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Moda E Fuorimoda Capitolo Quarto

Date post: 12-Jun-2015
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Questo quarto capitolo di Moda/Fuorimoda affronta la scena italiana tra gli anni 50 e gli anni 60.
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Testi: Massimo Antonucci MODA E FUORIMODA Sistema moda e subculture giovanili
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Testi: Massimo Antonucci

MODA E FUORIMODA

Sistema moda e subculture giovanili

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La scena italiana In Italia, negli anni ‘50, la gioventù italiana, ancor più di quella inglese, subì pesantemente l'influenza della cultura americana, la cultura dei vincitori. Per addentrarci in questo nuovo territorio ci faremo aiutare dal saggio di Francesco Donadio e Marcello Giannotti Teddy Boys rockettari e cyberpunk che, come recita il sottotitolo, si occupa di Tipi mode e manie del teenager italiano dagli anni '50 a oggi .

In Italia rispetto ad altri paesi europei, è particolarmente viva la voglia di imitare gli Stati Uniti. I motivi sono da ricercarsi nella presenza americana sul nostro territorio durante la seconda guerra mondiale, che aveva lasciato, in chi era bambino in quegli anni, molti buoni ricordi e, soprattutto, dei modelli da imitare. Il ragazzo italiano cresce a immagine e somiglianza di quello americano; due sono i canali principali attraverso cui impara dai modelli di oltreoceano: il cinema e la musica. Gli eroi di celluloide funzionano a meraviglia: Marlon Brando, Montgomery Clift, Sal Mineo, Natalie Wood, Marylin Monroe e James Dean sono i grandi e universali punti di riferimento di tutti i ragazzi italiani degli anni'50...E' così che molti ragazzi, talvolta senza nemmeno rendersene conto, si fanno coinvolgere dal grande mito dell'America consumista e benestante: cominciano a bere coca-cola e, se capita, whisky e soda, a dirsi reciprocamente <<occhei>>, a vestirsi in jeans e t-shirts, a imporre alle proprie mamme di cucinare hamburger e, addirittura, a imitare gli atteggiamenti da <<duri>> e le cadenze vocali degli attori di oltreoceano... La divulgazione del rock'n roll avviene invece con un paio di anni di ritardo rispetto all'America e inizialmente incontra qualche difficoltà a prendere piede. Sono i tempi in cui da noi dominano ancora incontrastate le canzone italiana e la melodia napoletana: per orecchie abituate ad assorbire suadenti armonie, l'irruzione del nuovo genere è un vero e proprio shock.

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L'affermarsi del rock'n roll in Italia è legato alla diffusione dei juke-box. Se prima del 1955 solo il Foro Italico a Roma poteva vantare un esemplare di swinging tower (un modello di juke box che conteneva fino a dieci dischi), nel 1956 se ne contano già 500, impiantati nei bar, nelle latterie e negli stabilimenti balneari; all'inizio degli anni '60 si arriva addirittura alle diecimila unità. In un primo tempo, attecchisce la variante melodica del rock'n roll, il doo-wop, eseguita da gruppi vocali di colore: i Platters, con Only You e Smoke gets in your eyes , sono i portabandiera del genere. Presto, però, arriverà anche il rock'n roll più spigoloso e ribelle di Bill Haley, di Elvis e di Little Richard.

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Tra il '57 e il '58 fa le sue prime apparizioni il rock'n roll nostrano. Così, Francesco Donadio e Marcello Giannotti ricostruiscono, nel saggio sopra citato, l'emergere di una scena rock'n roll italiana:

La culla del rock'n roll in versione italianizzata è Milano: è qui che il discografico di origine svizzera Walter Guertler ha le intuizioni che procureranno a lui i denari, e ai teenager italiani nuove mode e idoli. Guertler comincia dal <<soffice>>, creando dapprima il fenomeno dei cosidetti <<urlatori>>...: il caposcuola è Tony Dallara, al secolo Antonio Lardera, che imita alla perfezione il singhiozzo di Tony Williams, la voce dei Platters, e che ragiunge uno strepitoso successo tra il 1957 e il '58 con la canzone Come prima ... Il rock'n roll vero, però, quello scatenato, è un'altra cosa. E Guertler, che è un tipo che tiene sempre drizzate le orecchie, è in prima fila al Palaghiaccio di Milano il 18 maggio 1957, ad assistere al <<Primo Festival Nazionale del Rock and Roll>>...Per la prima volta nel nostro Paese si assiste allo spettacolo di teenagers vestiti come James Dean e Natalie Wood, urlanti e strepitanti, che lanciano in aria camicette e bottiglie di coca-cola e demoliscono le sedie al suono delle nuove musiche. Insomma, si vestono da <<ribelli>> e si comportano da <<ribelli>>: il teenager italiano, in senso moderno, forse nasce proprio quel giorno...

Il racconto della genesi del rock'n roll nostrano prosegue in questo modo:

E mentre lo storico parto ha luogo, sul palco si sfidano due interpreti, anch'essi adolescenti come il loro pubblico...: uno è alto, allampanato, quasi timido; si chiama Giorgio Gabershik, ma ha accorciato il suo nome in Gaber per motivi artistici. Canta pacatamente una canzone dal titolo Ciao ti dirò, e ottiene dal pubblico un responso altrettanto pacato. Il suo

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concorrente è un diciannovenne... chiamato Adriano Celentano;...come asserisce lo scrittore Umberto Simonetta, aggredisce la canzone, la stessa di Gaber, <<con la furia di un samurai>>, nel tentativo di emulare il suo idolo Elvis Presley. Il pubblico è ai suoi piedi...: è lui il <<re del rock'n'roll>> italiano. Guertler non se lo fa scappare e pochi giorni dopo gli offre un contratto discografico. Il successo arride finalmente al giovane rocker nell'estate del '58 con Il tuo bacio è come un rock. Seguiranno altri successi come I ragazzi del juke-box e Ventiquattromila baci.

L'americanismo dei giovani italiani diventa ben presto oggetto di parodia: basti pensare alla figura di adolescente portato sullo schermo da Alberto Sordi nel film Un'americano a Roma , o alla memorabile caricatura dei teenagers nostrani fatta da Renato Carosone nella canzone Tu vuò fa l'americano. Durante gli anni'50, secondo Donadio e Giannotti, si possono individuare, oltre al teenager filoamericano, altri modelli adolescenziali, più tipicamente italiani: il borgataro, il figlio di papà, il parrocchiale e il pappagallo.

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Il borgataro è quell'adolescente che abita dentro squallide periferie urbane e che Pier Paolo Pasolini seppe magistralmente rappresentare sia cinematograficamente che letterariamente.

...nel 1955, nel suo primo romanzo Ragazzi di vita, descrive le giornate sciatte e ingloriose di un gruppo di amici di una di quelle periferie romane comunemente denominate <<borgate>>. L'eroe della storia è il tredicenne <<Riccetto>>, conosciuto, non a caso, solo con il suo soprannome, che abita in un edificio dai muri screpolati, una ex scuola elementare che prima della guerra era servita per alloggiare i tedeschi, e, successivamente, i canadesi, e in cui in seguito si erano sistemati <<gli sfollati, e da ultimo gli sfrattati, come la famiglia del Riccetto>>. Pasolini si sofferma a descrivere con cura le occupazioni giornaliere dell'adolescente borgataro nel corso di una torrida estate romana: piccoli furti, approcci con le prostitute, e lunghi pomeriggi passati in fatiscenti luna park periferici, dove Riccetto e i suoi amici giocano a calcio balilla finendo regolarmente per picchiarsi con dei <<borgatari>> loro antagonisti; il ragazzo volge lo sguardo, inoltre, con stupore e senso d'inferiorità verso il mondo dei suoi coetanei borghesi e danarosi, con cui sente di non avere niente in comune.

Il volto che incarna meglio la figura del <<borgataro>> è quello di Ninetto Davoli, borgataro d.o.c. scoperto e lanciato cinematograficamente da Pier Paolo Pasolini.

Nato nel 1948, di origine calabrese, si era trasferito in tenera età a Roma alla borgata Prenestina, a due passi dall'Acqua Bullicante. Passa l'adolescenza scorrazzando per strada o dedicandosi a divertimenti da due soldi, come <<nizza>>, <<spacca-picchi>>, <<tre-tre-giù-giù>> e <<zecchinetta>>. La scuola l'abbandona presto, perché è costretto a portare soldi a

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casa: fa il meccanico, il falegname e anche il cascherino. Poi, all'età di 16 anni, il colpo di fortuna: fa la conoscenza di Pasolini, che prende subito in simpatia questo <<ragazzo di vita>> dagli occhi buoni e dagli atteggiamenti naif. Improvvisamente Ninetto, dalla sua borgata, si trova catapultato sui set di Cinecittà: dapprima ottiene una particina da pastorello nel film Il vangelo secondo Matteo del 1964; poi è addirittura il co-protagonista di uno dei più importanti film italiani del decennio, Uccellacci e uccellini ; e il suo partner è nientemeno che il grande Totò. Il giovane Ninetto diventa, così, dal giorno alla notte, oggetto di adorazione, e anche di invidia, da parte dei suoi coetanei delle periferie degradate di tutta Italia.

In una ben diversa posizione sociale si colloca il <<figlio di papà>>, altro modello adolescenziale individuato da Donadio e Giannotti. Si tratta di una gioventù senza problemi economici, che spesso guarda più alla cultura francese che a quella americana, ammirando "...idoli più decadenti e imbronciati, come Alain Delon, Brigitte Bardot, Annette Stroyberg e Pascale Petit.". Gli autori sottolineano come una consistente dose di perbenismo conformistico caratterizzi questa tipologia di adolescente italiano:

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Le ragazze puntano a mantenere intatta la propria purezza: affermano a voce alta (e con un pò di ipocrisia) che mai e poi mai cadrebbero preda delle tentazioni prima del matrimonio. Per loro, in ogni caso, è obbligatorio l'abito elegante, spesso un bel tailleur scuro, tanto per non dare nell'occhio, e qualche gioiellino d'oro; assolutamente indispensabile un atteggiamento altezzoso verso tutto il mondo circostante, eccetto pochissimi fortunati. Per i maschi sono di rigore i capelli ordinati, i vestiti di classe, e poche idee ma chiare sul proprio futuro. Fanno il baciamano e la riverenza alle signore, studiano pianoforte in privato; e, soprattutto, vengono esibiti con orgoglio da mamma e papà a parenti e amici in visita.

Il <<figlio di papà>> ama la vita mondana e prestigiose località di villeggiatura: "...Forte dei Marmi, Saint Tropez, Portorotondo, le località della Versilia. In queste ultime, in particolare, i figli di papà più all'avanguardia si appassionano all'ascolto di ottima musica jazz: agli albori degli anni'60, si ritrovano al <<Bussolotto>>...E' qui che suonano il trombettista Nini Rosso, i Cinque di Lucca...e il grande Chet Baker, che suona la tromba e canta ogni sera facendosi accompagnare da Romano Mussolini.

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Prima di passare alla scena degli anni '60, completiamo il quadro dei tipi adolescenziali dell'Italia anni'50, individuati da Donadio e Giannotti, parlando del "ragazzo di parrocchia" e del "pappagallo". Il "ragazzo di parrocchia" è il classico bravo ragazzo, chiaramente cattolico, che prende parte attiva nell'organizzazione delle messe e delle altre attività parrocchiali:

Il giovane cattolico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta è figlio dello spirito del Concilio Vaticano Secondo, che si aprirà nel 1962 per volontà di Giovanni XXIII, e conferirà ai ragazzi un ruolo importante nella Chiesa del futuro. Prima del Concilio, in chiesa si andava solo per assistere alla messa; dopo il Concilio, la parola d'ordine sarà <<partecipare>>. E che in chiesa i ragazzi potessero trovare un ruolo importante era già chiaro da qualche anno in America: tra la gente di colore che si dedicava alla religione c'erano, infatti, alcuni giovani cantanti dilettanti che si esibivano la domenica e un paio di sere alla settimana, e molti (Mahalia Jakson e Aretha Franklin sono gli esempi più eclatanti) sarebbero diventati molto famosi nel mondo.

Anche se questo fenomeno si manifesterà pienamente solo negli anni'60, fin dagli anni '50 è evidente una maggiore partecipazione dei giovani cattolici alle attività parrocchiali.

Le abitudini di questo ragazzo tutto casa e chiesa sono semplici: dopo la quotidiana preparazione dei canti religiosi, il ragazzo della parrocchia vive, fa amicizia e si diverte all'oratorio, dove può giocare a pallone, a pallavolo o a ping pong ... La domenica poi, dopo la messa, l'adolescente

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parrocchiale va fuori città con i suoi simili per una scampagnata a base di preghiere e panini.

A rendere famoso questo tipo di adolescente, facendone una gustosa caricatura, è ancora una volta Alberto Sordi, dapprima in una serie di programmi radiofonici e, poi, nel film Mamma mia che impressione! del 1951. Il ragazzo di parrocchia sembra essere completamente disinteressato alle mode d'oltreoceano. A metà degli anni '60, però, si verificherà una inaspettata conversione, capace di cambiare le sue abitudini.

Il ragazzo della parrocchia si tiene prudentemente alla larga dal rock'n roll; nel 1964, però, avviene un singolare aggancio tra i due mondi. Tanto più singolare se si pensa che il fatto ha per protagonista il re del rock'n roll italiano, Adriano Celentano. Il molleggiato, infatti, in quell'anno cade preda di una crisi mistica e cerca conforto nelle sapienti parole di un consigliere spirituale, tale Padre Ugolino. Rinnega Elvis e scopre Gesù Cristo...; dichiara di leggere solo la Bibbia e incide canzoni che sono sincere dichiarazioni di fede, dai titoli Pregherò, Pasticcio in Paradiso e Chi era lui . La musica è sempre la stessa (rock, twist, surf), ma le parole non lasciano più spazio a dubbi: <<...nel nome di Gesù/ voi non piangerete

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più / è lui il Re dei Re/ un bimbo come voi...>>. I suoi fan della prima ora sono sbigottiti e anche un pò delusi; gli unici a prendere a cuore quelle canzoni e a strimpellarle con le chitarre sono i ragazzi della parrocchia di tutta Italia. Presi in giro e sbeffeggiati dai loro coetanei <<di mondo>> hanno anche loro un idolo <<americano>>.

La brusca sterzata di Celentano, capace di addomesticare il potenziale eversivo del rock'n roll nostrano, non è un fenomeno isolato: anche il grande Elvis, seppure in modo differente, cercò dopo il 1958 di ridimensionare la portata rivoluzionaria del suo personaggio. Nel saggio La terra promessa, quarant'anni di cultura rock Gino Castaldo, così, racconta la svolta di Elvis:

Lennon disse che Presley è morto quando è partito per il servizio militare, affermazione che contiene una gran parte di verità... Presley... divenuto il più potente idolo giovanile mai apparso, fa di tutto per frenare gli aspetti più ribellistici del suo personaggio. Quando viene chiamato alla leva, accetta di buon grado, sfruttando l'occasione per dimostrarsi buon patriota e bravo cittadino. In qualche modo da "rivoluzionario", sebbene in gran parte istintivo, si trasforma in conservatore, inaugurando una dinamica che sarà spesso presente nella storia del rock. Anche i suoi tanti film, sdolcinati e banali, sembrano andare in questa direzione rassicurante. Mai nella storia del rock, che pure di voltafaccia ne ha visti tanti, si è visto nello stesso personaggio un tale miscuglio di ribellismo e conservatorismo.

Tornando alla tipologia proposta da Giannotti e Donadio, accenniamo ora alla figura del <<pappagallo>>, che completa il quadro dei modelli adolescenziali italiani degli anni'50. Il <<pappagallo>> è il giovane playboy

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italiano che frequenta le coste romagnole in cerca di avventure occasionali con ragazze straniere.

Vittime dell'intensa attività dei propri ormoni, questi teenagers provengono perlopiù dalla piccola e media borghesia e le ragazze sono la loro unica, grande fissazione...

Questi giovani <<tipi da spiaggia>> ambiscono, innanzitutto, alla conquista di bellezze nordiche, in grado di incarnare i biondissimi e mitici modelli cinematografici, tipo Marylin Monroe o Brigitte Bardot.

Nasce così il mito della straniera, bella, bionda e disponibile, e l'adolescente <<pappagallo>> inizia a mettere a punto un vestiario e una tattica che lo assecondi nelle sue conquiste. Innanzitutto abiti eleganti per dare l'impressione di quell'<<italian look>> di cui già si parla tanto nel mondo. Per il <<pappagallo doc>> prepararsi è una cosa seria, anzi serissima: si fanno rapidi corsi di inglese e tedesco, si cura il fisico con rudimentali esercizi ginnici, per fare risaltare i muscoli, oppure si mandano a memoria i consigli di libretti, decaloghi e vademecum per il <<perfetto pappagallo>>, pubblicati da alcune case editrici in cerca di facili guadagni.

L'attore che meglio rappresenterà sullo schermo questa figura di teenager, sfrontato e mammone allo stesso tempo, sarà Vittorio Gassman.

E' proprio l'attore romano ad essere preso a modello dagli adolescenti per aver incarnato in svariati film l'ideale del vitellone bugiardo e donnaiolo, che riesce a farsi perdonare tutto: specialmente in Se permettete parliamo di donne e ne Il sorpasso, il <<mattatore>> offre alcune dimostrazioni del miglior atteggiamento da seguire nei confronti dell'altro sesso.

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Dopo questa rapida ricostruzione dei modelli adolescenziali italiani degli anni '50, passiamo ora agli anni '60. La prima cosa da rilevare è la grande confusione che si fece intorno al termine "beat", che venne, a torto o a ragione, utilizzato in maniera disinvolta per etichettare i fenomeni musicali e culturali più disparati. Giannotti e Donadio osservano a questo proposito:

Più dibattuta è invece l'origine della definizione <<beat>>: c'è chi, come i disc-jochey Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, la fanno risalire a motivi strettamente musicali (i Beatles, il tempo in <<battere>> anziché in <<levare>> come nella tradizione italiana precedentemente in voga); chi, invece, si rifà a quel filone di scrittori e poeti americani degli anni'50 <<beat>> o <<beatniks>>, giovani anticonformisti come Jack Kerouac, Allen Ginsberg e William Borroughs.

"Beat" diventa sempre più un termine-contenitore dove ci sta dentro di tutto: "beat", nella traduzione che lo stesso Kerouac propone significa "beato" e rimanda ad un sentimento mistico di estasi: "Beat non significa stanco, o

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sconfitto, bensì beato , la parola italiana per beatific: essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, cercare di amare tutta la vita, cercare di essere sinceri fino in fondo con tutti, praticare la sopportazione, la gentilezza, coltivare la gioia del cuore". "Beat", quindi, come <<beato>>; ma anche "beat" come <<tempo in battere>>, oppure come abbreviazione di Beatles. In mezzo a questo ginepraio di significati di "beat" risulta estremamente difficile districarsi: tanto più che, parlando degli anni '60 in Italia, ciascuno adotta questo termine come meglio gli pare. A complicare ulteriormente il quadro, ecco che nel 1967 si delinea una divisione tutta interna alla scena beat italiana. Amedeo Bruccoleri nel saggio Beat italiano , edito da Castelvecchi, così ricostruisce la situazione:

Il 1967 era stato l'anno delle grandi divisioni. All'interno della scena beat si delineavano due linee di pensiero divergenti che scatenavano un acceso dibattito culturale. I componenti della Linea Gialla, ovvero Lucio Dalla, Gianfranco Reverberi, Luigi Tenco, Sergio Bardotti, Piero Vivarelli, entravano in aperta polemica con la Linea Verde, sostenuta da Mogol, caratterizzata da un beat meno impegnato politicamente e più vicino a tematiche di fratellanza e amicizia. I sostenitori della Linea Gialla avevano pubblicato sulle pagine del settimanale <<Big>> un manifesto programmatico dai forti contenuti politici e culturali che annunciava chiaramente: Le persecuzioni razziali non sono e non possono essere viste solo da un punto di vista politico, perché i bombardamenti indiscriminati nel Vietnam sono quello che sono, perché la censura più assurda esiste ancora e ne abbiamo nuovamente avuto prova di recente. E perché per passare dall'altra parte della barricata, i liberi intellettuali nell' Urss finiscono in Siberia, il Muro di Berlino è ancora in

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piedi e in Cina un certo tipo di mentalità nazista torna di moda grazie alla cosiddetta Rivoluzione Culturale. Quanto all'Italia, da Agrigento a Longarone, è tutto un fiorire di scandali, mentre le persecuzioni della polizia, a Genova e a Roma, contro i ragazzi colpevoli solo di portare i capelli lunghi assumono forme sempre più preoccupanti. L'elenco potrebbe continuare ma ci sembra inutile... Perché dunque la Linea Verde ? A cosa serve? E soprattutto a chi serve? La risposta ci sembra abbastanza semplice. Serve a chi vuole intorbidare le acque o per cause bassamente pubblicitarie o comunque speculative. Chi ha orecchie per intendere intenda...

Il manifesto programmatico della Linea Gialla prosegue in modo apertamente polemico:

I giovani dunque è bene che sappiano come, in chiara antitesi alla Linea Verde , ci troviamo ben saldamente ancorati alla linea del blues, di Dylan, di Kerouac e di tutti coloro che ancora credono, in termini musicali e no, nella insopprimibile necessità della pace e della libertà. Noi nella pace e nella libertà non vogliamo <<sperare>>, ma preferiamo ora lottare su una trincea fatta di splendide e significative note, per conservarle o conquistarle. Questo è bene che si sappia, come è bene che i giovani si guardino dai mistificatori della musica leggera .

A soffiare sul fuoco della polemica ci pensa un articolo firmato da Mogol, che compare sulle pagine dello stesso giornale:

Caro direttore, una cosa è certa: Tenco, Bardotti, Dalla, Reverberi e Vivarelli della Linea Verde non hanno capito niente. La colpa non è loro, anzi non esitiamo ad ammettere che è nostra. Purtroppo non abbiamo ancora avuto il tempo e l'opportunità di spiegare che cos'è e a che serve la Linea

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Verde... Linea Verde non è ottimismo: è speranza. Speranza non significa resa, né tanto meno vittoria. Noi non rinneghiamo la filosofia beat. Non neghiamo che da essa noi abbiamo attinto coraggio, purezza e quasi tutti i suoi credo. Non la consideriamo, però, un punto di arrivo, bensì un punto di partenza. La Linea Verde è per noi il perfezionamento della filosofia beat, più amore in senso universale. Amore è una parola che non è stata quasi mai usata dai beatnick.

Mogol sicuramente non conosceva bene gli scritti di Kerouac che, nel 1958, dava una definizione di beat, più volte ricordata, che va proprio nella direzione che Mogol rivendica come esclusiva della Linea Verde : "Beat non significa stanco, o sconfitto, bensì beato…”. Mettendo, quindi, tra virgolette l'esclusività della proposta di Mogol e della Linea Verde, possiamo dire che questa anima del beat italiano trovava espressione con canzoni come Un mondo d'amore di Gianni Morandi, il cui testo è oltremodo esplicito: <<C'è un grande prato verde/ dove nascono speranze/ che si chiamano ragazzi/ è il grande prato dell'amore>>.

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Comunque, al di là delle differenziazioni interne alla scena beat italiana, è fuori da ogni dubbio che locali come il Piper di Roma e giornali come <<Big>> costituiscano elementi insostituibili per lo sviluppo del movimento. Donadio e Giannotti, nel saggio più volte citato Teddy boys rockettari e cyberpunk, così raccontano l'emergere della nuova stampa specializzata:

...a contendersi questo mercato ai primi vagiti sono tre settimanali, <<Ciao Amici>> e <<Giovani>>, più superficiali e dedicati ad un pubblico di tredicenni, e <<Big>>, il cui primo numero esce nel 1965, e che in breve tempo si afferma come lettura indispensabile dei ragazzi aderenti al movimento. La sua tiratura si assesta subito sulle 400-500.000 copie: <<Big>> azzecca la formula giusta perché, se da un lato ripropone alcuni schemi tipici dei rotocalchi sensazionalistici, con grandi foto dei belli della canzone <<beat>> del tempo, dall'altro stimola il dibattito tra i ragazzi nei confronti della società dei <<grandi>>, considerata vetusta e autoritaria. E nel far ciò utilizza lo stesso linguaggio dei ragazzi...

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Sfogliando le pagine di questo tipo di stampa, s' intuisce come anche in Italia inizi a delinearsi un vero e proprio mercato "giovane". A questo proposito leggiamo nel saggio Beat italiano di Amedeo Bruccoleri:

Il mondo dell'industria individuava nei ragazzi una grande fascia di consumatori ai quali offrire prodotti... <<Big>>, <<Ciao amici>>, <<Giovani>> non reclamizzavano più solamente apparecchiature per la riproduzione musicale (giradischi, registratori, microfoni) ma anche cosmetici, motorini, viaggi e abbigliamento. Proprio l'abbigliamento si affermava come elemento fondamentale dell'estetica beat in grado di rappresentare simbolicamente la differenziazione tra le varie generazioni.

Amedeo Bruccoleri continua la sua analisi della scena beat italiana, individuando le connessioni tra oggetti di consumo e i luoghi di consumo.

Pantaloni a righe larghe, minigonne disegnate da Mary Quant, camicie e cravatte colorate vivacemente, stivaletti, braccialetti esotici rappresentavano il simbolo della società di massa costituito dalla moda giovanile. L'accertata esigenza di consumo da parte dell'industria aveva trovato un'esauriente risposta nell'apertura del Piper Club. Il Piper era un grande garage sotterraneo con pista da ballo dalle pedane luminose, con una enorme gigantografia iperrealista alle spalle del palco dove si esibivano i complessi dal vivo.

Il Piper diventa ben presto uno spazio dove collaudare nuove forme di socialità, più libere e disinvolte: "...lì potevi star seduto per terra o scatenarti in pista a tempo di shake , senza alcuna inibizione. Si ballava, senza alcun

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condizionamento per la scelta del partner. I giovani beat esprimevano così, con lucida consapevolezza la propria diversità decretando il successo di personaggi come Renato Zero, Loredana Bertè, Patty Pravo, ospiti fissi del locale." Oltre ai singoli cantanti, al Piper si esibiscono spesso gruppi italiani con un ingaggio fisso, come l'Equipe 84 e i Rokes, e gruppi stranieri del calibro dei Pink Floyd, Soft Machine, Byrds e Genesis. Il Piper, oltre ad essere un punto di riferimento per tutto il movimento beat italiano, è un posto dove è possibile fare sperimentazione artistica, come già da tempo si faceva nei club newyorkesi. A questo proposito Amedeo Bruccoleri afferma:

Anche la nascente controcultura italiana eleggeva come punto di ritrovo importantissimo il locale di via Tagliamento. Anche al Piper...si tentavano nuove forme di spettacolo di avanguardia. Ispirati dagli Exploding Plastic Inevitables di Andy Warhol, nascevano gli happening , dei veri e propri esperimenti che combinavano con originalità arti visive e musica. Il più importante di questi era stato il concerto

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presentato al Piper da Le Stelle di Mario Schifano, in seguito documentato discograficamente.

D'altra parte, la logica commerciale che abbiamo visto all'opera tra le pagine della stampa specializzata "giovane" non tarda a fare la sua apparizione anche nel tempio del beat:

Nella primavera del 1966 era stato inaugurato ufficialmente il Piper Market: un grande negozio dai prezzi acessibili a tutti dove era possibile acquistare minigonne, pantaloni, camicie a fiori, collane. Ancora una volta - come era già successo per l'industria discografica - l'iniziativa commerciale strumentalizzava il movimento beat per scopi lucrosi.

Sul finire degli anni '60 si fa sempre più chiara la percezione di un cambiamento che non riguarda solo la scena beat italiana. Così, Donadio e Giannotti ricostruiscono questa fase:

Gli anni di massima fioritura del <<beat>> sono il 1966 e il 1967; i teenagers ora si vestono in modo più sofisticato con le giacche militari e gli stivali resi popolari dai Beatles nel loro LP Sergeant Pepper... i temi delle canzoni cominciano a cambiare, passando dai tipici rapporti lui-lei a canzoni di protesta impregnate di un generico pacifismo: è il caso di La bomba atomica e Proposta dei Giganti, con il suo memorabile ritornello <<mettete dei fiori nei vostri cannoni>>...e della celeberrima C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, sulla guerra in Vietnam. Altri come i Nomadi, cercano un dialogo con gli adulti, chiedendo: <<come potete giudicar/ per i capelli che portiam>>. Al di là delle provocazioni, non c'è un progetto politico alle spalle...Quando arriva il '68, il movimento <<beat>> è già in declino...

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Il famoso ritornello <<come potete giudicar/per i capelli che portiam>> dei Nomadi indica il senso di una rottura profonda, che si verifica proprio in questi anni, a livello del costume maschile. I capelli lunghi, infatti, costituiscono una novità dirompente, per quanto riguarda l'aspetto maschile, forse ancora più forte e significativa dell'apparizione della minigonna nella moda femminile degli stessi anni. Nell'interessante volume La moda italiana. Dall'antimoda allo stilismo, a cura di Grazietta Butazzi e Alessandra Mottola Molfino, edito da Electa, è contenuto un saggio di Alessandra Gnecchi Ruscone, intitolato "L'antimoda. Esempi milanesi", che comincia in questo modo:

Gli anni Sessanta sono un periodo di grande rivoluzione dei costumi in tutto il mondo occidentale. Dagli Stati Uniti all'Olanda le giovani generazioni rifiutano improvvisamente i modelli esistenti e cercano forme nuove che rompano con il passato. E' un fenomeno di massa che contamina ogni settore della vita quotidiana: dai rapporti fra i sessi, alla concezione del lavoro e del tempo libero. Il veicolo principale di questo contagio è la musica rock inglese e poi americana impersonata da gruppi e cantanti che diffondono la loro popolarità al di là di ogni confine e barriera linguistica. E poiché questi cantanti sono per lo più uomini, è proprio l'abbigliamento maschile quello che per primo subisce le più traumatiche trasformazioni. I capelli, che già sembrano scandalosi quando coprono le orecchie e la fronte, diventano sempre più lunghi; ai primi stivaletti, maglie a righe e pantaloni attillati di derivazione dall'abbigliamento per il tempo libero americano subentra la più sfrenata libertà di accostamenti di colori, materiali e stili.

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Personaggi carismatici come Mick Jagger o Brian Jones, il leggendario chitarrista dei Rolling Stones considerato l'uomo più elegante del mondo rock, ostentano jabots, velluti, lamé, pellicce, calzamaglie, stivali alla moschettiera, vestiti in tessuto da tappezzeria e da biancheria intima, accompagnati da collane, orecchini e un trucco sempre più smaccato. E' dal Settecento che l'uomo non presentava un'immagine di sé altrettanto vistosa e sessualmente provocatoria, arrivando quasi a mettere in ombra quella femminile.

I cambiamenti a livello dell'immagine maschile, superficialmente connotabili nel senso di una "femminilizzazione" del costume, costituiscono una reazione all'ingessatura e alla standardizzazione della moda maschile, fenomeni che affondano le proprie radici in un terreno di grandi cambiamenti storici. Nel XIX secolo, infatti, l'affermazione della classe borghese e, conseguentemente, l'affermazione della propria concezione della vita, del lavoro e dei rapporti sociali, provocarono una brusca

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rottura sul piano del costume, in particolare di quello maschile. A questo proposito, sono interessanti le considerazioni fatte da Isabella Pezzini nel suo saggio "Il borghese uniforme: un percorso letterario", contenuto nel volume L'uniforme borghese , edito da De Agostini nella collana "Idee di moda".

Il nuovo costume,"uniforme" perché non più "opera" singolare e irripetibile degli artisti-artigiani di corte, ma ormai avviata all'era della riproducibilità tecnica, ideologicamente incarna una professione verso l'uguaglianza e la democrazia, l'etica del lavoro e una virtuale apertura delle classi, la sovranazionalità, non disgiunte da un franco conservatorismo. Il borghese è economicamente produttivo, e dunque il suo vestire richiama la serietà del mondo del lavoro, e concede poco di appariscente alla frivolezza delle occasioni mondane. La distinzione è la nuova parola d'ordine che domina incontrastata su tutte le manifestazioni borghesi La distinzione, e in particolare di status, è una delle funzioni generalmente affidate all'abito. I valori del borghese sono il lavoro, la saggezza pratica e calcolatrice, la prudenza, l'ordine, la regolarità. Ripudia il lusso, l'ornamento, la frivolezza e l'eccesso. Allo stesso tempo il borghese deve riconoscersi all'interno della propria classe, come portatore di una cultura e non solo di un censo: ne fa parte l'impiegato come il libero professionista, il banchiere oppure l'industriale come il maestro di scuola.

Il testo di Isabella Pezzini prosegue, analizzando il rapporto di continuità e rispecchiamento tra abito e ideologia borghese, dove l'anello di congiunzione è costituito dal concetto di distinzione:

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La distinzione diventa allora cifra di un'apparenza di semplicità che omologa al di sopra delle differenze, rende "presentabile" il membro anche più modesto della classe, riuscendo pur sempre a distinguerlo dalle classi inferiori. Inoltre, se nobili si nasce, non bisogna dimenticare che borghesi si può diventare. Anche per questo il borghese sembra sacrificare al "decoro" la funzione decorativa del proprio vestito, demandata semmai a sua moglie. Il suo abito non si limita a indicarlo come borghese, ma proprio lo costituisce in quanto tale. La moda borghese come attualizzazione della barriera e del livello, i due termini chiave nella dinamica di questa classe, secondo l'analisi di Edmond Goblot: barriera, per chi non vi appartiene, non tanto nel senso di un limite invalicabile ma piuttosto di un ostacolo da superare; livello per chi ha raggiunto l'agognato status.

Per avere un'idea più concreta di ciò di cui stiamo parlando, basti pensare all'efficace descrizione dell'uniforme borghese propostaci da Flaubert nella sua Madame Bovary: "Tutti quei signori si rassomigliavano,... le basette abbondanti sfuggivano dai grandi colletti duri, ch'erano sostenuti dalle cravatte bianche con l'orlo di trina ben spiegato. Tutti i panciotti erano di velluto col risvolto a scialle; tutti gli orologi portavano in capo a un lungo nastro qualche sigillo ovale di corniola; e ognuno teneva appoggiate le mani sulle cosce, abbassando con cura la forca dei calzoni, ch'erano di panno lustro e brillavano più del cuoio delle grosse scarpe". Ritenere che la moda maschile sia sempre stata "uniforme" è, quindi, la conseguenza di quel processo di naturalizzazione del dato storico che per Roland Barthes coincide il fenomeno della mitizzazione. In tutta la sua

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storia, infatti, la moda maschile è stata, per lo meno, altrettanto ricca e decorativa di quella femminile. Riprendiamo a questo proposito le osservazioni di Lipovetsky, contenute nel suo saggio l' Impero dell'effimero , edito da Garzanti:

Dal XIV al XVIII secolo la sovranità del capriccio e dell'artificio si impone ugualmente ai due sessi. Durante questo lungo periodo la moda ha indotto uomini e donne alla ricerca di un lusso sofisticato e spettacolare. Anche quando le differenze d'aspetto fra i sessi raggiunge l'estremo, uomini e donne si dedicano in egual misura al culto delle novità e delle preziosità... Nel secolo di Luigi XIV il costume maschile è ancora più elaborato, infiocchettato, ludico...che non l'abito femminile... Perché la moda maschile si eclissi dietro quella femminile bisogna attendere la <<grande rinuncia>> del XIX secolo, quando i nuovi canoni dell'eleganza virile (sobrietà, discrezione, rifiuto di colori ed orpelli) fanno della moda e dei suoi artifici una prerogativa femminile.

La <<grande rinuncia>> della moda maschile alla decorazione e ai preziosismi, quindi, fa sì che questi elementi vengano a connotarsi come "femminili": infatti, solo alla donna è socialmente permesso l'uso di vestiti ricchi sia dal punto di vista decorativo che di quello dei materiali. Ai maschi rimane la magra consolazione di ricavare indirettamente prestigio dall'eleganza femminile: una buona immagine sociale del borghese, infatti, dipende anche dal fatto che la propria coniuge sappia vestirsi in modo adeguato in società.

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Ritornando agli anni '60 in Italia, fenomeni come gli abiti maschili fortemente decorativi e i capelli lunghi implicano una rottura profonda a livello di costume. Tanto più che l'Italia, agli inizi degli anni 60, è, più di altri, un paese dove l'abbigliamento è estremamente uniforme e sobrio. E' così comprensibile l'allarme sociale generato dall'apparizione della nuova moda maschile -capelli lunghi e abiti con forti elementi decorativi-, sfociato nelle persecuzioni di Genova e Roma da parte della polizia, contro cui protestarono i sostenitori della Linea Gialla del beat italiano -Tenco, Dalla e compagni- nel manifesto del '66 pubblicato su <<Big>> e già ricordato. L' "antimoda" beat in Italia risulta essere influenzata sia dalle stravaganti proposte vestimentarie delle rockstar britanniche, di cui abbiamo parlato, sia dal contemporaneo movimento hippy americano. Tra le testimonianze raccolte da Fernanda Pivano nel doppio volume L'altra America ne troviamo alcune, infatti, che confermano la linee generali del cambiamento nel vestire maschile: l'hippy <<decora il proprio corpo come un'opera d'arte. Lo ricopre di collane, lo dipinge, lo addobba con i colori dell'arcobaleno e nello stile composito formato dalla mescolanza stridente di tutti i tempi e di tutti i paesi...>>. Anche a proposito dei capelli lunghi si può leggere un passaggio significativo: <<i capelli crescono, sì fluiscono: guarda ancora: non è bello?! I capelli tenuti lunghi quando sono in grado di crescere possono essere considerati solo una cosa desiderabile sul piano estetico. Che altra funzione hanno? ... Perché ti tagli la bellezza ogni giorno, ogni settimana, ogni mese?>>. Nonostante le differenze particolari tra subculture,

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quindi, negli anni'60 si verifica una profonda linea di frattura per quanto riguarda l'estetica dell'abito maschile In Italia, in quegli anni, alcuni cercarono di sintonizzarsi sulle onde delle nuove tendenze, cercando di rispondere alla crescente domanda dei giovani di un nuovo modo di vestire. Basti ricordare, a titolo di esempio, la catena di negozi Equipe 84 e Fiorucci. La catena di negozi Equipe 84 è un caso, per certi aspetti, unico. Nasce da una società, la Equipe 84 Saloon, sorta dall'iniziativa di Bruno Manturini e Pierre Farri, agente dell'Equipe 84, il più famoso gruppo di beat italiano degli anni '60. L'idea è quella di utilizzare l'immagine del gruppo musicale per distribuire abiti, prodotti per l'80% in un'azienda di abbigliamento di Trecate, in provincia di Novara. A cavallo tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70 vengono aperti, utilizzando il sistema del franchising, 6 negozi a Milano e 38 in tutta Italia. Il gruppo musicale partecipa alle inaugurazioni, assicurando un'attenzione immediata da parte dei giornali, letti proprio dal pubblico a cui le boutiques si vogliono rivolgere. La produzione, soprattutto di moda maschile, ha un'immagine d'avanguardia, legata alle trasgressioni di stile tipiche dell'Equipe 84: camicie di tessuto per strofinacci da cucina, di pizzo, di velo trasparente, di raso damascato, giacche stile guru in batik indiano, abiti confezionati con tessuti per arredamento o per abbigliamento ecclesiastico, ponchos, stivali alti, giacche di pelle stile tramviere, bisacce, collane hippy. Il grosso della produzione, dietro questa facciata quasi provocatoria, è in realtà di abiti molto più mettibili anche se caratterizzati da un taglio molto in linea con i tempi: giacche attillate con spalle insellate, calzoni a

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vita bassissima, aderenti fino al ginocchio e scampanati in fondo. Grande interprete delle nuove tendenze, a cavallo tra gli anni '60 e'70, è stato sicuramente Elio Fiorucci, che nel 1967 apre una boutique a Milano in Galleria Passarella . Aveva iniziato la sua attività lavorando per il negozio di calzature del padre e nel 1962 ne aveva aperto in via Torino uno suo, sempre di calzature, per il quale aveva iniziato una produzione molto fantasiosa. Famose erano diventate, proprio nel 1962, le galosce colorate, gli stivali in tutte le tinte, compreso l'oro e l'argento, i sandali in plastica con margherite applicate, gli zoccoli, le scarpe di corda, i mocassini multicolori di velluto a coste,e, con l'arrivo della minigonna, gli stivali calza alti fino a metà polpaccio. Il negozio in Galleria Passarella è su tre piani ed è allestito da Amalia Dal Ponte in stile modernissimo, utilizzando tra l'altro scaffalature in acciaio sottile con ripiani in plexiglass bianco, lampade alogene e sedili da trattore smaltati al posto dei tradizionali sgabelli. Le ragazze addette alla vendita sfoggiano gli abiti più appariscenti di Fiorucci, e la musica rock suona ininterrottamente a tutto volume. Per l'inaugurazione viene organizzata una sfilata nella vetrina con modelle in minigonna e con pantaloni aderentissimi e scampanati. La folla è tale che devono intervenire i vigili. Nel negozio si vendono scarpe, accessori, magliette, maglioni, pantaloni per uomo e donna, minigonne hot pants. Quasi tutto all'inizio è di produzione esterna, importato da ogni parte del mondo: prima da Londra (Carnaby Street, Portobello Road, Kensington Market), poi anche da Parigi, dagli Stati Uniti, dall'Oriente, dal centro e

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sud America. La produzione di Fiorucci si limita a scarpe, stivali e sandali e accessori come bisacce in pelle stile western, borse pop, cinture e cinturoni a stelle o con paesaggi e farfalle applicate. Dopo il 1969 si aggiunge una prima e sporadica produzione di abiti, quali minigonne di panno lenci ad ampi spicchi colorati, camicioni da pittore con carré davanti in tinte unite, scozzesi o a fiori, magliette aderenti di tutti i colori con stampati fiorellini provenzali, jeans scampanati con papaveri ricamati. Il negozio sforna novità a ritmo continuo. La velocità nel captare le richieste del pubblico e dar loro una risposta è una delle ragioni del successo di Elio Fiorucci, il quale sostiene che una nuova moda per essere efficace deve raggiungere il mercato entro 15 giorni. Fiorucci capovolge così i vecchi criteri commerciali, che assegnano al negozio un ruolo passivo tra produttore e consumatore. Il pubblico di Fiorucci è molto più vasto di quello abituale delle boutiques. I prezzi sono bassissimi, accessibili proprio alla massa dei giovani che costituiscono il vero grande mercato che si è aperto alla nuova moda. La qualità dei tessuti e della confezione spesso non è molto elevata, ma il costo particolarmente contenuto rende anche possibile

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una nuova filosofia di acquisto, che prevede tempi brevi di utilizzo e continui rinnovamenti. Allo stesso tempo l'offerta molto eterogenea dei capi in vendita lascia liberi i compratori di selezionare tra un numero di alternative molto maggiori del solito, e stabilire così una propria immagine, indipendentemente dai dettami della moda del momento. Fiorucci non è uno stilista in senso proprio, per sua stessa ammissione. La sua attività si sviluppa gradualmente, dal semplice acquisto di vestiti di altri a una produzione in gran parte imitata, fino ad affermarsi con una propria impronta riconoscibile in tutto il mondo. La sua abilità è quella di reinterpretare e riproporre cose già esistenti, senza pregiudizi sui materiali o sui colori. Tipici in questo senso sono la tuta tradizionale militare riproposta in rosa shocking o la salopette di carta, lavabile in lavatrice fino a dieci volte. Durante gli anni'60, accanto a questi innovatori, si sviluppa il mercato della confezione che, però, non riesce ancora a trovare una propria identità, limitandosi, per lo più, a copiare le proposte dell'Alta Moda. I valori che si affermano con la confezione sono riconducibili alla vestibilità: si esprime, in sostanza, il concetto "fatto meglio che dal sarto". Nel 1965, in un servizio dedicato alle grandi sarte apparso sul Corriere della Sera , Mila Schon, alla quale viene chiesto se a suo avviso la confezione abbia le carte in regola per imporsi sempre più, afferma che il futuro è della moda pronta, a condizione che prenda esempio dalla confezione americana, aumentando cioè di molto il numero delle taglie "per offrire la massima garanzia di una perfezione bella e pronta".

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La confezione, concepita in questi termini, risulta essere passiva: attende che le nuove idee discendano dall'Olimpo dell'Alta Moda, per riprodurle poi in serie. Risponde, così, ad un processo ristrutturazione profonda della società che chiede anche una democratizzazione della moda. Gli anni '50 avevano segnato l'affermazione dell'american way of life , fatto di cibi industriali, automobili, gadgets domestici, oggetti in plastica, tutte cose assolutamente nuove rispetto alle abitudini di consumo dell'Italia tradizionale, orientate sull'idea di "focolare domestico", di cibi genuini, di prodotti artigianali, ecc. Il consumo del "nuovo" risponde, in primo luogo, all'esigenza d'integrazione nella nuova società urbana industriale. Negli anni '60, invece, emerge una forte ed allargata esigenza di distinzione, coerente con un'accelerata mobilità sociale. Al consumo delle "novità", tipico degli anni'50, si sostituisce, quindi, durante gli anni '60, il consumo di beni che rispondono al bisogno di distinzione. In questo periodo il lusso vestimentario comincia a diventare fenomeno di massa. Per dirla con le parole di Hirsch, contenute nel suo saggioI limiti sociali dello sviluppo , edito da Bompiani, componenti "posizionali" cominciano a presentarsi intensamente nel settore della moda. Fino a quel momento, infatti, il lusso vestimentario aveva riguardato unicamente le classi superiori. Solo ai livelli più elevati della società cioè circolavano capi costosi e fogge originali. Agli altri livelli, invece, o giocava fortemente il ruolo della tradizione -ad esempio nel mondo rurale- o ci si accontentava di imitazioni a buon mercato di ciò che si presumeva fosse di moda tra le elites agiate. Negli anni del boom economico, invece, il lusso

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vestimentario comincia a diventare un ragionevole obiettivo per larghi strati di popolazione. La grande ripresa economica della metà degli anni'60 aveva provocato una ricomposizione del sistema di stratificazione sociale, in particolare un suo allargamento. Aumentava, cioè, a tutti i livelli della stratificazione la disponibilità di posizioni sociali: tutti sono spinti a fare qualche passo in avanti, a guadagnare una posizione migliore. Ma è proprio questo processo di ristrutturazione sociale a comportare un'accentuazione dei fenomeni di simbolizzazione dello status. Per essere socialmente riconosciuti i passaggi di status richiedono, infatti, l'esibizione di una prova. Diventano perciò importanti i "segni di riconoscimento". Ecco perché, a proposito degli anni '60, si parla di consumismo della "distinzione". La confezione, quindi, offre l'opportunità di esibire il raggiungimento di un nuovo status, fungendo da segno visibile di quella dinamica di democratizzazione del consumo signorile, presente in tutti gli ambiti merceologici.


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