi raccontareil destino da ori e bastoni.

E Mesina? Entra nella storia da una porticina secon-daria. A chiamarlo in causa, sia pure non direttamente,sono quattro collaboratori di giustizia ospitati in una lo-calità segreta e sottoposti al programma di protezione. Iloro nomi servono per capire il teorema del pubblicoministero: Giovanni Ritrovato, Angelo Bertello, Ales-sandro Mancini e Sergio Ottaviano. Al pm riferiscono(perché non l’hanno saputo personalmente) di aver ap-preso dalla madre di Sergio Ottaviano che Mesina leaveva ceduto un chilo di eroina. Nell’operazione entraanche una delle figlie della “cartomante”, Giuseppa.Che sa tutto, assicurano i pentiti. Ma la donna – sentitadal magistrato – nega con decisione. Altrettanto la ma-dre di Ottaviano.

Qual’è la verità? Tecnicamente, la loro è un’accusaper sentito dire: così la definirebbe chi non ha culturagiuridica e consuetudine col codice penale. Per il voca-bolario forense ha ben altra etichetta e solennità: de re-lato, è un’accusa de relato. Cioé sempre per sentito di-re, ma detto – bisogna riconoscerlo – in modo più ele-gante e un tantino ambiguo.

Sono credibili i quattro pentiti? Mesina, che ha sem-pre condannato gli spacciatori, fa sentire la sua voce du-rante l’udienza davanti al giudice per le indagini preli-minari: «Non so nulla di questa storia. È un’infamia pergettarmi altro fango addosso». A dargli una mano c’èqualche stranezza che affiora qua e là nel fascicolo pro-cessuale dove, per dirne una, la droga passa di mano inmano senza che venga versata una lira. Sembra una spe-

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E Mesina, che per un attimo ci aveva sperato, tornaal palo. Nel frattempo, gli arriva anche una nuova con-danna: stavolta dal tribunale di Nuoro. È colpevole di“favoreggiamento” per aver violato la legge sul bloccodei beni durante il caso-Kassam: due anni e tre mesi direclusione. Si salva invece per un pelo (prescrizione)suo nipote, Raimondo Crissantu. Ed è proprio su que-sto che al momento del processo d’appello si registra unclamoroso patteggiamento tra accusa e difesa. Vale lapena di riportarlo com’è apparso sulle pagine dei gior-nali: La condanna di Graziano Mesina in cambio della li-bertà per suo nipote, Raimondo Crissantu. Accordo senzaprecedenti...

Già, senza precedenti. Il Procuratore generale Gio-vanni Antonio Mossa rinuncia a impugnare la sentenzadi primo grado, in particolar modo nella parte che rico-nosce una serie di attenuanti per Crissantu evitandogliil carcere, a patto che Mesina accetti in silenzio la suacondanna. È un dannato gioco delle parti che acconten-ta tutti: Mesina, che vuole salvare un nipote colpevole inquella vicenda di avergli soltanto fatto da autista; il pm,che riesce in questo modo a chiudere una vicenda imba-razzante: per l’amministrazione della giustizia, per loStato e una serie di figure istituzionali che, nel corso delsequestro e dello svolgersi delle trattative, hanno fattosentire i loro fiati riuscendo a non apparire mai.

L’intesa (un solo colpevole anziché due in cambio diuna prescrizione) viene siglata a dicembre del 2000 difronte al giudice monocratico. Tutto si svolge secondogli accordi. Il pubblico ministero interviene brevemen-te per dire che Mesina ha certamente «posto in essere ilreato di favoreggiamento poiché ci sono intercettazioni

ne: «Il nostro assistito chiede, in base a precise disposi-zioni di legge, la revoca dell’ergastolo. La grazia? Nonintende presentare un’istanza di questo tipo, per ora.Non sta cercando la pietà ma semplicemente l’applica-zione di una norma».

In realtà la questione non è così semplice: si tratta diottenere l’alleggerimento previsto da un articolo del co-dice di procedura penale (il 671), entrato in vigorequando Mesina stava in carcere già da un pezzo, e que-sto assottiglia le possibilità di successo. A febbraio del2001 si inizia a discuterne nel corso di un “procedimen-to di esecuzione” presieduto da Giovanni Mosca.

Durata dell’udienza, assente l’imputato, quattro mi-nuti: il tempo per depositare sul tavolo del Tribunaleuna rispettabile torre di carte e aspettare il responso.Che arriva, a strettissimo giro di posta: dieci giorni. Ac-cogliendo le tesi del pm, il giudice Giovanni Mosca re-spinge l’istanza: improponibile. Secondo la sentenza,non è affatto dimostrabile che i vari reati compiuti daMesina siano ascrivibili «a un medesimo disegno crimi-noso». Manca, direbbero i dottori della legge, l’elemen-to della continuazione. Dunque va bene il “cumulo”,niente revoca dell’ergastolo, ancora meno la liberazionecondizionale. Fine.

Discutere su questo tema richiede una sconfinata co-noscenza della dottrina. Di certo tutto si è giocato trapieghe interpretative, busillis da specialisti ed è tempoperso cercare di andarci a fondo. Significativo che, abocciatura incassata, l’avvocato Bucci annunci un (inu-tile) ricorso in Cassazione ma riconosca sportivamented’essersi arrampicato sugli specchi: «Era tutto in salita,già in partenza».

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pentito (tanto per cambiare), Paolo Littera. Che a uncerto punto della sua vita di trafficante trascina sottoprocesso nientemeno che un colonnello e un marescial-lo della Finanza. A ruota libera, finalmente loquace nel-lo status di reo confesso, rivela un terribile intreccio traforze dell’ordine e spacciatori. Mentre corre sul filo del-la memoria nel lodevole tentativo di vuotare tutto il sac-co, si ferma un attimo al 1992 (anno del sequestro Kas-sam e di Mesina in libera circolazione) per raccontareche quell’anno Graziano aveva ricevuto in agosto alcunisuoi amici campidanesi. Segue doveroso spuntino d’o-spitalità, che di fatto si rivela una colazione di lavoro al-lorché Mesina comunica di essere stato incaricato dalclan calabrese dei Tornaghi di recuperare un vecchiodebito di Littera e compagni: una partita di eroina nonpagata. Tradotto in lire, quattrocento milioni. La rispo-sta dei “campidanesi” è stata sincera, cuore in mano:vorremmo ma non abbiamo soldi. Per trovare una solu-zione, si dichiarano tuttavia disponibili a rimboccarsi lemaniche, a scendere (anzi a tornare) in campo. È stato aquesto punto, sostiene Littera, che Mesina ha offertotre chili di eroina a patto che quelli garantissero di sal-dare coi primi guadagni quel conticino rimasto in so-speso.

Non si sa se le accuse di Littera abbiano centrato ilbersaglio. Il sostituto procuratore di Cagliari, MarioMarchetti, ha spedito una comunicazione giudiziaria aMesina e s’è tuffato in un’inchiesta che non è stata anco-ra chiusa. L’ipotesi da confermare è quella di un ruolosimil-gangster: trafficante e, nei ritagli di tempo, addet-to al recupero credito per conto terzi. Dentro questoipotetico ritratto è riconoscibile il più celebre orgolese

e testimonianze» che dimostrano il lavoro di emissario.Lavoro, detto tra parentesi, che Graziano ha svolto qua-si alla luce del sole. Che si stesse occupando del piccoloKassam erano al corrente anche le pietre del Supramon-te: non era forse questo il motivo per cui il giudice disorveglianza di Torino s’era adoperato per fargli ottene-re la libertà condizionale?

Un tardivo dovere di cronaca impone di ricordareche, in occasione dell’udienza col giudice monocratico,il difensore di Mesina (avvocato Bernardo Aste) ha lan-ciato qualche pietra nello stagno. «Ha pagato lo Stato,lo sanno tutti», ha detto in aula, «lo sanno alla Procuradistrettuale di Cagliari, lo sa Vincenzo Parisi, che all’e-poca era il capo della polizia. Hanno nomi, cognomi eindirizzi eppure non si muove foglia, l’unico che devepagare è Mesina».

Sepolta frettolosamente nell’effimera cronaca deiquotidiani, questa frase non ha lasciato segno. Più o me-no, lo stesso era avvenuto in Tribunale a Tempio Pausa-nia quando Mesina venne sentito come testimone alprocesso contro i rapitori di Farouk Kassam. Le parolesono state, grosso modo, le stesse. La reazione in foto-copia.

E non è finita. Nonostante lo spettacolare flop diAsti, il binomio droga & pentiti torna in nuova versio-ne: cambiano i collaboratori di giustizia e le quantità distupefacente, resta in piedi solo l’imputato di sempre,Mesina. Fossimo allo stadio in curva nord, finirebbe suuno striscione: Graziano forever.

Ma qual’è, stavolta, la storia? Tutto comincia con un

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gnifica mostrare la faccia incarognita di uno Stato chenon sa perdonare e che in ogni caso non è stato in gradodi favorire manco un’ombra di redenzione.

È intorno a queste riflessioni che nasce con tuttaprobabilità l’idea di cedere, alzare bandiera bianca echiedere la grazia. Se ne parlava da un po’, da quando aTorino gli avvocati Banda e Bucci l’avevano messo inconto nel caso fosse stata respinta l’istanza di revocadell’ergastolo. Il problema è che Mesina non ne vuol sa-pere. Resiste alle pressioni dei familiari e pare quasi un“prigioniero politico” che voglia far arrivare alle estre-me conseguenze, far esplodere, le contraddizioni di unsistema che da un lato ripudia la pena di morte e dall’al-tro finisce per applicarla, sia pure chiamandola in un al-tro modo e senza la distaccata assistenza di un boia. Neiprimissimi mesi del 2003 continua a rifiutare incontricoi giornalisti e, visto che c’è, anche con avvocati che divolta vengono incaricati di ammansirlo, mostrargli l’u-nica via di salvezza: quattro righe indirizzate al Presi-dente della Repubblica.

Graziano prosegue coi suoi rifiuti («Ho detto no eno») e finirebbe col farcela se non commettesse un pic-colo errore: sottovaluta la cocciuta testardaggine di unasignora che da qualche anno va a trovarlo con regolari-tà. E che sul tema della grazia inizia a fargli il lavaggiodel cervello.

Greca Deiana è una sarda che abita da tempo a Mo-dena. Sposata, madre di due figlie, è vecchia amica di fa-miglia dei Mesina. Non proprio lei ma suo padre, a vo-ler essere precisi. Un incontro, che poi è una folgorazio-

d’Italia? Impossibile azzardare un pronostico, disegna-re un finale che resta tutto da scrivere.

Al di là dei confini fra teorie e verità, è comunqueuna nuova, pesante mattonata sui denti. Un bombarda-mento che non si ferma neppure dopo il ritorno in car-cere del ’93. Qual’è il vero Graziano Mesina? Al palazzodi giustizia di Cagliari (e non solo) sono fermamenteconvinti che il vecchio bandito non sia mai morto. Dico-no: è vero che appartiene alla vecchia generazione cri-minale ma è anche uno che sa adeguarsi rapidamente aitempi: e se il traffico di droga ha sostituito i reati d’untempo, perché non tentare?, perché non provarci? Do-potutto, ritengono in Procura, le coincidenze sono trop-pe per non destare sospetti.

L’altra immagine è profondamente diversa: tratteg-gia un Mesina diverso dal fuorilegge che è stato in gio-ventù, rivela un vinto che da molti anni ha riscattato sestesso e che, soprattutto, ha scontato tutto ma propriotutto. Quanto dovrà attendere perché un nuovo tribu-nale lo dichiari colpevole o lo assolva?, quanto possonovalere le dichiarazioni (senza riscontro) di un pentito?

Forse eccedono quelli che parlano di persecuzionegiudiziaria: il fatto è che non se ne vede la fine. Tra clanRitrovato e clan Tornaghi, tra armi custodite nel postopiù sbagliato del mondo e fantasiosi progetti per seque-stri internazionali, la figura di Mesina appare dilatata,ancora più mitica di quella relegata alle imprese in Su-pramonte. C’è da chiedersi quanto debba durare il pur-gatorio di un uomo, se quarant’anni di carcere non sia-no un’equa punizione. Proseguire su questa strada si-

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Adriano Sofri, che pure ha uno schieramento istituzio-nale di tutta eccezione in sua difesa. Visite a Roma, aModena, a Milano, a Bologna. Nei tempi morti tra unincontro in carcere e l’altro, Greca Deiana batte inutil-mente una pista diplomatica, sottotraccia, ma i risultatiappaiono quasi subito deludenti. Resta, ultima spes, lagrazia. Che, tenuto conto del comportamento da dete-nuto di Graziano e del fatto che non ha più nulla dascontare, potrebbe anche essere concessa. O quanto-meno ci si può seriamente sperare. Il guaio è che la gra-zia bisogna chiederla, metterla per iscritto, nero subianco. E quello non ci pensa manco lontanamente.

Inizia così un silenzioso lavoro ai fianchi, fegato mil-za fegato milza, fino a quando si avvertono i primi se-gnali di cedimento. Mesina mostra disinteresse verso lastrada politica e neanche un briciolo di curiosità versola procedura per ottenere la grazia. Greca Deiana peròinsiste, incalza il fantasma del vecchio bandito e battesul diritto-dovere di tornare libero, ricominciare in unposto qualunque con un lavoro qualunque. Non è indi-spensabile sistemarsi a Orgosolo, va bene un paese d’I-talia purché sia. L’unica necessità, se proprio vogliamochiamarla così, è trascorrere una giornata in campagna,almeno una. «Ho bisogno di sentire gli odori di quan-d’ero bambino, ho bisogno di vedere dall’alba al tra-monto gli alberi e la luce dei monti».

Il desiderio-campagna è una buona leva. Convintacom’è che in fondo la sua sia solo una battaglia di giusti-zia e civiltà, Greca Deiana se ne serve per far uscire Gra-ziano dal torpore carcerario che lo sta lentamente allon-tanando dal mondo cancellandone sogni, convinzioni,speranze. Senza saltare un solo appuntamento, per due

ne, lo ricorda però molto bene. «Ero una ragazzina,avrò avuto dodici, tredici anni. Non erano ancora ini-ziati gli anni ’70, lo rammento con precisione. Mio bab-bo mi teneva per mano, eravamo a Orgosolo...».

Erano a Orgosolo quando d’un tratto appare Gra-ziano. Se la memoria non tradisce e l’anno è giusto, inquel periodo Graziano aveva 26 anni, un fisico atletico adispetto dell’altezza, capelli nerissimi e neppure un ettoin più. Parlava poco (anche allora), in compenso man-dava lampi con gli occhi. «Di lì a breve l’hanno preso esubito dopo ha cominciato a fare il latitante».

Assicurando di parlare con la voce del cuore (masenza sentimentalismi di genere), Greca Deiana giurache quella visione le si è stampigliata nel cervello. Emoltissimi anni più tardi, quando quel giovanotto eraormai un detenuto “fine pena mai”, le è tornata in men-te. Ha letto, s’è informata, ha scoperto che era tramon-tata anche quella certa pruderie intellettualistico-bor-ghese che aveva coltivato epica e protezione.

Quando decide di occuparsi del caso, Mesina è in-somma finalmente solo, un detenuto qualunque, un nu-mero nel casellario del Dipartimento dell’amministra-zione penitenziaria. «Mi sono ricordata all’improvvisoquegli occhi. A costo di sembrare ridicola, dico che era-no occhi di un uomo buono, generoso, leale. Un uomoche ha pagato tutto quello che aveva da pagare e che oradeve tornare libero».

Grazie a una serie di aderenze d’un certo peso, simuove per cercare una strada qualunque che porti allalibertà. Contatta deputati e senatori, di destra e di sini-stra, parroci e principi della Chiesa, rilancia il caso Me-sina con un fervore che forse non può vantare neanche

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persone che sanno. Pronunciare, in buona sostanza,quello che in ogni caso sarà l’ultimo verdetto.

In questa fase, l’unico senza diritto di parola è pro-prio Mesina. Che comunque non ruffianeggia. Per ra-gioni di dignità e di coerenza, ripete che di solito la gra-zia «la chiedono quelli che stanno scontando una con-danna». Lui ha concluso, da un pezzo. E si appella (siappellava) al rispetto delle regole dimenticando chenella patria del diritto le regole esistono per costruirciintorno le eccezioni. Valide per tutti, quasi tutti.

anni questa terapia va avanti con la pervicacia dell’ana-lista che ha scovato la genesi del trauma: scava, insiste,lascia che la memoria faccia risalire da abissi profondisquarci di ricordo: la famiglia, i genitori, l’adolescenza.La vita. Non ce n’è abbastanza per reagire, finalmente?

Conclusa la parte teorica, il salto verso quella praticaè un gioco. All’avvocato Enrico Aimi, consigliere regio-nale di An, viene affidato l’incarico di stendere la “do-mandina” da spedire al Capo dello Stato. Aimi, penali-sta esperto e sensibile, si reca a Voghera un afoso lunedìdi giugno. Alle agenzie di stampa affida un discorso effi-cace e scontato: un paese civile, una democrazia, nonpuò tollerare che Graziano Mesina resti ancora in pri-gione. Battute invano tutte le strade contemplate dalcodice penale, non resta che presentare istanza di gra-zia. «Mesina firmerà», assicura prima di varcare il can-cello elettronico del penitenziario.

In realtà non ne è sicurissimo. Sa che il suo cliente haun carattere particolare, basta una frase sbagliata o unabotta di cattivo umore e salta tutto.

Il 21 luglio l’avvocato Aimi esce dal carcere intornoalle tredici. «Ha firmato», dice rifiutandosi di entrarenei particolari di un’istanza dove – per espresso voleredi Mesina – sono elencati sprazzi di vita barbaricina, laSardegna rovente dell’Anonima, gli incontri più o menoobbligati che un giovane balente doveva fare.

Prima della fine del mese, la pratica è a Roma, sul ta-volo del ministro di Grazia e Giustizia che deve espri-mere un parere. Per farlo, dovrà ricucire la carriera car-ceraria, le condanne, i comportamenti, le opinioni di

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Capitolo XV

La grazia negata

Il giorno di sant’Ilaria, 12 agosto, il detenuto Grazia-no Mesina s’è svegliato alla solita ora: le cinque e mezzo.Ha acceso la tivù (televideo) e avviato le pulizie del suodomicilio coatto: cella numero 5, tre metri per uno e ot-tanta, secondo piano del carcere di massima sicurezzadi Voghera, vista cielo. Che quella mattina era strana-mente cupo, un tetto di nuvolaglia.

La seccatura, in genere, riguarda i due mobiletti in-chiodati al muro: non si sa da dove arrivi ma sono sem-pre pieni di polvere. Finito di rassettare cella e ritirata(water e lavandino protetti da una porticina, privilegiodei reclusi di lunga navigazione), Mesina s’è preparatol’unico caffè della giornata, ha indossato jeans azzurri euna t-shirt nera un po’ elasticizzata: il che aiuta, vistoche la muscolatura non è più quella di un tempo. Se èsolo per questo, anche i capelli non sono più gli stessi:quelli nerissimi degli anni della latitanza sono evasi met-tendo in luce un cranio tondo, lucido.

Alle 11,30 di quel giorno, proprio mentre incombe-va la solita noia (solita, da quarant’anni), una guardiacarceraria s’è materializzata davanti alla porta della cel-la numero 5: «Ti vogliono all’Ufficio Matricola». Inqueste circostanze non è il caso di perdersi in chiacchie-

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l’avvocato per mettere a punto chissà quale reazione eavverte subito Ballore, il più anziano dei fratelli. Alla vi-gilia dell’Assunta, festa grande del paese, esce e proba-bilmente si sfoga con qualcuno svelando una notiziache, in un attimo, vola.

Al Tribunale di Pavia il dottor Lorenzo Fabris è as-sente, ferie. Un cortesissimo cancelliere, che si occupaproprio di questo genere di pratiche, spiega il significa-to della frase scritta in burocratese-giudiziario: «C’è po-co da interpretare, il concetto è limpido. L’iter per otte-nere la grazia si è concluso: l’istanza è stata rigettata».Significa che non c’è più speranza? «Certo, significaproprio questo». Sarebbe bello, a questo punto, sapereche ne dice il ministro di Giustizia, il leghista RobertoCastelli, che ha fatto smentire le voci sulla bocciatura diMesina. Parole testuali del suo portavoce: «La praticanon è stata affatto respinta. È ancora in istruttoria».Una bugia, una pietosa bugia dettata da chissà quali ra-gioni politiche: la domanda di grazia è stata cestinata. Ilnominato in oggetto torna al destino che gli spetta: finepena mai.

Mercoledì, 18 agosto, il carcere di Voghera è la soli-ta gabbia color alluminio. Sbarre sottili, alte sei-settemetri, avvolgono un caseggiato grigio dove, ci fosse unfilo d’aria, potrebbero sventolare orgogliosamente iltricolore d’Italia e la bandiera europea, appese stanca-mente a una finestra. Mentre si aspetta di poter entra-re, in un angolo lontano appare un detenuto speciale: èun pastore tedesco male in arnese, spelacchiato, ma-gro, occhi tristissimi e zampata senza energia. Esce dauna cuccia sistemata sotto il sole a tenaglia, si trascinacon fatica fino alle sbarre e ci infila la testa nella spe-

re, anticipare domande che possano soffocare l’ansia.«Eppoi, l’ansia di chi? Io, anche quando sono furioso,sembro sereno».

Sembrando sereno, il detenuto Graziano Mesina haseguito la guardia in un percorso tutt’altro che familiarenonostante sia a Voghera dal 2000: androni tinteggiatidi celeste madonna, cancellate fino al soffitto, portonci-ni blindati coi cristalli corazzati. Finché non si chiudeuna porta, quella successiva resta sprangata: dirige iltraffico una lucetta gialla che lampeggia.

Il turnista dell’Ufficio Matricola è gentile e sbrigati-vo. «È arrivata questa per te. Firma qui per ricevuta».La lettera ha lo stemma della Repubblica ed è firmatadal magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Pa-via. Pochissime righe indirizzate alla direzione della Ca-sa Circondariale di Voghera: «Per dovere d’ufficio, tra-smetto, copia lettera del Ministero della Giustizia, conla quale si comunica la risoluzione negativa adottata sul-l’istanza di grazia avanzata dal nominato in oggetto».Ora, al di là del fatto che la virgola non ci stava a far nul-la dopo il verbo trasmettere, il significato resta ambi-guamente chiaro: risoluzione negativa si riferisce al pa-rere del Ministero o proprio al fatto che l’istanza del no-minato in oggetto sia stata definitivamente rigettata?Mesina, che del pessimismo ha fatto una religione laica,approfitta immediatamente della possibilità di poterchiamare casa (quattro telefonate al mese). 0784, prefis-so di Orgosolo, e poi il numero di Peppedda, la sorella.«Non mi fanno uscire, niente grazia». Le comunica labrutta notizia parlando in fretta ma senza gridare pernon far capire che dentro sta esplodendo. Peppeddaperò lo conosce bene: incassa il colpo, cerca inutilmente

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pagando, e continuerà a pagare, per un’aberrazionegiuridica che ha equiparato la somma di pene diverseall’ergastolo. Vecchia storia, non vale la pena di per-derci la testa. «Non parlare di me, parla del sistemacarcerario».

È un Mesina senza vanità e gonfio di livore quelloche avanza, a piccoli passi, da un androne lontano. Sa-luta, sorride stretto stretto ed entra direttamente nellasaletta-colloqui lasciando una leggera scia di deodoran-te. Sessantadue anni: e stavolta, a parte gli occhi chesembrano senza tempo, si vedono tutti. «Faccio quat-tro ore di aria al giorno, due al mattino e due alla sera.Poi, qualche movimento in cella». Per tornare (o quasi)quello di una volta servirebbe ben altro. «È la vita se-dentaria che ti frega».

Si siede, mette lo sguardo a fuoco, dà un’occhiata al-la copertina di un libro che racconta la sua storia (e cheha già letto), ridacchia osservando un collage di fotoche lo riporta agli anni calibro 12, alla stagione del fuo-rilegge balente. Non aspetta domande, non gli interes-sa soddisfare curiosità di cronaca. Va subito al dunque,a valanga. Come se aspettasse da sempre di gridare dueo tre cose all’altro mondo, oltre le sbarre.

«Lo sapevo che non mi avrebbero concesso la gra-zia. Non regalano mai nulla a persone come me. Con leultime due condanne dovevo scontare otto anni e tremesi. Ne ho fatto dieci, non bastano?»

– Un’ultima speranza, Ciampi.«Sì, ma ci sono complicanze legate alla grazia per

Adriano Sofri. Comunque: se vogliono farmi tornarein libertà, per quello che sono e per la galera che hofatto, bene. Altrimenti, pazienza. Io non chiedo più

ranza di una carezza. Scodinzola, non abbaia: nonsembra tagliato per i compiti di vigilanza. Avesse pureuna ciotola d’acqua a disposizione forse sembrerebbemeno depresso.

Dopo il controllo dei documenti, il passaggio sotto ilmetal detector, le verifiche di legge, gli scricchiolii deicancelli che si aprono con inesorabile lentezza; dopo leporte blindate, la musica sinistra di enormi chiavi d’ot-tone e il rumore dei passi amplificato dall’eco in galleriedeserte, si arriva finalmente alla sala-colloqui: un tavoloimpolverato, una vecchia poltrona d’ufficio (sfondata),due sedie che gemono al minimo movimento.

Graziano Mesina passa per essere un detenuto tran-quillo. Perfino solitario non fosse per l’amicizia con l’u-nico altro recluso sardo di Voghera, Mauro Addis (diCarbonia, in galera per terrorismo). Addis è vegetaria-no, Mesina astemio: per ferragosto si sono organizzatiun pranzo che era una via di mezzo tra gli hippy e le or-soline. «Però poi c’è il problema degli extracomunitari.Sono tanti, non hanno un centesimo e dunque non pos-sono comprare niente allo spaccio. E che faccio, mimetto a mangiare mentre uno mi guarda? A questi, dababy sitter bisogna fargli».

L’amministrazione carceraria passa la colazione (an-che dietetica), un pranzo (primo, secondo e frutta),una cena da ospedale (minestrina e un pezzo di for-maggio). Il vino c’è, si può acquistare un quarto di litroalla volta «ma fa talmente schifo che bere acqua diven-ta un piacere». Le celle singole sono in dotazione ai so-li detenuti anziani, cioè a gente come Mesina che scon-ta l’ergastolo nonostante nessun Tribunale abbia pro-nunciato una sentenza di questo tipo contro di lui. Sta

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mettono le manette, si ammalano e finiscono in clinica?Poi trovi sempre uno che in televisione spiega che certagente resta traumatizzata per una semplice ragione: nonè abituata alla galera. Scusate, e io? Io non sono nato ingalera e dopo quarant’anni, non so come non so perché,ma non mi ci sono ancora abituato. Sarò allergico?»

– Come si affronta una giornata in carcere?«Un grande aiuto arriva dal lavoro, se te lo danno. Io

ho fatto l’imbianchino per undici mesi, ho tinteggiatotutta la sezione. Non è che diventi ricco, tre euro all’ora,ma almeno passi il tempo».

– Anche con l’ergastolo?«Anche con l’ergastolo, a patto che lo si chiami come

deve essere chiamato: condanna a morte».– Altre distrazioni?«La televisione. Io ce l’ho in cella, prendo dodici-tre-

dici canali. Mi piace tenermi aggiornato sulla politica,nazionale e internazionale. Poi seguo con interesse letrasmissioni che parlano di ambiente e animali: Geo &Geo, Quark, roba così».

– Nient’altro?«Nient’altro, nient’altro: cosa volete che guardi un

detenuto? Donne, trasmissioni dove ci siano donne:mettono malinconia e accendono bei ricordi».

– A proposito di politica: che sa della Sardegna?«So che nemmeno la miglior gelateria della Costa

Smeralda appartiene ai sardi. Perfino i gelati. E questomi dà fastidio, mi fa dire che noi sardi dobbiamo ripren-dercela la Sardegna, nella legalità».

– La fede attenua la solitudine?«Se ce l’hai. Io rispetto, anzi invidio quelli che credo-

no perché si sentono più consolati. Ogni tanto mi ven-

niente. E non mi suicido, tranquilli. Aspetterò di mo-rire in carcere».

– Semilibertà?«Fossi in Sardegna, probabilmente sarei fuori, in li-

bertà condizionata. Qui niente, qui non concedononiente a nessuno, manco a quelli che hanno poca robada scontare...».

– I diritti dei detenuti esistono.«Quali diritti, quale diritto? Il diritto non esiste, esi-

ste invece la discrezionalità di un magistrato che diventaun giudice supremo, un dio che decide della tua vita. Eil guaio è che, intanto, qui si scoppia».

– Chi scoppia?«Manco ve lo immaginate perché sui giornali fini-

scono solo quelli che s’ammazzano. Possibile che nes-suno si sia accorto che c’è una drammatica emergenza-carceri? Ci sono malati terminali che non vengono assi-stiti come si dovrebbe, ci sono difficoltà ad avere medi-cine. E inoltre devi fare i conti con la testa».

– Per sopravvivere?«Certo. Dipende dal carattere se riesci a tenere o a

non tenere. Certi giorni sto male, sono incazzato perqualcosa ma ai miei compagni mostro sempre una fac-cia tranquilla».

– Perché?«Perché se vanno giù anche i vecchi, buona notte. È

per questo che dico e ripeto: non fatevi speranze, non il-ludetevi, pensate sempre al peggio che è meglio. Di soli-to l’orrore della galera rimbalza sui giornali quando cifinisce dentro uno di serie A».

– Chi sono quelli di serie A?«Avete presente quegli industriali che, appena gli

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Capitolo XVI

Ritorno a casa

Respinta ad agosto, la grazia risorge inaspettatamen-te a novembre. In silenzio o quasi. Il direttore del carce-re di Voghera convoca Mesina nel suo ufficio una setti-mana prima che la notizia esploda sulle agenzie di stam-pa. Gli dice, in via amichevole e riservata, che il ministrodella Giustizia ha depositato il suo fascicolo al Quirina-le esprimendo parere favorevole. E quindi.

Quindi Graziano, che ha fatto della diffidenza e deldisincanto la sua seconda pelle, non ci crede. O meglio,dà una risposta che potrebbe apparire sprezzante e in-vece lascia trasparire soltanto un disperato senso d’atte-sa: «Parere favorevole? Bene, aspettiamo e vediamo».Nessuna emozione: i balentes, compresi quelli over ses-santa, non devono mostrare debolezze.

Il problema è che qualcosa non quadra, i conti nontornano. Nella sua cella, Mesina conserva la comunica-zione del giudice di sorveglianza di Pavia che appenacento giorni prima gli aveva annunciato il peggio: istan-za di grazia rigettata. Due righe secche, senza commen-to o un briciolo di spiegazione.

Cos’è accaduto nel frattempo?, chi e perché ha cam-biato idea? Nessun segnale apprezzabile dall’esterno,niente che aiuti a capire. A Roma, che è la città dove

gono però dei dubbi: se, come dicono, l’aldilà è il postoideale per ogni buon cristiano, perché nessuno ci vuoleandare?»

– Insomma, in chi ha fede lei?«Vivo giorno dopo giorno, senza illusioni. Ho fede

nel chirurgo che mi ha riattaccato mezzo dito tranciatoda una porta blindata. È proprio finito a terra, il dito. Èsuccesso l’anno scorso. Siamo andati di corsa all’ospe-dale io, le guardie e il dito. Il dottore mi ha detto: ci pro-vo ma non ci spero. E io: vabbe’, intanto ci provi. Mi èandata bene».

– Guarito?«Il dito è tornato al solito posto, non è sensibilissimo

ma non si può avere tutto. Alla terapia dopo l’interven-to chirurgico ho pensato io: ogni tanto, con una lamettatagliavo schegge di pelle morta. Lavoro di precisione, vafatto con cura. Togli oggi togli domani, tutto è tornato aposto. Capito? Per non morire devi deciderlo prima ditutto dentro di te: non voglio, non devo morire».

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beri. Resta tuttavia una certezza: a Mesina la grazia è sta-ta negata e nulla autorizza a credere ci possa essere unripensamento. Eppure il ripensamento c’è stato ma nes-suno ne chiederà conto al ministro. A cose ormai fatte,in piena euforia da celebrazione televisiva, Castelli vaaddirittura in tivù con Mesina. Officia un conduttorefelice e curiale nella sua untuosità cardinalizia. Nel cor-so della trasmissione tivù, si chiacchiera, si parla di ta-glie per favorire la cattura degli assassini di un benzi-naio ucciso a Lecco, si litiga sulla riforma giudiziaria ap-pena varata ma neppure una domandina semplice sem-plice sulla grazia che prima non c’era e adesso c’è. Nonha questo tipo di curiosità neanche Gavino Angius, pre-sidente dei senatori Ds, che pure si dichiara soddisfattoper la liberazione di Mesina.

L’interrogativo su cosa sia avvenuto tra agosto e no-vembre del 2004 resterà, con tutta probabilità, un mi-stero. Vietato dire che il ministro ha cambiato idea. Ilsuo portavoce ricorda di aver sempre sostenuto una so-la tesi: «La pratica della grazia è in itinere». Vorrà direche avranno capito male i giornalisti, il direttore del car-cere di Voghera e il giudice di sorveglianza di Pavia ches’è affrettato a comunicare un’informazione che evi-dentemente non aveva alcuna importanza: la grazia erain itinerere e lui ha creduto, anzi l’ha messo per iscritto,che fosse stata respinta.

Il silenzio è desolante e assoluto quando l’Ansa lan-cia un flash alle 12,54 del 23 novembre: Ciampi graziaMesina. Nient’altro.

La procedura prevede la scarcerazione immediatama bisogna fare i conti con un ultimo refolo di sfortuna:c’è sciopero dei magistrati e quindi nessuno invia l’ordi-

tutto succede e tutto si decide, il dibattito politico sta-gna sul caso-Sofri e sulla intenzione del Presidente del-la Repubblica di decidere in autonomia. Ovvero infi-schiandosene del parere del ministro Guardasigilli.Che c’entra Mesina con tutto questo? A possibili svi-luppi positivi del caso non accenna il deputato diessinoFrancesco Carboni che lo va a trovare in carcere. Nonne parla nemmeno il difensore, avvocato Enrico Aimi,che si limita a inviare una lettera di incoraggiamento:non darti per vinto. Non ne sa nulla, infine, neanche lacrocerossina della grazia, quella Greca Deiana di Mo-dena che da anni bazzica per parrocchie, ministeri e se-greterie di partito nella speranza di riuscire a tirarlofuori dalla cella.

Negli ambienti parlamentari si parla con una certainsistenza di un inciucino carcerario, un’operazionetrasversale che mette insieme (una volta tanto) maggio-ranza e opposizione. Circola, circolerebbe, una lista dipersone da graziare. Lista da girare a Ciampi in cambiodi un benevolo silenzio-assenso non appena verrà con-cessa la libertà a Sofri. I leghisti gradirebbero, per esem-pio, la scarcerazione dei lagunari che hanno asssaltatoanni fa il campanile di piazza san Marco a Venezia. Al-leanza Nazionale invece vedrebbe volentieri il ritorno acasa di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. Nontrapela, stranamente, la lista dei candidati di Forza Ita-lia: i maligni dicono che il premier avrebbe solo l’imba-razzo della scelta, altri propendono per difficoltà su unaccordo interno.

Illazioni. Alla luce del sole non c’è nulla, men chemeno ci potrebbe essere un elenco di detenuti che innome di una perversa par condicio possono tornare li-

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volante c’è Ballore, fratello maggiore di Graziano, cop-poletta sarda di velluto, occhi immobili su un punto im-precisato davanti a lui. Ballore finge di non sentire chibussa ai vetri, di non vedere le facce dei giornalisti che sispiaccicano sul parabrezza implorando una dichiara-zione qualunque. Forse, ma proprio forse, sorride im-percettibilmente quando qualcuno gli pone una do-manda iper-cretina: scusi, è venuto a prendere suo fra-tello?

Con aplomb ben diverso, passo sicuro e quasi mar-ziale, qualche ora prima aveva fatto il suo ingresso incarcere l’avvocato Aimi. Tutti sicuri che entrasse euscisse nel giro di qualche minuto insieme a Graziano.Invece nulla. Dopo quasi tre ore di permanenza, il lega-le si fionda all’esterno, rallenta davanti allo schieramen-to di microfoni e distilla un’ovvietà: «Ancora pochi pas-si e Graziano Mesina sarà un uomo libero». Poi si allon-tana, imbufalito.

La verità salta fuori in un baleno. Aimi, se una certaricostruzione sussurrata è vera, è entrato in carcere e hachiesto di parlare col suo assistito. Siccome dal ministe-ro non era ancora arrivato niente, la risposta del co-mandante della polizia penitenziaria è stata gentile eveloce: «No». Per non mostrare contrarietà, a quelpunto Aimi ha ripiegato con stile: «Vabbe’, fatemelosentire almeno per telefono». E ha incassato il secondono. «Col detenuto in questione potrà parlare quandoverrà scarcerato. In assenza d’una richiesta di colloquioregolarmente autorizzata, non è possibile incontrarlo omettersi in comunicazione con lui». Sconfitto su tuttala linea e per niente disposto a rivelarlo ai giornalisti,l’avvocato ha preferito a quel punto optare per una ful-

ne di scarcerazione che da Roma deve arrivare a Pavia eda Pavia a Voghera. Castelli, che con la magistratura haun fronte di guerra permanente, ne approfitta per di-chiarare che «lo sciopero ritarderà di 24 ore l’uscita dalcarcere di Graziano Mesina. Un giorno di libertà in me-no, che non gli restituirà nessuno».

Il 24 novembre l’assedio dei giornalisti inizia dibuon’ora. Freddo, un cielo basso e nuvoloso abbrac-cia degnamente la casa circondariale di Voghera: c’èun grigio uniforme che non regala affatto aria di festa.I primi arrivati si piazzano accanto all’ingresso, qual-che metro dalla garitta blindata, intorno alle 8 delmattino. Per ingannare l’attesa, qualcuno va a chiede-re notizie di un secondino speciale, un pastore tedescoche mesi prima sembrava passarsela male sotto il soled’agosto. È il cane delle guardie carcerarie, una cucciadi fronte a sbarre alte sette metri e, sullo sfondo, unadiscarica. Aspettando Mesina, vale la pena di andare atrovarlo superando – con discrezione – il limite invali-cabile della prigione (alt, sorveglianza armata). Il canec’è e sta bene, abbaia con determinazione, mostra agliestranei una sanissima dentatura. Però non è lui. L’al-tro, spelacchiato e malconcio, ha tirato le cuoia. Quel-lo che parteciperà all’affollata partenza di GrazianoMesina è soltanto un successore.

Intanto il piazzale delle auto in sosta si riempie rapi-damente. Tra telecamere e taccuini, c’è una piccola le-gione, un centinaio di reporter in tutto. Di Mesina man-co l’ombra. Quando manca un quarto d’ora alle 13 unavecchia Punto si avvicina lentamente, supera uno sbar-ramento e s’arresta davanti alle gigantesche inferriateda gabbia circense che avvolgono il penitenziario. Al

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po’ di vestiario, libri, lettere, il curriculum giudiziario.Stringe le mani di una decina d’agenti, prima di af-

facciarsi timidamente all’esterno sognando di raggiun-gere la macchina di Ballore prima che quegli altri, tele-camere e notes, sferrino l’attacco. «Graziano, Grazia-nooo...». Dalle retrovie qualcuno lancia un urlo. E lui siblocca, posa le buste per terra e aspetta che il primo in-cursore riesca a placcarlo. «Bentornato». Lo salutanoun vecchio amico, il nipote, un parente-giornalista. Bacie abbracci, pochi secondi che tuttavia bastano a tutti glialtri per andare all’arrembaggio.

Parte una raffica di domande, più o meno scontate.Cosa prova, cosa farà, come ha dormito l’ultima nottein cella, cosa ha detto a quelli che restano, chi gli piace-rebbe ringraziare, vuole fare un appello agli italiani.Mesina risponde a monosillabi, costringendosi perfinoa sorridere. Ma di un sorriso stretto, di circostanza.Non ne ha affatto voglia di ridere, lo stress sembraparalizzarlo. La voce di Ballore, che preme vanamenteper fare manovra e andar via, affiora quando un croni-sta chiede quale sarà la prossima meta: «Destinazionesegreta».

Segreta? Con molta fatica e dopo molte insistenze,Graziano riesce a infilarsi in macchina, fendere la follae allontanarsi. I più selvaggi della muta lo tampinano,quasi fossero la scorta. Confidano che lungo strada tan-ta cocciutaggine venga premiata. E invece no. Ballorevola, si fa per dire, verso Crescentino e intanto interro-ga il fratello per rompere un silenzio fastidioso. MaGraziano non ha voglia di parlare. Un nebbione da ma-nuale gli chiude l’orizzonte del mondo che ha soltantoimmaginato per tanti, lunghissimi anni: pioppi, frutteti,

minea ritirata al termine di quelle due parole che dice-vano e non dicevano.

E Mesina? Per arrivare, arriva. Ma con enorme ri-tardo. Si viene a sapere che di buon mattino, non ap-pena gli avevano riferito che una muta di giornalisti lostava aspettando al varco, ha telefonato a suo fratelloBallore per chiedergli aiuto: «Vieni a prendermi».Spera (e sbaglia) di poter evitare la stampa e trattare incondizioni privilegiate il ventaglio di esclusive che loaspetta.

Le cose gli vanno male a metà. Indimenticabile co-munque l’immagine che offre quando l’ultimo cancelloautomatico lampeggia e si apre lentamente per lasciarlopassare. Tra lui e il mondo c’è a quel punto solo una can-cellata immensa, stretta, robusta, ostile. Braccia appe-santite da tre buste di plastica (il bagaglio di undici anniin galera), Graziano appare in tutta la sua fragilità. Restaimmobile, per pochi secondi, guarda disorientato escosso le truppe assatanate che lo aspettano al di quadelle sbarre. Ha la faccia stanca, gli occhi velati da unistante di commozione (ma lui dirà che è colpa del raf-freddore), la tensione e la solennità dei grandi momenti.Non sposta un muscolo, statuario come una preda cheha fiutato l’aria e aspetta l’attimo della fuga.

La primula rossa del Supramonte, adesso, è quasi unvecchio acciaccato dagli anni, un signore che ha biso-gno di riposare, muoversi con calma. Papalina grigia,giacca a vento e jeans, potrebbe essere confuso per unqualunque pensionato se non fosse per quella zavorracolorata che raccoglie tutte le sue cose, il corredo: un

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gazzo che lo guarda incantato quasi fosse un’apparizio-ne, Mesina viene incontro avvertendolo: «Se vuoi ti rac-conto la mia vita, ma non prenderla ad esempio».

Dopo lo sbarco e dopo molti bicchieri di spuman-te, comincia la lettura dei giornali mentre si viaggiaverso Nuoro. Tutto come previsto: Orgosolo accogliecon freeddezza la notizia della grazia (i vecchi sono in-differenti, i giovani giurano di non sapere chi sia), ilpaese non tradisce il minimo entusiasmo. E gli altri?Fateh Kassam dice che la notizia lo interessa quantouna macchina parcheggiata per strada e rifiuta di ag-giungere qualsiasi commento ma si capisce (e bene)che non sta facendo i salti di gioia. Penalisti, poliziottie frequentatori di Mesina (ragioni d’ufficio) stannodentro il binario di un cauto ottimismo: giustizia è fat-ta, ma ora stacchiamo la spina, non trasformiamo tut-to in uno show.

Appena arrivato a Orgosolo, Graziano si nasconde acasa della sorella, aggira l’appostamento dei fotografientrando da una porta posteriore, la stessa che adopera-va quando – durante il rapimento del piccolo FaroukKassam – cercava di fare il lavoro dell’emissario nellamaniera meno chiassosa possibile.

Questo suo silenzio assoluto potrebbe far pensare albisogno di calarsi nell’anonimato, al desiderio di ri-prendere la vita senza doverne rendere conto ai lettoridei giornali: finalmente. Il motivo di tanta riservatezzaperò è un altro: finché sono in corso le trattative perun’esclusiva televisiva e un’altra a un settimanale, me-glio evitare anche i fotografi.

piccole aziende agrarie. E un traffico d’autostrada chepreoccupa.

Che odore ha la libertà?, che colori mostra? Strettofra Tir e automobili avvolti dalla foschia, vede poco eimmagina meno. Tanto, i profumi che aspetta di sentiree le immagini che vuole davvero vedere stanno altrove,molto lontano da qui.

Arriva a Crescentino e siede a tavola insieme ai fami-liari e all’avvocato Aimi. A un tratto Ballore gli chiede sesi vuol trattenere qualche giorno, giusto per alleggerireil peso di un momento sicuramente impegnativo e diffi-cile. Riflette giusto un secondo: «Vado via. Domani miimbarco da Livorno. Voglio tornare a Orgosolo».

Il giorno dopo, nel corridoio del molo, è incappuc-ciato a sufficienza per non essere riconosciuto. La mac-china che lo trasporta infila lentamente la grande portacarraia del traghetto e prosegue fino al parcheggio.Graziano non è solo: non sa guidare e non ha nemmenola patente. Confida di tapparsi in cabina fino all’arrivo aOlbia.

Una signora, giornale spalancato tra le mani, lo os-serva per un attimo, fa ballare gli occhi su e giù, tra lui ela foto sul giornale, poi balbetta. «Scusi, ma lei non è,non è...». Il nome non riesce a pronunciarlo. Grazianole viene incontro: «Sì, sono io».

“Io” che fa accorrere un camionista e subito dopouno studente. “Io” che, mentre gli cresce intorno un ca-pannello di visi sorridenti, si ritrova circondato. Di nuo-vo: prima i giornalisti, ora i viaggiatori d’una motonave.Parte un applauso, la proposta di un brindisi accolta al-l’unanimità e l’inevitabile coretto in lingua sarda. Il tra-ghetto salpa mentre a bordo c’è festa grande. A un ra-

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dallo studio al monitor per capire quando lo stanno in-quadrando. Per renderlo compatibile con la trasmissio-ne, abbondano di fondo tinta: effetto anti-sudore sotto iriflettori ma soprattutto per coprire le macchie della vi-tiligine. Non bastasse il cerone, a farlo sentire inadegua-to e a disagio è anche l’abbigliamento: giacca e cravattastrizzata sul collo, un’arietta da parastatale in crisi. Sivede benissimo che sta subendo un martirio per causadi forza maggiore: dopo la scarcerazione, i quattrini nonabbondano, tanto vale dunque mettersi sul mercatodelle confessioni in esclusiva. Finché dura.

Confessioni, poi, per modo di dire. Quando prendeparte alla trasmissione su Rai 1, l’ex fuorilegge diventa-to mito leggenda eccetera eccetera dice poco: ringraziaCastelli e il presidente Ciampi ma senza perdersi in ruf-fianerie. Occhio asciutto, voce tesa, mani agganciate aibraccioli, parla il meno possibile, ascolta un reportagedi qualche minuto sulla sua carriera criminale, rievoca(divertendo gli spettatori televisivi) l’evasione dal car-cere sassarese di San Sebastiano con relativa fuga in taxiinsieme all’amico spagnolo Miguel Angel Atienza.

È probabile che nelle prossime settimane gli torninoin mente altri spezzoni della lunga avventura dentro efuori dalle prigioni, ma in sostanza è già stato sufficien-temente prodigo da riferire più o meno tutto di sè. Me-glio: più o meno tutto quello che ha voluto riferire.

Salvo colpi di scena, la storia di Graziano Mesina fi-nisce qui. Era giusto e corretto battersi perché ottenessela grazia, tenere in piedi martellanti campagne di stam-pa, sottolineare il passato rispettoso d’una certa deon-

Un settimanale pubblica “l’unica intervista rilascia-ta da Mesina in carcere”. È una bufala bella e buona, vi-sto che di interviste ne ha dato più d’una, con grandegenerosità. Di corollario escono altre piccole e pococredibili esclusive (montate incollando vecchi articolisu Grazianeddu). Il quale non si stanca mai di avvertireche non intende rispondere soltanto a tre domande:sulla criminalità in Sardegna (e non solo in Sardegna),sulla vecchia faida di Orgosolo e sul rapimento di Kas-sam. Ad abundatiam non vuol parlare nemmeno dellearmi trovate a suo tempo nel casale vicino Asti dovetrascorreva una sorta di confino. In altre parole, non in-tende riaprire storie sepolte e dimenticate che possonoaccendere (riaccendere) polemiche. Mesina cerca unpresente senza paura, possibilmente non avvelenato:per questa ragione, appena lasciata Voghera, si gestiscecon grande autocontrollo. Tanto è vero che nel botta erisposta all’uscita dal carcere glissa più o meno su tuttoe rinvia ad altra data perfino i dovuti ringraziamenti alCapo dello Stato.

La prima sortita ufficiale – prevista, programmatae, per quel che se ne sa, profumatamente pagata – è intivù, su “Porta a Porta”. Per l’occasione gli fanno tro-vare in studio il ministro Castelli che arriva a frenareuna lacrima dicendo d’aver «provato una gioia im-mensa a liberare un uomo». Il conduttore incalza, spe-ra che pianga anche Graziano e quando s’accorged’un battito di ciglia troppo accelerato uggiola di feli-cità. Due commozioni un colpo solo: il ministro e ilbandito.

Incassato in una poltroncina bianca, Mesina nonsembra a suo agio. Sta ingessato, fa saettare gli occhi

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dei compagni di galera e quello degli agenti di poliziapenitenziaria che hanno convidiviso con lui mille gior-nate senza fine. Con lui è successo.

Non ha rinnegato neppure un minuto della sua esi-stenza, non ha smentito qualche accusa palesementefalsa, accusa strumentale a una politica giudiziaria chepuntava a seppellirlo vivo. Questo è un capitolo chenon intende riaprire mai più.

Fine della guerra. Graziano Mesina entra nel ritret-tissimo club dei graziati. A distanza di sicurezza dalmondo.

Cagliari, dicembre 2004

tologia professionale. Ma continuare a parlarne signifi-ca davvero alimentare il mito, nel senso peggiore deltermine. Significa trascinare nello star-system una figu-ra che, osservata anche con l’occhio più benevolo e dis-taccato, non può essere punto di riferimento. Il primo aesserne cosciente è proprio Graziano Mesina che, invi-tato da quattrocento studenti delle scuole superiori diOristano, si è preparato a ribadire un concetto fonda-mentale: «Non fate come me». Non fate come lui che lavita se l’è quasi del tutto distrutta, scaraventata in unatrincea da dove difficilmente si esce vivi. Forse ha ragio-ne il suo amico Gigi Riva, calciatore patrono di Sarde-gna, quando dice che «in fondo Graziano è figlio dellasua epoca, di una periferia che doveva fare quotidiana-mente i conti con la miseria e la violenza. Non lo dicoper giustificare, ma soltanto per capire».

Di importante, davvero notevole, è stato il compor-tamento in carcere dove vendersi o annientarsi è que-stione di un attimo. Mesina ha un formidabile sistemanervoso, una forza interiore che meriterebbe un con-gresso scientifico: non ha mai avuto un verbale discipli-nare, non ha mai litigato, non è mai entrato nelle graziedi un direttore. Non è un pentito (non potrebbe esser-lo), ha custodito la dignità come un tesoro segreto, l’hadifesa contro tutto e contro tutti. Senza perdere la testauna sola volta. Quando gli hanno fatto sapere che l’i-stanza di grazia era stata respinta, non ha iniziato losciopero della fame, non ha minacciato il suicidio, nonsi è sciolto in pianto sul palcoscenico di Maurizio Co-stanzo. Ha scelto, come sua abitudine, il silenzio.

Non accade spesso che quando un detenuto va vialo saluti una specie di ovazione, il battimani frenetico

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Cronologia della vita di Graziano Mesina

4 aprile. Graziano Mesina nasce a Orgosolo. Famigliapovera, agropastorale.

Minorenne, viene fermato dai carabinieri mentre spa-ra con un fucile ai lampioni del paese.

Viene nuovamente sorpreso a sparare contro i lampio-ni. Fermato dai carabinieri, fugge dalla camera di sicu-rezza e si dà alla latitanza. Condannato a sette mesi direclusione.

Agguato in un bar di Orgosolo sullo sfondo di un se-questro di persona. Viene arrestato e condannato a se-dici anni.Litiga con un vicino che gli ha ucciso il cane: due annie mezzo di reclusione per lesioni gravi.

Tenta di fuggire dal carcere di Nuoro ma viene inter-cettato dagli agenti di custodia. Il colpo gli riesce poco

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agonia. Seguono altri quattro scontri con polizia e ca-rabinieri.

Due sequestri e incontro con un ufficiale del Sifar,Massimo Pugliese. Alla fine di marzo viene arrestato aun posto di blocco della polizia stradale.

Sotto processo per diversi episodi legati alla latitanza,viene condannato all’ergastolo per “cumulo di pena”.In compenso, viene definitivamente scagionato per lamorte di due poliziotti massacrati in un conflitto a fuo-co. Si riuscirà a dimostrare che a ucciderli sono statepallottole in dotazione alle forze dell’ordine.

Viene assassinato il fratello Nicola. In agosto fuggedal carcere di Lecce insieme al nappista Martino Zi-chitella.

Rapisce un industriale calzaturiero ad Ascoli. A pri-mavera viene sorpreso e arrestato in Trentino.

Il boss Angelo Epaminonda racconta d’aver fatto in-sieme a lui una rapina. Mesina nega ma viene ugual-mente condannato. Ottiene un permesso e non rientra in carcere. Dopo po-chi giorni di ricerche, verrà arrestato in un appartamen-to a Milano. Con lui c’è una ragazza, Valeria Fusè, chegli aveva scritto molte lettere durante la detenzione.

dopo: ricoverato in ospedale, scappa appendendosiagli scolatoi dell’acqua.Suo fratello Giovanni viene assassinato.Entra in un bar e fulmina con una sventagliata di mitrail fratello dell’uomo sospettato di aver ucciso Giovan-ni. Una bottigliata in testa lo ferma mentre se ne sta an-dando. Ventisei anni di reclusione.

Tenta di evadere ma viene scoperto e trasferito a PortoAzzurro.

Si finge pazzo e finisce nel manicomio giudiziario diMontelupo Fiorentino. Ci resta poco: è trasferito pri-ma a Viterbo e poi a Spoleto dove tenta la fuga dopoaver appiccato le fiamme a un magazzino.

Prova a scappare durante un viaggio in treno, ma leguardie lo sorprendono.

È l’anno della più clamorosa delle sue nove evasioni.Insieme allo spagnolo Miguel Angel Atienza, riesce ascavalcare il muro di cinta del carcere di Sassari, si me-scola alla folla e si allontana in taxi. Riprende il vecchiomestiere: rapine e sequestri.

Rapisce a Nuoro un facoltoso commerciante. Un mesedopo ingaggia un conflitto a fuoco con i “baschi blu”.Colpito in pieno petto, Atienza muore dopo una breve

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Ad agosto gli comunicano che l’istanza di grazia è statarespinta. Contrordine a novembre, cento giorni dopo:la grazia è concessa.

In conclusione, ecco l’elenco delle carceri italianedove è stato detenuto Graziano Mesina:

Regina Coeli, Badu ’e Carros, Lecce, Novara, Voghera,Buoncammino, Favignana, Porto Azzurro, Saluzzo, Al-ghero, Trani, Torino, Oristano, Sassari, Procida, Volter-ra, Viterbo, Spoleto, Montelupo Fiorentino, Augusta,Trento.

Il Tribunale di sorveglianza di Torino gli concede la li-berazione condizionale. Ha l’obbligo di risiedere a SanMarzanotto d’Asti ma viene sorpreso a Parma. In unavaligetta ha dieci milioni in contanti: soldi puliti, verràaccertato.

Sequestro del piccolo Farouk Kassam a Porto Cervo, inSardegna. Mesina accetta di fare l’emissario per contodella famiglia. Si scontra, anche se non direttamente,con Procura, polizia e servizi segreti.

Viene arrestato: nel suo cascinale di San Marzanottotrovano armi. Dietro, c’è la storia di un improbabile se-questro a Montecarlo da mettere a segno con due stranipersonaggi.

-

Viene incriminato per favoreggiamento (sequestro Kas-sam), per la vendita di un chilo di eroina, per aver tenta-to un recupero-crediti per droga da malavitosi sardi.

Trasferito dal carcere di Novara a quello di Voghera,apprende di essere stato condannato a due anni e ottomesi. Che, aggiunti ai sei per il rapimento a Montecarlo,precludono qualunque prospettiva d’uscita dal carcere.

Su pressione dei familiari, firma la domanda di grazia alPresidente della Repubblica.

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INDICE

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INDICE

Lo strano caso del signor Mesina

I. A casa

II. Ritratto di pentito

III. Le regole del gioco

IV. Affari riservati

V. Fateh Kassam

VI. Missione a rischio

VII. Il dio tritolo

VIII. Matteo Boe

IX. La Coop dei sequestri

X. Una star del crimine

XI. La notte delle menzogne

XII. Armi ad Asti

XIII. Polvere di mito

XIV. Dieci anni dopo

XV. La grazia negata

XVI. Ritorno a casa

Cronologia della vita di Graziano Mesina

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Volumi pubblicati:

Tascabili

Grazia Deledda, ChiaroscuroGrazia Deledda, Il fanciullo nascostoGrazia Deledda, Ferro e fuocoFrancesco Masala, Quelli dalle labbra biancheEmilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2a edizione)Maria Giacobbe, Il mare (3a edizione)Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addioSergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeriGiulio Angioni, L’oro di Fraus (2a edizione)Antonio Cossu, Il riscattoBachisio Zizi, Greggi d’iraErnst Jünger, Terra sardaMarcello Fois, Sempre caro (2a edizione)Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2a edizione)Luciano Marrocu, Fáulas (2a edizione)Gianluca Floris, I maestri cantoriD.H. Lawrence, Mare e SardegnaSalvatore Niffoi, Il postino di PiracherfaFlavio Soriga, Diavoli di Nuraiò (2a edizione)Giorgio Todde, Lo stato delle anime (2a edizione)Francesco Masala, Il parroco di ArasolèMaria Giacobbe, Gli arcipelaghi (2a edizione)Salvatore Niffoi, Cristolu Giulio Angioni, Millant’anniLuciano Marrocu, Debrà LibanòsGiorgio Todde, La matta bestialità (2a edizione)Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»Marcello Fois, MaterialiMaria Giacobbe, Diario di una maestrinaGiuseppe Dessì, Paese d’ombreFrancesco Abate, Il cattivo cronista

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FuoriCollana

Salvatore Cambosu, I raccontiAntonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padreAlberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea

I Menhir

Salvatore Cambosu, Miele amaroAntonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta bar-

baricinaGiovanni Lilliu, La civiltà dei sardiGiulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna

Libristante

Giorgio Pisano, Lo strano caso del signor Mesina

In coedizione con Edizioni Frassinelli

Marcello Fois, Sempre caroMarcello Fois, Sangue dal cieloMarcello Fois, L’altro mondoGiorgio Todde, Lo stato delle animeGiorgio Todde, Paura e carneGiorgio Todde, L’occhiata letale

Gavino Ledda, Padre padroneSalvatore Niffoi, La sesta oraJack Kerouac, L’ultima parola. In viaggio. Nel jazzGianni Marilotti, La quattordicesima commensaleGiorgio Todde, EiLuigi Pintor, ServaboMarcello Fois, TamburiniFrancesco Abate, Ultima di campionatoPatrick Chamoiseau, TexacoLuciano Marrocu, Scarpe rosse, tacchi a spilloAlberto Capitta, CreaturineRomano Ruju, Quel giorno a BuggerruPeppinu Mereu, Poesie complete

Narrativa

Salvatore Cambosu, Lo sposo pentitoMarcello Fois, Nulla (2a edizione)Francesco Cucca, Muni rosa del SufPaolo Maccioni, Insonnie newyorkesiBachisio Zizi, Lettere da OruneMaria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanziaGiulio Angioni, Il gioco del mondoAldo Tanchis, Pesi leggeriMaria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici paraboleGiulia Clarkson, La città d’acquaPaola Alcioni, La stirpe dei re perdutiMariangela Sedda, OltremareRossana Copez, Si chiama Violante

Poesia

Giovanni Dettori, AmaranteSergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondoGigi Dessì, Il disegnoRoberto Concu Serra, Esercizi di salvezzaSerge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole

Saggistica

Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitarioGiancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in

Pascale Dessanai

Page 116: Lo Strano Caso Del Signor Mesina-Giorgio Pisano

Finito di stampare nel mese di gennaio 2005

dalla Tipolitografia ME.CA.Recco (GE)


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