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Mar Rosso mare grosso - torreomnia.it · Ma quali sono o saranno le cifre che hanno caratterizzato...

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2007 ANTONIO RAIOLA Mar Rosso mare grosso Racconti, oceani, incontri con una nota di Nicola Petronzi STAMPATO IN PROPRIO NAPOLI
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Mar Rosso mare grosso

2007

ANTONIO RAIOLA

Mar Rossomare grosso

Racconti, oceani, incontri

con una nota di Nicola Petronzi

STAMPATO IN PROPRIO

NAPOLI

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a mia Moglieper avermi sempresupportato e sopportato

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UNMILIONECINQUECENTONOVANTAMILA miglia marine per-corse sul mare in 22 anni di navigazione effettiva in 32 imbarchi!Grosso modo la distanza percorsa ammonta a circa 10 volte il per-

corso Terra-Luna e a 73 volte e mezzo il giro dell’equatore terrestre.Questi i numeri che esprimono fisicamente l’andirivieni incessante per i

mari di questo pianeta di un uomo che ha trascorso l’intera vita lavorativasulle navi, incontrando tante persone di lingua, fede, carattere, diversi.

Ma quali sono o saranno le cifre che hanno caratterizzato il percorso uma-no, religioso, politico, sociale compiuto dall’autore? Difficile quantizzarle. Al-trettanto impossibile determinare, dal punto di vista quantitativo, il grado dievoluzione di un uomo che per 22 anni fonde il suo corpo e il suo animo conle navi.

L’Autore ci consegna ventidue racconti di storie reali, apparentemente sle-gate, di cui è stato protagonista o testimone.

Sicuramente gli episodi o le storie che avrà vissuto saranno molte di più,ma quelle scelte rappresentano i punti cardinali di un orizzonte, quello dellavoro sul mare, dove i cardini non li guardi da lontano, come quello fisico,ma pian piano, anno dopo anno, ti entrano dentro e modificano il tuo carat-tere, lo stile di vita, il mondo tuo affettivo, il modo di vivere la tua famiglia, ilmodo di vivere il tempo che ti è concesso su questo granello d’universo.

La vera miseria, la solidarietà tra gli uomini di mare di nazionalità diverse,come nel caso del Peschereccio Royal II, la forza del mare in tempesta cheveramente fa paura e può essere compresa solo da chi ha visto il mare adira-to, l’irrazionalità degli uomini come nel caso dell’Equipaggio incredibile edella Scazzottata sul San Lorenzo, o le cose incredibili che riescono a farecome nel caso del Cucchiaino d’argento o di Pasqua in navigazione, o comein Il mar Rosso che diventa il mar Nero, oppure la straordinaria capacitàprofessionale del comandante in Il rosso addormentato nel Mar Rosso, od Ilprete rosso con quella sua umanità trasversale a tutte le lingue e le religioni,ed infine, il grande vuoto dentro che si percepisce per la caduta dell’aereo inNatale 1978, danno la dimensione di una umanità tutta terrena, fallace, mapur sempre con i valori fondamentali ed eterni ma trasformati dal mare invalori universali.

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La solidarietà, l’amicizia profonda nata in un imbarco di alcuni mesi, lacondivisione della condizione esteriore della nave, del lavoro, delle paure,eccetera, che si trasforma in una condivisione interiore perfino delle gioiepersonali come la nascita di un figlio, o dei dolori come la perdita di un con-giunto, il dialogo costruttivo tra persone diverse, sono i punti cardinali cheentrano nel tuo orizzonte interno e ti modificano fino al punto da accompa-gnarti anche dopo che hai lasciato il mare e le navi, e nel caso di Raiola tisospingono verso l’impegno sociale affinché non abbiano a verificarsi piùepisodi come quello descritto ne Le due paure.

Ed è proprio all’inizio del suo impegno nel sociale per il lavoro sul mare cheincontro Antonio Raiola per la prima volta, dal momento che anch’io, qualedelegato di una associazione professionale, mi occupavo dei marittimi e degliufficiali della Marina mercantile.

Le nostre età erano diverse, distanti, ma gli intenti erano uguali. Ed ecco,allora, che fioriscono molte iniziative: la Consulta Marittima, che dopo qual-che anno verrà istituzionalizzata dall’allora Amministrazione comunale, laGiornata del Marittimo con una semplice funziona religiosa, l’istituzione aTorre del Greco del primo Corso di Pronto Soccorso gestito dall’allora UnitàSanitaria Locale e voluto anche dal compianto e amico Salvatore Buonandi,la proposta di legge sul riconoscimento dell’Istituto delle malattie professio-nali anche per il marittimo, proposta purtroppo non trasformata in legge perl’esplosione di tangentopoli nel quale naufragò il centro sinistra di allora, lapubblicazione di una di laurea particolarmente interessante sul tema dellaSicurezza in mare.

Sono, quelle elencate, solo alcune iniziative che hanno testimoniato unaevoluzione interiore e un impegno difficilmente misurabili, ma che, anzi, traqualche anno saranno pure dimenticati dal mondo marittimo di tutti i giorni,ma che non lo saranno da chi, sensibile e attento ai valori che sul mare nasco-no e che da esso si diffondono, accederà a quella meravigliosa bussola inte-riore che solo il mare ti dà.

Nicola Petronzi

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RIVISITAZIONE

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Erano anni che volevo mettere ordine nei miei appunti di navigazio-ne, ma ho sempre rimandato; sapevo che era un’impresa abbastan-za ardua, ma non mi rendevo conto di quanto veramente lo fosse.

L’unico motivo che mi spingeva in tal senso era la curiosità di sapere quan-te miglia un uomo di mare percorre nella sua vita di giramondo.

Così, una volta deciso, sono andato avanti passo dopo passo: per primacosa ho rilevato alcuni dati preliminari dal libretto di navigazione e successi-vamente ho cercato delle conferme dall’estratto di matricola rilasciatomi dallaCapitaneria di Porto del nostro compartimento, anche perché solamente daquest’ultimo documento si può rilevare la durata degli imbarchi.

Ovviamente erano risposte parziali ai miei tanti ed annosi quesiti, un lavo-ro molto limitato, per nulla esaustivo. Non era questa la mia intenzione, a meinteressava conoscere il numero delle miglia percorse, i mari attraversati, ipaesi visitati e soprattutto la gente incontrata.

Così dovetti dare una virata e ricominciare tutto daccapo ma in un’altradirezione. Fin dal 1953 ho avuto la pazienza di segnare su piccole agendine ifatti più importanti che mi riguardavano personalmente e cioè i nomi dellenavi sulle quali ero imbarcato, i porti toccati, gli arrivi e le partenze; qualchecattivo tempo veramente cattivo. Oggi posso dire che tutto sommato non èstato un lavoro inutile.

Ora, dopo tantissimi anni, ho potuto ricostruire una parte importante dellamia vita, quella lavorativa, che è quasi la metà di quella finora vissuta e chemi piace ricordare come la parte attiva, quella redditizia, quella che mi hapermesso all’età di cinquantadue anni di tirare i remi in barca e cercare direcuperare la vita affettiva.

Devo ammettere però che è stato un lavoraccio rileggere quanto riportatosulle agendine; l’inchiostro che utilizzavo all’epoca era di un bel verde, oracon gli anni è diventato quasi illeggibile sulla carta ingiallita dal tempo. Alcu-ne sigle che avevano un significato nel momento in cui furono scritte oraerano arabo per i miei occhi; insomma, è stato come ricomporre, aiutato an-che dalla memoria, un grande puzzle del quale erano andate smarrite diversetessere.

Comunque sono riuscito, dopo tantissime difficoltà, a venirne a capo e devoaggiungere che è stato molto interessante e anche molto bello riandare con lamemoria indietro nel tempo.

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Quanti ricordi, quante facce ho rivisto rileggendo quelle ingiallite e stintepagine; alcune di quelle facce mi apparivano sfocate come avvolte dallanebbia, altre invece erano ancora ben distinte. Quanta nostalgia e soprat-tutto quanta rabbia per gli errori commessi.

Navigando ho vissuto esperienze molto interessanti, ho visto tanti beiposti indimenticabili del mondo che da persona normale, con un normalelavoro, sicuramente non avrei mai conosciuto.

Sono stato nella parte più settentrionale del continente americano, siadal lato del Pacifico vicino all’Alaska che nell’Atlantico a nord di Terranova;ho navigato sul fiume San Lorenzo per l’intera sua lunghezza fino ai GrandiLaghi; sono stato a Quebec, a Montreal, nomi di città che nella mia infan-zia leggevo incantato sui libri di avventure e che sognavo di vedere.

Ho visto le aurore boreali visibili solo a quelle latitudini, mari comple-tamente ghiacciati che solo i rompighiaccio ci permettevano di navigare,growlers ed icebergs sempre in agguato fino all’altezza di New York.

Sono stato a Capo Nord oltre il Circolo Polare artico: grandissime nevica-te d’inverno e d’estate il sole a mezzanotte. Ho navigato sui fiumi più gran-di del mondo, sul Mississippi, sull’Orinoco, sul Rio Paraná, sul Demerara,enormi masse d’acqua perennemente in movimento; non esiste in Italia (eforse in Europa) niente di simile per poter fare un paragone.

Altra grande esperienza è l’aver vissuto gomito a gomito per anni intericon equipaggi stranieri, diversi da noi per abitudini, per cultura, per reli-gione: due anni con i Greci, due anni con gli Spagnoli.

Sono stato imbarcato anche con Rumeni, Olandesi, Portoghesi,Argentini. Inoltre, per mesi interi, ho vissuto in Giappone, in Olanda, inMarocco, in Francia, in Argentina, negli Stati Uniti.

Nelle agendine ho trovato anche le tracce di qualche robusto cattivo tem-po: alcuni tifoni in Giappone, diversi cicloni tropicali in Atlantico, unaforte depressione proprio nel bel mezzo del triangolo delle Bermuda (quellafu l’unica volta, nei miei trent’anni di navigazione, che un comandante midisse di tenermi pronto a lanciare un SOS: la nave era una petroliera, laEsso Trieste) e ancora un’altra depressione di fronte a Casablanca.

In Giappone fummo investiti nel 1960 da due tifoni consecutivi Bess eDella; non subimmo molti danni, solo tanta tensione perché le navi intor-no a noi, non essendo state bene ancorate, aravano sul fondo e stavanovenendoci addosso. I danni maggiori li ebbero tanti piccoli peschereccigiapponesi fermi in banchina; durante il lento passaggio dei tifoni il fortevento li spingeva continuamente l’uno contro l’altro sfasciandoli comple-tamente.

Rammento benissimo che qualche ora prima dell’arrivo del primo tifo-ne assistemmo ad uno spettacolo stupendo: tutte le navi militari giappo-nesi presenti in porto uscirono dalla rada di Kobe/Osaka dirigendosi allargo proprio per evitare quello che sarebbe successo poi ai pescherecci.

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Vedere questa lunghissima e imponente fila di navi da guerra, tutte con labandiera del Sol Levante garrire a poppavia, dirigersi al largo come per anda-re incontro ad una battaglia navale, fu uno spettacolo che ancora oggi ricordocon nostalgia. Sembrava di vedere un film americano del dopoguerra.

Poi: Acapulco nel Messico con le sue lunghissime spiagge, i suoi tantissimialberghi pieni di Americani in cerca di whiskey e di Americane in cerca disvago e gli angeli volanti, ovvero giovani Messicani che si tuffavano da altez-ze impensabili (oltre venti metri) in uno stretto e profondo canyon, cosa resapossibile solo quando arrivava un’onda abbastanza consistente; meno maleche di queste grosse ondate l’oceano Pacifico ne fornisce di continuo tantissi-me durante tutto il giorno.

L’aver riletto i miei appunti dopo tanti anni mi ha fatto bene. Nel mio par-ticolare lavoro ho vissuto esperienze interessanti molto personali, alcune do-lorose, altre gioiosissime: le dolorose erano procurate dalla ricezione di tele-grammi contenenti il decesso di persone a me care, le gioiosissime invecequelli contenenti notizie della nascita dei miei figli. Ricordo soprattutto quandoricevetti il telegramma più brutto, quello che annunciava la morte di entram-bi i genitori in un incidente d’auto del nostro primo ufficiale.

Tutto sommato posso serenamente affermare che non è stato tempo spre-cato l’essermi immerso nei ricordi del periodo più interessante della mia vita.

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RACCONTI

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LA MINA VACANTE

Erano pochi anni che la Seconda Guerra Mondiale era terminata.I mari, almeno quelli interni come il Mediterraneo e l’Adriatico, erano

ancora pieni di mine inesplose.Ufficialmente erano stati sminati, ma molte mine erano ancora alla de-

riva, cioè fuori dai banchi nei quali erano state affondate, trascinate allargo dal gioco delle correnti. Quanti incidenti sono infatti avvenuti dopola fine della guerra!

Questo ovviamente comportava per noi naviganti lunghissime edestenuanti ore di guardia in vedetta durante le navigazioni: il nostro obiet-tivo primario era di localizzarle prima che esse ci venissero addosso conil loro micidiale carico.

Quell’anno, eravamo nell’estate del 1952, con la nave idrografica Aziodella Marina Militare stavamo rifacendo tutte le carte nautiche di alcuniporti italiani e dell’intero Adriatico, ma il nostro obiettivo principale era-no le coste di fronte al delta del Po; l’anno prima vi era stata una gravis-sima alluvione ed i detriti portati fuori in mare aperto dal fiume avevanocambiato totalmente la linea di costa e le sue profondità.

Un mattino, mentre ognuno di noi era intento al proprio lavoro, uno deisottufficiali addetto al rilevamento dei punti a terra diede l’allarme: avevaavvistato sull’orizzonte qualcosa di molto grosso, forse una mina alla deriva.

Non sarebbe stata la prima. Già una settimana prima avevamo preso tuttiun grande spavento: nei pressi delle isole Tremiti, proprio di fronte alGargano, di notte, ci eravamo trovati a navigare, nonostante tutte le precau-zioni, in una zona di mare non ancora sminata del tutto. I nostri mari eranoinfatti ancora molto pericolosi.

La cosa avvistata poteva ovviamente anche essere uno squalo o uno scaforovesciato; insomma poteva essere di tutto. Era visibile sulla nostra sinistra,tra noi e la costa chioggiotta.

L’ufficiale di guardia, nonostante il suo binocolo, non riusciva a determi-nare la natura dell’oggetto misterioso; chiamò pertanto il Comandante, dicui non rammento più il nome, tanto tutti lo chiamavamo Rosso e Nero:aveva infatti i baffi rossi ed i capelli neri.

Quest’ultimo, non appena giunse sul ponte, dette l’allarme generale: tuttiin plancia, ognuno al suo posto di combattimento. E così cominciò l’avvici-namento all’oggetto; lentamente, molto cautamente, nessuno parlava, fu pre-parata anche un’arma di grosso taglio, ovvero l’unica mitragliatrice che ave-vamo a bordo.

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L’unica cosa che destava qualche perplessità era la sua immobilità, troppoimmobile per essere un cetaceo o qualcosa di simile.

Man mano che ci avvicinavamo notammo uno stormo di gabbiani lanciarsistridenti su quella massa immobile circondata da un cespuglio di canne edalghe. Intanto una fortissima puzza cominciava a pervenire lentamente ainostri nasi; non era quella abituale proveniente dalla nostra cucina, era mol-to più penetrante. Finalmente ai nostri occhi apparve una specie di mostro,immenso, certamente più lungo di tre metri e largo due.

Era un’immensa testuggine marina, morta chissà da quanto tempo; avevainfatti la testa e il collo tutti coperti di incrostazioni.

L’avvicinamento intanto continuava sempre molto lentamente; quando fum-mo a pochi metri dalla tartaruga fermammo le macchine e con un barchino inostri sommozzatori agganciarono l’enorme guscio per portarlo sotto bordo.

L’operazione non fu affatto difficoltosa in quanto l’animale era, come fuaccertato in modo definitivo, morto da tantissimo tempo.

Con una piccola gru l’enorme massa fu portata a bordo: forse il Comandan-te pensava di portarla successivamente a terra, consegnarla a qualche acqua-rio per studiarne le caratteristiche. Dovemmo invece rinunciare a questo le-gittimo desiderio, la puzza era veramente troppa, poteva anche innescarsiqualche problema di ordine sanitario, perciò dopo le foto di rito fu ributtatain mare.

Comunque per diversi giorni, ogni qualvolta ci avvicinavamo a poppa neipressi del posto dov’era stata depositata, sia pure per pochissimo tempo, latartaruga, un fastidiosissimo fetore ci avvolgeva tutti.

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LA VERA MISERIA

Parlare della miseria, quella vera, quella che non lascia dubbi, è molto dif-ficile, specie se essa è quella che ha colpito gli altri. Generalmente siamoportati a credere che la miseria è la mancanza della prosperità, ovvero quan-do una persona o una famiglia vivono senza la possibilità di avere una vitadecente usiamo dire che sono in miseria. Non ci sfiora mai il pensiero chepossono esistere interi nuclei familiari o addirittura interi paesi dove la mi-seria significa la mancanza di quasi o tutto l’indispensabile.

Nella mia vita di navigante errabondo solo un paio di volte ho osservato,constatato da vicino questo tipo di miseria.

Nei primi anni del mio girovagare (siamo agli inizi degli anni ’50) sonostato in paesi all’epoca poco sviluppati come ad esempio le isole portoghesidel Capo Verde; laggiù ho visto su una spiaggetta decine di donne di tutte leetà raccogliere pezzi, anzi briciole direi, di legno carbonizzato trasportato dalgioco delle correnti sulla loro isola.

Immaginarsi la fatica di stare tutto il giorno con le mani e le gambe immer-se nell’acqua salmastra, raccogliere pezzo per pezzo, portarselo a casa, asciu-garlo per poi utilizzarlo come combustibile domestico.

Alcune persone conosciute durante la nostra sosta sull’isola mi spiegaronosuccessivamente che quei pezzi di carbone provenivano addirittura da un’al-tra isola dello stesso arcipelago.

La cosa che maggiormente mi colpì quel giorno era la serenità che quelledonne diffondevano intorno a loro, esse infatti cantavano una melodiosa ne-nia, non so in che lingua, ridevano, sembrava quasi che stessero addiritturagiocando.

Tuttavia l’episodio che mi ha maggiormente impressionato è quello colle-gato ad un semplice foglietto di carta. Ero imbarcato su una piccola naveitaliana di proprietà di armatori napoletani, siamo nell’estate del 1956. Inquegli anni sulle navi italiane non circolava molta ricchezza, si navigava instretta economia, si risparmiava su tutto e tutto veniva riutilizzato; si riciclavaqualsiasi cosa, niente andava disperso.

Un giorno che avevo bisogno di carta per scribacchiare il bollettino meteone feci richiesta al secondo ufficiale. Quest’ultimo mi dette una manciata difogli già in precedenza utilizzati, avrei dovuto ovviamente scrivere sul re-tro, ma per me andava bene. Nell’attesa del lancio del bollettino mi misi aleggere il contenuto scritto su quei foglietti, era un elenco di cose disparate:vestiario, oggetti personali, lettere, fotografie, un portafoglio, insomma ditutto.

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Era l’inventano degli averi di una persona deceduta a bordo in navigazionee veniva inviato alla famiglia e alle Autorità Consolari, assieme agli effettipersonali.

Notai subito una stranezza: mancava nell’elenco la biancheria intima. Nonmi sorpresi più di tanto, pensai che essendo stata utilizzata, era stata buttataa mare.

Incuriosito, durante la cena ne parlai con il secondo ufficiale ed appresiuna storia sconcertante da libro Cuore: l’uomo deceduto era un fuochista,lavoratore accanito che oltre al suo normale turno di guardia in macchinavicino alla caldaia, svolgeva tantissimi altri lavoretti a bordo per arrotondarelo stipendio.

Preferiva abitualmente lavorare dalle 12 alle 16 e di notte da mezzanottealle 4, così da poter durante il turno di notte lavarsi la propria biancheriamettendola subito ad asciugare vicino alla caldaia in modo da poterla indos-sare appena terminato il suo turno, praticamente questa persona non avevaun ricambio della stessa.

Tutto questo senza mai lamentarsi, senza farsi notare da nessuno, con ladignità di un buon padre di famiglia che spediva tutto quanto guadagnavaalla famiglia senza spendere nulla per sé, neanche per l’indispensabile.

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IL PESCHERECCIOROYAL II IN AVARIA

Nel lontano 1957 ero imbarcato su una piccola motonave del comparti-mento di Napoli noleggiata per viaggi tra Marsiglia e Casablanca nel Ma-rocco francese. Viaggi molto comodi, brevissimi; eravamo quasi sempre inporto. Da Marsiglia fino all’arrivo a Casablanca facevamo scalo per lo menoin quattro, cinque porti.

Una sera d’autunno, eravamo partiti da qualche ora da Marsiglia, ci tro-vavamo praticamente in pieno Golfo del Leone. Spirava un Mistral abba-stanza sostenuto e la nave, pur essendo molto carica, rollava che era unpiacere.

Avevo terminato da poco il servizio di guardia e stavo rimettendo il tuttoin ordine. La radio era ancora accesa e improvvisamente udii Marsigliaradiotrasmettere un avviso ai naviganti nel quale chiedeva a tutte le navi in zonadi fare molta attenzione in quanto un peschereccio locale non dava notizieda oltre quarantotto ore.

Copiai il messaggio su di un foglietto e andai su in plancia per consegnar-lo all’ufficiale di guardia. Lo trovai che stava guardando con molta atten-zione strane fiammelle sull’orizzonte. Sembravano fuochi d’artificio, maquello non era certamente il posto adatto per fare festa. Dopo aver avverti-to il Comandante ci avvicinammo a quelle strane fiammate molto cauta-mente: era un’imbarcazione francese in avaria.

Il mare era sempre molto agitato e manovrare in quei frangenti non erafacile, ma dopo innumerevoli tentativi ci trovammo di fronte un pescherec-cio abbastanza grande completamente in avaria il cui equipaggio, per atti-rare la nostra attenzione, stava bruciando stracci imbevuti di nafta e li lan-ciava in aria. Era proprio l’imbarcazione che Marsigliaradio stava ricer-cando.

Trovammo l’equipaggio impaurito, completamente bagnato dagli spruzzidelle ondate e affamati come lupi. Generalmente questo tipo di imbarca-zione, dovendo effettuare viaggi non più lunghi di ventiquattro ore, nonporta grosse scorte di cibo.

Al massimo ciascun membro dell’equipaggio porta con sé la colazione, unpo’ di caffè e qualche pacchetto di Gauloise.

Appena ci avvicinammo cominciarono ad urlare che erano bagnati ed af-famati: nous sommes tous mouillés! Nous avons faim!

Immediatamente manovrammo in modo da metterli al riparo dal vento,ancora abbastanza sostenuto, e con l’aiuto di una corda e di un secchio li

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rifornimmo di pane, di formaggio, di sigarette e di una bottiglia di liquoreforte.

Loro, una volta agguantato il cavo non volevano più mollarlo: avevano pau-ra di essere lasciati nuovamente soli alla deriva, senza essere rimorchiati inporto.

Volevano salire a bordo, poveretti. Invece il Comandante aveva subito av-vertito Marsigliaradio del ritrovamento del peschereccio e attendeva ordinisul da farsi.

Dalla Capitaneria di porto ci comunicarono che potevamo rimorchiarli finoal porto più vicino, oppure restare nei paraggi per continuare l’assistenza inattesa dell’arrivo di un rimorchiatore da Marsiglia.

Il Comandante optò per la seconda soluzione e restammo lì. Fortunata-mente il tempo cominciava a migliorare e quei poveretti si erano un po’ rin-francati. Alla luce dell’alba, con l’aiuto di un megafono, li rassicurammo cheda Marsiglia sarebbe giunto un rimorchiatore.

Nel frattempo loro ci spiegarono, gridando, che il motore era fermo da duegiorni, praticamente da appena dopo la partenza e che avevano tentato inu-tilmente di ripararlo.

La radio non funzionava perché le batterie erano scariche (forse non l’ave-vano mai fatta funzionare). Eravamo nel 1957 e la radio su quel tipo di imbar-cazione era considerata un lusso.

Può sembrare strano, ma a volte si può anche morire vicino alla costa senzache nessuno se ne accorga.

L’unica circostanza che li aveva aiutati era stato il peso della rete immersain acqua che aveva fatto da ancora galleggiante, altrimenti chissà dove sareb-bero andati a finire.

Poco dopo, mentre attendevamo aiuto da Marsiglia, anche la rete con tuttoil contenuto andò persa.

Verso le 8 arrivò il rimorchiatore, li rifornì ulteriormente del necessariocome coperte, vestiario asciutto e soprattutto cibo, e li prese a rimorchio perriportarli a Sete, loro porto operativo e di immatricolazione.

Al nostro ritorno a Marsiglia, dopo un paio di settimane, venne a trovarci ilComandante, proprietario del peschereccio, assieme al più giovane membrodel suo equipaggio per conoscerci e ringraziarci. Avevano entrambi ancora lafaccia spaventata, specialmente il mozzo.

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TEMPESTA IN ATLANTICO

Provenienti da Dijffer, nel Gambia, con un carico di ematite e diretti aCasablanca, ci eravamo fermati solo poche ore a Dakar per rifornirci di naftaed acqua quando all’altezza di Mazagan fummo investiti da una fortissimatempesta che ci costrinse a rivedere tutti i nostri piani.

Inizialmente il Comandante ridusse di molto la velocità della nave, succes-sivamente fummo costretti a metterci alla cappa, cioè ridurre a meno dellametà la velocità e prendere il mare al mascone di prua cioè un 30 gradi asinistra o a dritta; diversamente non potevamo proseguire.

Il vento investiva la nave da tutti i quadranti, mentre ondate veramentemicidiali si abbattevano sullo scafo con una forza impressionante. Sembra-vano muraglie d’acqua e noi eravamo una piccola motonave di appena unmigliaio di tonnellate di stazza.

Comunque, con tantissima cautela e tanta attenzione, dopo una notte tra-scorsa praticamente tutti in piedi, la mattina successiva ci avvicinammo alporto di Casablanca.

I piloti del porto, non appena entrammo in comunicazione, ci avvertironoche il porto era inagibile ed era stato momentaneamente chiuso al traffico,pertanto ci consigliarono di ancorarci nei pressi e restare in attesa di tempimigliori.

Ancorarci era davvero impossibile a causa dell’altezza delle onde e per leforti raffiche di vento, anche vicino alla costa le ondate si abbattevano di con-tinuo, copiosissime, in coperta. Ogni tanto la nave si trovava sul picco diun’enorme ondata: sembrava di scalare lentamente una montagna con unateleferica e qualche secondo dopo precipitavamo con un tonfo sordo tra dueondate. Quei pochi secondi di risalita sembravano un’eternità. Era come an-dare sulle montagne russe di un enorme Luna Park.

Quando ci avvicinavamo al porto con un binocolo potevamo vedere che lepiccole imbarcazioni da pesca ormeggiate nella parte più riparata del portoerano scaraventate continuamente l’una contro l’altra; qualcuna era stata giàridotta a pezzi e i rottami giacevano sulla banchina.

Restare alla cappa era in quel momento ancora la soluzione migliore, maovviamente non poteva durare a lungo: eravamo comunque in buona compa-gnia, tante erano le navi nella nostra condizione.

Questo andare avanti e indietro durò un paio di giorni; il terzo giorno, suinvito del pilota, ci avvicinammo maggiormente alla diga foranea per ben trevolte ma inutilmente: le onde erano sempre molto grosse, ma la risacca cheveniva fuori dal porto era di gran lunga il nostro nemico peggiore.

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Mar Rosso mare grosso

Dopo il terzo tentativo, d’accordo con il pilota desistemmo e ritornammoalla cappa.

Il quarto giorno, cioè sabato 14 dicembre, verso mezzogiorno, approfittan-do di un breve periodo di calma entrammo in porto ma dovemmo, su sugge-rimento del pilota, ormeggiarci in banchina con un numero di cavi maggioredel consueto.

Finalmente potemmo scendere a terra, sgranchirci le gambe e osservarecon calma l’intero porto di Casablanca. Restammo agghiacciati, senza fiato,sembrava che tutta la zona portuale fosse stata colpita da un micidiale bom-bardamento o da un terremoto: decine di scafi letteralmente a pezzi, moltegru inagibili rovesciate sulla banchina, alcuni vagoni ferroviari pieni di fosfa-ti fuori dai binari, insomma una vera ecatombe. Ma la scena più impressio-nante era la vista di una grossa nave da carico francese provenientedall’Indocina che le ondate avevano letteralmente scagliata e incastrata contutto il suo carico su una scogliera, vicino alla strada che costeggiava il porto.

Nelle settimane successive vedemmo che le autorità portuali marocchine,d’accordo con i proprietari della nave, non potendola rimettere in acqua, ave-vano costruito un rudimentale viottolo che congiungeva la nave con la stradapiù vicina all’uscita, solo così era possibile raggiungere lo scafo sulla scoglie-ra per poi sventrarlo e recuperare almeno in parte il suo carico. Per diversimesi quella nave rimase sulla scogliera ad arrugginirsi, poi fu demolita.

Il mare l’aveva avuta vinta ancora una volta a dispetto di tutte le modernetecnologie.

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LO SCARICATORE NELLA SENNA

Ricordo benissimo la sera nella quale un anziano scaricatore francesecadde in acqua dalla nostra nave, forse perché ubriaco.

Eravamo con la nave a Rouen sulla Senna, nella Francia del nord. Face-va un freddo enorme. La nebbia letteralmente ci sommergeva. Non si ve-deva nulla. Sembrava di camminare immersi nel latte. L’equipaggio an-dava in città solo di pomeriggio, quando lo spessore della nebbia era menointenso.

Al ritorno, di sera, non si trovava quasi mai un tassista disposto a ri-schiare, dovendo rasentare i bacini del porto completamente avvolti nellanebbia e senza protezioni ai lati. Generalmente gli ultimi chilometri do-vevamo farli a piedi e tutti a braccetto.

Era quasi mezzanotte, qualcuno di noi stava dentro al salone giocando acarte con i tavolini sistemati vicini ai caloriferi per prendere un po’ più dicalore. Fuori, in coperta, stavano scaricando e i motori dei verricelli face-vano come al solito un rumore infernale.

Improvvisamente vedemmo aprirsi la porta ed un marinaio entrò di-cendo qualcosa molto concitatamente. Era l’unico di bordo che balbetta-va un poco.

Senza attendere che terminasse il racconto, di sicuro troppo lungo,uscimmo fuori per vedere da soli cos’era successo.

Un anziano scaricatore, molto probabilmente ubriaco, era caduto in ac-qua vicino alla passerella, la principale via di accesso al bordo, che al so-lito era senza la sottostante rete di protezione.

Un nostro marinaio, siciliano abitante dell’Isola delle Femmine, vicinoPalermo, senza chiamare aiuto, molto incoscientemente e senza avvertirenessuno, si era gettato immediatamente in acqua per tirarlo su.

Purtroppo l’acqua era talmente ghiacciata che una volta in acqua avevaistantaneamente perso anche lui le forze. Penso che solamente unesquimese coperto di grasso di foca sarebbe potuto sopravvivere a quellatemperatura e non per molto. Comunque, nonostante tutto, ebbe la pron-tezza di spirito di aggrapparsi con una mano alla piattaforma inferioredella scala mentre con l’altra teneva la testa del malcapitato scaricatorefuori dell’acqua. Quest’ultimo non collaborava, era completamente inco-sciente.

Il marinaio allora gridava con tutta la sua forza con la speranza di farsisentire da qualcuno in coperta, purtroppo il rumore dei verricelli era trop-po forte e copriva tutto: solo il caso permise ad un altro marinaio, che

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rientrava dalla franchigia, di capire cosa fosse successo e dare veramentel’allarme.

Finalmente uscimmo fuori e riuscimmo a tirarli entrambi su. Erano diven-tati un solo blocco di ghiaccio, le gambe già non si muovevano più. Massaggi,coperte di lana e caffè riuscirono a farli riprendere.

Tutto questo durò un paio d’ore. Quando finalmente arrivò il medico daterra il brutto era ormai solo un ricordo.

Il giorno dopo una commissione di scaricatori della compagnia di Rouenvenne a bordo assieme all’uomo caduto in acqua ed ai suoi familiari per rin-graziare il marinaio, per abbracciarlo e per dargli una piccola somma comerimborso dei danni subiti: vestiario completamente inservibile e un orologiocompletamente fuori uso.

La famiglia era composta di poche persone. Una sola mi è rimasta in-delebile nella memoria; la moglie, un’anziana signora vestita di scuro, moltopiccola, che sembrava quasi aggrappata al braccio del marito, un omone.

Lo guardava commossa, si stringeva a lui, ma guardava con maggiore com-mozione il piccolo marinaio siciliano che l’aveva salvato mettendo a repenta-glio la sua stessa vita.

Qualche mese dopo, durante un’esercitazione della Nato nel Mediterraneo,nel porto di Palermo giunse la flotta francese.

Il marinaio, che nel frattempo era stato avvicendato, fu chiamato dal Con-sole Generale di Francia e premiato ufficialmente con medaglia d’oro e unpremio in denaro abbastanza consistente.

Al di là di ogni retorica, sono questi episodi che fanno avvicinare veramen-te la gente, anche se di diversa nazionalità, al di sopra di ogni trattato inter-nazionale.

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UN EQUIPAGGIO INCREDIBILE

Era un equipaggio incredibile, avevano tutti un’abilità unica nel cacciarsinei guai. Cose di poco conto ovviamente, ma pur sempre rogne.

Ricordo quella volta che eravamo nel porto di Hamilton, nelle Bermuda.Già il nostro approdo in quella bellissima isola non era stato dei più felici; pertre lunghi giorni eravamo incappati in un ciclone, cosa del resto normale perquelle zone.

Infatti, al nostro arrivo ad Hamilton, porto principale dell’arcipelago, ave-vamo anche issato per errore sull’albero di maestra la bandiera inglese, con-vinti che fossero ancora sudditi di Sua Maestà Britannica. Invece, per nostrasfortuna, da pochi mesi erano diventati uno stato indipendente ed avevanologicamente una loro bandiera nazionale. Comunque, chiarito l’equivoco efatte le nostre scuse al Comandante del porto, tutto era filato liscio. Anzi, nelpomeriggio vennero a bordo tantissime personalità dell’isola, assieme ai lorofamiliari, per regalarci una bandiera. Questo avvenimento fu anche motivodi un grande ed innaffiatissimo party a bordo della nostra nave.

Due giorni dopo una parte del nostro equipaggio, dopo cena, all’imbrunire,uscì per una visita in centro città, abbastanza lontano dal porto. Un paio diloro avevano una bottiglia di whiskey sotto il braccio, cosa molto inconsuetaper degli italiani, in verità, e del resto mai verificatasi prima di allora sullanostra nave.

Al cancello nessuno disse loro nulla a riguardo, ma appena in città furonoavvicinati da due poliziotti in divisa e molto garbatamente invitati a svuotarein un tombino il contenuto delle due bottiglie. In caso contrario dovevanotornarsene a bordo.

Il più focoso dell’equipaggio, senza motivo apparente ma solo per fare ilgradasso, ruppe la bottiglia su una panchina rovesciandone il contenuto aterra.

A questo punto i poliziotti tentarono di portarli con la forza al più vicinoposto di polizia. I poliziotti erano soltanto due, i nostri eroi una decina, ci fuun’enorme zuffa e i poliziotti furono sopraffatti.

Visti i poliziotti a terra, e sanguinanti, i nostri ragazzi se ne scapparono dicorsa a bordo e si nascosero nei posti più impensati e reconditi della nave.Uno addirittura si nascose nella sentina e fu l’unico a salvarsi dagli eventi chesi susseguirono.

Dopo neanche un’ora dalla zuffa la nave fu circondata da un’intera squadradi poliziotti e tanti salirono a bordo. Cabina per cabina, saletta per saletta,corridoio per corridoio, con teutonica testardaggine scovarono tutti i ragazzi

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e li condussero a terra in caserma. Uno alla volta, poi, furono tutti riempiti dibotte e rinchiusi in cella.

Mi raccontarono il giorno dopo, quando furono riaccompagnati a bordo,che la caserma aveva due porte sempre aperte, ma con due enormi cani fermisu entrambe le uscite. Appena essi cercavano di scappare per scansare le bot-te i cani li ricacciavano dentro. Sono convinto che ancora oggi si ricordano diquella sera alle Bermuda.

Alle nove del mattino successivo andai con il Comandante e il nostro localeagente a riprenderli. Erano stati già portati in tribunale per essere processatiper direttissima. Il Comandante, molto bravo e soprattutto padrone della lin-gua inglese, riuscì con molta abilità a tirarli fuori dai guai sostenendo che ilsuo equipaggio non conosceva la lingua inglese e pertanto non aveva capitocosa i poliziotti avevano chiesto.

Il giudice, un magistrato indigeno con un’enorme parrucca grigia, li fecerilasciare dopo aver inflitto a ciascuno di essi una multa di soli dieci dollari.

I giornali locali riportarono la notizia in prima pagina (con grave disap-punto del Comandante) con le foto ed i nomi dei nostri eroi. Questi giornalisgualciti dal tempo erano sempre in giro nelle cabine di tutti noi a perennericordo; rammento d’averli visti fino al mio successivo sbarco, che avvennemolto tempo dopo.

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SCAZZOTTATA SUL SAN LORENZO

Avevamo da poche ore lasciato Port Alfred, dove avevamo scaricato diecimilatonnellate di bauxite, cioè minerale di alluminio. Eravamo già nel San Lorenzo eil pilota del fiume precedente, il Saguenay, era già sbarcato.

Il Comandante, vecchio gentiluomo, anziano, stanchissimo a causa della lungamanovra e di tutto il tratto di navigazione nel Saguenay, era andato a riposaredopo le consuete raccomandazioni di rito all’ufficiale di guardia. I Comandanti,lo sanno tutti, non dormono, riposano.

Il nostromo, anche lui da ore in coperta, stava richiudendo i boccaportiassieme ad altri marinai, qualche altro stava lavando la “coperta” con fortigetti d’acqua. La bauxite, anche dopo settimane dalla discarica, te la ritrovidappertutto.

La navigazione procedeva benissimo; era una di quelle stupende notti dellaprimavera canadese: faceva freddo, ma in compenso la visibilità era ottima. Sivedevano in lontananza tante piccole case con al centro il campanile illuminatodella chiesa. Il fiume luccicava anche a causa della presenza di enormi lastronidi ghiaccio, mentre la riva a noi più vicina era ancora coperta di neve. Il cieloera pieno di stelle e ogni tanto era solcato da enormi raggi di luce: l’auroraboreale.

Avevo appena trasmesso tutti i telegrammi di routine. Un’ultima sorsata dicaffè e poi sarei andato a dormire per qualche oretta.

All’improvviso un tramestio proveniente dalla vicina timoneria mi fa tornareindietro per dare un’occhiata. Ero incuriosito, generalmente a quell’ora tutti tac-ciono o parlano sottovoce.

Nel chiarore delle apparecchiature vedo un carbonaio di macchina tutto tre-mante, piangente e sanguinante dal naso. Lo aveva accompagnato in timoneriaun altro carbonaio.

Vedendo il primo ufficiale impegnatissimo tra radar e rilevamenti a terra,anche per la presenza di piccoli icebergs in superficie, mi avvicinai al carbonaioferito per portarlo in infermeria e così, tra un singhiozzo e l’altro, appresi cheera scivolato sul pagliolo bagnato nella sala macchine e aveva picchiato con lanuca su un tubo.

Francamente ero abbastanza preoccupato. Lo feci comunque distendere sullettino, gli lavai sommariamente il viso e nello stesso tempo cercavo di tampo-nargli l’emorragia dal naso. Alla fine della medicazione gli diedi un sedativo elo feci riaccompagnare nella sua cabina. Subito dopo avvertii telefonicamenteil Comandante dell’accaduto, dicendogli che mi era sembrata una cosa abba-stanza seria.

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Venne immediatamente, dette un’occhiata al carbonaio e convenne anche luisulla gravità del caso. Mi chiese allora di contattare via radio il primo centromedico canadese per chiedere consigli e assistenza.

Preparammo assieme un telegramma che trasmisi immediatamente; abbastan-za celermente da terra risposero chiedendoci di sbarcare appena possibile il ferito.

Nel frattempo il primo ufficiale cominciò a dare un’occhiata sulla carta nauticaper localizzare il porto più vicino e il nostromo, subito allertato, si dispose a pre-parare una scialuppa. Comunque avevamo ancora qualche ora a disposizioneprima di sbarcare il carbonaio infortunato e così me ne andai in cuccetta.

Alle 8 ripresi il lavoro non senza aver prima chiesto come stava il ragazzo. Pocodopo, quasi avesse ascoltato i miei pensieri, me lo vidi davanti agli occhi nellastazione radio.

Sembrava spiritato, piangeva sempre, però non più di dolore. Camminava ner-vosamente, ogni tanto si sedeva sul divanetto, ma si alzava subito dopo. Intantoalla luce del giorno vedevo meglio il suo viso, anche perché si era lavato. Così miaccorsi che aveva entrambi gli occhi arrossati, gonfi e con molto blu intorno. Luicercava di dirmi qualcosa ma piangeva soltanto, così in un lampo d’intuito capiiche non era scivolato sul pagliolo in macchina, ma su un cazzotto di passaggio.

Cominciai allora a fargli qualche domanda più stringente e dopo qualche com-prensibile esitazione mi confessò di avere litigato con il compagno di cabina peruna stupidissima ragione. Capita spesso quando si vive in due in pochi metriquadrati. Basta anche un portacenere fuori posto per scatenare un litigio. Ognu-no di noi ha un suo modo d’essere ordinato. Nonostante le botte ricevute, però,non voleva accusare il compagno di lavoro e così si erano inventati entrambi lascivolata.

Adesso bisognava trovare il coraggio di dirlo al Comandante e, soprattutto,avvertire le autorità del porto che la situazione si era evoluta in modo soddisfa-cente da non necessitare più lo sbarco.

Loro erano stati imperativi: land the patient as soon as possible, sbarcare ilmalato immediatamente. Andai dal Comandante assieme al secondo ufficiale,per proteggermi durante la fuga in caso di lancio di oggetti pesanti. Sono convin-to che quest’ultimo leggendo queste righe si riconoscerà.

Così, con una faccia d’occasione, qualche moccolo e qualche spiritosaggine dissitutto al grande capo. Lo ricordo ancora: aveva la papalina in testa.

Non credeva ai suoi occhi. Se avesse potuto, ci avrebbe scaricato tutti su qual-che isola deserta; ma era troppo englishman per perdere le staffe. Quattro annidi prigionia in Australia lo avevano condizionato moltissimo.

Richiamammo le autorità sanitarie canadesi, dicemmo che il carbonaio si eraripreso benissimo e non necessitava più di sbarcare e ringraziammo per le loropremure.

Dopo quell’esperienza, prima di prendere qualsiasi decisione importante, hosempre acceso tutte le luci a mia disposizione per guardare bene in faccia i mieiinterlocutori.

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PESCA GROSSANEL GOLFO DEL MESSICO

Eravamo diretti a Gulf Port nel golfo del Messico. A due giorni dall’arrivoricevemmo un telegramma col quale il locale agente ci notiziava che per mo-tivi tecnici, dovuti all’ingolfamento del porto, il nostro arrivo doveva essereposticipato di due giorni. Il Comandante, allora, per economizzare il combu-stibile, ordinò che la nave di notte procedesse regolarmente a lento moto,mentre invece di giorno facevamo lunghe soste durante le quali l’equipaggio,libero dalle solite incombenze, poteva dedicarsi anche alla pesca.

Fu appunto durante la prima giornata di sosta che vedemmo un grossopescecane girare lentamente intorno alla nave. Non faceva nulla di male, maogni qualvolta qualcuno dei pescatori stava per tirare a bordo un pesce appe-na abboccato, lui interveniva con una velocità impressionante e se ne man-giava una buona metà. A bordo arrivava a volte solamente la testa della pre-da.

Ovviamente questo indisponeva l’equipaggio che cercava con ogni mezzodi far scappare il pescecane, ma tutto era inutile. Allora, con la pazienza chesolamente i buoni pescatori hanno, fu preparata una trappola con un grossoamo ed un lungo filo d’acciaio, poi calato in mare con uno straccio biancointorno.

Dopo poco vedemmo che il pescecane aveva abboccato all’amo, ma fu unavittoria di breve durata. Con uno strappo ben dato il pescecane spezzò il filod’acciaio e ingoiò il tutto, amo e filo. Fu approntato un secondo amo, questavolta molto più grosso, un gancio da macellaio utilizzato solitamente dal cuo-co di bordo. Anche per lenza fu utilizzato qualcosa di più spesso, un verocavetto d’acciaio. Dopo neanche un’ora, stesso risultato: il pescecane avevadisteso il gancio ed era scivolato via.

A questo punto era diventata una scommessa tra i ragazzi di bordo, tra iquali brillava per la sua tenacia un motorista di Torre del Greco, e il pesceca-ne. Per la terza volta fu approntata una nuova esca: stavolta presero ben treganci da macellaio uniti tra loro con una fascetta metallica saldata a fuoco.Fecero insomma una purpara, cioè quell’amo multiplo che serve per la pescadei polpi e delle seppie.

Fu utilizzato anche un cavo molto più spesso poi calato immediatamente inacqua assieme al solito straccetto bianco al posto dell’esca; si sa, i pescecaninon hanno una vista molto acuta. Tutto l’equipaggio ormai seguiva con at-tenzione la gara, anche i meno interessati, io tra questi. Devo dire per la veri-tà che qualcuno scherzosamente faceva il tifo per il pescecane.

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Tuttavia sembrava che il pescecane stavolta non avesse proprio nessunafretta. Per un paio di volte si avvicinò all’esca, ma all’ultimo minuto viravasenza abboccare. Eravamo certi che quasi fiutasse il trucco e cercasse di evi-tare fino all’ultimo l’adescamento, ma la fame mette un limite a tutto.

Quando fu quasi l’ora di pranzo per noi e stavamo per andarcene, all’im-provviso sentimmo un urlo giungere dalla poppa. La caccia era finita, il pe-scecane aveva abboccato, ma adesso cominciava il lavoro più gravoso: tirarea bordo l’enorme preda, che era veramente immensa.

Intanto il pescecane dava degli strappi alla lenza da lacerare le mani all’in-cauto che cercava di tiralo su con il filo d’acciaio. Non intendeva proprio dar-si per vinto. Un marinaio più anziano fece scorrere allora intorno alla lenzaun altro cavo a mo’ di nodo scorsoio e molto lentamente, con grande difficol-tà, lo fece scorrere sotto le pinne del pescecane.

Questa fu la vera mossa vincente. Lentamente cominciammo tutti a tirarlosu; faceva una resistenza immensa, almeno fin tanto che era in acqua, nel suoelemento naturale. Poi cominciò a stancarsi, veniva su sempre con minoridifficoltà. Restava solo il peso, che era enorme, ma appena riuscimmo a farloscivolare in coperta cominciò un’altra battaglia.

Vistosi perso il pescecane cominciò a dare testate e tantissimi colpi di coda.Per un’ora nessuno di noi riuscì ad avvicinarsi oltre una distanza di sicurez-za. Infine non si mosse più.

Dalle cabine allora cominciarono ad uscire macchine fotografiche, ognunovoleva un ricordo della magnifica preda. Non è di tutti i giorni pescare unpescecane lungo oltre due metri nel golfo del Messico con un amo da macel-laio.

Nel tardo pomeriggio, quando ognuno aveva soddisfatto tutte le propriecuriosità, il pesce fu ributtato in acqua, ma dato che il peso era notevole sipensò di farlo prima a pezzi per essere agevolati nel compito. E così si scoprìun’altra strana cosa: nel ventre dell’animale trovammo una tartaruga interadal guscio di oltre un metro di diametro, forse morta da poco. Assieme allatartaruga nello stomaco trovammo anche tutte le lenze e gli ami che avevamoimpiegato nella caccia.

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IL CUCCHIAINO D’ARGENTO

Eravamo a poche braccia di distanza dalla banchina petroli nel porto diTønsberg, in Norvegia. Due grossi rimorchiatori ansimanti erano affiancatia noi cercando di spingere la nave verso l’ormeggio. C’era una forte corren-te che ci spingeva sempre al largo nonostante i nostri sforzi ed erano ormaiun paio d’ore che stavamo manovrando.

Sul ponte eravamo in pochi: il Comandante, il pilota norvegese, il timo-niere ed io per le comunicazioni. Tutti gli altri erano di rinforzo ai vari postidi manovra.

D’un tratto vidi uno degli allievi di macchina, il più anziano, entrare intimoneria, avvicinarsi al Comandante e parlargli sottovoce. Proveniva dallapenisola sorrentina, era un giovane timido e molto introverso. Per non daresoggezione ad entrambi mi allontanai e mi affiancai al pilota norvegese sul-l’aletta di sinistra.

Il colloquio durò pochissimo; subito dopo il Comandante mi chiese d’av-vertire via radio il personale norvegese in attesa sulla banchina di tenerpronta un’autoambulanza perché avevamo un infortunato a bordo.

Da terra chiesero maggiori dettagli sull’entità dell’infortunio così il Co-mandante, tra il serio e il faceto, rispose che un nostro allievo macchinistaaveva ingoiato un cucchiaino d’argento.

Sulla nave vi fu un momento di sconcerto e la manovra d’attracco si bloc-cò; durante le operazioni di manovra le radio erano tutte sintonizzate sullostesso canale, tutti avevano sentito lo scambio di comunicazioni e non sa-pevano se piangere o ridere. Da terra pensarono anche ad uno scherzo.

Purtroppo il Comandante non rideva e guardandomi assentiva con la te-sta facendomi capire che era tutto vero.

Quasi immediatamente una lancia si avvicinò a noi per prelevare l’allievoaffamato, chiamarlo infortunato era un po’ troppo. Come al solito il com-pito di accompagnarlo in ospedale spettò al sottoscritto.

Il personale ospedaliero addetto al pronto intervento era stato nel frat-tempo allertato e ci aspettava sorridendo. Appena giungemmo nell’ospeda-le furono molto solleciti nel portare il malcapitato ghiottone nella sala deiraggi X.

Ma i sorrisi iniziali, divennero ancora più sfacciati quando da un primosommario esame radiografico allo stomaco si accorsero che non vi era nes-sun cucchiaino.

Fui chiamato dai sanitari di guardia che mi fecero notare l’assenza delcorpo del reato e mi fu chiesto di contattare il bordo, far guardare bene

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nella cabina dell’allievo, magari anche nel lavandino visto che stava guar-dandosi le tonsille (a suo dire arrossate) quand’era capitato l’incidente. Cosache feci molto rapidamente, anzi mi recai molto velocemente io stesso abordo, ero veramente molto imbarazzato.

Purtroppo le indagini furono infruttuose: del cucchiaino nessuna traccia incabina.

Per la verità loro avevano disposto nel frattempo il paziente su un lettinocon la testa in giù nella speranza di poter utilizzare eventualmente una son-da.

Ma nel frattempo un sanitario più solerte, facendo una più accurata indagi-ne radiografica, aveva scoperto che il cucchiaino era già sceso nell’addome;in poco tempo, mentre lo trasportavamo all’ospedale, forse per i sobbalzidell’autoambulanza, il cucchiaino ormai era fuori della portata della sonda ebisognava operare.

Al mio ritorno all’ospedale trovai l’allievo molto giù di morale; si lamenta-va della sua sfortuna, piangeva più di rabbia che di dolore, imprecava legger-mente perché avremmo dovuto lasciarlo lassù in Norvegia.

La nave generalmente impiegava solo una trentina d’ore per la discarica,saremmo ripartiti infatti il giorno successivo. Purtroppo non seppi esseremolto di conforto, ero sconcertato, sembrava una cosa assurda ingoiare uncucchiaino alla sua età, forse lo sfrocoliai anche un poco nella speranza ditirargli su il morale.

Anzi, con la speranza di sdrammatizzare gli dissi che il Comandante avevaintenzione di fargli pagare l’intero servizio d’argento, visto che mancava or-mai il cucchiaino da lui ingoiato.

L’indomani ripartimmo di buonora alla volta del Golfo Persico. Un paio digiorni dopo un telegramma dell’agenzia ci notiziò dell’avvenuto recupero edel rimpatrio dell’allievo.

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PASQUA IN NAVIGAZIONE

Nella mia vita, come nella vita di ogni marittimo, la maggior parte dellefeste comandate le ho trascorse in navigazione. Qualche volta, eccezional-mente, fermo in un porto straniero.

Rammento benissimo una delle tante Pasque trascorse in pieno oceano.Eravamo nel 1965, navigavamo con una bella nave italiana tra la Germania egli Stati Uniti; caricavamo a Norfolk in Virginia carbone in polvere per por-tarlo ad Amburgo, dove veniva utilizzato da una centrale termoelettrica.

La nave, pur non essendo una nave passeggera, doveva per contratto tra-sportare 12 passeggeri. Generalmente questi passeggeri erano cittadini ame-ricani familiari di soldati americani residenti nella Germania occidentale,oppure giovani studenti tedeschi che si recavano negli Stati Uniti per lavoro eper apprenderne la lingua.

Molte volte queste persone compivano a distanza di mesi entrambe le tra-versate; la nostra agenzia praticava effettivamente prezzi veramente com-petitivi, mi sembra intorno ai 110 dollari per traversata.

Quella volta eravamo partiti da Amburgo la sera del Venerdì Santo e, comeal solito per quel periodo dell’anno, la traversata iniziò con l’accompagna-mento di nebbia e mare grosso.

Appena dopo aver lasciato Amburgo i passeggeri tedeschi si riunirono nel-la saletta a loro riservata per bere un poco e per ascoltare musica. La piùanziana tirò fuori un registratore portatile e subito dopo le note di Mozart eBeethoven inondarono la nave.

Tutto questo durò fino ad oltre la mezzanotte. La musica era molto bellama triste e così, nota dopo nota, bicchiere dopo bicchiere, alla fine tutti ipasseggeri erano mediamente sbronzi e commossi.

Tutti noi di bordo, invece di partecipare alla serata intima, eravamo rimastisul ponte di comando impegnati a causa della nebbia e delle tantissime im-barcazioni che solcavano il fiume. Il giorno dopo, Sabato Santo, trascorsesenza grosse novità in navigazione nel Mare del Nord e, come al solito, fred-do, pioggia e nebbia ci facevano buona compagnia.

Rammento che in quel gruppo di passeggeri, quasi tutte donne, c’era unabellissima, biondissima e giovane tedesca. Tutti i nostri occhi, ma special-mente quelli del Comandante, erano puntati su di lei; quando passava neicorridoi nessuno la perdeva di vista un istante, tutti a chiederle se avessebisogno di qualcosa.

Una volta rotto il ghiaccio ci accorgemmo che oltre ad essere bella e simpa-tica era soprattutto bisognosa d’amicizia.

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Il giorno successivo, la domenica di Pasqua, all’ora di colazione, uno deipiù giovani di bordo, un allievo di macchina, ebbe una brillante idea: avrem-mo regalato al Comandante un grosso uovo pasquale con dentro la ragazza.Lei, messa al corrente dell’idea, accettò subito ridendo.

Immediatamente in macchina tutti si misero a lavorare di lena: chi preparòl’incastellatura, chi la carta argentata, chi prese dall’infermeria una barella el’adattò al caso; tempo due ore e l’enorme uovo fu pronto.

A loro volta gli ufficiali di coperta, senza dire nulla a nessuno e per nonessere da meno, alzarono il Gran Pavese, ma con una leggera variante: lebandiere si alternavano con gli slip delle passeggere, tutte divertite econsenzienti.

Poco prima dell’ora di pranzo il Comandante ci invitò come consuetudinetutti sul ponte a prendere l’aperitivo e per lo scambio degli auguri. Nel frat-tempo stavamo navigando nel Canale della Manica, vicinissimi alla costa in-glese.

Intanto il Comandante, che da due giorni bivaccava sul ponte, vedeva chele navi che incrociavamo si avvicinavano di molto alla nostra e che moltagente era in plancia munita di binocoli per guardarci meglio e per salutarcicordialmente, con suoni di sirene e ampie gesta delle braccia.

Ovviamente, non essendosi accorto dello scherzo del Gran Pavese, passeg-giava preoccupato e imprecando sul ponte: non si spiegava perché le altrenavi passassero così vicine. Addirittura una piccola motovedetta militare in-glese ritornò indietro per vederci meglio.

Finalmente dalle nostre risate si accorse dello scherzo e, sulle prime, laprese molto male. Stava cominciando quasi ad urlare quando qualcuno, mol-to opportunamente, portò in timoneria quello splendido uovo, pesantissimo(la longilinea ragazza da sola pesava ottanta chili), coperto da stagnola blu etutto infiocchettato.

Quando l’aprì e s’accorse del contenuto che stava uscendo fuori finalmentecominciò a sorridere.

Quella Pasqua, nonostante le preoccupazioni e il cattivo tempo che perdu-rò fino all’arrivo, fu certamente una delle più serene.

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VICTORIA DI ESPIRITO SANTO

La nave era ancorata di fronte ad un porto brasiliano – Victoria, nello statodi Espirito Santo - in attesa di caricare minerale di ferro. La nave sembravaun pallone, la chiglia era completamente fuori dell’acqua. Avevamo scaricatotutta la zavorra possibile per non perdere tempo una volta in banchina.

Eravamo nel primo pomeriggio, quando la calura è al massimo e il marecalmo; non c’era neanche un alito di vento e la nave era senza aria condizio-nata. Letteralmente si boccheggiava. La maggior parte dell’equipaggio era incoperta intenta a pescare, qualcuno sonnecchiava.

Improvvisamente sentimmo delle grida: un ragazzo giù in sala macchine,un ingrassatore, si era sentito male per un attacco d’asma. Immediatamentecercammo di contattare i nostri agenti locali via radio per far intervenire undottore.

Eravamo vicinissimi all’imboccatura del porto. Purtroppo, a quei tempi, lecomunicazioni via radio a breve distanza non erano molto funzionali. Delresto, in quella parte del mondo, la radio non è stata mai troppo bene utiliz-zata.

Comunque, riuscimmo a farci sentire. Loro, gli agenti del posto, ci consi-gliarono di inviare noi stessi il ragazzo a terra per accelerare l’iter e per poter-lo eventualmente ospedalizzare qualora fosse stato indispensabile. Tentam-mo quindi di ammainare immediatamente una delle nostre scialuppe.

L’imbarcazione giunse ad un metro dal pelo dell’acqua e non scendeva più,nonostante tutti gli sforzi del personale addetto e le imprecazioni del nostromo.

Finalmente la scialuppa fu sganciata, ma di forza, in modo innaturale. Ungrande tonfo ed essa filò via con il suo carico umano.

Il giorno dopo, con calma, senza l’orgasmo dell’ammalato a bordo,ritentammo la stessa manovra: stessi problemi. Alla fine, dopo tantissimeprove, ci rendemmo conto che il cavo per l’ammaino della scialuppa era diqualche metro più corto del previsto.

La nave aveva pochi anni di vita, era quasi nuova. Di chi la colpa? Sonoconvintissimo che la società armatrice non aveva certamente tentato di ri-sparmiare per quei pochi metri di cavo in meno. Allora, è stata la societàfornitrice del cavo che aveva barato sull’effettiva lunghezza, oppure l’operaiodel cantiere che non sapeva misurare?

Personalmente propendo per la responsabilità dell’ingegnere incaricato dalnostro Registro Navale oppure dell’ufficiale della capitaneria di porto chenon verificò il cavo a nave tutta fuori prima di rilasciare la certificazione dirito.

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Mar Rosso mare grosso

Immaginate, per un momento, se invece d’essere in Brasile con mare cal-mo e di giorno, fosse stato di notte, con un incendio a bordo e magari conmare grosso.

Non rammento il nome della nave né quello dei miei colleghi di bordo e mirallegro per tutto ciò; avere debiti con la memoria mi torna comodo.

Quanta tristezza mi pervade ancora oggi a ricordare certi episodi.Dimenticavo, il ragazzo si riprese subito. Quando, dopo una settimana,

entrammo finalmente in porto per caricare, lo trovammo in banchinacaricatissimo, affiancato da due formose infermiere indigene. Lo rivedemmoalla partenza, voleva per forza restare laggiù.

A suo giudizio la medicina brasiliana era più efficace di quella italiana.

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Mar Rosso mare grosso

IL MAR ROSSO DIVENTA MAR NERO

Mia nonna, quand’ero ragazzo, mi faceva sempre piccole quotidiane racco-mandazioni, oggi le chiamano pillole di saggezza. Ovviamente non ne ho te-nuto mai conto ma ogni volta che mi capitava qualcosa le raccomandazionivenivano spontanee alla mente. La più frequente di esse era la frase il rispar-mio non è mai guadagno.

Anni or sono fui chiamato ad imbarcare, nottetempo e senza alcun preavviso,su di una nave che aveva di italiano solo il Comandante e il Direttore di macchi-na; era una petroliera liberiana, imbarco molto ambito in quanto si guadagnavabene e oltre tutto non si pagavano tasse perché alzava bandiera ombra.

Per la verità, quando seppi che il nostro armatore aveva preferito inizial-mente imbarcare su quella nave un equipaggio tutto spagnolo, ero rimastomolto male. Perciò, quando fui chiamato in tutta fretta assieme a diversi amici,mi meravigliai moltissimo.

Una volta raggiunta la nave il perché del cambio completo dell’intero StatoMaggiore fu subito evidente. Personalmente trovai nella stazione radio unasituazione abbastanza complicata, e altrettanto accadde agli altri ufficiali nelprendere le consegne dai loro omologhi iberici.

Il Comandante, mio amico da sempre, nel riceverci all’imbarco ci racco-mandò solamente di essere molto gentili con gli sbarcanti ma precisi finoall’esasperazione nelle consegne, di non lasciare nulla al caso, cosa che ovvia-mente facemmo senza neanche chiederci il perché; abitualmente eravamosempre molto fiscali in materia di consegne.

Gli spagnoli sbarcarono biascicando qualche parolaccia nella loro linguache noi non raccogliemmo. Due giorni dopo finalmente ripartimmo da Mar-siglia e una volta in navigazione capimmo il perché di quel cambiamentoimprovviso e senza alcun preavviso dell’intero staff.

La sera dopo cena su tutte le navi c’è l’abitudine del bicchierino forte, del-l’ultima sigaretta, della partita a carte, ma è anche il momento delle confi-denze, dei ricordi, dei programmi per l’indomani.

Così, tra un bicchierino e una sigaretta, finalmente il Comandante ci parlòdelle difficoltà incontrate con lo staff spagnolo: ragazzi professionalmentepreparati, con un’ottima educazione civica e scolastica, ma con tanta boriada non accettare correzioni se sbagliano, forse retaggio di quando erano statigrandissimi navigatori assieme ai cugini lusitani.

Inoltre, essi erano pagati esattamente la metà degli italiani, e questo li in-duceva a fare lo stretto indispensabile. Dopo poche settimane dall’imbarcoerano diventati molto lassisti e tutto questo aveva portato all’esasperazione il

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Mar Rosso mare grosso

Comandante che aveva posto un out out alla società armatrice: o mi cambia-te l’equipaggio o mi sostituite.

Ovviamente, lo si capirà meglio alla fine, l’armatore preferì sostituire l’equi-paggio.

Qualche giorno dopo questo sfogo, quando eravamo in pieno Mar Rossodiretti nel Golfo Persico, il Comandante cominciò ad innervosirsi senza mo-tivo apparente. Fumava una sigaretta dietro l’altra, si guardava continuamenteintorno, guardava la superficie del mare e scuoteva la testa. Alla fine vennenella stazione radio, chiuse la porta e cominciò a raccontare. Il viaggio prece-dente, durante le operazioni di carico in un porto del Golfo Persico che luiseguiva personalmente in quanto si fidava poco dell’ufficiale addetto, presodalla stanchezza e visto che tutto procedeva normalmente si era eclissatoun’oretta per schiacciare un pisolino; appena si svegliò, nel recarsi in coper-ta, si accorse che il primo ufficiale si era distratto ed aveva caricato più deldovuto: in gergo si dice la nave era sotto marca.

Il Comandante bloccò immediatamente la caricazione, rifece i calcoli e giun-se alla conclusione che con quelle tonnellate in più di carico non avrebbepotuto riattraversare il canale di Suez con direzione Nord Europa. Dopo unbreve consiglio di famiglia, la soluzione più ovvia risultò quella di scaricare laquantità caricata in eccesso. Da terra gli risposero che la normale procedurain tale evento consisteva nell’allontanarsi dalla banchina, tornare in rada edattendere di nuovo il turno. Tutto questo avrebbe comportato una perditaminima di due giorni; condizione inaccettabile per la nostra mentalità, masoprattutto per il tipo di contratto stipulato con la società noleggiatrice. Percui lui ringraziò, ritirò la documentazione e cominciò il viaggio di ritornopensando ad una possibile soluzione alternativa.

Fare il periplo dell’Africa era impossibile, la nave non era attrezzata e sa-rebbe costato troppo alla società armatrice; la soluzione più ovvia, la più sem-plice, era di buttare in mare la quantità caricata in eccesso, cosa che lui fecenel Mar Rosso.

Forse dopo quella operazione il Mar Rosso sarà stato rinominato Mar Neroo Mar Grigio, non lo so, so solo che quelle bravate una volta erano all’ordinedel giorno.

Oggi per fortuna i controlli sono maggiori, il livello della corresponsabilitàindividuale è forte e soprattutto la conoscenza della gravità delle conseguen-ze è molto superiore che nel passato; tutti sanno ormai che il mare non ce lafa più a digerire tutte le porcherie che quotidianamente riversiamo in esso.Tutti, anche i bambini, sanno che la vita del nostro pianeta è nelle nostremani, il futuro dell’umanità è affidato solamente a noi stessi.

Ritornando al problema iniziale, bisogna dire che le peripezie per il Co-mandante non erano terminate. Il canale di Suez fu attraversato senza intop-pi, ma ora bisognava fare in modo che nel porto di discarica nessuno si accor-gesse della quantità di carico in meno.

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Mar Rosso mare grosso

Evidentemente ci deve essere un Santo protettore anche per i Comandantiche commettono infrazioni; infatti, una volta giunti nel porto di discaricac’era un fortissimo temporale per cui l’addetto al controllo, giunto a bordogrondante acqua da tutte le parti, per non bagnarsi ulteriormente accettò lequantità che gli furono presentate senza verificare di persona.

Tutto finì bene, ma il Comandante era rimasto scottato!Questo pasticciaccio fu la chiave della rivolta del Comandante verso la com-

pagnia armatrice. Appena terminate le operazioni di discarica si recò negliuffici dell’agenzia locale da dove fece una lunghissima telefonata in Italia perla richiesta di un equipaggio di sua completa fiducia; fu accontentato, e quientra in ballo la frase della nonna: il risparmio non è mai guadagno.

La compagnia armatrice aveva sì risparmiato con l’equipaggio spagnoloper un paio di mensilità, ma tra danni combinati dagli sbarcanti e solo suc-cessivamente riscontrati, tra le spese per il rimpatrio degli stessi e successivirimborsi per mancato guadagno avanzati dagli spagnoli, non so quantificarese fu un risparmio imbarcare un equipaggio straniero, ma so che negli annisuccessivi fummo sempre noi italiani ad imbarcare su quelle navi.

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Mar Rosso mare grosso

IL ROSSO ADDORMENTATONEL MAR ROSSO

Sempre a proposito del risparmio mi viene in mente un altro episodio acca-duto, manco a dirlo, nel Mar Rosso. La società armatrice era la stessa del-l’episodio precedente, la filosofia del risparmio a tutti i costi pure e, forse,anche la nave era la stessa, non ne sono più sicuro.

In quegli anni all’insegna del risparmio si cominciava a ridurre gli organici:prima vennero eliminate alcune figure professionali fino ad allora ritenutestrategiche quali il carpentiere e il pennese; poi si continuò con gli allieviufficiali e successivamente si fece ricorso agli equipaggi stranieri quali filippinied extracomunitari. Ultimamente erano poche le navi italiane con equipaggiitaliani.

Eravamo partiti da qualche giorno da Suez, era di mattino, io avevo termi-nato il primo turno di guardia e stavo giocando a carte con il Comandantenella stazione radio. Dal finestrino alla nostra sinistra entrava un bel sole checi faceva compagnia; sul tavolo, assieme alle carte napoletane, c’erano duebicchieri ricolmi di caffè freddo.

Oltre che giocare io e il Comandante, amici da tantissimi anni, ci prendeva-mo in giro; io non ho mai saputo giocare a carte e lui me lo rinfacciava sem-pre.

Improvvisamente, nel mezzo di una passata di carte, si alzò di scatto escla-mando in napoletano: ’o sole! ’o sole! buttò le carte sul tavolo e scappò nel-l’attiguo ponte di comando.

Il timone automatico si era bloccato e noi stavamo piano, piano ritornandoa Suez. Lo sentii gridare come un ossesso verso il terzo ufficiale di guardia,un bravissimo ragazzo dalla folta capigliatura rossa, il quale, poveretto, si eraaddormentato in piedi appoggiato alla parte anteriore del ponte.

Colto in fallo, piangeva dalla paura ma soprattutto dalla vergogna. Menomale che non vi erano altre navi nei paraggi, sarebbe stato un bel guaio.

Anche questo incidente stava capitando per la fregola del risparmio a tuttii costi: di norma assieme all’ufficiale di guardia, sulla plancia, vi sono duemarinai di guardia che si alternano al timone, quello libero fa la vedetta, qual-che piccola pitturazione, chiama la guardia montante, fa il caffè, parla, ecce-tera.

Su quella nave, sempre all’insegna dello stesso tema, i marinai erano statientrambi destinati altrove e l’ufficiale, non avendo altro da fare che guardaredi prua oltre che controllare i punti nave, in un momento di stasi si era addi-rittura addormentato, pensando forse alla sua ragazza.

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Mar Rosso mare grosso

Dopo le grida rimettemmo a posto il timone automatico; la nave ritornòsulla sua rotta e il terzo ufficiale fu mandato a farsi una doccia rinfrescanteper poi riprendere il suo turno. Per fortuna fu solo una gran paura per tutti,ma nessun danno.

Qualche anno più tardi, mi trovavo in un treno della Circumvesuviana, misentii salutare da una persona poco distante dal mio sedile.

Sulle prime non riconobbi chi mi sorrideva e mi chiamava per nome; avevaperso come me la sua fulva capigliatura, ci avvicinammo e, nell’abbracciar-mi, mi disse chi era.

Fui felicissimo di rivederlo: era il terzo ufficiale addormentato, nomignolocon il quale venne da quel giorno da noi tutti identificato.

Parlammo per un po’ fino all’arrivo a casa; mi disse che dopo lo sbarco siera rimesso a studiare e si era laureato in matematica, ora stava insegnandoin una scuola media.

Ricordammo ridendo entrambi l’episodio avvenuto nel Mar Rosso ed a mevenne spontaneo dirgli che laureandosi aveva fatto la scelta giusta; aggiunsiinoltre, sempre sorridendo, che non era nato per navigare e che se avesseinsistito sarebbe potuto diventare un pericolo pubblico con conseguenzeinimmaginabili per tutti.

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LE DUE PAURE

Erano ormai diversi mesi che navigavamo tra Kirkenes in Norvegia, pressoMurmansk, oltre il circolo polare artico, Rotterdam e Monrovia in Liberia. Era-vamo diventati quasi di casa in quei porti. Ci conoscevano praticamente tutti.A Kirkenes ed a Monrovia caricavamo minerale di ferro per Rotterdam; ecce-zionalmente qualche volta scaricavamo ad Emden, in Germania.

Quell’inverno faceva veramente freddo. Una notte a Kirkenes il termometrosegnò meno 33 gradi. Fortunatamente in Liberia la sosta era più lunga e così glianziani, scherzosamente, raccomandavano ai più giovani d’incamerare un po’di sole da spendere durante le soste nel nord Europa.

A Rotterdam quella volta scaricammo molto lentamente. Nella banchinadov’eravamo ormeggiati non erano attrezzati per rifornirci d’acqua potabile, ealla partenza sarebbe dovuta venire una bettolina per il rifornimento. Non ram-mento il motivo ma non venne, di conseguenza ripartimmo senza la solita pre-scritta scorta d’acqua.

Il primo ufficiale, prevedendo le eventuali conseguenze, ebbe una brillanteidea: immerse un paio di manichette fuori bordo e riempì le nostre casse d’ac-qua lavanda con acqua aspirata direttamente dal fiume. Non conosco l’esattapopolazione di quella bella città, certamente alcuni milioni.

Ebbene, se ognuno di loro fa una sola volta al giorno i suoi bisogni, lascioimmaginare di che qualità potesse essere l’acqua che avevamo imbarcato. Ov-viamente, appena si sparse la voce in giro dell’incoscienza commessa, tuttol’equipaggio fece bene attenzione a non utilizzare quell’acqua; meglio era la-varsi con acqua di mare. I denti li avremmo lavati con acqua minerale.

Tuttavia, purtroppo, il cuoco per lavare le pentole doveva per forza utilizzarel’acqua appena imbarcata, e così durante tutto il percorso da Rotterdam fino inLiberia ci ritrovammo quasi tutti con il corpo coperto di pustolette o di mac-chie rosse.

Ovviamente protestammo, ma erano proteste che sapevamo inutili. Bisognavacomunque attendere il prossimo scalo per rifornirci nuovamente d’acqua decente.

Il primo ufficiale, per precauzione, durante tutta la navigazione si fece vedereil meno possibile in giro per la nave.

Come Dio volle, giungemmo finalmente a Monrovia. Eravamo veramente qua-si tutti stremati, malconci e giù di corda, ma pensavamo che tutto sommato inostri problemi erano finiti. Purtroppo il peggio doveva ancora arrivare.

Appena in porto andammo tutti a terra e mangiammo, quasi come per unrito liberatorio, moltissimo pesce ed una quantità enorme di crostacei. Vole-vamo veramente dimenticare il bordo e i suoi problemi.

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Mar Rosso mare grosso

Quel genere di pranzo del resto non costava neanche tanto; i peschereccieuropei, ma soprattutto quelli italiani, erano costretti a svendere parte delloro pescato perché non c’era molto mercato in quelle zone.

Invece con gli altri europei barattavano il pesce, i crostacei ed i molluschi,con pasta e vino, non potendosi rifornire direttamente anche per i costi proi-bitivi di quei prodotti.

Durante tutta la durata della permanenza in porto il primo ufficiale fecelavare tutte le casse che avevano contenuto l’acqua imbarcata a Rotterdam esuccessivamente cominciò ad imbarcare acqua dalle locali tubazioni.

Rammento ancora la sua spavalda espressione di compianto nei confrontidi noi poveri mortali. Sembrava volesse dire: voglio vedere adesso di checosa mi accuserete, sto facendo tutto il mio dovere!

Il punto dove attaccarono gli idranti era abbastanza lontano dalla nostranave. Ricordo quella lunga sfilza di manichette bianche, distese sul mare,l’una attaccata all’altra; quando la pressione da terra superava quella di rice-zione esse s’inarcavano quasi volessero spezzarsi. Sembrava di vedere il mo-stro di Loch Ness.

Ripartimmo da Monrovia dopo un paio di giorni e subito accadde un fattostranissimo: tutti noi restavamo ore intere nel gabinetto per una grave formadi infezione intestinale.

Consumammo ovviamente tutti i medicinali di bordo del settore e tutti ilimoni contenuti nella dispensa del cuoco per cercare di tamponare le falle.

Successivamente apprendemmo, con nostro grande disappunto, che l’ac-qua che avevamo imbarcata in Liberia era da un punto di vista sanitario peg-giore di quella imbarcata nel fiume di Rotterdam: eravamo cascati dalla pa-della nella brace.

A tavola vi andavano solamente pochissimi eroi. Quando ci si incontravanei corridoi o in coperta ognuno rivolgeva all’altro, con una stranissima smor-fia, una muta domanda: come va? Le risposte erano fin troppo eloquenti escontate: altre smorfie. Erano veramente dolores di panza per tutti.

Per mia fortuna, contrariamente al solito, in quel viaggio andammo a scari-care a Bagnoli. Se non vado errato arrivammo che era di sabato. Appena lapilotina venne sotto bordo, terminate le operazioni di controllo, me ne scap-pai di corsa a casa. Avevo paura di abbracciare i miei, tanto avevo temuto dinon riabbracciarli più.

Dopo qualche giorno andai da solo in Capitaneria e sbarcai senza neancheritornare a bordo per ritirare il mio bagaglio: fu un mio amico elettricista aportarmi le valigie a casa.

Cambiai successivamente anche armatore. Ero stato imbarcato con quellacompagnia per oltre quindici anni, ma la paura di rincontrare quel primoufficiale era troppo grande.

Anche nella vita di un marittimo c’è un limite a tutto.

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ESSO CARIBBEAN

Nel maggio del 1979 ero imbarcato su una delle più grosse petroliere finoad allora costruite. Poteva caricare circa 500 mila tonnellate di greggio. Sichiamava Esso Caribbean.

Era talmente grande che a pieno carico poteva essere ormeggiata solamen-te in pochi porti nel mondo: la profondità delle acque nella maggior parte deiporti di caricazione o di discarica era insufficiente a contenerla.

Rammento che nel Golfo del Messico dovevamo scaricare contemporanea-mente su due piccole petroliere; si fa per dire piccole, erano entrambe sulle70 mila tonnellate di stazza. Quando eravamo fermi per la discarica sembra-vamo una mucca con due enormi vitellini attaccati ai capezzoli.

Impiegavamo inoltre quasi 15 giorni per la discarica. Comunque, pur sa-pendo che la nave scarica fosse altissima sul livello del mare, intorno ai qua-ranta metri, non mi ero mai reso conto di quanto fosse veramente alta, nonavendo mai avuto nei pressi un termine di paragone. Generalmente le naviche incrociavamo passavano ad una certa distanza.

In quel viaggio eravamo partiti da Houston, Texas, da un paio di giorni ederavamo diretti nel Golfo Persico per caricare greggio.

Appena dopo la partenza, il terzo macchinista fu colpito da forti doloriaddominali, causati molto probabilmente da calcoli renali in movimento; sene stava accucciato nel suo letto cercando di assumere una posizione che glidesse più sollievo. Vedere questo enorme ragazzo raggomitolato nella suacuccetta era veramente penoso.

Il secondo giorno dopo la partenza i dolori si acutizzarono, i pochi medici-nali esistenti a bordo erano ben poca cosa, potevano essere al massimo deipalliativi ma niente di più.

Quando il Comandante si rese conto della inutilità delle medicine fino adallora utilizzate mi fece chiamare il CIRM a Roma per farsi dare indicazionipiù mirate. Purtroppo, per una serie di impedimenti dovuti alla differenzaoraria ed alla cattiva propagazione, non riuscimmo a contattare direttamen-te l’Italia; tentammo inutilmente anche di utilizzare altri canali come quelliofferti dalla Coast Guard americana, ma questa via ci impediva d’avere rispo-ste in tempo reale e dovemmo desistere.

Chiamai allora immediatamente una qualsiasi nave nei paraggi munita didottore e infatti nel giro di pochi secondi ci rispose il radiotelegrafista dellanave passeggeri liberiana Fair Winds - che di liberiano aveva solo la bandierain quanto quasi tutto l’equipaggio era composto da italiani - mettendosi anostra disposizione.

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La nave, abbastanza vicina a noi, non era visibile ad occhio nudo. Perun’oretta ci fu uno scambio di messaggi telefonici tra i due Comandanti perlocalizzare le due unità.

Quando fummo abbastanza vicini, dal Fair Winds ammainarono una scia-luppa con un dottore e due infermieri e vennero a bordo a visitare l’ammala-to.

I Comandanti intanto accorciavano la distanza tra le due navi e, manovran-do congiuntamente, si disposero in maniera da creare un corridoio di mareabbastanza tranquillo nel quale la scialuppa potesse manovrare senza troppedifficoltà.

Fu allora che mi resi conto per la prima volta dell’effettiva altezza dellanostra nave. Avevo sempre visto nel passato le navi passeggere dal basso del-le banchine, per cui avevo sempre avuto l’impressione che fossero altissime,specialmente quando da ragazzo andavo a vederle assieme agli amici nel por-to di Napoli.

Invece ora, per la prima volta, vedevo una nave passeggera dall’alto e misembrava inverosimile. Intanto tutti i passeggeri erano sulle passeggiate ar-mati di macchine fotografiche e cineprese: non capita tutti i giorni, duranteuna crociera, di effettuare un salvataggio. Si sentiva da lontano la loro eccita-zione.

Il dottore, assieme ai suoi assistenti, una volta a bordo si rese subito contodella gravità del caso e delle poche inutili medicine esistenti sulla nave; sug-gerì immediatamente lo sbarco dell’infermo e loro stessi ne curarono il tra-sferimento sulla nave passeggera. Quest’ultimo particolare fu altrettantospettacolare per i passeggeri del Fair Winds.

Il terzo macchinista, una volta giunto a bordo e iniziata una terapia vera-mente idonea, si riprese subito.

Dopo due giorni il Fair Winds approdò a Everglades, in Florida, e il pazien-te fu sbarcato in ottime condizioni di salute ed inviato in Italia.

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IL PRETE ROSSO

Girovagando continuamente sulle coste dei cinque continenti, sia pure perlavoro, si fanno tante scoperte; si vedono tante cose belle e si fanno tantiincontri interessanti.

Una delle esperienze da me vissute, certamente la più importante, resta amio avviso un luogo di preghiera: una semplice, piccola cappella nella qualetutti potevano raccogliersi a pregare senza problemi di religione, forse unodei primi esempi di ecumenismo vissuto realizzato in tutto il mondo.

Questo stupendo esempio di ecumenismo ante litteram fu realizzato neiprimi anni settanta in un centro di accoglienza per marittimi ad Houston,grande porto-emporio del Texas.

Una sera ero ospite di questo centro. Mentre mi guardavo intorno con lacuriosità di sempre mi ritrovai nell’annessa chiesetta. Come anzi detto eramolto semplice: una stanza rettangolare di media grandezza, nella qualetroneggiava solamente un grande Crocefisso sulla parete di fronte all’en-trata.

Mentre ero raccolto in una silenziosa preghiera mi si avvicinò un uomo dimedia età che indossava una bella camicia rossa e un collare bianco, chiara-mente un religioso cristiano non cattolico. Si presentò molto cordialmente,cercando di rompere il ghiaccio, chiedendo la mia nazionalità, da quale naveprovenissi, quale fosse il mio ruolo a bordo; le sue domande erano fatte conmolto tatto e discrezione.

Al termine delle domande mi spiegò chi era e il perché di quella cappellacosì scarna, nella quale emergeva solamente un Cristo in Croce; tra le tantenotizie mi disse che ogni sera, a turno, si svolgevano funzioni religiose catto-liche, protestanti e greco ortodosse.

Poi la nostra conversazione divenne più personale. Mi parlò a lungo di sé,mi disse chi era e che compiti avesse svolto prima di farsi sacerdote. Era statoufficiale della Marina militare americana nella Seconda guerra mondiale,durante il conflitto con il Giappone.

Mi confidò, inoltre, che aveva vissuto la sua più drammatica esperienzadurante una cruentissima battaglia navale nel Pacifico contro navi giappone-si, durante la quale aveva visto morire sulla sua nave decine e decine dicommilitoni.

Alla fine della battaglia, in preda allo sconforto, alla disperazione e, perchéno, alla paura, aveva fatto un voto: se mi salvo mi faccio sacerdote. E così erastato. Finito il conflitto, lasciata la Marina militare, aveva abbracciato il sa-cerdozio.

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Mar Rosso mare grosso

Si vedeva che era rimasto veramente traumatizzato da quell’esperienza, maraccontava tutto questo con molta semplicità e serenità.

Nella mia lunga esperienza vissuta a mare ho incontrato tanta gente, ognunadelle quali ha lasciato in me qualche ricordo, gradevole o meno, ma questoprete atipico, con la sua camicia rossa, ha lasciato in me un ricordo indelebi-le.

Ogni volta che mi fermo a pensare al tempo che ho trascorso in mare, nonposso fare a meno di dedicare a quel prete in rosso il pensiero più intenso.

Mi rammarico sempre di non avere avuto più occasione di rincontrarlo perriprendere la nostra conversazione nel punto dove l’avevamo interrotta. Sa-rebbe stato molto istruttivo per il sottoscritto.

Nel 1992, durante le manifestazioni del 500° anniversario della Scopertadell’America, sono ritornato a Houston per partecipare al XIX CongressoMondiale dell’Apostolato del Mare, la nostra Stella Maris.

In quell’occasione ho conosciuto tantissima gente impegnata nella Pasto-rale dei Migranti e dei Lavoratori Itineranti. Vi erano semplici sacerdoti, ve-scovi, cardinali e tantissimi laici, tutti con un solo scopo: cercare di fornirequalche soluzione ai tantissimi problemi, purtroppo ancora oggi insoluti, dellamarineria mondiale, specialmente quelli relativi alle condizioni di vita deimarittimi del terzo mondo.

Speravo tanto di rivedere il simpaticissimo prete rosso da me incontratoanni prima, purtroppo non fui fortunato. La partecipazione a tutte le variefasi del convegno non mi permise di cercarlo con adeguato impegno.

Il rammarico è stato grande, ma io sono ottimista.

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Mar Rosso mare grosso

NATALE 1978

La vigilia di Natale del 1978 eravamo in banchina ad Aruba, stavamo scari-cando crudoil da quell’enorme grattacielo alto quasi dieci piani che era laEsso Caribbean.

Il Comandante Pierallini aveva invitato a cena in un ristorante in città tuttigli ufficiali liberi dal servizio; erano circa le ore 20 locali quando iniziammo ascendere allegramente dalla nave prendendolo bonariamente in giro: Pieralliniera un genovese purosangue e, si sa, tutti i liguri sono inguaribili sparagnini.

Mentre stavo attraversando quella selva di tubi che era la coperta della naveper avvicinarmi allo scalandrone, mi raggiunse trafelato il tankista, un anzia-no triestino che sottovoce mi chiese se avessi ricevuto l’ultimo notiziario inonde corte dall’Italia. Al mio diniego mi fece segno di volermi parlare in pri-vato e mi sussurrò che un aereo sulla rotta Roma-Palermo in fase d’atterrag-gio a Punta Raisi era precipitato in mare inabissandosi quasi subito. Diversimorti, tra equipaggio e passeggeri, era il bilancio del disastro.

Non era la prima volta che nel mio lavoro di radiotelegrafista ricevevo noti-zie di disastri aerei, ma per la prima volta questa tragedia mi toccava da vici-no: su quell’aereo avrebbe dovuto trovarsi una piccola parte del nostro equi-paggio, sbarcato alcuni giorni prima per recarsi in licenza a casa.

Da bordo erano partiti ridendo e scherzando, perché non sempre si riescead essere a casa nelle feste natalizie quando si naviga al lungo corso. Di que-sto gruppetto di colleghi un paio erano per l’appunto diretti in Sicilia. Eranotutti amici, ma uno di essi mi era particolarmente simpatico: il secondo uffi-ciale di coperta.

Era abbastanza giovane, sposato e padre innamoratissimo di una bimba diun anno. La piccola, che lui mi descriveva minuziosamente durante il tempotrascorso assieme in plancia, doveva essere una meraviglia. Mi raccontavache aveva appena cominciato a camminare e lo faceva a ritroso. Quando miraccontava questo particolare gli luccicavano gli occhi dalla gioia.

Era un gran bravo ragazzo, silenzioso, studioso, era sempre con una mono-grafia o un libro tecnico nelle mani. Non lo avevo mai visto arrabbiarsi conqualcuno, aveva occhi miti, sembrava quasi che volesse chiedere scusa dellasua felicità per avere una così bella figlia.

Questa volta stava sbarcando per trasbordo, cioè andava a casa per pochigiorni giusto in tempo per trascorrere il Natale e poi raggiungere un’altranave.

Lui, ma questo lo appresi successivamente, vista la ressa dei passeggeri cheattendevano un posto libero presso gli sportelli dell’Alitalia a Fiumicino, ave-

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va chiesto ai compagni di bordo di favorirlo per il suo inserimento nella pri-ma lista d’attesa.

Era stato subito accontentato, e questo gli era costato la vita.Durante i giorni che avevano preceduto il suo sbarco sembrava più leggero;

quella breve ed inaspettata vacanza era da lui considerata un dono del cielo,non stava più nella pelle dalla gioia. Ricordo che si chiamava Gabriele di co-gnome e Michele di nome. Tra gli sbarcanti c’era un’altra simpatica figura, iltankista Villanuova.

In seguito appresi dalla lettura di un verbale che Villanuova era seduto ac-canto a Gabriele e al momento dell’impatto dell’aereo con il mare riuscì subi-to a liberarsi dalla cintura e aveva anche cercato inutilmente di dare una manoall’amico per liberarlo, ma evidentemente qualcosa di diverso dalla cinturateneva bloccato Gabriele nella sua poltrona e alla fine dovette desistere suomalgrado.

Lascio immaginare cosa possa aver provato quel ragazzo quando si reseconto di non poter fare nulla per il suo compagno di viaggio. Non deve esserestato facile allontanarsi a nuoto dall’aereo ormai preda dei vortici.

Noi andammo comunque a cena in un famoso ristorante della città, pernulla convinti che fosse capitato proprio ai nostri amici quell’incidente. Maoramai il tarlo del dubbio si era insinuato nella nostra mente e la tristezza ciaveva completamente avvolti; eravamo infatti gli unici commensali silenzio-si.

Dopo cena ci recammo, sempre in silenzio, nell’attiguo salone delle festeper lo scambio degli auguri di rito con gli altri avventori che si fecero in quat-tro per non farci sentire soli in terra straniera. Molto probabilmente pensa-rono che eravamo tristi perché lontani da casa.

Nei giorni successivi, quando riaprirono gli uffici romani della nostra so-cietà, sapemmo la verità.

L’aereo cadde in acqua la sera tra il 22 e il 23 dicembre 1978.Michele Gabriele era sbarcato ad Aruba, assieme agli altri membri dell’equi-

paggio, il 20 dicembre 1978. Era nato il 22 luglio 1945 a Trapani.Una volta giunto nel Golfo Persico sbarcai dalla Esso Caribbean e lasciai

definitivamente la Exxon Italiana per non essere costretto a prendere piùl’aereo.

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STRANI INCONTRI

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ROSARIO DI SANTA FE, ARGENTINA

Rosario di Santa Fe è un porto fluviale argentino situato molto dentro ilRio Paraná. Per motivi di pescaggio le navi non possono arrivarci a pienocarico o viceversa, e una volta in banchina non possono caricare al massi-mo.

Quel viaggio caricammo appunto una buona metà delle granaglie desti-nate in Inghilterra e come consuetudine completammo il carico successi-vamente a Buenos Aires.

Il pontile non era lastricato. Solamente il bordo esterno, quello a contat-to con le navi, era cementato perché aveva incorporato le bitte d’ormeggio;tutto il resto era terriccio fino al cancello di uscita.

Durante la caricazione il tempo non era stato molto clemente; era piovu-to quasi sempre, e intorno alla nave si era formata una fanghiglia giallognolache si attaccava con insistenza alle scarpe.

I caricatori utilizzavano un nastro trasportatore per portare dai silos allanave i sacchi di granaglie. Essi iniziavano il lavoro molto presto la mattina:alle 7.00 aprivano il capannone, tiravano fuori il nastro trasportatore, ciarmeggiavano per un’oretta prima di farlo funzionare e poi lavoravano finoalle 11.00; una sosta fino alle 15.00 per la colazione e la siesta, poi ri-prendevano il lavoro per un altro paio d’ore.

Prima d’andar via la sera, a causa dei continui temporali, eravamo inpiena primavera australe, per riparare il nastro dalla pioggia riponevano iltutto nel capannone. Questo andamento durò fino alla nostra partenza.

Durante la caricazione, parte del carico contenuto nei sacchi cadeva aterra disperdendosi sul fondo erboso e pertanto diventava impossibile ilsuo recupero.

Con l’arrivo della pioggia i grani marcirono dando luogo alla nascita dimigliaia di larve bianche che sembravano vermi per pescare e, dopo qual-che giorno, queste larve diventarono mosche.

Queste ultime, appena furono in grado di volare, aggredirono letteral-mente la nostra nave appiccicandosi alle paratie appena pitturate di bian-co: un vero disastro.

Tutto il personale di coperta fu chiamato immediatamente a raccolta pereliminare quella non gradita invasione e ciò per una questione di igieneoltre che di estetica.

Nulla da fare. Fu usato prima un getto d’acqua fredda molto forte, poil’acqua calda, niente! Le mosche restavano attaccate alla nave. Erano di-ventate tutt’uno con la pittura fresca. Fu necessario picchettare l’intera

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superficie della nave e ripitturarla tutta, lavoro che fu fatto nella successivasosta a Buenos Aires.

Per molti anni, ogni qual volta vedo una colonia di mosche la mia mentericorda quella splendida cittadina e i suoi accoglienti abitanti.

Sono convinto che un buon scrittore di libri di fantascienza ne avrebbe ri-cavato un best seller d’eccezione.

s/s Suerte, Ottobre/Novembre 1954

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AGADIR, MAROCCO

Avevo sempre sentito parlare dai miei anziani amici naviganti dei loro in-contri con le cavallette e a volte i loro racconti mi sembravano autenticheesagerazioni, ma mi è bastata una sola personale esperienza, un solo incon-tro ravvicinato con tali insetti per capire che non vi erano state esagerazioninelle loro parole.

Eravamo in banchina da un paio di giorni nel porto di Agadir, quando fum-mo letteralmente investiti da un immenso sciame di cavallette. Tutto quantoera commestibile fu aggredito. Solo la nave fu risparmiata, forse perché, es-sendo di ferro, era un po’ duretta da masticare; ma nella zona circostante lanave, i pochi, striminziti alberi, gli arbusti avvizziti e qualche fiore nei cespu-gli, sparirono letteralmente nelle loro fauci.

Camminavano tutte assieme, lentamente, sul selciato della strada; sem-brava di vedere un tappeto in continuo movimento, ma le stesse in aria ave-vano una diversa velocità.

Gli sciami erano talmente compatti da sembrare nubi nere piene di piog-gia. Persino il sole veniva oscurato quando gli sciami si intromettevano tral’astro e la terraferma.

Mentre assistevo impotente, nella mia mente si affacciava una frase sentitatantissime volte durante la seconda guerra mondiale: Noi perderemo la guer-ra quando gli aerei nemici oscureranno il sole.

Era solamente un slogan, una frase ad effetto, mera propaganda politica,una cosa impossibile. Oscurare il sole era una vera esagerazione; ma questafrase, così terribile quel giorno, mi ronzava di continuo nelle orecchie mentrein auto andavo in città.

Le cavallette continuavano a camminare lentamente sulla strada, facendo-si schiacciare dalle ruote delle automobili, mentre un’altra parte di esse sispiaccicava sui parabrezza.

Era una visione davvero poco gradita che durò fino alla nostra partenza perCasablanca.

E, cosa ancora meno gradita, fu vedere due arabi seduti per terra arrostirlee tranquillamente mangiarle come fossero un normale pezzo di pane azzimo.

m/n Irolli, fine 1956/inizio 1957

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MACKENZIE, DEMERARA

I ricordi più belli della mia infanzia sono legati ai periodi estivi che trascor-revo a Trecase nella villa di nonno Antonio. Mia madre, appena le scuoleterminavano, mi metteva in un pacchetto poche cose: due pantaloncini, unricambio di biancheria, due paia di sandali e mi mandava a svernare in cam-pagna dai nonni. Laggiù incontravo i miei cugini e qualche loro amichetto delposto.

Quante ne abbiamo combinate noialtri ragazzi: grandi mangiate di enormifette di pane con i pomodori preparate da nonna Maria, scorpacciate di albi-cocche, uva e fichi direttamente dalle piante, corse su scassatissime biciclettenoleggiate, qualche scherzo carognetto alle ragazzine nostre compagne di gio-chi e lunghe dormite sotto i tralci.

Ma il vero momento magico era la sera. La strada dove abitavamo era fian-cheggiata da enormi alberi su entrambi i lati; in quelle piante si nascondeva-no di giorno tantissimi strani insetti che appena iniziava a far sera uscivanovolando e facevano la spola tra gli alberi frondosi e le luci della strada. Alcunidi essi erano abbastanza grandi ed avevano un corno sulla testa; noi li ac-chiappavamo e inserivamo su quel corno una corta candelina accesa, poi lilasciavamo andar via. Loro continuavano a volare portando in giro quellatremolante lucina accesa.

Ancora più bello era lo spettacolo delle lucciole che diventavano visibilinon appena cominciava a far buio: esse, volando, lasciavano dietro di sé un’in-cantevole scia luminosa di un meraviglioso colore verde. Qualcuna di questelucciole diventava presto una nostra preda. Era grande la curiosità di noiragazzi di sapere com’erano fatte e che cosa le rendeva luminose. Non siamomai riusciti a capirci nulla, era molto più bello vederle volare.

Dalle nostre parti sono scomparse del tutto, almeno io non le vedo da anni.Sarà per la cementificazione delle campagne, sarà per la quantità enorme dipesticidi utilizzati dai contadini, davvero non lo so; ormai si è radicata in mela convinzione che le lucciole, come i dinosauri, sono una speciedefinitivamente estinta.

Tuttavia la vita mi ha insegnato che non bisogna mai dire mai, e infatti unasera a Mackenzie, nella Guyana Britannica, dov’eravamo andati per caricarebauxite, assistemmo ad uno spettacolo semplicemente meraviglioso.

La nave, dopo tante ore di caricazione, era avvolta in una compatta nube dipolvere rossa; dovevamo stare ermeticamente chiusi in cabina e non aveva-mo condizionatori, considerati un lusso all’epoca. L’aria stagnante era diven-tata irrespirabile; faceva ovviamente anche molto caldo e così, dopo cena, in

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compagnia di qualche amico me ne andai in giro tra le poche casette di la-miera che costituivano il villaggio.

Appena cominciò a fare buio fummo attratti da un’enorme, luminosa, on-deggiante nube verde; era uno sciame di migliaia di lucciole, evidentementein assemblea plenaria. Volavano intorno ad arbusti a noi sconosciuti: sem-brava di vedere un tappeto luminoso fluttuare nell’aria.

Erano davvero tantissime, mai visto prima di allora uno spettacolo simile.Noi tutti, affascinati, stavamo in un religioso silenzio, forse per la paura chescappassero via; dopo ci sedemmo su alcuni tronchi d’albero rovesciati edognuno di noi raccontò agli altri le sue passate esperienze sulle lucciole.

Tutti noi avevamo in precedenza visto le lucciole, specie noialtri che navi-gavamo da sempre in quei luoghi caldi, ma sinceramente mai tante comequella sera e mai così luminose.

Sono sicuro che si sarebbe potuto anche leggere un giornale vicini a quel-l’intenso bagliore naturale.

m/n Megara, 1958

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MONROVIA, LIBERIA

D’estate, nelle nostre assolate campagne, il frinire dei grilli è il più deliziosodei suoni; appena cala il sole, dopo una giornata di appiccicosa calura, è ilsegnale che inizia il fresco della sera. Perciò, nei posti dove ancora esistonoquesti simpatici insetti, tutti attendono impazienti il loro suono. Ma non sem-pre è così, non sempre questo suono delizia gli uomini e quello che segue neè una conferma.

Ero imbarcato sulla motonave Edera e stavamo caricando a Monrovia mi-nerale di ferro per Rotterdam. Silenziosamente, quasi senza accorgercene, lanave fu assalita da una enorme quantità di grossi grilli verdi.

Faceva tanto caldo e come al solito non avevamo condizionatori d’aria. Noitutti lasciavamo le porte e gli oblò spalancati durante il giorno e la notte perrinnovare l’aria e respirare un poco, così tutte le cabine furono letteralmenteinvase da quei clandestini saltellanti insetti: non appena cessavano i rumoridella caricazione iniziava il loro concerto.

Si erano nascosti in ogni angolo recondito della nave. Per tutta la duratadella nostra sosta in quel porto il loro stridio infastidì non poco, ma nessunosi preoccupò più di tanto; pensavamo che fosse come una nube di passaggioe al massimo ci saremmo liberati di quel fastidio non appena la nave avesseabbandonato il suolo liberiano.

Per la verità, all’inizio ci divertivamo anche nascondendone qualcuno neicassetti degli anziani brontoloni di bordo, una specie di punizione per le loroquotidiane litanie.

Che illusi eravamo! Evidentemente i grilli erano più marinai di noi, infattifino all’arrivo in Olanda essi continuarono a scorrazzare liberamente per lanave.

Ovviamente alla partenza della nave furono presi tutti gli accorgimenti pos-sibili per evitare di portarli gratuitamente con noi fino in Europa. Non appe-na ci disormeggiammo il nostromo e tutti i marinai liberi dalla guardia tenta-rono con forti getti d’acqua di spedirne qualcuno in mare, ma nulla da fare;per le successive settimane, nonostante l’impegno di tutti, ne trovavamo sem-pre qualcuno tra i piedi.

m/n Edera, primavera 1970

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GELA, SICILIA

Nei tanti anni trascorsi in mare navigando ho assistito al passaggio ditantissime migrazioni di pesci, ma solo in due occasioni sono rimasto lette-ralmente stupefatto e per motivi molto diversi, addirittura opposti tra loro:la prima volta negli Stati Uniti, a Seattle, e la seconda volta a Gela, in Sici-lia.

La prima ero assieme ad altri amici seduto su una panchina in un parco checosteggiava un canale interno che attraversava l’intera città di Seattle.

Il canale, abbastanza profondo, era suddiviso in tante chiuse che avevanola funzione di rallentare il flusso dell’acqua verso il mare. Le porte delle chiu-se si aprivano ad orari fissi per l’uscita in mare aperto e per il rientro delletantissime imbarcazioni che risalivano la corrente dopo aver trascorso la gior-nata navigando in mare aperto. Tutto molto bello.

Negli Stati Uniti la navigazione da diporto è molto sentita e chiunque possapermetterselo possiede una barca, a vela, a motore, piccola o grande che sia.

Lateralmente al canale principale era stato costruito per l’intera lunghezzaun altro molto più piccolo, inframmezzato da tante piccole dighe. Intorno anoi molti ragazzi scherzavano buttando del cibo in acqua a dei grossi salmoniche stavano facendo ritorno al loro luogo d’origine ed erano pertanto costret-ti a risalire faticosamente la corrente, cosa che per la verità facevano conun’abilità a me sconosciuta.

I salmoni risalivano normalmente fin tanto che non incontravano una diqueste dighe. Cercavano di saltare l’ostacolo con un primo salto e quasi mairiuscivano a superarlo al primo tentativo; allora tornavano indietro di qual-che metro e con maggior impeto ritentavano la prova.

In caso positivo tutto bene, mentre in caso negativo la ripetevano tantevolte fintanto che non riuscivano nel loro intento; questo balletto si ripetevadiga per diga.

Gli amici del posto successivamente mi spiegarono che quei salmoni si fer-mavano solamente quando trovavano il posto dov’erano nati, depositavanole loro uova e poi si lasciavano morire.

Questo è un esempio eccezionale per la continuità della specie di cui noiuomini dovremmo fare tesoro.

Invece uno spettacolo molto diverso e che mi ha lasciato l’amaro in bocca èstato quello al quale ho assistito nell’autunno del 1982 nel porto di Gela.

Come tutti gli altri giorni stavo andando in Capitaneria con la barca del-l’agenzia quando notai una quantità inverosimile di pesci che, come intontiti,giravano a vuoto saltando senza scopo nelle acque del porto. Era un branco

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Mar Rosso mare grosso

enorme di cefali, sembravano ubriachi, il mare ribolliva tutto intorno comeun fiume in piena.

Non appena i pescatori del posto si accorsero della loro presenza si detteroda fare per prenderne qualcuno. Non dico di pescarli, non c’era bisogno diattrezzature, bastava mettere le mani fuori bordo per agguantarli; infatti, ca-pita l’antifona, i pescatori fecero ricorso ai coppi. Ne tiravano su a decine.

Si arrivò ad momento che le barche traboccavano per il loro peso; mi sem-brava di assistere ad una scena biblica, ma il girovagare dei pesci per il portonon si arrestava, durò fino al tramonto. Sembravano impazziti, forse cerca-vano una via d’uscita, era come se fossero drogati, e forse lo erano, ma noncertamente di stupefacenti.

Il porto di Gela è un porto artificiale costruito accanto ad un terreno petro-lifero dal quale spuntano trivelle e pozzi per l’estrazione del petrolio che, suc-cessivamente, viene fatto affluire nei depositi di un’adiacente raffineria.

Chissà cosa era andato a finire in acqua, quale veleno era fuoriuscito dalvicino deposito costiero o chissà cos’altro era successo.

Fu uno spettacolo deprimente che durò una intera giornata, ma per medura ancora.

m/c Francesco D’Alesio, autunno 1982

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UNMILIONECINQUECENTONOVANTAMILA

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UNMILIONECINQUECENTONOVANTAMILA

Tante sono, più o meno, le miglia che ho percorso navigando durante ilmio peregrinare intorno al mondo; esse sono pari a circa 74 volte il girodella Terra prendendo a base l’equatore.

Le miglia di cui sopra sono la somma delle miglia percorse, nave per nave,viaggio dopo viaggio, rilevate dai Manuali Nautici del tipo Reed’s MarineDistance Tables.

Da notare però che navigare per mare non è come il procedere di un trenosulle rotaie, molte sono le miglia che certamente ho percorso in più. Anzi-tutto perché non sempre seguivamo alla lettera le indicazioni delle cartenautiche o della società armatrice nell’attraversamento degli oceani e inultimo, ma non per questo meno importante, per le condizioni meteo mari-ne, bisogna come minimo addizionare un buon 5 percento, cioè altre 7950miglia e così si arriva facilmente alle 1.669.526 miglia percorse in 22 annidi effettiva navigazione, in un arco temporale di quasi trent’anni.

Sono molte? Sono poche? Non me lo sono mai chiesto. Di una sola cosasono sicuro: esse hanno lasciato un segno indelebile, molto profondo, nelmio carattere e non solo.

Il tempo trascorso in mezzo al mare mi ha fatto comprende il vero valoredell’amicizia, del cameratismo, della vita umana. Mai vista altrove tantaabnegazione quanto quella riscontrata a bordo delle navi.

Nella mia professione ho seguito via radio operazioni di salvataggio doveinteri equipaggi si sono adoperati ai limiti estremi, mettendo a repentagliola propria vita, per soccorrere altri equipaggi in serie difficoltà di qualsiasirazza e nazione.

Il bel tempo, le intemperie, il freddo polare, il caldo torrido, i bei postivisitati, sono solo sensazioni epidermiche e nulla più.

Per la cronaca: alle miglia percorse per mare vanno aggiunte quelle per-corse in aereo per raggiungere le destinazioni o per ritornare a casa; nonsono poche neanche queste ultime, sono solamente 51.337.

L’equatore è lungo 40.076 chilometri pari a 21.625,8 miglia marine.1 miglio marino è attualmente pari a 1853 metri.1.590.630 : 21.625 = 73.555 circumnavigazioni equatoriali.

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MIGLIA PERCORSE NAVE PER NAVE

m/n Azio ml. 5.502s/s Suerte ml. 95.988m/n Irolli ml. .691m/n Palizzi ml. 45.699m/n Megara ml. 166.961m/c Tenacia ml. 132.104t/c Aretusa ml. 114.297t/c Ercole ml. 61.171m/c Donatella ml. 80.881m/c Benedict ml. 122.568m/n Penelope ml. .340m/c Cape Horn ml. 151.222m/n Edera ml. 66.412m/c Esso Torino ml. 82.227t/c Esso Augusta ml. 47.051t/c Esso Trieste ml. 21.577t/c Esso Roma ml. 37.000t/c Esso Venezia ml. 25.587t/c Esso Roma ml. 34.588t/c Esso Torino ml. 28.985t/c Esso Torino ml. 29.126t/c Esso Milano ml. 23.145t/c Esso Milano ml. 34.886t/c Esso Aruba ml. 34.393t/c Esso Skandia ml. 32.955m/c Esso Caribbean ml. 33.787m/c Span Prima ml. 4.091m/c Antonio D’Alesio ml. 11.719m/c Franc. D’Alesio ml. 13.899m/c Franca D’Alesio ml. 9.241m/c Nello D’Alesio ml. 12.328m/c Franca D’Alesio ml. 10.259

ml.1.582.680

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Aletta Prolungamento laterale delponte di comando, generalmentescoperto

Ammainare Far scendere un ogget-to filando una cima (fune) a manoo utilizzando un verricello

Arare Trascinare l’ancora sul fondocon conseguente arretramento del-la nave

Arma di grosso taglio Arma di gros-so calibro, mitragliatrice

Bandiera ombra Bandiera di unoStato particolarmente permissivo,bandiera di comodo

Bettolina Galleggiante non munitodi propulsione propria, utilizzato inambito portuale per il trasporto dinafta, d’acqua, ecc.

Bitte d’ormeggio Struttura in ferro,saldamente fissata in coperta, co-stituita da due colonne e da unabase, usata per dare volta ai cavid’ormeggio

Boccaporti Aperture praticate sullacoperta per consentire l’imbarcodelle merci nella stiva

Chiglia È il pezzo principale dellastruttura di una nave, si trova al-l’estremo dello scafo nella partecentrale e più bassa

Coperta Chiusura superiore delloscafo (ponte di coperta)

Diga foranea Opera marittima po-sta a protezione di un porto

Franchigia Il termine franco indicail personale di una nave libero dal-la guardia e quindi libero diallontanasi da bordo: andare infranchigia

Gran Pavese Gala di bandiere del co-dice internazionale dei segnali usa-te per addobbare una nave nei gior-ni di festa e nelle solennità

Guardia montante Per guardia si in-tende il turno di servizio del perso-nale di bordo, la guardia montanteè quella che si appresta ad iniziareil servizio

Growlers Letteralmente brontoloni,piccoli icebergs generalmente vuo-ti che emettono, spostandosi, unsuono simile ad un borbottio

Icebergs Pezzi di ghiaccio che stac-catisi da un ghiacciaio si allontana-no da esso per effetto delle correntie del vento

Il Bordo Con questo termine si in-tende generalmente il personaleimbarcato sulla nave

m/c motocisternam/n motonaveManichetta Tubo flessibile general-

mente telato, resistente ad altepressioni, usato per spegnere gliincendi o per lavaggio

Marche di Bordo Libero Segni im-pressi sui fianchi della nave ad in-dicare l’immersione massima che lanave può assumere (linee di mas-simo carico)

Mascone È ciascuna delle parti ester-ne convesse situate a dritta e a si-nistra della prua

Mistral Vento freddo che soffia at-traverso le coste meridionali fran-cesi e raggiunge il Mediterraneo

Nave fuori tutta Nave completamen-te vuota

GLOSSARIO DEI TERMINI NAUTICI

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Mar Rosso mare grosso

Nave sotto marca Nave sovraccari-ca, che ha superato la massima im-mersione consentita, marche dibordo libero

Navigare al Lungo Corso Navigazio-ne che si effettua in tutti i mari, illi-mitata

Pagliolo È il fondo della stiva al di-sotto del quale troviamo il doppiofondo e la sentina

Patelle Mollusco della classe deigasteropodi, ha la forma di un conoe si attacca saldamente alle rocce

Pilota Capitano di lungo corso chepresta servizio, come esperto, neiporti, nei canali e nei passaggi dif-ficili, assistendo il Comandante del-la nave nelle manovre

Pilotina Imbarcazione a motore usa-ta dal pilota per raggiungere le navi

Purpara Tipo particolare di amo apiù uncini, generalmente tre

Risacca Ritorno delle onde dopo l’ur-to contro moli, scogliere ed altro

s/s steamship, nave a vaporeScalandrone Scala mobile utilizzata

dalle persone per salire sulla navequando questa è affiancata allabanchina

Sentina È la parte più bassa delloscafo, situata sotto il pagliolo, inessa si raccoglie l’acqua per unaragione qualsiasi sia penetrata al-l’interno dello scafo

Sminare Bonificare una zona di mareminata

t/c turbocisternaTimoneria Ampio locale situato sul

ponte di comando dove è installatala bussola di rotta e la ruota del ti-mone

Verricelli Macchine con un asso oriz-zontale utilizzate per alare (tirare)una cima

Virata Evoluzione compiuta da unanave, variazione di direzione

Virare Termine che indica l’alare (ti-rare di un cavo)

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Mar Rosso mare grosso

Parte di questi racconti è stata pubblicata sul periodico

locale LA TORRE; i miei ringraziamenti vanno al com-

pianto direttore Salvatore Accardo, amico e maestro.

Un particolare ringraziamento va anche a Roberto Rizzo, pro-

fessore di Sicurezza degli impianti industriali alla Facoltà di In-

gegneria dell’Università Federico II di Napoli, per l’attenzione e

l’amicizia tante volte e in tante occasioni dimostratemi.

Ringrazio infine gli amici Maria Ciniglio, Gianni Frulio, Enzo

Godono, Nicola Petronzi, Domenico Scarpa, per il loro prezioso

aiuto.

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Mar Rosso mare grosso

INDICE

Nota di Nicola Petronzi ................................................................... pag. 5

RIVISITAZIONE ............................................................... pag. 7

RACCONTI........................................................................ pag. 13

La mina vacante ............................................................................... pag. 15La vera miseria ................................................................................ pag. 17Il peschereccio Royal II in avaria .................................................... pag. 19Tempesta in Atlantico ..................................................................... pag. 21Lo scaricatore nella Senna............................................................... pag. 23Un equipaggio incredibile ............................................................... pag. 25Scazzottata sul San Lorenzo ............................................................ pag. 27Pesca grossa nel golfo del Messico .................................................. pag. 29Il cucchiaino d’argento .................................................................... pag. 31Pasqua in navigazione ..................................................................... pag. 33Victoria di Espirito Santo ................................................................ pag. 35Il mar Rosso diventa mar Nero ....................................................... pag. 37Il rosso addormentato nel mar Rosso ............................................. pag. 41Le due paure .................................................................................... pag. 43Esso Caribbean ................................................................................ pag. 45Il prete rosso .................................................................................... pag. 47Natale 1978 ...................................................................................... pag. 49

STRANI INCONTRI........................................................... pag. 51

Rosario di Santa Fe .......................................................................... pag. 53Agadir ............................................................................................... pag. 55Mackenzie ........................................................................................ pag. 57Monrovia .......................................................................................... pag. 59Gela .................................................................................................. pag. 61

UNMILIONECINQUECENTONOVANTAMILA .................. pag. 63

Unmilionecinquecentonovantamila ................................................ pag. 65Navi e percorsi in miglia .................................................................. pag. 66Glossario .......................................................................................... pag. 67

Ringraziamenti ................................................................................ pag. 69


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