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Majone 2003

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STATO E MERCATO / n. 67, aprile 2003 GIANDOMENICO MAJONE Deficit democratico, istituzioni non-maggioritarie ed il paradosso dell’integrazione europea 1. Introduzione A partire dal Trattato di Amsterdam del 1997, l’appartenenza all’Unione Europea è stata esplicitamente condizionata al rispet- to dei principi «di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto». Uno stato membro che commetta una violazione seria e persistente di tali principi può essere sospeso da alcuni dei diritti derivanti dall’applicazione dei trattati. Tali disposizioni non fanno che ribadire regole riconosciute ed applicate da lungo tempo. Già nel 1978 il Consiglio Europeo di Copenhagen aveva affermato che «il rispetto ed il mantenimento della democrazia rappresen- tativa e dei diritti umani in ogni stato membro sono elementi essenziali dell’appartenenza alla Comunità Europea». E, tuttavia, né la Comunità né l’Unione Europea soddisfano tutte le condizioni imposte ai loro membri. A partire dalla fine degli anni ’80, l’espansione delle com- petenze comunitarie e, soprattutto, l’estensione del metodo di decisione a maggioranza qualificata, anziché all’unanimità, è stata accompagnata dalla critica sempre più frequente di un serio «deficit democratico» a livello europeo; ossia della mancanza dei requisiti di democrazia rappresentativa necessari per l’apparte- nenza all’Unione. C’è chi ha voluto vedere in ciò un paradosso («se l’Unione Europea fosse uno stato non potrebbe essere accolta nell’Unione», secondo la boutade attribuita a Ralph Dahrendorf) o almeno una palese contraddizione: come può l’Unione imporre ai Paesi dell’Europa orientale condizioni che essa stessa non soddisfa (Williams 1991)? In realtà, non c’è in questa mancanza di requisiti democratici né paradosso né
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STATO E MERCATO / n. 67, aprile 2003

GIANDOMENICO MAJONE

Deficit democratico, istituzioni non-maggioritarie edil paradosso dell’integrazione europea

1. Introduzione

A partire dal Trattato di Amsterdam del 1997, l’appartenenzaall’Unione Europea è stata esplicitamente condizionata al rispet-to dei principi «di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umanie delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto». Uno statomembro che commetta una violazione seria e persistente di taliprincipi può essere sospeso da alcuni dei diritti derivantidall’applicazione dei trattati. Tali disposizioni non fanno cheribadire regole riconosciute ed applicate da lungo tempo. Giànel 1978 il Consiglio Europeo di Copenhagen aveva affermatoche «il rispetto ed il mantenimento della democrazia rappresen-tativa e dei diritti umani in ogni stato membro sono elementiessenziali dell’appartenenza alla Comunità Europea». E, tuttavia,né la Comunità né l’Unione Europea soddisfano tutte lecondizioni imposte ai loro membri.

A partire dalla fine degli anni ’80, l’espansione delle com-petenze comunitarie e, soprattutto, l’estensione del metodo didecisione a maggioranza qualificata, anziché all’unanimità, è stataaccompagnata dalla critica sempre più frequente di un serio«deficit democratico» a livello europeo; ossia della mancanza deirequisiti di democrazia rappresentativa necessari per l’apparte-nenza all’Unione. C’è chi ha voluto vedere in ciò un paradosso(«se l’Unione Europea fosse uno stato non potrebbe essereaccolta nell’Unione», secondo la boutade attribuita a RalphDahrendorf) o almeno una palese contraddizione: come puòl’Unione imporre ai Paesi dell’Europa orientale condizioni cheessa stessa non soddisfa (Williams 1991)? In realtà, non c’è inquesta mancanza di requisiti democratici né paradosso né

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contraddizione, e non solo perché l’Unione Europea non è, dopotutto, uno stato. Il vero paradosso è ben diverso: da un lato,l’inesistenza di un demos europeo rende impossibile una pienalegittimazione democratica del processo di integrazione; dall’al-tro, le regole e le istituzioni europee, nonostante il loro caratterenon-maggioritario, hanno contribuito e continuano a contribuirein modo significativo al miglioramento del processo democraticoa livello nazionale: ad esempio, fornendo nuovi strumenti didifesa di interessi diffusi non adeguatamente rappresentati neisistemi politici tradizionali; proteggendo, in modo spesso piùefficace delle legislazioni nazionali, l’eguaglianza tra donna euomo nei rapporti di lavoro; oppure proibendo misure discri-minatorie nei confronti dei lavoratori immigrati. La spiegazionedi questo paradosso richiede una analisi attenta del concetto di«deficit democratico», del ruolo delle istituzioni non-maggiori-tarie nelle moderne democrazie rappresentative, e soprattuttodella peculiare natura della Comunità Europea come sistema digoverno. Prima di iniziare tale analisi, tuttavia, sarà opportunopremettere alcuni chiarimenti concettuali e terminologici.

Come è noto, il Trattato sull’Unione Europea (Trattato diMaastricht) ha disegnato un’architettura istituzionale basata sutre «pilastri»: quello comunitario; quello della politica comunedegli affari esteri e della sicurezza; ed il pilastro della coope-razione giudiziaria e di polizia. Le differenze tra questi tre settoridi attività dell’Unione Europea sono assai notevoli. In primoluogo, il pilastro comunitario è sopranazionale, mentre gli altridue settori hanno prevalente carattere intergovernativo. Pertantoil cosiddetto «metodo comunitario» – secondo il quale laCommissione Europea ha il diritto esclusivo di presentareproposte legislative e in tema di politiche; il Consiglio deiMinistri ed il Parlamento Europeo approvano gli atti legislativie di bilancio; mentre il rispetto del principio di legalità ègarantito dalla Corte Europea di Giustizia – si applica soltantoalla Comunità Europea e non alle altre componenti dell’UnioneEuropea. Ne segue che il sistema giuridico e politico dell’Unionenon coincide con quello comunitario; al contrario, il controlloparlamentare e giurisdizionale sugli atti prodotti nell’ambito delsecondo e del terzo pilastro sono minimi. Inoltre, l’UnioneEuropea non ha personalità giuridica, per cui non può conclu-dere trattati o accordi con Paesi terzi se non per il tramite dellaComunità o degli stati membri. A causa di queste differenzeè impossibile analizzare l’Unione Europea secondo uno schema

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unitario, specialmente riguardo ad un argomento così delicatocome il problema della legittimazione democratica. Pertanto inquesto lavoro, a parte alcune considerazioni finali, limiteremola nostra analisi all’ambito comunitario.

2. I diversi volti del deficit democratico

Anche in tale ambito più omogeneo, non esiste un unicoproblema di deficit democratico, ma più problemi, o almenoaspetti diversi di uno stesso problema generale, secondo l’isti-tuzione comunitaria di cui si tratta: Consiglio dei Ministri,Commissione, Parlamento Europeo (come vedremo, anche lalegittimità democratica dell’unica istituzione europea direttamen-te eletta può essere messa in dubbio), Corte di Giustizia, BancaCentrale Europea. Esiste inoltre un problema di legittimazionedell’intero processo decisionale comunitario, ossia delle relazionitra istituzioni europee e tra queste ed i cittadini. Ma è sopra tuttoimportante tener presente che le diverse argomentazioni suldeficit democratico della Comunità riflettono diverse concezionicirca la natura e finalità del processo di integrazione europea.

Chi assume che l’integrazione economica debba necessaria-mente portare ad una integrazione politica di tipo federale, ènaturalmente portato ad applicare alle istituzioni europee criteridi legittimità derivati dalla teoria e dalla pratica delle democrazieparlamentari. D’altra parte, chi non vede un nesso necessariotra integrazione economica e la costruzione di un superstatoeuropeo, tende a valutare in modo diverso gli aspetti non-maggioritari del processo di integrazione. Infatti, dopo il falli-mento della Comunità Europea di Difesa nel 1954, apparvechiaro che integrazione economica ed integrazione politicadovevano seguire percorsi separati, con tutte le conseguenzepratiche e normative che derivano dalla separazione dell’econo-mia dalla politica. Il ruolo limitato che i trattati europeiassegnano alla democrazia si riflette, come vedremo in seguito,nella stessa architettura istituzionale della Comunità. Per ilmomento ci limitiamo a passare brevemente in rassegna leargomentazioni più frequenti nel dibattito attuale sul deficitdemocratico.

È possibile raggruppare tali argomentazioni in quattro cate-gorie secondo i criteri di legittimità che, implicitamente oesplicitamente, vengono applicati (Majone 1998):

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– criteri basati sull’analogia con le istituzioni nazionali;– criteri maggioritari;– criteri derivati dalla legittimità democratica dei Paesi membri

della UE;– criteri di carattere sociale.Le argomentazioni del primo gruppo tendono ad identificare

le istituzioni comunitarie con le corrispondenti istituzioni na-zionali, o almeno ad assumere una loro eventuale convergenza.Tale identificazione porta a concludere, ad esempio, che ilParlamento Europeo (PE) dovrebbe godere di un autonomodiritto di iniziativa legislativa, e in futuro anche di autonomiain campo fiscale, in quanto i parlamenti nazionali godono ditali poteri. Per la stessa ragione, la Commissione dovrebbe esseredel tutto esclusa dal processo legislativo mentre i poteri delConsiglio dei Ministri dovrebbero essere notevolmente ridimen-sionati in un sistema bicamerale di rappresentanza diretta (siveda, ad esempio, Vaubel 1995). Dal canto suo, la Commissione,nel recente Libro Bianco su La Governance Europea (Commis-sione Europea 2001) si appella all’analogia con i sistemi politicinazionali, basati sul principio della separazione dei poteri, peravanzare la richiesta di diventare il solo potere esecutivo a livelloeuropeo – senza peraltro rinunciare a privilegi poco compatibilicon tale principio, in primo luogo il monopolio dell’iniziativalegislativa (questo punto sarà approfondito ai nn. 5 e 6).

Secondo tali ragionamenti basati sull’analogia, il deficit de-mocratico risulta dalla asimmetria tra le istituzioni europee equelle nazionali. Pertanto la legittimazione democratica delprocesso di integrazione richiede una omologazione del modellocomunitario agli standard delle democrazie parlamentari. Vedre-mo in seguito (n. 5) quanto fuorviante sia il ragionamentoanalogico; per il momento sarà sufficiente osservare che unaeventuale trasformazione del modello comunitario nel sensoauspicato, non rappresenterebbe affatto una evoluzione naturaledel sistema attuale ma, al contrario, una completa rottura conil metodo seguito, non senza successo, sinora.

Le argomentazioni del secondo gruppo non si basano tantosull’analogia con le istituzioni democratiche degli stati membri,quanto su un modello astratto di democrazia, il modellomaggioritario puro o modello di Westminster. Secondo talemodello, in una democrazia rappresentativa la legittimità de-mocratica deriva tutta, in ultima analisi, dal parlamento. Il PEè la sola istituzione comunitaria direttamente legittimata dagli

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elettori. Pertanto, per ridurre il deficit democratico ed accre-scere la legittimità del processo di integrazione basterà daresufficienti poteri al PE. Sherley Williams (1991) esprime nelmodo più chiaro tale concezione quando definisce il deficitdemocratico come il divario tra i poteri trasferiti alla Comunitàed il controllo che il PE è in grado di esercitare sull’uso ditali poteri.

In effetti, a partire dal Trattato di Maastricht, la maggior partedelle misure introdotte nella speranza di migliorare la legittimitàdemocratica del processo di integrazione hanno portato ad unrafforzamento del ruolo del PE nel processo legislativo comu-nitario, e all’estensione dei suoi poteri di controllo nei confrontidella Commissione. Così, mentre in precedenza il presidentedella Commissione veniva scelto dai governi nazionali, dopo averconsultato il PE, oggi la loro nomina deve essere approvata dalParlamento e, inoltre, il presidente e gli altri membri dellaCommissione sono soggetti ad un voto parlamentare di appro-vazione. Un’altra innovazione significativa, introdotta nel 1995,fa coincidere il termine d’ufficio della Commissione con quellodel PE. In tal modo, poiché il Parlamento appena elettopartecipa alla nomina della Commissione, cambiamenti signifi-cativi nella composizione della rappresentanza parlamentarepossono riflettersi, almeno in teoria, nella scelta dei commissaricome del loro presidente.

Non c’è dubbio che tali innovazioni abbiano modificato inprofondità le relazioni istituzionali tra PE e Commissione, e chequest’ultima sia oggi meno indipendente e più politicizzata diquanto previsto dal Trattato di Roma. Tale politicizzazione tendea ridurre la credibilità della Commissione quale istituzione non-maggioritaria «completamente indipendente nello svolgimentodei suoi compiti», come recita il Trattato, mentre, comevedremo, non sembra che ne siano derivati benefici in terminidi legittimazione democratica.

Passiamo ora a considerare il terzo gruppo di argomenti, quellibasati sulla legittimità democratica dei Paesi membri dellaComunità. Si noti in primo luogo che il dibattito sul deficitdemocratico è relativamente recente. Prima dell’Atto UnicoEuropeo (entrato in vigore nel 1987) era opinione diffusa cheil processo di integrazione europea fosse pienamente legittimatodal carattere democratico degli stati membri: i trattati vengonoratificati dai parlamenti nazionali, e in alcuni casi da referendumpopolari; il Consiglio Europeo, composto di capi di stato o di

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governo democraticamente eletti, definisce le priorità strategiche;Il Consiglio dei Ministri, i cui membri sono responsabili airispettivi parlamenti nazionali, deve approvare le proposte dellaCommissione prima che queste possano diventare leggi comu-nitarie. Pertanto, l’intero processo di integrazione è guidato econtrollato da istituzioni di indubbia legittimità democratica.

Questo schema di legittimazione derivata, pur non essendoesente da qualche ambiguità, era generalmente ritenuto sufficien-te fino a che le competenze della Comunità erano limitate e,soprattutto, fino a che le decisioni venivano prese all’unanimità.Ma l’Atto Unico ha notevolmente aumentato l’ambito delledecisioni prese a maggioranza qualificata, e quindi le possibilitàche una misura presa a livello europeo sia contraria allepreferenze della maggioranza degli elettori in uno o più Paesi.Abbandonato, per ragioni di efficienza decisionale, il principiodell’unanimità sorgeva così il problema di giustificare la poten-ziale violazione del principio maggioritario a livello nazionale –un rischio che diventa tanto più reale quanto più generali eincisive sono le competenze comunitarie. Per prendere il casoestremo, possono n-1 governi legittimamente imporre la lorovolontà agli elettori dell’ennesimo stato membro? Occorrericordare che il principio maggioritario, come lo stesso processodemocratico, presuppone l’esistenza di un corpo politico ragio-nevolmente omogeneo (Dahl 1989). Pertanto, la giustificazionenormativa di decisioni maggioritarie a livello europeo dipendeda un’ipotesi molto dubbia qual’è l’esistenza di un demoseuropeo.

Occorre anche osservare che la legittimità di una istituzionesopranazionale come la Commissione non può essere semplice-mente derivata dalla legittimità democratica dei governi nazio-nali. Infatti, secondo il Trattato, la Commissione non è unsemplice agente di questi governi, ma è legata ad essi da unrapporto fiduciario (Majone 2001a, 2001b). Proprio il fatto chei commissari europei non debbano «chiedere né accettareistruzioni da alcun governo o da qualsiasi altro organismo»(come recita l’articolo 157 del Trattato di Roma) significa chela Commissione deve guadagnarsi una propria autonoma legit-timazione; ma, come vedremo al n. 3, si tratterà comunque deltipo di legittimazione cui possono aspirare istituzioni non-maggioritarie, non di piena legittimazione democratica.

Passiamo infine a considerare il quarto gruppo di argomenti,secondo i quali il deficit democratico della Comunità Europea

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è dovuto alla mancata costruzione di uno stato sociale europeo,o almeno, alla mancanza di un significativo ruolo comunitarioin campo sociale. Queste preoccupazioni non si riferiscono,pertanto, ai poteri ancora deboli del PE, o alla perdita dicontrollo dei parlamenti nazionali, e nemmeno ai problemi dilegittimità sollevati dal numero crescente di decisioni prese amaggioranza, ma riguardano piuttosto il futuro dei diritti socialiin un’Europa integrata economicamente ma non politicamente.Una vera politica sociale a livello europeo, si sostiene, non soloimpedirebbe il dumping sociale e la «liberalizzazione selvaggia»dei mercati del lavoro, ma contribuirebbe alla legittimazionedemocratica della Comunità e dell’Unione, cosi come nel passatole politiche sociali hanno contribuito fortemente alla legittima-zione degli stati nazionali e del processo di formazione delleeconomie nazionali.

È tuttavia lecito dubitare della rilevanza di tale analogia(Majone 1996). In primo luogo, si deve osservare che il ruolomolto modesto assegnato alle politiche sociali nel processo diintegrazione è dovuto in primo luogo alla riluttanza dei governie dei parlamenti nazionali a perdere il controllo di settoripoliticamente e socialmente così importanti, e a trasferire allivello europeo le relative competenze e, soprattutto, le neces-sarie risorse. Il Trattato di Roma esprime molto chiaramente taleriluttanza. L’elencazione, nell’articolo 118, delle materie dinatura sociale, ed il ruolo assai limitato attribuito alla Commis-sione nell’intera parte del trattato che si riferisce alla politicasociale, mostrano che, con poche eccezioni quali il regimeprevidenziale per i lavoratori emigrati, tale settore era conside-rato non di competenza delle istituzioni comunitarie. Né l’AttoUnico né i Trattati di Maastricht, di Amsterdam e di Nizzahanno attribuito alla Comunità delle vere competenze legislativein campo sociale. Al contrario, questi trattati escludono espli-citamente l’armonizzazione delle corrispondenti legislazioninazionali, assegnando alla Comunità soltanto un ruolo di coor-dinamento, di studio e di consulenza. Alla mancanza di com-petenze legislative corrisponde la mancanza di risorse finanziarie.Poiché il bilancio comunitario è ancora inferiore allo 1,3% delPIL dell’Unione, una vera politica sociale europea è impossibile,se non per certi aspetti regolativi. Le due eccezioni significativeconfermano la regola: la politica agricola comune, con la qualesi è cercato di creare uno «stato sociale per agricoltori», saràdel tutto insostenibile con l’allargamento ai Paesi dell’Est

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europeo, ed è pertanto sulla via di una progressiva rinaziona-lizzazione (Rieger 2000); mentre i fondi strutturali e di coesione,quale che sia la loro utilità in termini di sviluppo regionale, sonostrumenti del tutto inadeguati per una ridistribuzione del redditoa livello individuale (Majone 1996).

Del resto, non sono solo i governi nazionali ad opporsi apolitiche ridistributive a livello europeo: i dati dell’Eurobaro-metro mostrano che gli unici Paesi membri in cui una maggio-ranza degli intervistati si dichiara a favore dell’integrazione dellepolitiche sanitarie e della sicurezza sociale, sono quelli che, comeil Portogallo e la Grecia, sono netti beneficiari del bilanciocomunitario. Né questo può sorprendere poiché anche all’in-terno degli stati nazionali le politiche redistributive, ed icorrispondenti prelievi fiscali, incontrano crescenti resistenze daparte degli elettori; a fortiori, è comprensibile l’opposizione apolitiche di questo tipo a livello europeo. Il moderno statosociale rappresenta una combinazione, diversa da Paese a Paese,di tradizioni nazionali e di compromessi politici che hannocostituito la base del consenso sociale dopo la seconda guerramondiale. D’altra parte, il delicato equilibrio tra efficienzaeconomica e solidarietà sociale, che le politiche sociali esprimo-no, può essere legittimamente determinato solo all’interno dicomunità relativamente omogenee. Anche in questo caso, l’ine-sistenza di un demos europeo limita grandemente il campo delleattività che possono essere legittimamente trasferite al livellosopranazionale. È infatti difficile vedere come livelli politicamen-te accettabili di ridistribuzione del reddito potrebbero esseredeterminati in una comunità di stati dove i livelli di svilupposono ancora così diversi, e dove manca il senso di appartenenzacreato da una comune tradizione storica. Ne segue che iltentativo di ridurre il deficit democratico mediante una politicasociale europea in realtà aggraverebbe il problema, rafforzandol’immagine popolare di una Comunità fortemente centralizzatae burocratizzata.

3. Istituzioni non-maggioritarie e democrazia

L’analisi critica svolta nelle pagine precedenti ha messo in luceciò che la Comunità Europea non è (o non può essere), ma persviluppare adeguatamente il nostro tema sarà necessario propor-ne anche una caratterizzazione positiva. Prima di avanzare un

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modello generale è tuttavia opportuno fermare l’attenzione suun problema particolare ma di notevole importanza non solonel contesto comunitario ma in tutte le democrazie rappresen-tative. Mi riferisco alla funzione e giustificazione normativa dellegià menzionate istituzioni non-maggioritarie: istituzioni chesvolgono funzioni pubbliche ma che non sono direttamenteresponsabili delle loro decisioni né agli elettori, né (come inveceè il caso della burocrazia classica) a ministri a loro voltaresponsabili al parlamento. Corti costituzionali, banche centraliindipendenti, autorità amministrative indipendenti, Commissio-ne europea, organizzazioni internazionali come la Banca Mon-diale, il Fondo Monetario e l’Organizzazione Mondiale delCommercio, sono esempi ben noti. È chiaro che il ruolo di taliistituzioni continua a crescere, sia a livello nazionale chesopranazionale, e che, di conseguenza, un problema di «deficitdemocratico» esiste non solo per la Comunità Europea, ma pertutte le democrazie avanzate e per il sistema internazionale nelsuo complesso. Per questa ragione, sarà utile considerare taleproblema in termini generali invece di restringere arbitrariamen-te l’analisi al solo aspetto europeo.

Il classico articolo di Ronald Coase sulla natura dell’impresasuggerisce un’analogia che si è rivelata euristicamente utile percapire il ruolo delle istituzioni non-maggioritarie in un sistemademocratico (Majone 2001a). In quell’articolo del 1937 Coasesolleva una domanda in apparenza semplice ma in realtà moltoprofonda: perché esistono le imprese in un’economia di mercatodove il meccanismo dei prezzi dovrebbe essere sufficiente acoordinare le attività degli operatori economici? La risposta datadall’economista anglo-americano – che l’uso del meccanismo deiprezzi comporta un costo, e che pertanto in certi casi è piùconveniente organizzare la produzione mediante la mano visibiledell’imprenditore invece di affidarsi alla mano invisibile delmercato – costituisce oggi il fondamento della teoria dei costidi transazione e del neoistituzionalismo in economia. Infatti, nellavoro più tardo sul problema dei costi sociali, Coase (1960)ha dimostrato che in un mondo ove i costi di transazione fosseronulli le istituzioni che costituiscono il sistema economico –inclusi i diritti di proprietà e l’intero sistema legale – nonavrebbero ragione di esistere.

Analogamente, in campo politico, possiamo supporre chel’esistenza di costi di transazione risultanti dall’uso del principiomaggioritario sia la ragione perché in tutti i sistemi democratici

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– dove le politiche pubbliche dovrebbero essere decise dallamaggioranza di governo, che se ne assume la responsabilità versogli elettori – troviamo istituzioni che prendono decisioni diinteresse generale senza rispettare, anzi in certi casi contraddi-cendo, tale principio. Parafrasando Coase si può dire che in unmondo in cui questi costi fossero nulli le istituzioni checostituiscono il sistema democratico non avrebbero ragione diesistere. Non solo la democrazia rappresentativa ed i partiti, malo stesso processo politico sarebbero superflui. I cittadinipotrebbero discutere e negoziare (a costo zero) fino a trovareuna soluzione accettabile per tutti (Majone 2001a). In realtà,come Douglass North (1990) ha osservato, nella sfera politicai costi di transazione sono ancora più diffusi, e hanno conse-guenze più gravi, che nella sfera economica.

Quali costi di transazione sono più rilevanti per il nostroproblema? Tradizionalmente si è voluto spiegare l’esistenza diistituzioni non-maggioritarie in termini di specializzazione edivisione del lavoro: i politici sono troppo occupati a massimiz-zare la probabilità della loro rielezione per trovare il tempo diacquisire le conoscenze necessarie a risolvere complessi problemidi natura economica, tecnica o sociale. Più semplice, ma anchepiù efficiente, delegare le decisioni in questi campi ad organismispecializzati come banche centrali, autorità amministrative indi-pendenti o commissioni di esperti. La spiegazione sembraplausibile, ma in realtà non chiarisce molto. Ad esempio,l’indipendenza delle banche centrali è fenomeno alquanto re-cente. Sino alla fine degli anni ’80 nella maggior parte dei Paesieuropei le decisioni in campo monetario venivano prese dall’ese-cutivo, mentre la banca centrale si limitava a fornire pareritecnici ed a eseguire le direttive dei politici. In realtà, questiultimi possono sempre servirsi di esperti per gli aspetti piùtecnici dei problemi da risolvere, senza per questo delegare ipropri poteri decisionali.

Più convincenti sono le spiegazioni che fanno intervenire costidi transazione direttamente imputabili al funzionamento delsistema democratico. Tra queste spiegazioni, due hanno ricevutoparticolare attenzione nella letteratura sia economica che poli-tologica: il problema della credibilità, ed il carattere contingentedi molti «contratti» politici. Come è noto, i politici hannodifficoltà a fare delle promesse credibili. È possibile spiegaretale difficoltà in termini istituzionali. In primo luogo, la demo-crazia è una forma di governo pro tempore (Linz 1998). Il limite

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temporale imposto da elezioni ad intervalli regolari significa chela maggioranza attuale non può vincolare una maggioranzafutura, la quale può legittimamente modificare o anche abban-donare le politiche attuali. Tuttavia, gli operatori economici, edi cittadini in generale, hanno bisogno di contare su politichee norme che rimangono stabili per un sufficiente periodo ditempo. La mancanza di certezza può avere serie conseguenzeeconomiche e politiche, ad esempio riducendo gli investimentiin settori particolarmente sensibili a cambiamenti del regimeregolativo, come le telecomunicazioni ed altre «public utilities»(Troesken 1996).

Questo spiega il moltiplicarsi di autorità amministrativeindipendenti nel campo della regolazione economica: delegandoil compito di fissare le regole del gioco ad istituzioni sottratteal ciclo elettorale, è possibile assicurare a queste politiche unacredibilità che esse non avrebbero in mancanza di tale delega.Una logica simile spiega la delega di certi poteri ad unaistituzione non-maggioritaria quale è la Commissione Europea.Ad esempio, il monopolio della iniziativa legislativa di cui essagode – un diritto esclusivo che viola il principio della separazionedei poteri e della stessa democrazia parlamentare – serve adaumentare la credibilità dell’impegno europeo degli stati mem-bri. Infatti, se anche il Consiglio dei Ministri godesse del poteredi iniziativa legislativa, esso potrebbe modificare o addiritturacancellare, per motivi elettorali o d’altra natura, parti delcosiddetto acquis communautaire, in tal modo rimettendo indiscussione il livello d’integrazione già raggiunto.

Un problema di credibilità si presenta anche nel caso di«inconsistenza temporale» (Kydland e Prescott 1977). Si hainconsistenza temporale quando gli obiettivi di lungo terminedel governo entrano in conflitto con obiettivi di breve termine,così che i governanti hanno un incentivo a rinunciare ai primia favore dei secondi. Ad esempio, la stabilità del livello dei prezziè la migliore politica nel lungo periodo, ma nel breve periodopuò essere politicamente utile stimolare l’economia con un po’d’inflazione. Ma imprese e sindacati, anticipando tale possibilità,si comporteranno in modo tale da rendere impossibile ilraggiungimento dell’obiettivo di una bassa inflazione. Siamo cosìin presenza di una situazione del tipo «dilemma del prigioniero»:il governo alla fine si trova in una posizione peggiore di quellainizialmente possibile per la sua incapacità ad impegnarsi inmodo credibile al perseguimento dell’obiettivo di lungo periodo.

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Nel linguaggio della teoria dei giochi, una politica temporalmen-te inconsistente non può rappresentare un equilibrio di Nash:la promessa di seguire una tale politica non è credibile e pertantonon sarà in grado di modificare le aspettative degli operatorieconomici.

Il concetto economico di inconsistenza temporale è dicarattere normativo. Esso è stato introdotto per dimostrare lasuperiorità di regole fisse rispetto a politiche monetarie discre-zionali. Dal punto di vista dell’analisi positiva si potrebbeobiettare che ciò che interessa sopra tutto ai politici èmassimizzare la probabilità di rielezione. Pertanto al governoconviene mantenere un potere discrezionale che permetta diadattare le politiche alle esigenze elettorali. Anche da talepunto di vista, tuttavia, la discrezionalità non è necessariamentela strategia migliore. Per restare nell’esempio della politicamonetaria: se le misure prese prima delle elezioni produconoeffetti inflazionistici in seguito, ciò può ridurre la probabilitàdi rielezione – a meno di assumere che gli elettori sono stupidio smemorati. Inoltre, se le prossime elezioni fossero vintedall’opposizione, il nuovo governo potrebbe ricorrere allestesse strategie inflazionistiche per aumentare la probabilità divenire rieletto. Né si possono trascurare i vincoli esterni che,con il progredire dell’internazionalizzazione dei mercati, diven-tano sempre più rilevanti. Per tutte queste ragioni, puòconvenire sia al governo che all’opposizione rinunciare apolitiche discrezionali, delegando la responsabilità per lastabilità dei prezzi alla banca centrale.

Si tratterà allora di scegliere un banchiere centrale che siapiù «conservatore» (ossia più contrario all’inflazione) del gover-no, in modo da rendere credibile il mantenimento di un bassotasso medio di inflazione. Rogoff (1985) ha dimostrato che èpossibile aumentare il benessere sociale scegliendo come gover-natore della banca centrale una persona che attribuisce piùimportanza alla stabilità dei prezzi che alla piena occupazione(ma che, a differenza della Banca Centrale Europea, non èinteressato solo al livello dei prezzi). La maggiore importanzaattribuita alla stabilità dei prezzi può così compensare eventualidistorsioni nel mercato del lavoro che causino livelli troppoelevati di inflazione. Si noti che il modello di Rogoff non assumeesplicitamente l’indipendenza della banca centrale. L’indipen-denza è piuttosto una conseguenza del modello, in quanto seil governatore non fosse autonomo nelle sue decisioni di politica

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monetaria, le sue preferenze sarebbero irrilevanti (Persson eTabellini 1994, p. 16).

Alesina e Grilli (1994) hanno adattato il modello di Rogoffal caso della Banca Centrale Europea (BCE). Essi dimostranoche i benefici dell’unione monetaria sono maggiori se la BCEattribuisce più importanza alla stabilità monetaria che i governidei Paesi che vi partecipano. In tal modo, l’unione monetariarende più credibile le politiche anti-inflazionistiche dei governinazionali. Questa sembra essere la ragione per cui l’unionemonetaria è stata accolta più favorevolmente in Paesi con unalunga storia di inflazione, come l’Italia, che in Paesi come laGermania il cui impegno a controllare l’inflazione era credibileanche prima dell’introduzione della moneta unica. Ai governidei Paesi con una tradizione di politiche inflazionistiche ilguadagno di credibilità reso possibile dall’integrazione monetariaè apparso maggiore dei possibili costi in termini di disoccupa-zione.

Un’altra spiegazione della delega di poteri ad istituzioni non-maggioritarie fa intervenire l’approccio contrattuale alla teoriaeconomica dell’organizzazione (Williamson 1985). Fondamenta-le, in tale approccio, è la distinzione tra contratti completi edincompleti, ove per «contratto» si intende non solo una pro-messa giuridicamente vincolante, ma anche un accordo informaleo addirittura tacito. Un contratto completo specifica esattamenteciò che ogni parte contraente deve fare in tutte le situazionipossibili, e come i benefici e costi dell’accordo vadano ripartitiin ciascun caso. È nell’interesse di tutti i contraenti rispettarescrupolosamente i termini di un tale accordo, ma un contrattocompleto è chiaramente un’astrazione teorica. In pratica sipresentano sempre situazioni impreviste, e spesso imprevedibili,nel momento in cui l’accordo veniva raggiunto. Pertanto, tuttii contratti di una certa complessità sono contratti «incompleti»,il cui adempimento, nella forma originale, è spesso problematico.

Nel caso di contratti di questo tipo, i contraenti hanno unincentivo a non rispettare i termini originali dell’accordo inquanto non è del tutto chiaro cosa si debba fare nel caso dieventi imprevisti. Ciò riduce la credibilità dell’accordo stesso.Il problema può essere risolto trasformando il contratto incom-pleto in un contratto «di relazione» (relational contracting). Inun contratto di questo tipo, le parti contraenti non tentanonemmeno di definire in dettaglio i termini dell’accordo. Piut-tosto, si cerca un accordo sui principi generali, sui criteri di

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decisione da seguire nel caso di eventi imprevisti, su chi ha ilpotere di agire in tali situazioni, ed entro quali limiti, e sumeccanismi per la risoluzione di eventuali conflitti (Milgrom eRoberts 1992). Una decisione cruciale, in tale approccio, è lascelta di un meccanismo per adattare il contratto al verificarsidi contingenze imprevedibili. In molti casi una particolarepersona o istituzione gode di una speciale autorità nel deciderequali adattamenti devono essere apportati. Tuttavia, i contraentisaranno disposti a delegare tale autorità solo se hanno unaragionevole certezza che essa verrà usata in modo equo edefficace. Milgrom e Roberts suggeriscono che il potere diadattare il contratto dovrebbe essere delegato a chi ha più darimetterci da una perdita di reputazione. Tipicamente si tratteràdi persone o istituzioni che, rispetto ai contraenti, hanno unorizzonte temporale più lungo, una maggiore visibilità e mag-giore frequenza di interazioni con altri soggetti: un tribunale oun’autorità amministrativa indipendente, ad esempio, piuttostoche un politico esposto alle incertezze del ciclo elettorale, oun’anonima burocrazia ministeriale.

L’approccio contrattuale può essere utilmente applicato alcaso della Comunità Europea, in particolare per spiegare perchégli stati membri abbiano acconsentito a delegare importantipoteri alla Commissione e alla Corte di Giustizia. Il Trattatodi Roma è un «trattato quadro» piuttosto che un accordointernazionale di carattere specifico, come il Trattato dellaComunità del Carbone e dell’Acciaio o il Trattato Euratom. Conpoche eccezioni, il Trattato di Roma contiene solo principigenerali ed indicazioni altrettanto generali sulle politiche daintraprendere. Il compito di specificare le misure concrete perrealizzare gli obiettivi elencati nell’articolo 2 è stato delegato alleistituzioni europee. Pertanto il Trattato può essere visto comeun «contratto di relazione» tra gli stati membri. Come dettosopra, questo tipo di rapporto contrattuale si limita a fornireun quadro generale per le attività future, essendo impossibiledeterminare ex ante tutte le modalità di applicazione e dimodifica dell’accordo originale. Effettivamente, l’articolo 235(ora articolo 308), il quale attribuisce alle istituzioni europee unagenerale competenza legislativa nell’ambito delle politiche de-finite dal trattato, è uno strumento per rimediare (nel sensochiarito sopra) all’incompletezza contrattuale che caratterizzatutti i documenti costituzionali.

Nei primi tre decenni della Comunità, la Commissione e la

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Corte hanno giocato un ruolo cruciale nel processo di adatta-mento dell’accordo originale alle varie fasi dell’integrazioneeuropea. È questo il periodo in cui la «sovranazionalità norma-tiva» (Weiler 1985) si è definitivamente affermata. D’altra parte,l’atteggiamento di minor fiducia dei governi nazionali versoqueste istituzioni si manifesta nel modo più chiaro nella frequen-za delle revisioni costituzionali negli ultimi quindici anni. Dal1957 all’Atto Unico del 1987, la «costituzionalizzazione» dellaComunità e l’espansione apparentemente inarrestabile delle suecompetenze sono avvenute quasi esclusivamente su iniziativadella Commissione e della Corte, anche se, naturalmente, colconsenso degli stati membri. Ma a partire dai primi anni ’90l’iniziativa è passata a questi ultimi. Cinque anni dopo l’AttoUnico, il Trattato di Maastricht introduce principi, quali lasussidiarietà e la enumerazione delle competenze, che modifi-cano in profondità la costituzione comunitaria. Anche quandonuove competenze vengono assegnate al livello europeo, ciòavviene in modo molto circoscritto. Ad esempio, la armoniz-zazione delle legislazioni nazionali – uno degli strumenti piùimportanti tra quelli a disposizione della Commissione – spessoviene esplicitamente esclusa. Anche il ricorso alla Corte diGiustizia è limitato o del tutto escluso in settori quali la politicaestera, la difesa e la cooperazione giudiziaria. Il Trattato diAmsterdam del 1997 e quello di Nizza (firmato ufficialmenteil 26 febbraio 2001 ma a tutt’oggi – agosto 2002 – non ancoraratificato a causa del risultato negativo del referendum irlandese)seguono lo stesso schema. Torneremo in seguito sul significatodi tutto ciò per il processo d’integrazione. Per il momento èsufficiente notare che, a partire dal 1987, i trattati sono statimodificati, sempre su iniziativa dei governi nazionali, ogni treanni circa. Ricordando le osservazioni di Milgrom e Roberts aproposito della delega del potere di modificare i termini di uncontatto di relazione, non si può fare a meno di dedurre cheil rapporto fiduciario tra i governi nazionali e le istituzionisopranazionali si è ormai seriamente incrinato. Torneremo suquesto tema nelle pagine conclusive del presente lavoro. Per ilmomento, resta da completare il discorso sulle istituzioni non-maggioritarie considerando, oltre agli aspetti funzionali, anchequelli normativi.

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4. Il problema della legittimazione

Se dal punto di vista funzionale non è difficile giustificarel’esistenza di istituzioni pubbliche strutturate in modo tale danon essere direttamente responsabili né verso gli elettori né versoi loro rappresentanti, più complesso è il problema della lorolegittimazione. Pretendere, come spesso si fa, una legittimazionedemocratica per istituzioni di questo tipo equivale a introdurrenel dibattito pubblico un ossimoro, una contraddizione intermini, utile solo a confondere le idee. Come si è cercato didimostrare sopra, si ricorre a istituzioni non-maggioritarie, siaa livello nazionale che internazionale, precisamente per ovviarea certe inevitabili conseguenze del metodo democratico o, inlinguaggio più tecnico, per ridurre i costi di transazione risultantidall’uso del principio maggioritario. Una volta chiarito questopunto, il problema della legittimazione diventa quello di deter-minare criteri appropriati di valutazione, rispondenti cioè sia alcarattere non-maggioritario delle istituzioni che alle normefondamentali dello stato di diritto. Il quadro di riferimento,pertanto, sarà quello di un sistema di democrazia costituzionale,e non di una democrazia in cui le maggioranze sono in gradodi «controllare tutti i poteri dello stato – esecutivo, legislativoe, se lo desiderano, anche il potere giudiziario – ed in tal modocontrollate tutto ciò che la politica può toccare» (Spitz 1984,citata da Lijphart 1991, p. 486). Al contrario della democraziamaggioritaria pura («giacobina»), che tende a centralizzare ilpotere, la democrazia costituzionale usa una varietà di mecca-nismi istituzionali per dividere, disperdere e limitare il potere,creando in tal modo un ambiente favorevole allo sviluppo diistituzioni non-maggioritarie.

In una democrazia costituzionale, criteri di valutazione ap-propriati sono, in primo luogo, quelli di natura procedurale. Unaistituzione non-maggioritaria gode di legittimazione proceduralese essa è stata creata da una legge parlamentare (o da un trattatointernazionale ratificato dai parlamenti nazionali), che ne defi-nisce i poteri e gli obiettivi; se i suoi dirigenti sono nominatida politici democraticamente eletti; se i suoi processi decisionaliseguono regole ben definite; se, infine, le sue decisioni sonoesplicitamente giustificate, e sono sottoposte al controllo giudi-ziario. Le istituzioni europee soddisfano ampiamente questicriteri e anzi, per certi aspetti, godono di una maggiorelegittimità procedurale di molte istituzioni nazionali.

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Si prenda, ad esempio, l’articolo 190 del Trattato di Roma(ora articolo 253 del Trattato CE) secondo il quale «Regola-menti, direttive e decisioni del Consiglio e della Commissionedevono fornire le ragioni sulle quali si basano». Quando ilTrattato venne ratificato, nessuno degli stati membri aveva nelproprio ordinamento un obbligo di portata così generale, dimodo che le disposizioni comunitarie erano, ed in parte ancorasono, non solo diverse ma anche più avanzate delle legislazioninazionali. Ora, l’obbligo di giustificare le proprie decisioni è unodei mezzi più semplici ma anche più efficaci per assicurare latrasparenza e la responsabilità degli amministratori pubblici.Infatti, tale obbligo tende ad attivare numerosi altri meccanismiquali il controllo giudiziario, la partecipazione ed il pubblicodibattito, l’analisi scientifica delle politiche pubbliche. Come hascritto Martin Shapiro (1992, p. 183): «l’obbligo di spiegare ledecisioni è uno strumento per accrescere le influenze democra-tiche sulla amministrazione, rendendo il governo più trasparente.L’amministratore che deve spiegarsi ha maggiori probabilità didecidere in modo ragionevole, ed è più esposto alla sorveglianzadei cittadini».

L’esistenza di istituzioni non-maggioritarie in tutte le demo-crazie liberali dimostra che per certi scopi, la credibilità, laspecializzazione, l’equità o l’indipendenza di giudizio sonoconsiderate più importanti della responsabilità diretta agli elet-tori. Pertanto, un altro metodo di legittimazione è costituito dallacapacità di produrre risultati migliori, nel campo assegnato,rispetto ad altre soluzioni istituzionali (accountability by results).Si noti che molti dei criteri di legittimità procedurale hannocome scopo ultimo quello di facilitare, direttamente o indiret-tamente, la valutazione dei risultati ottenuti, e pertanto diaccrescere quella che possiamo chiamare legittimità sostanziale(Majone 1996). I criteri di legittimità sostanziale includono, oltrealla qualità dei risultati, anche la coerenza delle politiche e laloro rispondenza ai fini della legislazione istitutiva, la compe-tenza tecnica, la capacità di difendere gli interessi diffusi e,soprattutto, una precisa delimitazione dei compiti. Infatti, soloobiettivi precisi e limitati permettono una valutazione oggettivadei risultati, mentre l’affidamento di obiettivi multipli, e quindidella responsabilità di fare delle scelte di valore, equivale ad unaillegittima delega di poteri legislativi ad un organismo non eletto.

In conclusione, si può dire che, applicando al meglio i criteriprocedurali e sostanziali indicati sopra, un’istituzione non-

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maggioritaria può raggiungere un livello sufficiente di legittimitàagli occhi dei cittadini di un Paese democratico. Tuttavia, le basinormative della sua azione restano estremamente fragili econtestabili. Ne segue che queste limitate risorse normativedevono essere economizzate, usandole solo per compiti che nonpossono essere efficacemente assolti da istituzioni di altro tipo.

Una analoga conclusione è stata raggiunta da alcuni studiosidi una tra le più antiche e potenti istituzioni non-maggioritarie:la Corte Suprema degli Stati Uniti. Quando la Corte dichiaraincostituzionale una legge del Congresso o di un parlamentostatale, essa decide in modo contrario alla volontà democrati-camente espressa dei rappresentanti del popolo, e quindi sipresenta anche in questo caso un problema di legittimazione.In una delle opere più note sulla legittimità della judicial reviewin un sistema democratico, il giurista John Hart Ely (1980)sostiene che la corte costituzionale americana dovrebbe limitarsia due funzioni principali. In primo luogo, essa dovrebbe«mantenere aperti i canali del cambiamento politico», special-mente proteggendo vigorosamente la libertà di espressione e divoto. Inoltre, essa dovrebbe facilitare la rappresentanza politicadelle minoranze. Altre funzioni dovrebbero essere lasciate ainormali processi democratici.

Ancora più radicale la posizione di un altro giurista ameri-cano, Jesse Choper (1980). La tesi di Choper è che la Cortedeve continuare ad esercitare il controllo di costituzionalità –anche quando tale controllo assume un carattere esplicitamente«anti-maggioritario» – al fine di proteggere diritti individuali chenon sono adeguatamente rappresentati dal sistema politico.Invece la Corte dovrebbe rifiutare di intervenire in altri casi –perfino in quelli su federalismo e sulla separazione dei poteri,che tanto importanza hanno tradizionalmente avuto nella giu-risprudenza costituzionale – al fine di minimizzare la tensionetra la judicial review ed i principi della democrazia, e dieconomizzare l’uso del prestigio istituzionale e della legittimitàdella Corte stessa.

Anche la Corte Europea deve affrontare analoghi problemidi legittimazione. Alcuni giuristi parlano addirittura di una «crisidi legittimità» che investe i rapporti tra la Corte, da un lato,ed i governi, le corti (specialmente alcune corti costituzionalicome quella italiana e tedesca) ed i cittadini degli stati membri,dall’altro. Le cause principali di tale crisi vengono identificatein un eccessivo attivismo giudiziario e nel ruolo politico che la

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Corte ha spesso assunto, schierandosi a favore del processo diintegrazione invece di limitarsi alla sua funzione di interpretedei trattati. Si fa osservare che se un certo attivismo poteva esseregiustificato nel passato, quando le istituzioni europee eranobloccate dal gioco dei veti incrociati, oggi la situazione è diversae la soluzione di problemi di natura politica può esseredemandata agli organi politici – Consiglio, Parlamento e Com-missione. Come la Corte Suprema degli Stati Uniti, anche laCorte Europea viene dunque invitata a ridurre il proprio deficitdemocratico mediante un uso più parsimonioso dei suoi poteri(Friedbacher 1996 e letteratura ivi citata).

Tali critiche non sembrano essere cadute nel vuoto. Si ritiene,ad esempio, che il cambiamento di indirizzo iniziato con i casiKeck e Mithouard del 1993 rappresentino una nuova strategiadi auto-limitazione di una Corte preoccupata della progressivaerosione della propria base di legittimità. La decisione di questicasi (riuniti) rappresenta una svolta in quanto modifica ladottrina tradizionale sulla libertà di movimento dei beni all’in-terno del mercato comune. Tale dottrina proibiva qualsiasiregolazione nazionale capace di impedire «direttamente o indi-rettamente, di fatto o potenzialmente» (secondo la formula dellafondamentale decisione Dassonville del 1974) il commercio intra-comunitario. Le uniche eccezioni ammesse erano quelle elencatenell’articolo 36 del Trattato di Roma; in particolare, misurenazionali giustificate dalla necessità di proteggere la salute e lavita dei propri cittadini. Ora, la decisione del 1993 riconoscela legittimità di certe regole nazionali – nel caso specifico, unalegge francese che proibisce le vendite sotto costo a finipromozionali – anche se esse interferiscono in qualche modocon la libertà di commercio nel mercato unico.

Alla decisione Keck e Mithouard hanno fatto seguito sentenzeriguardanti altre misure nazionali quali: divieti d’apertura do-menicale dei negozi; orari di chiusura; restrizioni di certe formedi pubblicità televisiva; vendita esclusivamente in farmacia dicerti prodotti per neonati; e l’obbligo di vendere sigarette soloin negozi autorizzati. In tutti questi casi, la Corte ha ammessola legittimità di regole che un tempo sarebbero state proibitein base alla dottrina Dassonville. Essa sembra ora disposta adaccettare una maggiore autonomia legislativa dei Paesi membri,nella speranza che questo atteggiamento più rispettoso dellasovranità nazionale possa arrestare l’erosione della sua base dilegittimità.

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Tra le altre istituzioni europee di tipo non-maggioritario, laCommissione è certamente quella che incontra i maggioriproblemi di legittimazione. In larga misura ciò è dovutoall’ampiezza dei poteri che le sono stati attribuiti, ma anche auna certa bulimia istituzionale – la costante tentazione diinglobare nuove competenze. Quando il Presidente Prodi chiedeche anche la conduzione della politica estera dell’Unione vengaaffidata alla Commissione – una richiesta che ha sollevatonotevoli perplessità non solo nei governi nazionali ma ancheall’interno della stessa Commissione – egli non fa che proseguireuna strategia di espansione istituzionale iniziata negli anni ’60dal primo presidente, Walter Hallstein. La visione che ispiraquesta strategia è una Commissione elevata al ruolo di unicopotere esecutivo in un futuro stato federale europeo. Di quianche la proposta, apparentemente ora abbandonata, di un’ele-zione popolare diretta del suo presidente. Per capire quantopoco questa visione federale, e la stessa idea di separazione deipoteri, corrispondano alla logica del metodo comunitario, èopportuno esaminare più da vicino l’architettura istituzionaledisegnata dal Trattato di Roma.

5. La Comunità Europea come «governo misto»

Secondo un luogo comune che si ritrova non solo neimanuali scolastici ma anche in lavori scientifici, la Comunitàè un sistema politico sui generis. Questa presunta unicità hascoraggiato ogni tentativo di ricerca di modelli istituzionali chepotessero aiutare a meglio comprendere l’essenza del metodocomunitario. È certamente vero che la Comunità Europea noncorrisponde ad alcuno dei sistemi di governo attuali; inparticolare, essa non corrisponde né a un sistema di democraziaparlamentare, né tanto meno ad un sistema presidenziale. Ciònon significa, tuttavia, che il sistema creato dal Trattato nonabbia precedenti storici – precedenti che, se ben compresi,possono aiutare non solo a capire meglio il sistema attuale,ma anche a riconoscere le possibili traiettorie evolutive. Unutile punto di partenza nella ricerca di tali precedenti èun’osservazione del giurista Jean Paul Jacqué secondo cui ilprincipio organizzatore della Comunità non è la separazionedei poteri, ma la rappresentanza di (certi) interessi. Ciascunaistituzione comunitaria è portatrice di un particolare interesse

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che essa ha il compito di proteggere e di promuovere. Gliinteressi riconosciuti dai trattati sono quelli dei singoli statimembri, l’interesse «generale» della Comunità in quanto tale,e, infine, gli interessi «dei popoli degli stati riuniti nellaComunità» (articolo 137 del Trattato di Roma, ma la medesimaespressione si trova nei Trattati CECA e Euratom).

La natura dell’interesse considerato prevalente in una certamateria, determina la natura del processo decisionale. Quandogli autori del Trattato hanno ritenuto che gli interessi nazionalidovessero prevalere in un campo di particolare significato perla sovranità nazionale, come ad esempio l’armonizzazione fiscale,essi hanno determinato che le decisioni nel Consiglio dei Ministridevono essere prese all’unanimità. Quando invece si è ritenutoche gli interessi nazionali devono essere armonizzati con l’in-teresse comune, il Consiglio legifera a maggioranza qualificata,in modo da attribuire un maggior peso alla proposta dellaCommissione, che, come sappiamo, detiene il monopolio del-l’iniziativa legislativa. Infine, nelle materie in cui l’interessecomune deve prevalere sui singoli interessi nazionali – adesempio, il controllo degli aiuti di stato contrari alle regolecomunitarie della concorrenza – un autonomo potere decisionaleè stato attribuito alla Commissione. Insomma, ciascun attolegislativo segue una specifica procedura decisionale, secondola natura del particolare interesse che il Trattato vuole proteg-gere (Jacqué 1991).

Come si vede, il processo legislativo è stato strutturato inmodo da riconciliare i diversi interessi ritenuti più rilevanti aifini dell’integrazione europea; e tale riconciliazione avvienenell’interazione tra Consiglio, Commissione e Parlamento. Pro-prio per facilitare questa interazione si è preferito sacrificare ilprincipio della separazione dei poteri a favore di quello, benpiù antico, della rappresentanza di interessi corporati. Una dellecaratteristiche più singolari della Comunità, infatti, è l’impos-sibilità di stabilire una relazione univoca tra funzioni e istituzioni.La Comunità non ha un singolo organo legislativo, ma piuttostoun processo legislativo nel quale diverse istituzioni – Consiglio,Parlamento e Commissione – svolgono ruoli diversi. Analoga-mente, non c’è un unico organo esecutivo dato che il potereesecutivo è esercitato, per certi scopi, dal Consiglio che agiscesulla base di una precedente proposta della Commissione; peraltri scopi (ad esempio, nel campo della politica della concor-renza) esso è esercitato dalla Commissione; mentre sono le

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amministrazioni degli stati membri a dare esecuzione pratica allepolitiche comunitarie.

Ora, compiendo una chiara scelta a favore del principio dellarappresentanza di interessi invece della separazione dei poteri,gli autori del Trattato hanno riscoperto, sia pure inconsciamente,una forma di governo già nota agli antichi e largamente diffusain Europa nei secoli tra la fine del Medio Evo e l’affermarsidell’assolutismo monarchico: quella forma di «governo misto»che trionfò in Inghilterra con la Gloriosa Rivoluzione del 1688-1689, e che ebbe la sua sistemazione teorica con Locke eMontesquieu. Il tratto distintivo di questo tipo di governanceè la partecipazione dei grandi interessi politici e/o socioecono-mici all’esercizio della sovranità, intesa come potere di legiferare.Come ha scritto Nicola Matteucci (1993, p. 49), il governo mistosi ispira «a un ideale di equilibrio dei poteri, una vera e propriabalance of powers fra tre realtà sociali e politiche (il re, la nobiltà,il terzo stato), la quale impedisse che una di esse potesse imporrela propria egemonia, perché tutte partecipavano al supremopotere e solo il loro accordo... poteva dar luogo a una leggevalida».

Il principio dell’equilibrio istituzionale gioca un ruolo fonda-mentale anche nell’architettura costituzionale della Comunità.Infatti la norma secondo cui «ciascuna istituzione deve agireentro i limiti dei poteri conferitile da questo Trattato» (articolo7 (1)) deve essere letta alla luce di tale principio. Ciò significache ciascuna istituzione: (1) gode della necessaria indipendenzanell’esercizio dei suoi poteri; (2) deve rispettare i poteri dellealtre istituzioni; e (3) non può delegare i propri poteri ad altreistituzioni o corpi se non entro limiti molto stretti (Lenaerts eVan Nuffel 1999). La ben nota rigidità istituzionale dellaComunità è dovuta, in buona parte, proprio alla centralità dellanorma dell’equilibrio tra le istituzioni (Majone 2002). Natural-mente, tale equilibrio non implica tanto una eguale ripartizionedel potere tra i diversi interessi corporati (è ben noto che ilConsiglio ha poteri maggiori delle altre istituzioni europee)quanto il mantenimento della posizione relativa di ciascuninteresse (nazionale, sopranazionale o «popolare») nel corso delprocesso d’integrazione. È compito della Corte di Giustiziaassicurare il rispetto dell’equilibrio istituzionale, quale risultadall’accordo raggiunto a livello «costituzionale».

Diversi aspetti anomali del modello comunitario – anomalirispetto agli standard del moderno stato democratico – diven-

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tano comprensibili se interpretati alla luce del modello digoverno misto. Si può, ad esempio, notare che il concettomoderno di sovranità indivisibile è incompatibile con entrambii modelli. Nel governo misto, la sovranità – che si esprime nellapotestà legislativa – è gestita in comune dai corpi o ceti checostituiscono il sistema politico. Così, nell’Inghilterra del diciot-tesimo secolo la sovranità poteva risiedere nel parlamento soloperché i tre ceti del regno – re, nobiltà, e comuni – si riunivanolì per legiferare. In modo analogo, gli elementi di sovranità chegli stati membri hanno deciso di trasferire al livello europeovengono esercitati in comune dalle istituzioni comunitarie,secondo lo schema al quale si è fatto riferimento sopra.

Nelle moderne democrazie, la lotta politica ha come temiprincipali il controllo del potere e la formulazione ed attuazionedelle politiche pubbliche, specialmente quelle che determinanola formazione e distribuzione del reddito nazionale. Nulla ditutto questo nell’antico sistema di governo misto, dove il temaprincipale della vita politica era il conflitto che opponeva unceto ad un altro nella difesa delle rispettive prerogative eimmunità. Anche in questo, la Comunità è più vicina al modellopre-moderno che alle democrazie parlamentari dei nostri giorni:da un lato, non esiste un potere centrale da conquistare in unacompetizione tra partiti politici; dall’altro, le politiche comuni-tarie non vengono decise da una maggioranza di governo, mada un accordo, o scambio politico, tra le diverse istituzioni. Nona caso, nella maggioranza delle votazioni il PE non si dividesecondo criteri di appartenenza politica, ma presenta un fronteunito nel confronto con le altre istituzioni europee – a voltecontro la Commissione, più spesso contro i governi nazionalirappresentati nel Consiglio dei Ministri (Hix 1999). Pertanto ilconflitto politico a livello comunitario si manifesta, come neisistemi di governo misto, soprattutto nella difesa delle prero-gative del Consiglio, della Commissione, del Parlamento, e nelmantenimento dell’equilibrio tra questi corpi. Di qui l’abbon-dante giurisprudenza della Corte di Giustizia sui conflitti dicompetenza tra le istituzioni europee.

Un’altra caratteristica del governo misto è l’assenza di unaamministrazione centralizzata, dato che ogni ceto doveva prov-vedere direttamente al soddisfacimento dei bisogni dei suoimembri, mentre non esisteva un rapporto diretto tra il governoed i singoli membri dei ceti o delle corporazioni. Si tratta delsistema che Mannori e Sordi (2001) chiamano la «auto-ammi-

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nistrazione della società corporata». Anche qui l’analogia conil sistema comunitario è abbastanza evidente. La Comunità nondispone di una vera burocrazia, dato che l’amministrazione, ivicompresa l’implementazione effettiva delle politiche comunitarie,è affidata, come già ricordato, in primo luogo alle burocrazienazionali, e solo in minima misura alla Commissione. Lamancanza di un vero diritto amministrativo europeo è la naturaleconseguenza di questo stato di cose.

Infine, anche il deficit democratico – cioè il ruolo limitatoassegnato ai principi democratici nel sistema comunitario –diventa più comprensibile alla luce del modello di governomisto. Per certi aspetti fondamentali, tale modello – che risalead Aristotele, uno dei più accesi critici della democrazia greca,e che trae ispirazione non da Atene, ma da Sparta e, ancor più,dalla Roma repubblicana e dalla repubblica di Venezia – nonè una variante ma piuttosto un’alternativa alla democraziamaggioritaria (Dahl 1989). Il governo misto, specialmente nellaforma che esso assunse in Inghilterra con la Gloriosa Rivolu-zione, serviva a depoliticizzare la società dopo i conflitti e lefazioni della guerra civile. La costituzione mista (che per la primavolta includeva tra gli interessi corporati anche i giudici di dirittocomune, ormai indipendenti) costituiva il fondamento dellasocietà inglese finalmente pacificata, non dai partiti politici madal diritto. Anche la pacificazione europea dopo la secondaguerra mondiale è avvenuta in buona misura con mezzi apolitici:giuridici («integration through law») ed economici. Come giàricordato, dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesasi era compreso che l’integrazione del continente aveva piùprobabilità di avanzare se messa al riparo da conflitti politiciche, almeno nelle prime fasi del processo, sarebbero statinecessariamente conflitti tra interessi nazionali divergenti piut-tosto che tra diverse visioni della futura società europea. Perdiversi decenni, il diritto e l’economia – l’integrazione giuridicaed economica – hanno reso possibili risultati che non sisarebbero potuti ottenere con mezzi politici. Resta da vederese la crescente politicizzazione della Comunità permetterà diconseguire risultati altrettanto significativi. La tensione trapolitica e metodi non-maggioritari si rivela in modo particolar-mente acuto nel caso della Commissione Europea.

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6. Il dilemma della Commissione

Come abbiamo visto, nel sistema comunitario di governomisto alla Commissione spetta il compito di proteggere epromuovere l’«interesse comune», ossia, più concretamente, gliobiettivi di integrazione – in primo luogo, la costruzione delmercato unico europeo – definiti dai trattati. Tutti i poteri ele prerogative dell’istituzione, come anche il suo carattere non-maggioritario, trovano la loro giustificazione in questo ruolo. Ilsacrificio del principio maggioritario a favore del processod’integrazione significa che i concetti costitutivi del discorsodemocratico – maggioranza-minoranza, governo-opposizione,destra-sinistra – non sono direttamente traducibili nel linguaggiocomunitario. L’irrilevanza delle categorie politiche tradizionaliè a volte apertamente riconosciuta. Ad esempio, il PresidenteProdi, presentando la sua squadra al PE il 21 luglio 1999, disse:«Questa nuova Commissione... rappresenta un buon equilibriotra il colore politico dei governi nazionali e quello del PE, ene sono contento. Tuttavia voglio essere chiaro. La Commissionenon funziona secondo una logica politica. Questa Commissioneè un organo collegiale ed i Commissari non sono rappresentantidi gruppi politici come non sono rappresentanti dei governinazionali» (citazione in Magnette 2001, p. 300).

È tuttavia importante riconoscere il carattere soprattuttoideologico di questa affermazione. In realtà, la Commissione èpoliticizzata a tutti i livelli, anche se non in senso maggioritario.La sua composizione politica non riflette tanto la maggioranzaespressa dalle elezioni europee, quanto le preferenze dei governinazionali, come è naturale dato il loro ruolo preponderante nellanomina del presidente e dei commissari. I maggiori potericonferiti in questo campo al Parlamento dai Trattati di Maa-stricht e di Amsterdam non hanno sostanzialmente mutato lasituazione. Così, ad esempio, nelle elezioni europee del 1999 ilPartito Popolare sostituì il Partito Socialista come gruppoparlamentare più numeroso, mentre la maggioranza dei governinazionali rimaneva di centro-sinistra. A dispetto dei risultatielettorali, dieci dei venti membri della Commissione Prodi sonoconsiderati vicini al Partito Socialista Europeo e solo cinquepossono essere collegati al Partito Popolare Europeo. Del resto,un Commissario che, una volta terminato il mandato, vogliaproseguire la sua carriera politica nel Paese d’origine, ha tuttol’interesse a mantenere buoni rapporti con il proprio governo.

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Scarsi, invece, sono gli incentivi a intraprendere una carrierapolitica nel PE.

Ma se l’idea di una Commissione apolitica non corrispondepiù alla realtà – e anzi non vi ha mai pienamente corrisposto– esso esprime bene l’originale modello istituzionale. Infatti, perassolvere al meglio le sue funzioni quale custode dei trattati,difensore dell’interesse comune, e «onesto mediatore» tra idiversi interessi nazionali ed istituzionali, è essenziale che laCommissione venga percepita come organo tecnico super partes.Tuttavia, in evidente contrasto con il quadro tracciato al PE,lo stesso Prodi ha spesso descritto la Commissione come un«governo europeo» e se stesso come un «Primo ministroeuropeo» (Peterson 2002). Che non si tratti di estemporaneedichiarazioni off the record è dimostrato dalle proposte di riformaistituzionale contenute nel Libro Bianco su La GovernanceEuropea. A pagina 66 del documento si parla di rinvigorire ilmetodo comunitario mediante riforme che includano una nettadistinzione tra potere legislativo e potere esecutivo. Il modellodella separazione dei poteri, che «segue quello delle democrazienazionali», «deve permettere alla Commissione di assumersi lapiena responsabilità dell’esecuzione», oltre che della formulazio-ne, delle politiche comunitarie In tal modo la Commissionediventerebbe il vero esecutivo europeo, le cui competenze,secondo quanto più volte dichiarato dall’attuale presidente,dovrebbero includere anche la politica estera ed il coordinamen-to effettivo delle politiche economiche e fiscali dei Paesi membri.

Ma un esecutivo europeo, il cui capo fosse eletto dalParlamento Europeo (modello parlamentare), o addirittura dalvoto popolare (modello presidenziale), non potrebbe evidente-mente essere l’organo tecnico super partes previsto dal Trattatodi Roma. D’altra parte, in mancanza di una piena legittimazionedemocratica, un ulteriore trasferimento di competenze a Bru-xelles renderebbe il deficit democratico del tutto insostenibile.Vale anche la pena di notare un’altra incongruenza che sembraessere sfuggita agli estensori del Libro Bianco. Le riformeproposte dovrebbero servire a rinforzare, non a scardinare, ilmetodo comunitario; e da tutto il testo traspare la fermaintenzione di mantenere, e possibilmente estendere, tutti i poterie le prerogative di cui la Commissione oggi gode. Ora, comeabbiamo visto e come il documento ricorda (a p. 12), unelemento essenziale del metodo comunitario è che «spettaesclusivamente alla Commissione europea presentare proposte

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legislative ed in tema di politiche». Tuttavia, in un sistemaparlamentare di separazione dei poteri l’esecutivo ha il dirittodi presentare disegni di legge, ma non può avere l’esclusivomonopolio dell’iniziativa legislativa. Ricordiamo che nel contestocomunitario tale monopolio significa che né il Consiglio né ilParlamento possono prendere alcuna decisione avente effettigiuridici senza una previa proposta della Commissione. Comesi è spiegato, il monopolio dell’iniziativa legislativa ha giocato,e continua a giocare, un ruolo fondamentale nel processo diintegrazione; è proprio questa la ragione per cui la Comunitànon è basata sul principio della separazione dei poteri, ma suquello della rappresentanza degli interessi, secondo il modellodel governo misto. Pertanto la Commissione deve scegliere trala conservazione di tale straordinario potere, sia pure in campilimitati, ed il ruolo di esecutivo europeo con competenzegenerali, ma rinunciando al monopolio dell’iniziativa legislativa.Separazione dei poteri e metodo comunitario, vale la pena diripetere, sono incompatibili.

In altre parole, la Commissione deve scegliere tra il ruolo,importante ma limitato, che i trattati le assegnano e l’ambizione,perseguita con tenacia da decenni, di diventare un vero «governoeuropeo». Sembra da escludere che gli stati membri sianodisposti ad assecondare tale ambizione; ma quello che ciinteressa qui non è tanto la fattibilità politica del progetto quantole sue implicazioni normative. Cominciamo con l’osservare cheil modesto livello di legittimità che i trattati concedono allaCommissione – una legittimazione derivata, in buona misura,dal carattere democratico degli stati membri – è appenasufficiente per i compiti contemplati originalmente. Di qui laricerca, da parte della Commissione, di più robuste fondamentanormative, capaci di sostenere le sue ambizioni. Scartata, perragioni di fattibilità pratica e politica, ma non senza riluttanza,l’ipotesi di una elezione popolare diretta del presidente, lesperanze si sono appuntate sul PE al quale dovrebbe essereaffidato il ruolo principale nella designazione della Commissionee del suo presidente. È importante capire perché il Parlamentonon è comunque in grado di fornire una legittimazione suffi-ciente.

L’elezione diretta del PE, a partire dal 1978, suscitò inizial-mente molte speranze che in tal modo l’intero processo d’in-tegrazione potessero finalmente acquisire una vera legittimitàdemocratica. Dopo due decenni dobbiamo ammettere che ciò

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non è avvenuto. Anzi, l’aumento dei poteri del Parlamento, apartire dall’Atto Unico Europeo, è stato accompagnato da uncostante declino della partecipazione al voto europeo. Le elezionidel 1999 hanno segnato, per la prima volta, un tasso dipartecipazione inferiore al 50%, con minimi inferiori al 30%non solo nel Regno Unito, ma anche nei Paesi Bassi, uno deimembri fondatori della Comunità. La ricerca politologica hachiarito la ragione di questo risultato deludente: le elezioni peril PE non vengono combattute come «elezioni europee», macome «elezioni nazionali del secondo ordine». Ciò significa chein esse non dominano temi europei ma temi e problematichenazionali. Le consultazioni nazionali, invece, sono «elezioni delprimo ordine» in quanto il loro scopo è di decidere quale partitoo coalizione governerà il Paese. Poiché la conquista del dirittodi governare è l’obiettivo principale dei partiti politici, questihanno forti incentivi ad usare tutte le altre consultazioni, siaeuropee che regionali e locali, per misurare la popolarità deipartiti che hanno vinto le ultime elezioni del primo ordine.

Il carattere «secondario» delle elezioni europee ha due con-seguenze importanti (Hix 1999). In primo luogo, esso spiegaperché la partecipazione a queste elezioni sia sistematicamenteinferiore, anche di trenta punti percentuali, a quella delle ultimeelezioni nazionali. In secondo luogo, le elezioni europee vengonousate per punire o premiare i partiti che formano il governonazionale, con tendenza a favorire i partiti d’opposizione (se laconsultazione europea non coincide con quella nazionale) o ipartiti minori. Inoltre, diversi sondaggi suggeriscono che il calocontinuo di partecipazione è dovuto anche ad un crescenteconvincimento della scarsa rilevanza politica delle elezioni euro-pee: non solo esse non hanno lo scopo di formare un governoeuropeo e, dati i poteri limitati del Parlamento, nemmeno diinfluire in maniera decisiva sulle politiche comunitarie; masembrano essere anche poco influenti sulla politica nazionale. Allaluce di questi risultati appare abbastanza chiaro come il PE, lungidall’essere in grado di legittimare la Commissione, soffra essostesso di un serio problema di deficit democratico. Questo statodi cose è implicitamente ammesso dalla più recente proposta –che Prodi dovrebbe presentare nell’autunno 2002 alla Conven-zione sul Futuro dell’Europa – secondo la quale non solo il PEma anche i parlamenti nazionali dovrebbero prendere parte,secondo modalità ancora da determinare, alla scelta del presidentedella Commissione.

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In conclusione, non sembra che l’aspirazione a diventare ungoverno europeo pienamente legittimato possa essere soddisfattasenza una trasformazione in senso federale dell’attuale modellocomunitario – trasformazione che né i governi nazionali, né iloro elettori sembrano volere. In tale situazione i più arditiprogetti di ingegneria costituzionale non possono risolvere ildilemma centrale della Commissione: accettare il ruolo di organotecnico super partes che le assegnano i trattati, oppure perseguireambizioni più vaste, con il rischio di una progressiva perditadi legittimità.

7. Il paradosso dell’integrazione europea

Come già osservato, il problema del deficit democratico sipresenta non solo nel caso di singole istituzioni europee, madell’intero processo di integrazione. Per le ragioni indicate sopra,il carattere intrinsecamente non-maggioritario di tale processonon è stato sostanzialmente modificato dai maggiori poteriattribuiti al PE. In realtà, la difficoltà di perseguire gli obiettivid’integrazione con i metodi della democrazia parlamentare hacause profonde che non possono essere corrette mediantesemplici riforme istituzionali: da un lato, la mancanza di undemos europeo, di un «senso preesistente di identità collettiva»(Scharpf 1999); dall’altro, il fatto che il principio maggioritario,e lo stesso stato democratico, presuppongono l’esistenza di unacomunità abbastanza omogenea e solidale perché la minoranzariconosca la legittimità delle decisioni della maggioranza, e lamaggioranza sia disposta a finanziare misure di sostegno digruppi minoritari bisognosi di aiuto.

Paradossalmente, tuttavia, l’esistenza di un deficit democratico– ossia della mancanza o sottosviluppo delle istituzioni e deimeccanismi della democrazia parlamentare – non significa affattoche le istituzioni e le regole europee non contribuiscano in modopositivo alla qualità della vita democratica dei Paesi membri.Prima di chiarire questo paradosso (in realtà più apparente chereale), può essere utile cercare di comprendere meglio la naturadi tale deficit, completando così le osservazioni critiche svolteal n. 2. Un modo sbrigativo, ma in fondo non errato, di porrela questione consiste nell’osservare che se gli elettori dei Paesimembri volessero essere democraticamente governati da unostato federale europeo, essi non avrebbero altro da fare che usare

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lo strumento elettorale, obbligando i loro governanti a tradurrein termini politico-costituzionali la volontà popolare. Supporrealtrimenti equivale a dire che i sistemi politici di tali Paesisoffrono di gravi disfunzioni, contrariamente al loro caratteredemocratico generalmente riconosciuto. In realtà, dopo quasimezzo secolo, non esiste ancora in Europa una maggioranza,e nemmeno una consistente minoranza, disposta a trasferire aBruxelles le competenze e le risorse necessarie al funzionamentodi un moderno stato democratico. Si può pertanto concludereche questo «deficit democratico» è voluto dai cittadini europeie come tale è, per così dire, democraticamente giustificato: essorappresenta il prezzo che paghiamo per mantenere la sovranitànazionale sostanzialmente intatta (Majone 1998).

Per capire meglio la vera natura del problema è tuttavia utilepartire dall’ipotesi che esista una maggioranza a favore di ungoverno europeo. Si mostrerà che questo ipotetico governofederale sarebbe in grado di soddisfare solo in modo moltolimitato le domande dei cittadini e che, pertanto, esso finirebbecol perdere proprio quella legittimazione democratica che avreb-be dovuto assicurare a livello europeo. Infatti, un tale stato nonsarebbe in grado di soddisfare un fondamentale criterio didemocrazia, che Dahl (1989) ha chiamato il principio del«controllo finale dell’agenda». Secondo tale criterio, i cittadinidevono avere il potere di decidere in ultima istanza quali materievanno incluse nell’agenda dei problemi da risolvere secondo ilmetodo maggioritario. Ora, un governo europeo non sarebbein grado di attuare proprio quelle politiche che maggiormentecaratterizzano e legittimano il moderno stato sociale – politicheredistributive, assistenziali, o comunque tali da favorire deter-minati gruppi socioeconomici, o regioni, a spese di altri. A causadella prevedibile opposizione dei perdenti, decisioni politiche diquesto tipo possono essere prese solo a maggioranza; ma, comeabbiamo visto, il principio maggioritario presuppone una comu-nità politica sufficientemente omogenea ed è pertanto di difficileapplicazione in società caratterizzate da profonde divisionipolitiche, sociali, culturali e storiche.

Ne segue che uno stato federale europeo significherebbe nonsoltanto la perdita di buona parte della sovranità nazionale, maanche un’agenda politica estremamente ridotta rispetto a quelladegli stati nazionali. A parte la politica estera e di difesa, unafederazione europea dovrebbe limitarsi ad interventi che faci-litino l’efficiente funzionamento del mercato unico, e la corre-

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zione di eventuali «fallimenti» di questo mercato: un misto dimisure di liberalizzazione, di «integrazione negativa» (cioè dieliminazione degli ostacoli al movimento dei beni, del capitalee delle persone all’interno del territorio della federazione), e diarmonizzazione di certe regolazioni nazionali. In definitiva, nonmolto di più di ciò che l’Unione Europea già sta facendo.

Per completare la dimostrazione occorre osservare che ilcriterio del controllo popolare dell’agenda sarebbe di difficileapplicazione anche nel caso che una certa misura avesse ilsostegno della maggioranza dei cittadini della federazione. Basta,infatti, che quelli che si oppongono siano concentrati in unpiccolo numero di stati, dove costituiscono la maggioranza. Intale situazione, il principio maggioritario a livello federaleentrerebbe in conflitto con lo stesso principio a livello nazionale,ed il conflitto non sarebbe risolvibile appellandosi ad unipotetico «interesse generale». In realtà, qualsiasi politica pub-blica che trattasse in modo differenziato gli stati membri sarebbedestinata a creare seri problemi politici, e pertanto verrebberimossa dall’agenda federale. Nella situazione ipotizzata, perfinola legittimità di un parlamento federale direttamente elettoverrebbe messa in dubbio. Infatti, il parlamento, dovendorappresentare l’interesse di un fittizio popolo europeo, nonsarebbe in grado di rispondere alle domande degli elettoratinazionali. Di conseguenza, esso verrebbe considerato una formaimperfetta ed inefficace di rappresentanza, o addirittura accusatodi essere uno strumento di centralizzazione, al pari dellaCommissione e della Corte di Giustizia.

Vediamo ora di chiarire il paradosso di un sistema di regoleed istituzioni che, pur essendo essenzialmente non-maggioritario,ha contribuito in modo significativo, e in certi casi in mododecisivo, al miglioramento del processo democratico a livellonazionale. Ho detto che il paradosso è più apparente che realeperché tutte le democrazie liberali riconoscono l’importanza, perlo stesso processo democratico, di istituzioni non-maggioritariecome ad esempio le corti costituzionali e la stessa costituzione,che non può essere modificata da semplici maggioranze parla-mentari. L’elemento di novità, semmai, è che i vincoli definitidalle costituzioni nazionali non sono più sufficienti in un mondodi stati strettamente interdipendenti, e devono pertanto essereintegrati e rafforzati da regole ed istituzioni sovranazionali.

Studiosi come Nicola Matteucci (1993) hanno deplorato la«eclissi del costituzionalismo» nell’Europa del ventesimo secolo.

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In questo periodo, la mobilitazione delle risorse necessarie afinanziare due guerre mondiali ed uno stato sociale in continuaespansione, ha enormemente accresciuto il ruolo economicodello stato e, all’interno di questo, il potere esecutivo. L’assun-zione di responsabilità macroeconomiche da parte dello statokeynesiano ha ulteriormente esteso i poteri discrezionali dell’ese-cutivo. Alla fine, questi sviluppi hanno portato a riscoprire lalezione fondamentale del costituzionalismo: che ogni poterediscrezionale, anche il più benefico, può essere abusato, e chela prevenzione di tali abusi dipende in larga misura dall’esistenzadi regole fisse e di istituzioni indipendenti capaci di farlerispettare. Nell’Europa occidentale, l’importanza di questa le-zione è stata rafforzata dal processo d’integrazione.

La creazione di un mercato comune europeo, e le corrispon-denti regole di concorrenza, liberalizzazione e di «integrazionenegativa», hanno progressivamente obbligato i governi nazionaliad abbandonare politiche protezionistiche e discriminatorie neiriguardi di altri membri della Comunità, come pure ad eliminaremolti dei tradizionali sostegni a monopoli pubblici e privati. Ipoteri discrezionali dei governi sono stati ulteriormente ridottidalla disciplina imposta agli aiuti di stato e alle pratiche degliappalti pubblici, e dai criteri di convergenza imposti dall’unionemonetaria.

Sarebbe tuttavia errato supporre che l’influenza della costi-tuzione sopranazionale costituita dai trattati europei e relativagiurisprudenza, sia limitata al campo economico. Anche laprotezione dei diritti individuali se ne è grandemente avvantag-giata. Le due dottrine dell’efficacia diretta e del primato dellenorme comunitarie hanno gradualmente permesso alla CorteEuropea di estendere la sfera dei diritti protetti dal dirittocomunitario, e di stabilire il dovere dei giudici nazionali didifendere tali diritti, anche contro il loro stesso governo. Adesempio, l’articolo 190 del Trattato di Roma (ora articolo 253del Trattato CE) obbliga tutte le istituzioni europee a giustificarequalsiasi atto avente conseguenze giuridiche. Come già ricordato(v. n. 4), una tale norma era in anticipo rispetto alle legislazionidei Paesi membri. Ancor oggi, ad esempio, il diritto pubblicoinglese non impone agli amministratori pubblici un obbligogenerale di questo tipo. Nonostante ciò, la Corte è pronta adimporre tale obbligo alle autorità nazionali, se ciò può facilitarela difesa di diritti creati dalle norme europee. Nel caso Heylens(Caso 222/86, ECR 4097) la Corte ha argomentato che una

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difesa efficace di questi diritti può richiedere il controllogiudiziario di una decisione amministrativa. Pertanto, il giudicenazionale deve essere in grado di richiedere che l’autoritàamministrativa esponga le ragioni della sua decisione, anche seil diritto nazionale non lo impone (Thomas 1997).

Nel campo dei diritti sociali, l’articolo 119 del Trattato diRoma (ora articolo 141 del Trattato CE) ha giocato un ruolofondamentale. L’articolo – il quale stabilisce che uomini e donnedevono ricevere uguale compenso per uguale lavoro – fuintrodotto su richiesta della Francia, che temeva la concorrenzadi altri Paesi della Comunità in settori come l’industria tessileche impiegano una proporzione elevata di lavoratrici. Il proble-ma si poneva perché, ancor prima della creazione della ComunitàEuropea, la Francia, a differenza degli altri stati, aveva introdottouna legge che garantiva l’uguaglianza dei salari tra lavoratori,indipendentemente dal sesso. Come conseguenza, il salariomedio delle lavoratrici francesi risultava più elevato che neglialtri Paesi della Comunità, ed il governo temeva che la libe-ralizzazione degli scambi commerciali all’interno del mercatocomune potesse danneggiare l’industria nazionale.

In questo modo, il Trattato ha introdotto, sia pure su scalalimitata, il fondamentale principio di non-discriminazione. Inanni recenti la lotta alla discriminazione è stata condotta in mododinamico e su molti fronti. Ricordiamo in primo luogo l’articolo12 del Trattato CE (del 1997) che proibisce qualsiasi forma didiscriminazione a causa della nazionalità di un cittadino del-l’Unione. Questa norma è direttamente applicabile, e pertantoi diritti che essa crea possono essere fatti valere direttamentecontro eventuali discriminazioni tollerate dalle leggi nazionali.Altrettanto, se non più, importante è l’articolo 13 dello stessotrattato, che non solo estende il principio della non-discrimi-nazione oltre i rapporti di lavoro, ma dà alla Comunità glistrumenti per combattere la discriminazione a causa del sesso,origine razziale o etnica, credenze religiose, età, minorazionifisiche o mentali, od orientamenti sessuali. Questo articolo hatrovato applicazione in tre direttive, emanate tra il 2000 ed il2002, che introducono nuove strategie nella lotta contro taliforme di discriminazione.

In termini più strettamente politici, ricordiamo quanto im-portante sia stata la prospettiva dell’ingresso nella Comunità perla transizione democratica di Paesi come la Grecia, la Spagnaed il Portogallo, ieri, e per i Paesi dell’Europa orientale e la

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Turchia, oggi. La stessa storica decisione del Parlamento turcodi abolire la pena di morte (agosto 2002) rappresenta solo ilprimo articolo di un pacchetto di 14 riforme richieste dall’Unio-ne Europea. In definitiva, l’integrazione europea ha contribuitoin modo determinante ad assicurare la pace tra gli stati delcontinente, e a ridurre l’onnipotenza dello stato di fronteall’individuo. In tal modo, essa ha permesso allo stato-nazionedi resistere alle tentazioni di potere che tante volte lo hannosedotto nel passato, e alla democrazia liberale di difendere piùefficacemente i propri valori contro il moderno leviatano.

Ma la lezione dell’integrazione europea non è limitata alnostro continente. La crescente internazionalizzazione dei mer-cati obbliga tutti gli stati democratici a delegare importantipoteri ad istituzioni non-maggioritarie. È pertanto importanteinventare meccanismi capaci di assicurare il controllo politicodi tali istituzioni, rispettando al tempo stesso la loro indipen-denza. Secondo alcuni, un controllo efficace richiede l’estensionedei principi democratici a livello internazionale, ma come si ècercato di dimostrare, una tale estensione è estremamenteproblematica anche a livello europeo. La soluzione deve cercarsi,piuttosto, in un migliore inserimento di istituzioni che godonodi indubbia legittimità democratica, in primo luogo i parlamentinazionali, nelle relazioni internazionali – un campo tradizional-mente riservato al potere esecutivo. Nella stessa Unione Europeamolto resta da fare in questa direzione, ma non mancano i buoniesempi: il parlamento danese, in particolare, è noto per l’attentocontrollo che esso esercita sull’operato dei rappresentanti na-zionali a Bruxelles. Una volta riconosciuti i limiti del PE comefonte di legittimazione, è necessario fare affidamento sopra tuttosu istituzioni nazionali per ridurre l’inevitabile deficit democra-tico del processo d’integrazione. Se le prossime riforme istitu-zionali saranno in grado di disegnare i meccanismi per unefficace coordinamento tra democrazia nazionale e costituziona-lismo transnazionale, ciò rappresenterà un significativo progressodel metodo democratico, non solo in Europa ma in tutti i Paesiimpegnati nello sforzo di integrare le loro economie e le lorosocietà a livello regionale o globale.

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Summary: Only democratic countries can become members of the European Union,but the Union itself suffers from a «democratic deficit». Thus, the European Parliamentis directly elected, but lacks the basic powers of national parliaments. By contrast, keyinstitutions like the European Commission, the Court of Justice and the EuropeanCentral Bank, are non-majoritarian. The paper shows that the paradox of a union ofstates which requires its members to be democratic but is not itself fully democratic,is more apparent than real. It also argues that, absent an European demos, an Europeansuper-state would be unable to produce all the public goods, especially incomeredistribution and generalised social services, which people expect of a modern welfarestate. The real paradox of the European Union is not the contrast between its owndemocratic deficit and the democratic requirements for membership. Rather, the paradoxis that the essentially non-majoritarian nature of the integration process has significantlyimproved the quality of democracy at the national level, for example by prohibitingany form of discrimination, particularly on the basis of national origin, or gender. Suchprohibitions are directly effective and hence can be invoked by the citizens even againsttheir own governments.


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