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Table of ContentsIndiceNella pioggiaAnteprima RevolutionPrologoCapitolo 01Capitolo 02Capitolo 03Antonio Lanzetta

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ANTONIOLANZETTA

NELLA PIOGGIA

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NELLA PIOGGIA

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LA CORTE EDITORIA E COMUNICAZIONE

Corso Galileo Ferraris 77, Torino

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LA CORTE EDITORE è un marchio La Corte Editoria e Comunicazione

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nella pioggia La stanza era vuota, eccetto per il cadavere di suo fratello.Le pareti dell’obitorio erano crepate dall’umidità e tinte di verde.

Verde, come le uniformi del personale medico che si aggirava nel seminterrato. Verde, come il lenzuolo che copriva il corpo di Matteo.Nicola rimase immobile, le mani affondate nelle tasche della

mimetica e lo sguardo fisso sul pavimento. Era paralizzato. Non riusciva a muoversi, la lingua incollata al palato e lo stomaco attraversato da fitte che gli strappavano il respiro. Aveva la sensazione d’aver già vissuto quella scena, di essere già stato in un luogo simile, eppure non riusciva a ricordare dove e quando. Il pallore dei neon, il silenzio, l’odore di muffa, erano dettagli sepolti nella sua mente. Particolari che premevano per tornare alla luce.Era arrivato da Livorno in sella alla Ducati senza fare soste. Una

corsa folle, fregandosene della stanchezza e dei tutor, convinto che quella voce al telefono si fosse sbagliata. Pronto a dimostrare che era tutto un errore, che il corpo ritrovato nel canale non era quello di Matteo.Sollevò il mento e colse due piedi nudi che sbucavano da sotto il

lenzuolo. I talloni sporgevano dal bordo del tavolo metallico e un cartellino penzolava, legato con dello spago a un alluce. Inspirò e l’aria gli riempì il petto come cemento in una betoniera. Alle sue spalle, dietro la porta-vetro, sentiva gli occhi impazienti dei carabinieri bucargli la nuca. Lo stavano aspettando, avevano bisogno di lui per chiudere quella faccenda. Avere la certezza di un nome che in realtà già conoscevano.Avvicinò una mano al telo, senza far rumore, quasi non volesse

svegliare il cadavere che giaceva sotto di esso, e piegò il capo di lato. Colse frammenti di un corpo: un gomito, il torace livido, un pezzo di spalla e poi quel tatuaggio. Una rosa nera sul collo tumefatto.Nico’, perché sei andato?

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Nicola si irrigidì, lasciò che il lenzuolo gli sfuggisse dalle dita. Una voce? Alzò lentamente lo sguardo. Nella camera mortuaria, le lampade al neon emettevano un ronzio, un lamento basso di cui solo adesso parve accorgersi.Perché sei andato?Uscì di corsa dalla stanza. Spinse i battenti con entrambe le mani e

si districò a spallate in mezzo alle uniformi nere che si accalcarono intorno a lui. Volti dai tratti indistinti e confusi. Gli fecero domande e lui farfugliò una risposta. I suoni erano ovattati e nella testa continuava a sentire quella voce, il tono insistente di rimprovero. Era già successo. Quando? Nella provincia di Herat. I talebani aspettavano, lo sapevano tutti, eppure lui aveva dato l’ordine. Aveva detto ai compagni di muoversi, di spostare quel cazzo di convoglio sotto il sole rovente.Nico’.Altre voci. Altri lenzuoli.Portò una mano alla bocca e strinse le labbra. Attraversò il

corridoio, certo che da un momento all’altro avrebbe vomitato.– Peluso, si fermi!Nicola andò a sbattere contro un distributore automatico di

bevande. Lottò per non perdere l’equilibrio, le gambe erano diventate di burro, e colse il riflesso di un volto nel vetro. Un istante e occhi lividi si sovrapposero ai suoi. Era come specchiarsi nella morte.– Le ho detto di fermarsi.Nicola si trascinò fuori, sentì la brezza serale sulla faccia. Deterse la

fronte madida di sudore e riprese finalmente a respirare.– Capita’, così non ci aiuta. – La voce affannata era quella del

Tenente Stanziola, il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Agropoli. L’ufficiale era stato il primo a venirgli incontro quando era arrivato all’ospedale.– È lui – sussurrò Nicola, lo sguardo indugiava sul volto butterato

della Luna. – È davvero lui…

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– Ne è sicuro? Gli hanno sparato da una distanza ravvicinata, la sua faccia…– Il tatuaggio. – Si toccò il collo con un dito. – Se l’era fatto fare

qualche mese dopo il suo trasferimento a Roma. Nostro padre non voleva… lui disse che… lui…– Da quanto tempo non vedeva suo fratello?Nicola si girò di scatto, il volto avvampò. Non era altro che una

domanda, non c’era nulla di offensivo nelle parole o nel tono di Stanziola, ma ebbe la sensazione d’essere giudicato per qualcosa che avrebbe potuto fare e invece non aveva fatto.– Ci eravamo persi di vista dopo la morte di nostra madre. Matteo e

io, be’… noi eravamo diversi.Nico’ perché sei andato?La domanda gli riecheggiò nella testa come il fragore di uno sparo.

Cercò di riprendere il controllo di sé, di articolare i pensieri in modo sensato, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a smettere di pensare a una ragione, una ragione valida, per cui suo fratello minore si fosse allontanato da lui. Matteo, il bambino dai riccioli biondi che lo seguiva come un’ombra qualsiasi cosa facesse. Matteo e i suoi libri, i salotti della Roma bene e quel modo di gestire i sentimenti che lo rendeva speciale e complesso allo stesso tempo. Matteo, un corpo abbandonato in una stanza vuota, disteso su un tavolo di metallo e con la faccia ridotta in poltiglia da una fucilata.Nicola si morse il labbro.– Chi è stato?– Le indagini sono a una svolta. – Il Tenente Stanziola abbozzò un

sorriso sul volto abbronzato. – I miei uomini hanno sentito alcune persone. Capitano, quello che devo dirle è brutto, lo so, forse non è il momento. Si guardi, lei è sconvolto. Vada a riposare e venga domani in caserma.– No. – Il carabiniere allungò una mano per sfiorargli un braccio e

Nicola si ritrasse. – Sto bene. Vada avanti, la prego.

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– Abbiamo dei testimoni che dicono d’aver visto suo fratello discutere animatamente con un tizio sulla banchina del porto. Ho parlato con il medico legale, dai primi rilevamenti l‘omicidio sembrerebbe essere avvenuto qualche ora dopo l’incontro tra i due, ma dobbiamo aspettare il referto dell’autopsia. Ciro Rizzo, le dice niente questo nome?– Ciro Rizzo – Nicola lo ripeté con un filo di voce. Avvertì un

formicolio alla nuca ma lo ignorò. – Forse. Era un compagno di scuola di Matteo alle medie, un bulletto che si divertiva a prendersi gioco di lui.– Già. – Il carabiniere si lisciò i baffi con le dita. – Un personaggio già

noto al nostro Comando. Un piccolo delinquente di provincia, qualche precedente per rissa e per spaccio, e l’ambizione di crescere. Si diceva che da mesi avesse messo le mani su partite di droga che arrivavano da Napoli pronte per essere smerciate in Cilento.– Non capisco questo come si colleghi all’omicidio di mio fratello.– Mia moglie leggeva i suoi libri, lo sapeva? Come era il titolo

dell’ultimo… Primula, giusto?Nicola annuì.– Mi sa spiegare perché Matteo Peluso, famoso scrittore, decide

all’improvviso di fare ritorno al paese? Era arrivato in Cilento da due settimane con un passaggio preso in rete. BlaBlaCar o qualcosa del genere, ha presente? Be’, suo fratello è ritornato a casa dopo dieci anni d’assenza. I vicini riferiscono che non fu presente neanche al funerale di vostro padre.– Matteo e papà non andavano d’accordo.– E lei, Capita’? Lei ci andava d’accordo?– Con mio padre?Il carabiniere scosse il capo.Nicola fece per replicare, ma le parole morirono in un respiro.

Guardò verso la porta d’accesso all’obitorio. Aveva la sensazione che qualcosa nelle ombre si stesse muovendo, che qualcuno lo stesse osservando. Fece un passo indietro, cercò le chiavi della moto nella

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tasca. Voleva andare via da quel posto ma la voce del carabiniere lo trattenne.– Peluso, mi ascolti. L’idea che ci siamo fatti è che molto

probabilmente quella sera suo fratello e Rizzo si siano incontrati per risolvere una questione in sospeso. Alcuni pescatori affermano d’aver visto spintoni e mani in faccia. Rizzo ha minacciato Matteo, forse lui gli doveva dei soldi…– Soldi? Per quale motivo? Mio fratello non aveva bisogno di soldi.

Lui non era un delinquente.– Va bene, va bene, ragionavo ad alta voce, ma sono convinto che

siamo sulla buona strada.– Non vedevo mio fratello da anni, questo è vero, ma lui non aveva

motivi per trovarsi a contatto con quel tizio. I testimoni si sbagliano. – Nicola scosse il capo e fece un passo verso la moto parcheggiata poco distante l’uscita dell’obitorio. Stava mentendo nel peggiore dei modi. – Le vostre sono solo supposizioni.– Supposizioni? – Il Tenente Stanziola si poggiò il cappello

d’ordinanza sul capo e fece una smorfia. – Mi dica allora perché Ciro Rizzo è scomparso.Nicola girò la chiave nel quadro e spense il motore. Lasciò la Ducati

tra le damigiane vuote e impolverate di suo padre. Anche al buio, riusciva a vedere le vecchie, familiari chiazze di vino che nel tempo avevano corroso il pavimento del garage. Sorrise. L’aria impregnata dalla muffa gli riportava alla mente i dettagli di un’infanzia che aveva ormai dimenticato. Si caricò lo zaino in spalla, uscì sul cortile battuto dalla luce lunare e guardò verso la vigna. Gli alberi erano scheletri contorti che sbucavano dal terreno nero. Un tempo non era così. Durante la vendemmia arrivavano a Ogliastro gli zii di Salerno per dare una mano a suo padre, un ingegnere dell’Enel che non aveva perso il contatto con le tradizioni della famiglia Peluso. Abitudini tramandate di generazione in generazione, e morte con lui e Matteo.

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Una folata di vento scosse i rami dei pini che circondavano la tenuta. Nicola si girò di scatto, studiò le ombre che si agitavano intorno a lui. Gli era sembrato di sentire un suono, qualcosa di vagamente simile a una risata. Sollevò lo sguardo verso le imposte chiuse. La casa era vuota, abbandonata da anni, da quando erano morti i loro genitori. Ignorava che Matteo vi avesse fatto ritorno e la cosa lo sorprendeva. Il fratello odiava Ogliastro e tutto ciò che quel luogo aveva rappresentato per lui. La fine brusca della sua infanzia.Scosse il capo e infilò una mano nella tasca. Le dita si strinsero

intorno alla punta seghettata della chiave, poi li vide. I bambini venivano verso di lui. Il più grande dei due stringeva un pallone. Correva in mezzo ai resti della vigna, lanciando il Super Santos in aria, fermandosi volutamente per dare il tempo al più piccolo di raggiungerlo.Matte’, lo devi prendere se no vai in porta.E Matteo fece più in fretta. Le ginocchia sporgenti sembravano

strusciare tra loro e la frangia di capelli biondi gli rimbalzava sulla fronte. Allungò le mani verso la palla, ma il più grande riprese a correre, lanciandosi oltre la linea degli alberi, verso il cortile.Fermati dai! Mi fa male la pancia!I due bambini lo raggiunsero e presero a girargli intorno. Il pallone

rimbalzò sul selciato e rotolò via. Ormai non era più oggetto della disputa. Lui allargò le braccia per farli passare sotto e rimase immobile a osservarli. Era intontito, come ubriaco, pervaso dalla sensazione d’aver già vissuto quella sensazione, d’esserne stato parte.Nico’.Ridevano e lui rise insieme a loro. Matteo sarebbe andato in porta

comunque, funzionava così. Era il più piccolo e gli toccava.Nico’.Sbatté le palpebre e mise a fuoco.

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– Che stai facendo? – Roberta era a pochi metri da lui e lo stava fissando. I capelli erano raccolti in una coda e indossava un giubbino di jeans sopra la tuta. – Perché te ne stai lì fermo?Nicola rimase con le braccia sollevate, un sorriso morto in faccia. I

bambini erano scomparsi, svaniti in un soffio, come se non fossero mai esistiti.– Io… niente…La donna fece un passo in avanti, poi un altro ancora, e si lanciò

contro di lui. Affondò la faccia nel suo petto e Nicola le cinse le spalle in un abbraccio.– Ho sentito il rumore della moto e sono venuta. Oh Dio, Matteo…– Shhh. – Le massaggiò la schiena quando lei iniziò a singhiozzare. –

Grazie per avermi chiamato, sono venuto giù subito. I carabinieri mi stavano aspettando all’ospedale.– Non riesco ancora a credere che sia successo, avevamo trascorso

insieme il pomeriggio. Avevo insistito che restasse da me per cena, ma lo sai come è fatto. Aveva detto d’avere un impegno e io pensavo fosse una scusa per non incontrare Vincenzo.Nicola asciugò una lacrima sul viso della donna con un dito e disse:

– Vieni dentro un attimo, prendiamoci un caffè.Nicola osservava Roberta muoversi con familiarità nella cucina di

casa Peluso. Sul tavolo c’erano i resti del pranzo di Matteo e lei si affrettò a sparecchiare. Gettò i rifiuti in una busta di plastica e mise i piatti sporchi a mollo nel lavandino.– Perché è tornato? – domandò lui, guardandosi intorno come se

non avesse mai visto quel posto. Prese una foto poggiata sulla credenza e soffiò via la polvere. Sua madre teneva Matteo in braccio e guardavano entrambi verso l’obiettivo. Avevano lo stesso sorriso.– La stesura del romanzo non stava andando bene – la donna versò

il caffè in due tazzine e gliene passò una. – Dopo il successo di Primula era andato in crisi. L’agente lo pressava perché consegnasse il seguito, ma lui continuava a ripetere di non sentirsi ispirato. Erano mesi che non riusciva più a scrivere.

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Nicola rimise la foto a posto e sorseggiò il caffè. Non parlava con Matteo da anni ma immaginava che per il fratello un blocco fosse un vero dramma, un dolore che lui non poteva comprendere. Fra tutte le passioni di Matteo, quella per la scrittura era viscerale. Il suo biglietto di sola andata per Roma. Nicola era un tipo da tascabili di Lee Child, ma aveva letto Primula durante il secondo turno in Afghanistan. Era rimasto a fissare la vetrina della Feltrinelli in Via Di Franco a Livorno per un tempo che gli era sembrato infinito, stregato da quella piramide di libri con un solo nome a caratteri cubitali in copertina: Matteo Peluso. Sorrise nel ricordare che gli erano tremate le gambe quando era entrato per prendere la sua copia. Primula ti toccava dentro e non si sorprese che a scriverlo fosse stato il fratello. Matteo era una di quelle persone totali, senza freni o compromessi. Un catalizzatore di sentimenti che travolgeva chi gli stava intorno. La sua anima trasudava dalle pagine del romanzo e impregnava il lettore.– Era tornato da Roma – continuò Roberta, – convinto che l’aria del

paese lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee. Voleva rivedere il mare e sentirsi a casa.– Davvero? Mio fratello odiava Ogliastro. – Incrociò lo sguardo della

ragazza e lei abbassò gli occhi neri. Senza trucco era ancora più bella di quanto lui ricordasse. Roberta, la figlia dei vicini, la ragazza della casa accanto. Aveva la stessa età di Matteo e i due erano sempre stati inseparabili, uniti da quel filo invisibile che lega le persone speciali. Il fratello era stato più fortunato, aveva lasciato il Cilento dopo il liceo per iscriversi all’Università. Lei invece no, era rimasta incinta di Vincenzo, il portaborse di suo padre, e il matrimonio le aveva fatto mettere una pietra sopra i sogni.– Gli leggevi ancora le bozze?– Certo. Amo farlo, lo sai... anche se con i bambini non ho molto

tempo. La sera crollo, sono sfinita, ma per Matteo no. La forza per leggere il suo lavoro c’è sempre.– I carabinieri pensano che sia stato Rizzo.

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– Ciro? – Roberta si portò una mano alla bocca e lui notò delle piccole cicatrici sbucare da sotto la manica della tuta. Segni di vecchi tagli che le martoriavano i polsi, increspavano la pelle. Lei colse la direzione dei suoi occhi e abbassò il braccio, imbarazzata.– Si vedevano ancora, non è vero?– Era complesso, lo sai. – Roberta si alzò all’improvviso. Svuotò la

tazzina di caffè nel lavandino senza averne bevuto una goccia. – Una cosa che tu non hai mai saputo accettare.Era vero, pensò Nicola, ma questo non lo giustificava.– Gli hanno sparato in faccia e l’hanno buttato in un canale. Ho

dovuto identificare il cadavere quasi decapitato di mio fratello. Aveva solo un lenzuolo addosso. Era la mia famiglia, l’unica famiglia che mi restava e me l’hanno ucciso.La fontana continuava a versare acqua nel lavandino ormai pieno e

alcuni schizzi finirono sul pavimento. Roberta chiuse il rubinetto e tirò su con il naso.– Devo andare adesso, o Vincenzo si preoccuperà.– Rispondi. Si vedevano ancora?– Matteo lo amava, Nicola. Lo avrebbe amato per sempre.Lo scroscio graffiava i vetri tenendolo sveglio. Un suono basso

simile a un lamento. Gli sembrava d’essere ancora lì, di notte, sulle montagne di Farah. La pioggia faceva lo stesso rumore sopra la tettoia del Lince. Nicola si alzò dal letto e mise i piedi nudi sul pavimento. Si avvicinò alla finestra e scostò la tenda. Una cappa livida ricopriva la vigna. Strizzò gli occhi, attraversò il cortile con lo sguardo fino al cancello. Macchie scure si muovevano tra i cespugli, contorcendosi come bestie rabbiose. Trasalì. Il vento fece tremare le lastre e Nicola fece un passo indietro. Le raffiche scuotevano i rami, sembravano voler estirpare gli alberi, abbattere la casa, la collina, e trascinare tutto giù, verso il mare. Nicola si strofinò un occhio. Dall’altra parte della sua proprietà, oltre le cime storte degli alberi, scorgeva la sagoma nera della casa di Roberta.

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Ripensò a quello che gli aveva detto l’amica, alle parole del tenente Stanziola. Ripensò a Matteo e a quanto in realtà non conoscesse della sua vita. C’era stato un tempo in cui avrebbe giurato il contrario. Avevano perso la madre troppo presto. Il padre ce l’aveva messa tutta, ma non era stata la stessa cosa. Nicola era stato sempre il più forte dei due, quello che soffriva di meno. Matteo invece no, lui si teneva le cose dentro, rimuginava e sognava una via di fuga. Un biglietto di sola andata lontano da quelle quattro mura, dalla vigna, da Ogliastro.– Perché sei tornato? – chiese alla sua immagine riflessa nella

finestra. C’era qualcosa che non gli quadrava. Roberta aveva parlato di una crisi, della necessità di riconciliarsi con il passato. Stronzate. Suo fratello era scappato dal passato pensando che costruire un muro tra sé e i ricordi servisse a qualcosa.Nicola uscì dalla stanza e attraversò il corridoio buio. La camera di

Matteo era in fondo, la porta aperta e il letto disfatto. Il cuscino sembrava avere ancora impressa la forma della faccia nella federa. Le tende erano scostate e i colori della notte cadevano sopra un piccolo scrittoio sommerso di carte, accostato alla parete.Il laptop di Matteo era rimasto sotto carica.Accese la luce e si avvicinò al tavolo. Guardò i fogli, alcuni sporchi di

caffè. La calligrafia era fitta, pagine e pagine di frasi cerchiate, di appunti sparsi e all’apparenza sconnessi. Come era possibile che i carabinieri non avessero messo piede in quella stanza? Era come se tutto quello che Matteo aveva fatto dopo il suo arrivo a Ogliastro non avesse avuto alcuna importanza nell’indagine. Nicola era solo un soldato, un capitano del 9° Col Moschin, e non aveva esperienza in quel genere di cose, eppure il suo intuito gli diceva che c’era dell’altro. Perché gli inquirenti non avevano scavato nella vita del fratello? Si grattò il mento. Ciro Rizzo era la risposta. Un movente passionale, anche Roberta doveva esserne convinta. Matteo era tornato ad Agropoli forse per riaprire una porta già chiusa e i due avevano discusso. Tra loro doveva essere finita e il fratello non

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voleva rassegnarsi. Forse quella relazione clandestina comprometteva la figura di delinquente in ascesa che quel pezzo di merda di Rizzo si stava costruendo. L’aveva detto lo stesso Stanziola: Ciro era ambizioso.Girò il capo e guardò verso la finestra come se dietro di essa ci fosse

la risposta che cercava, un elemento che andava oltre i sentimenti. Chiunque avesse ucciso Matteo, gli aveva fatto saltare la faccia, il suo sorriso, la sua identità, quasi a cancellare quello che lui rappresentava per il mondo, a eliminare una prova della sua esistenza. Staccò il cavo dell’alimentazione del portatile e spinse il pulsante d’accensione. Si sentiva un bastardo a scavare nella vita del fratello, ma non avrebbe lasciato nulla in sospeso. Probabilmente Stanziola aveva ragione, ma Rizzo era sparito ed era, fino a prova contraria, solo un presunto colpevole.Windows si avviò senza richiedere una password. Il desktop era un

labirinto di documenti e cartelle in cui Nicola si tuffò perdendo la cognizione del tempo. Matteo era troppo impegnato a scrivere e allo stesso tempo troppo pigro per prendersi cura del suo lavoro e ordinare i file sull’hard disk. Si grattò la fronte. Roberta aveva parlato di una crisi d’ispirazione, e lui ritrovò l’intero manoscritto di Primula 2. L’ultima modifica al testo era stata apportata due settimane prima. La mattina precedente il suo arrivo a Ogliastro. Possibile che Matteo avesse mentito all’amica?Nicola si lasciò andare contro lo schienale della sedia e congiunse le

mani dietro la nuca. Chiuse le palpebre e riposò gli occhi.– Che vuoi dirmi, Matte’? – chiese allo schermo del laptop sperando

che potesse rispondergli.Doveva controllare la posta elettronica del fratello, ma non

conosceva la password. In quel computer c’era la risposta, ne era certo. Il suo Casio da polso segnava le 3:00 del mattino. Appena fatto giorno, avrebbe consegnato il portatile ai carabinieri. Con l’autorizzazione del giudice avrebbero ottenuto l’accesso al provider e passato al microscopio la corrispondenza. Era così che funzionava.

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Forse uno stalker, un ammiratore che aveva costretto il fratello a lasciare Roma per rifugiarsi in Cilento. Qualcuno talmente pazzo da seguirlo fino a lì e sparargli un colpo in faccia. Nicola ricordava la polemica nata su uno di quei blog letterari, due anni fa. Era abituato a seguire come un fantasma i passi di Matteo e non aveva potuto fare a meno di notare l’astio nel post di una lettrice sconvolta dalla morte della protagonista di Primula. Uccidere per un romanzo?Era così preso dai suoi ragionamenti che non si accorse subito della

fotografia.Poggiò un braccio sulla scrivania e alcuni fogli, in bilico in un angolo

del tavolo, caddero sul pavimento. Si chinò per raccoglierli, notando il bordo bianco di una polaroid. Fissò la stampa per un istante senza muoversi, il corpo curvato sul bracciolo della sedia, poi allungò una mano. Una data sbiadita scritta a penna, 1989, e i colori bruciati di uno scatto contro luce. Nicola riconobbe subito Matteo, indossava una maglia a righe bianca e rossa troppo grande e una cascata di ricci biondi gli cadeva sulle spalle. A nove anni i lineamenti di quel viso erano così delicati che si faticava a distinguerne il sesso.Corrugò la fronte.Il fratello era seduto sulle ginocchia di un uomo in completo scuro e

con un paio di occhiali da sole che gli copriva metà della faccia. Alla destra dello sconosciuto, una bambina, con i capelli raccolti in una treccia, sorrideva. Un sorriso triste che spinse Nicola a gettare la foto sul tavolo. Riportò gli occhi sullo schermo del laptop. In alto a sinistra, l’icona del cestino era piena. Fece doppio click e vide un file di testo, un solo file cancellato. Il titolo era chiaro. Agosto 1989. Ripristinò il documento sul desktop e lo aprì. La luce bianca del monitor lo investì, abbagliandolo come un faro. Nicola sentì il respiro morirgli in gola, lo stomaco attorcigliarsi. Poche parole. Erano tutto ciò che aveva scritto suo fratello, tutto ciò che bastava per capire. Lesse con attenzione, arrivò fino al punto e poi ricominciò daccapo. Lasciò che le parole diventassero immagini, fantasmi di un’estate dimenticata. Poggiò la schiena contro la sedia e

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allungò le gambe sotto il tavolo. Tenne gli occhi incollati al monitor, prigionieri di un incipit che qualcuno aveva provato a cancellare perché altri non vedessero.La casa sulla collina odorava d’estate e di paura. La paura di odiare

sé stessi per un dolore che non poteva essere condiviso. La paura di essere sé stessi, perché gli altri non avrebbero capito.La casa sapeva di un’infanzia strappata via dalla violenza.Nicola lesse ancora. Non voleva che Matteo fosse dimenticato.Il telefono di casa suonava con insistenza. Lo squillo gli bucò la testa

come un trapano. Nicola si svegliò di colpo, un foglio incollato alla guancia dalla saliva. Si guardò intorno cercando di capire dove si trovasse e le pareti ondeggiarono come un tendone da campo gonfiato dal vento. Sbatté le palpebre. Si era addormentato sullo scrittoio di Matteo.Driiin.Il telefono non voleva saperne di aspettare e lui saltò in piedi, urtò

con il mignolo contro una cassettiera e trattenne un gemito. Zoppicò fino al tavolino nel corridoio su cui era posato il vecchio ricevitore grigio. La cornetta puzzava di muffa.– Pronto?– Capitano Peluso, è lei? – Nicola non rispose. – Sono il tenente

Stanziola della stazione dei Carabinieri di Agropoli. Abbiamo ottime notizie.Ascoltò in silenzio quello che l’ufficiale aveva da dirgli. Quella

mattina all’alba una volante della polizia aveva fermato a Eboli un’anonima Fiat Punto per un controllo di routine. Gli agenti avevano intimato al veicolo di fermarsi e questo in risposta aveva provato a investirli. I poliziotti avevano aperto il fuoco e un proiettile aveva sfondato il lunotto posteriore, attraversando il poggiatesta per piantarsi nel cranio del guidatore. L’arrivo del 118 era stato inutile.Al volante c’era Ciro Rizzo.– Un carico di droga, capisce?

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– Sì.– A nostro avviso, questo mischia un po’ le carte sull’omicidio di suo

fratello. Attendiamo però l’arrivo del Magistrato. Capita’, pensa che potrebbe passare per la…Nicola posò la cornetta sul ricevitore.Ciro Rizzo usciva di scena nel modo che si meritava. Un bastardo. A

dodici anni, Matteo era stata la sua vittima preferita. Nicola sarebbe dovuto andare ad Agropoli e spaccargli la faccia, era questo che facevano i fratelli maggiori, ma lui non l’aveva fatto. E in ogni caso, Matteo lo avrebbe trattenuto. Rizzo era un bastardo, un delinquente, ma non l’assassino di suo fratello.Il telefono riprese a squillare ma lui lo ignorò. Guardò l’orologio,

9:30 di domenica mattina. Indossò una felpa e calzò le scarpe da ginnastica. Da quello che ricordava, Vincenzo, il marito di Roberta, non perdeva nessun appuntamento settimanale con il Signore. La pioggia martellava la vigna, tendaggi grigi che formavano rivoli fangosi al suolo. Nicola tirò il cappuccio sopra la testa e uscì di casa senza pensarci due volte. Risalì di corsa il viale che lo portava fuori dalla tenuta Peluso e costeggiò la strada da poco asfaltata fino alla casa dei vicini. Si accostò al cancello in ferro battuto. Non c’erano auto parcheggiate nel cortile.Abbassò la maniglia: era chiusa a chiave. Allora fece un passo

indietro e si aggrappò alle sbarre, mise i piedi sulle teste dei leoni incise nel metallo e lo scavalcò. Le suole delle sue Nike emisero un sibilo viscido quando atterrò sul selciato. Si mosse radendo le mura sotto lo sguardo vuoto dei gargoyles che si sporgevano dal tetto. Percorse un sentiero lastricato che serpeggiava attraverso il cortile fino al retro della casa.Nicola infilò le dita tra le foglie delle siepi, proprio come faceva da

ragazzino quando suo padre lo mandava a recuperare Matteo. Il fratello diceva d’andare a giocare nel castello e a lui toccava la seccatura d’arrivare fino a lì, in quella casa antica che dominava Ogliastro con le sue guglie nere. Lui non vi aveva mai messo piede.

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Non lo sapeva perché, non gli piaceva e basta. La famiglia di Roberta si era trasferita da Napoli negli anni Ottanta. Il padre era un imprenditore edile che aveva fatto i soldi ricostruendo mezzo Cilento dopo il terremoto. Un uomo importante con amicizie importanti che gli avevano fatto guadagnare, all’epoca, una poltrona a Roma nella segreteria della Democrazia Cristiana. Nicola ricordava il modo con cui il suo di padre, l’ingegnere Peluso, si rivolgeva a quello di Roberta, ed era con una sua raccomandazione che lui era riuscito a entrare all’Accademia di Modena.Nicola si voltò di scatto.La pioggia gli sferzava la faccia impigliandosi alla barba. Guardò

verso le finestre. Era convinto d’aver visto qualcosa, la sensazione che una tenda si fosse mossa. Scosse il capo e riprese a muoversi. Le lastre di marmo lo condussero fino all’autorimessa. La porta era aperta, il battente sollevato aveva formato una tettoia tenendo asciutto parte dell’ingresso. Nicola scivolò all’interno scrollandosi l’acqua di dosso. Era fradicio e l’umidità gli penetrava nelle ossa. Cercò l’interruttore, trovandolo alla sua sinistra. Vide le due biciclette dei figli di Roberta accostate contro il muro e una serie di scatole ammassate su un soppalco di legno. Una rampa di scale conduceva a una porta di ferro. Abbassò la maniglia, ma era chiusa, allora si guardò intorno trovando un cacciavite sul tavolo degli attrezzi e si mise a lavoro. Infilò la punta dell’utensile in uno spiraglio nel muro, trovando gli ingranaggi della serratura. Farla saltare gli richiese un attimo. Aprì con delicatezza l’imposta e affrontò una seconda rampa di scale che portava verso un corridoio. Aveva appena commesso un reato, ma non gli importava. L’incipit di suo fratello continuava a rimbalzargli nella testa come un’ossessione.La casa sulla collina odorava d’estate e di paura.Inspirò, il cuore che gli martellava nel petto. La paura di Matteo gli

riempì le narici. Era rimasta lì, impregnava le pareti di quella casa come uno spettro che si ostinava a non farsi da parte. Per quanto

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Nicola si sforzasse di fare piano, i suoi passi erano scanditi dallo squittio delle suole bagnate sul parquet. Si mosse al buio guidato dalle parole del fratello. Tutto questo era sbagliato, ne era consapevole, avrebbe dovuto avvisare il Tenente Stanziola quando ne aveva avuto l’occasione, ma ormai era troppo tardi e l’unico pensiero che lo assillava era quello di non avere una pistola con sé, l’acciaio di una Beretta stretto nel pugno.– Roberta? – chiese, stanco di giocare a nascondino.Silenzio.Scivolò nel corridoio, radendo la parete con un gomito. Le persiane

di un balcone non erano abbassate del tutto e aghi di luce rimbalzavano contro i mobili bucando le ombre. Notò il led rosso del televisore nel soggiorno, poi sbirciò all’interno di una camera da letto e vide i letti a castello dei bambini. Si voltò. Era certo di non essere solo, aveva la sensazione che qualcuno lo stesse osservando da quando aveva scavalcato il cancello dei Forte.– Non voglio farti del male, Roberta. Voglio solo parlare.Sollevò le mani e mostrò i palmi. Un rumore.– Non doveva farlo. – La donna emerse dal buio. Il volto pallido, gli

occhi scavati. – Non doveva farlo a me. Era come un fratello…– Era stato tuo padre allora? – Nicola si fece avanti, tenne le braccia

sollevate. I suoi occhi intercettarono il balenare della lama. L’amica stringeva un coltello da cucina in una mano.– Mettilo via, andiamo.– No.– E cosa vuoi fare? Uccidermi? Vuoi uccidere me come hai fatto con

Matteo?– Lui non capiva… non avrebbe mai potuto capire. Voleva avere

successo infangando il buon nome di mio padre.– Tuo padre? Il Cavalier Egidio Forte? Che cosa gli ha fatto?– Non azzardarti a parlare di lui – Roberta gli puntò la lama

tremolante contro la faccia. – Non sei nessuno per farlo. Né tu, né Matteo.

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– È stato lui, non è così? Dovevo immaginarlo. Matteo continuava a bagnare il letto la notte. Pensavo che fosse per nostra madre, e invece… lo prendevo in giro per questo. Lo facevo come tutti gli altri. – Nicola si portò le mani alla testa, la casa prese a girare, le ombre a muoversi. – Ho trovato il file. Sei stata tu a cancellarlo?L’espressione sulla faccia della donna valeva più di ogni risposta.– Hai dimenticato di svuotare il cestino. Tu avevi le chiavi… ieri sera

non avevi sentito il rumore della mia moto, tu eri già lì.– Quando Matteo mi confidò che cosa voleva scrivere, io non

riuscivo a credergli. Voleva parlarne con il suo agente, era al settimo cielo. Disse che ne avrebbero fatto sicuramente un film, magari una fiction alla RAI. La mia famiglia in televisione, capisci? Cosa avrebbe detto la gente di mio padre? Lui era un grande uomo.– E così gli hai detto di tornare in paese.Roberta annuì.– L’ho incoraggiato a farlo. Magari il contatto con il passato

l’avrebbe aiutato a ricordare. Pensavo che una volta qui sarei riuscita a convincerlo. Mio padre era Egidio Forte! E mio marito? A Giugno ci sono le elezioni comunali e Vincenzo è candidato a sindaco. Lui può vincere, ha lavorato molto per farlo. La gente ha una grande considerazione, è il genero di Egidio Forte. No, Matteo non poteva farlo, non poteva raccontare tutto ora. Non pensava ai miei figli?– È per questo che l’hai fatto? Per vergogna? – Nicola rimase fermo.

Fece un passo in avanti spostando lo sguardo dalla lama al volto della donna, le braccia aperte e rivolte verso l’arma. Era sconvolto, pensò al sorriso di Matteo cancellato da una fucilata. – Per le elezioni? L’hai ucciso per le elezioni?Gli occhi di Roberta si mossero. Un battito di ciglia, un leggero

spostamento. Un attimo prima era su di lui, e quello dopo puntavano verso il corridoio.Nicola si voltò di scatto. Era stato così concentrato sul coltello della

donna che non si era accorto di Vincenzo. Uno sbaglio. Era come se

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le ombre si fossero staccate di colpo dalle pareti per piombargli addosso. Girò il bacino e la sua mano si strinse d’istinto sulla canna del fucile, spingendola di lato. L’arma ruggì, sputando piombo contro lo schermo nero del televisore.Vincenzo parve sorpreso dalla reazione. Emise un grugnito, liberò il

fucile dalla sua presa con uno strattone. Nicola sentì il sibilo dell’aria quando il calcio del fucile si abbatté sulla sua spalla. Digrignò i denti, perse l’equilibrio e venne sbattuto contro una credenza. Uno spigolo affondò nel fianco spezzandogli il respiro. Roberta stava urlando, la voce stridula gli lacerava i timpani. Il marito venne avanti, lo afferrò per il cappuccio della felpa spingendolo contro il pavimento, mentre con l’altra mano cercava di direzionare l’arma contro la sua faccia.Nicola provò a divincolarsi ma era lento, la vista appannata. Il

battito del cuore gli rimbombava nelle orecchie, assordante. Si ritrovò a strisciare sul parquet. Vincenzo gli assestò un calcio al fianco con tale violenza da farlo ribaltare sul dorso. Nicola tossì, sentiva qualcosa di umido e appiccicoso bagnargli il collo.– Voleva fottermi, quel frocio del cazzo. – Un filo di bava era rimasto

impigliato al pizzetto di Vincenzo. Una vena gli spaccava in due la fronte. – Gettare merda sulla mia famiglia, su mia moglie!– Vince’, basta – la voce di Roberta era smorzata dal pianto. Il

coltello cadde in un tintinnio.– Che c’è? Adesso dici basta? – L’uomo puntò il fucile verso la

moglie. – La colpa è anche tua se siamo arrivati a questo, dovevi pensarci prima. Dovrei ammazzare anche te!Nicola deglutì sangue. Doveva essersi morso una guancia nella

caduta. Fissò il soffitto e le ombre che strisciavano sull’intonaco. Si sentiva di merda, le forze gli stavano scivolando via dal corpo. Aveva schivato bombe e combattuto Talebani per poi tornare a casa ed essere ucciso da un pezzo di merda qualsiasi. Sorrise. Vincenzo e Roberta stavano gridando, inveivano l’uno contro l’altra, ma lui non prestava ascolto. Le loro urla erano distorte, solo un sottofondo fastidioso ai suoi pensieri. Forse era così che doveva finire.

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– Matteo era mio amico! – il marito colpì Roberta al volto con uno schiaffo e lei cadde, trascinando con sé una sedia. La donna si tenne la guancia e la sua voce divenne un lamento: – Lui era mio amico e tu l’hai ucciso… noi… Gesù, che abbiamo fatto…Nicola osservò il fucile stretto tra le mani di Vincenzo e rivide

Matteo sul tavolo dell’obitorio. La faccia ridotta in poltiglia. Un occhio, l’unico che gli restava, era puntato al soffitto. Da qualche parte nella sua testa, il fratello stava ridendo. La risata di un bambino spezzato.Era andata così, non c’era più nulla da sapere.L’assassino di suo fratello si voltò verso di lui, la faccia distorta in

una maschera di follia. I loro sguardi si incontrarono e Nicola comprese che arrendersi adesso avrebbe significato darla vinta a quella gente, lasciare che restassero impuniti. Permettere che Matteo venisse ucciso una seconda volta. Era cominciato tutto in quella casa e lì doveva finire.– Resta a terra – Vincenzo sollevò il fucile ma Nicola si era già

messo in piedi.– Vuoi farlo qui? – chiese allargando le braccia. Sentiva il fuoco

dentro, una rabbia che gli faceva tremare le gambe. – Vuoi spararmi adesso? In casa tua?Vincenzo esitò, abbassò gli occhi sul calibro 20. Un istante poteva

cambiare le cose, era una questione di attimi. Un istante poteva decidere chi viveva e chi invece diventava carne per vermi.Nicola afferrò un posacenere di cristallo sul tavolo e lo scagliò in

avanti. Un movimento fluido, acqua che scorre dal rubinetto. L’oggetto colpì Vincenzo al mento, sbattendogli la testa all’indietro. L’uomo era alto, il fisico temprato da vent’anni di lavoro nell’edilizia, e le sue gambe ressero il colpo, però lui non era un guerriero. Nicola invece sì.Si gettò sul fucile con tutto il peso del corpo, spingendo la canna

verso il pavimento. Assestò una testata al volto di Vincenzo e sentì il setto nasale frantumarsi. Lottarono e si spinsero, sputando e

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ringhiando, poi l’arma venne scagliata contro il vetro e i due finirono sul pavimento. Il marito di Roberta gli montò sul petto. Nicola protesse il volto da un pugno maldestro usando il gomito. Piantò la schiena contro il parquet e colpì l’avversario con un diretto alla mascella, rapido e potente. Vincenzo non ebbe il tempo per urlare perché lui gli afferrò entrambe le braccia e se le strinse al petto, poi mosse le gambe, avvolgendo le cosce intorno al collo taurino dell’avversario. Vincenzo provò ad alzarsi, il volto rosso e le vene del collo gonfie, ma più si dimenava e più Nicola stringeva.Stringeva, perché era quello che voleva fare.La cosa giusta da fare.La luce dell’ambulanza era una macchia blu sotto la pioggia. Nicola

guardò gli operatori dell’Humanitas caricare a bordo Vincenzo. Uno di loro gli teneva una mascherina per l’ossigeno sulla faccia. Erano seguiti a vista da due carabinieri, stretti nei cappotti d’ordinanza, che li aiutarono a trasportare la barella e poi chiusero il portellone.– Prema questo sulla ferita. – Una donna in divisa arancione gli

passò della garza da mettere dietro la testa.Nicola fece quanto gli era stato consigliato. Osservò un secondo

gruppo di persone uscire dalla casa. In mezzo alle sagome scure dei carabinieri c’era Roberta, piccola e vulnerabile. Aveva la testa incassata tra le spalle, all’improvviso sembrava più magra e pallida di quanto lui ricordasse. Continuava a chiedere dei suoi figli con una voce simile a un lamento. Un tono che ebbe su di lui l’effetto di un pugno allo stomaco. Un militare le aprì la portiera dell’auto e un altro le piegò la testa per farla sedere. Lo sportello venne sbattuto e in quel momento i loro sguardi si incontrarono. Dietro il finestrino, gli occhi della donna stavano cercando i suoi. L’acqua scorreva senza ostacoli, scivolava sul vetro come lacrime sul volto di Roberta. E allora Nicola si disse che forse era proprio questo quello che faceva la pioggia. Lavava le colpe.– Andiamo, Capitano. – Il Tenente Stanziola lo prese delicatamente

per un braccio. – La accompagno in ospedale.

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Nicola sbatté le palpebre, sentì appena il contatto. Osservava ancora. Fuori dal cancello i veicoli si erano dileguati, sgommavano via a sirene spiegate.

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PROLOGOVietnam, 1965.

L’inferno colpì Kain in pieno volto. La faccia era in fiamme e il

sangue gli scorreva sulla guancia. Doveva avere un taglio lì, sotto l’occhio destro. Lo zigomo pulsava, faticava a tenere le palpebre aperte, la vista annebbiata da sfere di luce bianca. Arrancò sul terreno scivoloso, tra rami e foglie taglienti che gli sferzavano le gambe. Era a corto di fiato, la gola bruciava come se avesse inghiottito del filo spinato.Urtò un albero e rischiò di perdere la presa sulla pistola. Il fucile era

rimasto indietro, in mezzo al fango e ai cadaveri dei compagni. Aveva continuato a sentire Ramirez alle sue spalle, la voce soffocata dal ruggito della pioggia. Gli diceva di aspettarlo. Poi anche lui era scomparso, inghiottito da quella fottuta giungla.Pioggia e fango.Kain lo sapeva, non poteva vederli, ma lui sapeva. I vietcong gli

erano intorno, lupi in attesa di sbranare la sua carcassa. Poteva sentirne l’odore. La puzza di sudore rancido e morte. Fissò l’oscurità e strinse l’arma tra le mani insanguinate, cercando consolazione nel tocco gelido del metallo, sperando di ritrovare un coraggio che era sparito, perso chissà dove sotto le raffiche nemiche.Erano stati spazzati via.Morris, McColin, Sanchez, Righetti. I bravi ragazzi della 101a

Divisione Aeromobile, classe ’47. Un’intera squadra spazzata via, i suoi amici. Prima i colpi di mortaio erano piovuti giù dal cielo, precisi come se fossero stati guidati dalla mano infame del destino. Gli alberi, dai fusti sottili e ricoperti di resina, erano andati in frantumi. Il boato delle deflagrazioni e le urla gli avevano lacerato i

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timpani. La foresta aveva iniziato a vomitare musi gialli armati. Spuntavano da dietro le foglie, emergevano da buche scavate nel terreno. Figure ricurve nella nebbia. Era impossibile fermarli, sembrava di sparare alle ombre.Ombre.Qualcosa si mosse. Avvertì il fruscio delle foglie e sollevò le braccia,

puntando la pistola prima da un lato, poi dall’altro. L’oscurità era viva, la pioggia torrenziale era cessata e ora il battere dei suoi denti gli riecheggiava nelle orecchie. Scosse il capo. Voleva infilarsi due dita in gola e vomitare. Non riusciva a ricordare come si fosse cacciato in quella situazione. Un attimo prima era in strada, le chiavi del furgone strette in mano, e quello dopo era lì, a sguazzare nella merda. Percepiva un vuoto, come se una granata gli avesse portato via un pezzo della testa, non riusciva a ricordare. I fotogrammi della sua vita erano sbiaditi e l’unica cosa che gli faceva capire d’essere vivo era il dolore. Le fitte bucavano i muscoli, gli spasmi tagliavano il respiro. Sentiva che il corpo si stava disfacendo a ogni passo, a ogni falcata. Sarebbe stato tutto più facile se i vietcong gli avessero piantato una pallottola nella nuca e chiuso la storia, ma non lo fecero. Volevano giocare e lui era la preda.Si lanciò nella boscaglia.L’istinto di sopravvivenza si era trasformato in rabbia. Ringhiava

mentre sentiva gli scarponi affondare nel terreno friabile. I vietcong avevano smesso di divertirsi a cacciarlo. Le loro voci proruppero nell’immobilità della foresta. Parole sputate in una lingua incomprensibile che anticiparono gli spari. Le pallottole sibilavano tutte intorno a lui, mutilavano i tronchi, portavano promesse di morte alle sue orecchie. Le gambe erano pesanti, blocchi di granito, ma lui non ci fece caso. Gli sarebbero venuti dietro per tutta la notte. L’avrebbero inseguito fino alla Cambogia, ma non l’avrebbero preso.Mai, piuttosto la morte.Una radice affiorava dal terreno, nera e contorta. Kain trattenne il

respiro e prese lo slancio per superarla con un salto. Sentiva da

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qualche parte davanti a sé il rumore di un corso d’acqua. Forse poteva ancora farcela. Le foglie gli frustavano la faccia, i rami si aggrappavano alle braccia. Volti maligni, famelici, erano scolpiti nelle pieghe del legno. La foresta sembrava essere animata e rivolta contro di lui.Udì con chiarezza lo sparo. Qualcosa lo colpì a una spalla, una lama

di dolore che gli trapassò la carne, incendiandola. Picchiò le ginocchia sul terreno, poi il mento. La giungla prese a muoversi intorno a lui mentre rotolava in vortici di braccia e gambe giù per un pendio. Non aveva nemmeno la forza di gridare, trascinato in discesa. Il tempo parve congelarsi, e subito esplose in una pioggia di schegge. Vide un fiume, le acque scure farsi più vicine mentre cadeva. I rami rallentarono il suo mulinare. Una corsa folle interrotta solo dalle file di massi ricoperti di muschio.Giaceva sul dorso, la bocca piena del suo sangue. Sbatté le palpebre

nel tentativo di mettere a fuoco. La fitta cappa della vegetazione si era aperta, le foglie larghe erano piegate sotto una falce di luce lunare. Sentiva il vento crepitare tra gli alberi. Le voci dei vietcong erano sparite, come se non fossero mai esistite, solo frammenti di un unico brutto sogno. Tra lui e le stelle ora c’era il nulla.Lo sciabordare delle acque parve quasi cullarlo, un suono basso e

costante, una litania che gli penetrava in testa. Il suo corpo era un ammasso di lividi e fratture, il respiro era ridotto a un gorgoglio viscido sulle labbra spaccate. Un altro nelle sue condizioni avrebbe urlato, lui invece ignorò quell’improvvisa sensazione di freddo che gli risalì dalle caviglie fino al collo.Deglutì, in attesa che la morte venisse a prenderlo. Ci sperava quasi

che arrivasse a reclamarlo. Ma non accadde nulla. I volti dei suoi genitori, gli odori e i profumi della terra in cui era nato e cresciuto accorsero a dargli forza. Erano con lui ora, su quella riva fetida. Sua madre sorrideva, gli occhi azzurri fissi nei suoi. Gli accarezzava la fronte e parlava, ma lui non riusciva ad afferrare le parole.Parole e volti che sparirono in un battito di cuore.

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Il cielo si mosse. Una stella si staccò dal firmamento, lasciando una coda di luce. Kain avvertì una presenza. Non poteva girare la testa, eppure sentiva che qualcuno era lì. Uno spostamento. L’istinto lo spinse a tastare il fango alla ricerca della pistola, ma era andata persa durante la caduta. Chinò lo sguardo sulla punta degli scarponi.Un uomo era immobile a pochi metri da lui e lo stava fissando.

Indossava una tunica scura, il volto in parte coperto dall’ombra. Si avvicinò e i suoi movimenti furono fluidi, silenziosi.Kain notò le impugnature di due spade che gli sporgevano dalle

spalle, poi inchiodò il suo sguardo in quegli occhi a mandorla l’istante prima che questi si chinasse su di lui. Nel cielo, la luna parve dilatarsi, diventò una chiazza accecante. La luce si allargò, lo avvolse, inondò le sue pupille di bianco e lo costrinse a serrare le palpebre.

Sonho-1, 2233.

Si svegliò di colpo.Scrollò il capo e fissò il soffitto divorato dall’umidità e dalle crepe.

La puzza di stantio gli assalì le narici quando trasse un profondo respiro. Si mise a sedere sul letto e poggiò i piedi nudi sul pavimento. Ancora il Vietnam. Dai solchi nelle tapparelle arrugginite filtravano lame di luci al neon provenienti dalla strada. Si prese il volto sudato tra le mani, sentì la barba incresparsi a contatto con le dita. Saggiò con i polpastrelli i dettagli di una cicatrice che gli segnava la mascella. Il vuoto si insinuava nel cervello e scendeva giù fino alla gola. Il vuoto soffocava, il vuoto faceva paura. Una paura che si risvegliava ogni volta che faceva quel dannato sogno, come se i battiti del suo cuore fossero un codice che voleva dirgli qualcosa, spingerlo a ricordare, a mettere insieme i pezzi della sua vita andata

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in frantumi in quella giungla a colpi di mortaio. Quanti anni, mesi, ore, minuti, secondi erano passati? Aveva ancora importanza?Calzò le scarpe senza allacciarle e si accostò a un buco nella

serranda. Sbirciò fuori dalla finestra. Era difficile distinguere la notte dal giorno, se non fosse stato per l’ora scandita sugli schermi al plasma installati sulle facciate degli edifici. Erano appena passate le otto di sera e sui monitor c’era ancora una volta il Presidente Jons.I vicoli del ghetto brulicavano di figure in movimento, ombre lacere

sotto un cielo livido. Gli edifici erano carcasse di lamiera e cemento, ammassate le une addosso alle altre e schiacciate da nuvole nere di smog. Le strade sotto il suo nascondiglio erano ingombrate dalla spazzatura. Una puttana a un angolo stava accendendo una pipa di anezetamolo. Il fumo verde della droga vorticava nell’aria a ogni tiro, confondendosi alla nebbia alogena della sera. Una sottile pioggia obliqua si dissolveva nelle insegne dei bazar e dei locali. In lontananza le sagome delle fabbriche si nascondevano nella foschia, torri e bastioni neri si celavano dietro una coltre inquinata dalla produzione.La voce di Jons era calma, melliflua, e accompagnava le immagini

che si alternavano al suo volto perfetto, sorridente. Lo schermo mostrava cittadini belli e felici di Sonho-1, strade luminose e palazzi enormi, rivestiti di specchi, che si stagliavano contro il cielo.Promesse di sogno e di sacrificio.Kain chiuse gli occhi e annusò l’aria alla ricerca dei segni, lasciò che

gli parlassero ancora una volta. Il verso di un gabbiano, il moto lento delle nuvole, il tocco acido della pioggia sulla faccia. Lei era là fuori, da qualche parte sulla strada. Era in tutte le cose. Ne sentiva la presenza, quella strana vibrazione prodotta dall’energia, una pressione nella testa che lo teneva all’erta e gli faceva male. Era ossessionato e doveva trovarla prima che fosse troppo tardi.Il fischio dei freni attirò la sua attenzione. Una corriera era arrivata

al capolinea, la fermata davanti all’insegna cadente del Blast Bar. Rivoli di pioggia risplendevano sulla carrozzeria rovinata del veicolo

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che trasportava gli operai di ritorno dal distretto industriale. Le porte sulla fiancata si aprirono e sagome ingobbite si riversarono sull’asfalto. Rimase a osservarle mentre si disperdevano nei vicoli del ghetto, poi si portò la mano al cuore. Le piastrine appese al collo premevano contro la pelle. Abbassò lo sguardo e grattò con l’unghia la ruggine. Il tempo aveva cancellato i ricordi, ma non la sua identità. Le lettere incise erano ancora leggibili e conservavano un nome.Il suo nome.Kain Lewis si staccò dalla finestra e afferrò le spade poggiate su un

tavolo.Erano i segni a dirlo. Sentiva che qualcosa stava cambiando.

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IJons sorrideva. Una delle cose che aveva imparato era che la gente

andava rasserenata. Da quando aveva fondato Sonho-1, non aveva mai smesso di rassicurare. L’umanità aveva bisogno di una guida, di qualcuno che indicasse la strada, e la Corporazione era stata la sua soluzione. Bastava prendere un uomo, fargli conoscere la miseria, gli stenti, e poi promettere che poteva avere il paradiso. Farlo vivere all’ombra di quel paradiso per anni, costringerlo a sollevare ogni giorno lo sguardo sopra i tetti sbrecciati di un ghetto e vedere cosa c’era ad attenderlo dall’altra parte di un solido muro di granito. Un solo muro a separarlo dal futuro, da una vita migliore. Bastava prendere un uomo e fargli annusare tutto questo, fargli capire quello che poteva diventare. Il risultato? Una macchina perfetta.Un asservito.Era vero, sulla Terra i sorrisi potevano fare miracoli.«Falli entrare» Jons parlò al comunicatore da polso installato

nell’orologio, poi si massaggiò il collo. Erano giorni che dormiva male, avvertiva una tensione dietro la nuca e questa cosa lo metteva di cattivo umore. Questa e una donna incinta che provava a entrare nella sua città. Tra le centinaia di asserviti che sgomitavano per la cittadinanza, la IA doveva pescarne proprio una al secondo mese di gravidanza? Scattò in piedi, seccato. Il software che monitorava gli asserviti non aveva mai estratto una donna in attesa. Doveva far controllare i codici dai programmatori.L’Hysia non sapeva che farsene di un bambino.La porta si aprì in uno sbuffo e due figure scivolarono all’interno

della stanza, una donna e un uomo. Lei poteva avere al massimo venti anni, una ciocca di capelli blu sulla faccia. Venne avanti a testa bassa. Alle sue spalle c’era il tizio fastidioso del sindacato, Jons non ricordava il nome. Aveva le guance rosse di chi aveva passato

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l’ultima ora in un club. Anzi, a sentirne il tanfo che emanava, forse l’intero pomeriggio.«Signor Presidente, è un piacere rivederla.» L’uomo stringeva tra le

mani un cappello fino a sbiancarsi le unghie. Sei un falso, disse fra sé Jons. Nessuno di voi feccia ha piacere a rivedermi.«Lei è Sabrina Cheng. Questa mattina gli androidi al varco di

accesso nove l’hanno scartata durante i controlli di routine. È stata nominata dalla procedura per il contributo dato alla Corporazione, ma la sicurezza ci ha invitati ad andarcene…»La giovane non sollevò il capo, tenne gli occhi fissi sul pavimento

come una bambina colpevole che aspettava d’essere punita. Sotto la tuta blu si intravedeva la forma della pancia. Era piccola, non molto sviluppata. A guardarla bene forse non sarebbe riuscita nemmeno a portarla a termine quella gravidanza. Era magra, troppo magra. La pelle di un pallore livido sembrava un velo di carta poggiato sopra le ossa. Jons rimase a osservare la ragazza per qualche secondo con la voce del sindacalista a fare da sottofondo ai suoi pensieri. Non sarebbe sopravvissuta alla prima settimana di Incubatrice. Tanto meglio.«…è inaccettabile. Esigo una spiegazione...»«Esigo?» Jons sollevò un sopracciglio e puntò gli occhi sulla faccia

dell’uomo. «Mi ricordi il suo nome…»«Okawa» suggerì il sindacalista, contraendo la mascella. Goccioline

di sudore imperlavano la fronte piatta.«Signor Okawa, sta forse contestando l’operato della

Corporazione?»Il silenzio piombò nella stanza come una creatura viva. Strisciò tra

le sedie e i mobili da quattro soldi che l’arredavano. La ragazza s’irrigidì, fece un passo di lato e si ritrasse dall’accompagnatore. Il sindacalista rimase a bocca aperta, un’espressione inebetita sulla faccia come se Jons l’avesse appena preso a schiaffi.«Io… be’, non sto dicendo questo…» fece per giustificarsi ma il

Presidente sollevò un braccio e lo interruppe. Un tavolo di metallo li

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divideva. Si trovavano al quarto piano del suo ufficio poco fuori le mura di Sonho-1, nel cuore del distretto industriale. Non permetteva agli asserviti che non avessero guadagnato la cittadinanza di mettere piede nella sua città. Dubrovski l’aveva pregato di incontrare questo Okawa. Il suo assistente diceva che il sindacato aveva intasato la rete con messaggi e richieste d’udienza. Temeva che dopo i tumulti dello stabilimento Xeno-B si sarebbero generate altre proteste nel ghetto.Ah, Dubrovski e le sue paure.

Jons si avvicinò a una finestra che dava sull’agglomerato. Osservò il labirinto di palazzi e antenne paraboliche attraverso le chiazze di sporco che ricoprivano il vetro. In strada, Ian Stern lo aspettava seduto sul cofano dell’auto blindata, le mani infilate nelle tasche dell’impermeabile nero. Due androidi di sicurezza controllavano le vie d’accesso all’edificio, i fucili d’ordinanza puntati verso i vicoli. Essere cauti non faceva male.«Mi dica, caro Okawa, quante donne vivono nel ghetto? È in grado

di fornirmi una stima precisa?»«Beh, dall’ultimo censimento dovrebbero essere… tremila. Sì,

tremila.»«Tremilaquattrocentoventi, per l’esattezza. Mi dica allora perché la

Corporazione dovrebbe volere proprio questa donna.» Si avvicinò alla ragazza, le prese il mento tra le dita e la costrinse a sollevare il capo, a guardarlo negli occhi. «Tu lo sai il perché, vero?» chiese a voce bassa, poi le sfiorò il ventre e sentì che stava tremando. Sorrise e tornò guardare Okawa. «È speciale forse?»Il sindacalista sollevò una lettera spiegazzata e l’agitò davanti la

faccia. «La signorina Cheng ha ricevuto la convocazione…»Jons si mosse, con la velocità con cui i pensieri animano le azioni.Un attimo prima era vicino alla ragazza, l’istante dopo sull’uomo.Colpì Okawa in pieno petto con il taglio della mano, una frustata che

lo mandò a sbattere contro la parete. Era grosso, la corporatura

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massiccia provata da una vita intera di lavoro nelle fabbriche, eppure venne scagliato via come una bambola di pezza.«Ma che cosa sta…» l’asservito puntellò la schiena contro la parete

per rimettersi in piedi, i lineamenti del viso sconvolti dallo shock. Sabrina Cheng stava piangendo. I singhiozzi riempivano la stanza come un brusio che Jons non ascoltava più.Afferrò il collo taurino dell’uomo con entrambe le mani e spinse la

testa contro il muro, una, due volte, poi lo sollevò dal pavimento. Okawa stava ancora scalciando quando lui si volse verso la finestra e lo scagliò contro i vetri. Il vento fece irruzione nella stanza attraverso lo squarcio e strozzò il grido del sindacalista. La lettera di convocazione si sollevò dal pavimento e vorticò nella stanza prima di stamparsi su una parete ammuffita.«La prego, non mi faccia del male» Una voce alle spalle. Jons si

ricordò solo in quel momento della ragazza. «Mi lasci andare. Non lo dirò a nessuno, lo giuro…»Il Presidente si massaggiò il collo, quel maledetto dolore non voleva

andare via.«Credimi, vorrei lasciarti andare via.» L’asservita si era rannicchiata

sul pavimento, le gambe tirate al petto, e lui le accarezzò la testa. «Non immagini quanto vorrei farlo… ma non posso. Questa è un’anomalia, capisci? Un punto bianco nel nero, un’imperfezione nel sistema. Una donna incinta… non riesco ancora a capire come sia potuto accadere. Lei non saprebbe che farsene di te e del mostriciattolo che porti nella pancia. Non saprebbe che farsene di voi, capisci? Non potete entrare nella mia Incubatrice.»Jons afferrò una ciocca di capelli blu e tirò, costrinse la giovane ad

alzarsi.«La prego, no…»«Ti prometto che non farà male. Sarà un attimo.» Mise una mano

intorno alla gola e con l’altra le accarezzò la pancia. Si sorprese di quanto fosse calda.Gli umani erano creature meravigliose.

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Scagliò la ragazza nel vuoto, oltre i vetri, senza prendere rincorsa.Il Presidente si concesse un attimo per lisciare la giacca, sistemò il

nodo della cravatta e si avvicinò al buco nel vetro. Osservò la chiazza di sangue allargarsi sull’asfalto, lì dove i corpi dei due asserviti giacevano spezzati. Sembravano bambole rotte abbandonate in strada. Ian Stern si era avvicinato ai cadaveri e li fissava piegando il capo di lato. Sollevò il mento verso la finestra e una folata di vento gli gonfiò l’impermeabile. Jons tornò a sorridere.

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IISue Lin sciolse i capelli legati con un fazzoletto. La brezza della sera

le sfiorò il viso, le concesse un attimo di sollievo. Alle sue spalle, lo stabilimento Xeno era un mostro di cemento, un mausoleo sovrastato da silos in acciaio che puntavano contro il cielo. Le pareti erano vaiolate da chiazze melmose che scorrevano dalle tubature aggrappate ai muri. Simili a spettri, gli asserviti defluivano in silenzio fuori dall’ingresso della fabbrica. Il capo chino, lo sguardo fisso sulla punta delle scarpe, nascondevano il volto in piccole nuvole di fumo, sigarette rollate in un gesto compulsivo. Dopo quattordici ore consecutive alle catene d’assemblaggio, la nicotina modificata era una liberazione.Androidi. Montaggio e installazione di componenti meccaniche per

unità di sicurezza. Destinazione Sonho-1.Sue strinse in pugno la lettera. Sulla busta c’era il suo nome. Il sigillo

della Corporazione era ancora inviolato. Si era rigirata la busta tra le dita senza avere il coraggio di aprirla. Sapeva cosa c’era dentro, conosceva persone che avevano ricevuto quella convocazione il giorno prima di sparire. Si diventava cittadini, ecco cosa significava. Ti presentavi alle mura mostrando il foglio e potevi dire addio alla tua vecchia vita di merda. I punti accumulati con il lavoro in fabbrica servivano a comprare un biglietto di sola andata per la salvezza. Sollevò il mento. All’orizzonte, sopra la teste dell’esercito di tute blu che la precedeva, sui tetti degli edifici del ghetto, c’erano le luci di Sonho-1. La città le toglieva sempre il respiro. Gli edifici sembravano sfidare il cielo, i neon delle insegne erano macchie distorte di viola e blu che laceravano la foschia e i vapori della notte.«Eccolo lì, puntuale come ogni sera.»La voce di Morna, il suo vicino di postazione, la fece sussultare.

Ficcò la busta nella tasca dei pantaloni e sorrise. Colse la sagoma di Tyler ergersi come un lampione al termine della strada.

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«Quando ti decidi a sposarlo?» Morna l’affiancò, il volto nascosto dal cappuccio e una sigaretta tra le labbra.«Quante volte devo ripeterti che è solo un amico?»«Sì, certo. Come no» il compagno le diede una pacca sulla spalla e

aumentò il passo. Fece un cenno col capo a Tyler, che lo guardò senza batter ciglio.«Che vuole quel tipo?» le chiese. Sue Lin infilò un braccio sotto il

suo e sorrise nel guardare l’espressione accigliata sul volto del ragazzo. Una cicatrice gli segnava la faccia dal mento fino all’orecchio, cicatrice che Tyler provava a nascondere dietro una ciocca di capelli neri.Ripresero a camminare per raggiungere la fermata

dell’autotrasporto. Alla loro destra, il mare s’infrangeva su giganteschi blocchi di cemento, una barriera a protezione della costa: schizzi solitari, sollevati dal vento, graffiavano la faccia come schegge di vetro.«Come è andato il turno?» chiese all’amico, nascondendo il mento

sotto il collo della tuta da lavoro. Sentiva la lettera muoversi nella tasca a ogni passo, strusciare contro la fodera dei pantaloni, e si chiese se anche lui l’avesse ricevuta. Voleva parlarne, condividere la notizia con lui, ma qualcosa la fece desistere dal farlo e si sentì meschina. Stava mentendo al suo amico. Loro non avevano mai avuto segreti.«Solita merda» il giovane sputò e la sua voce la riportò alla realtà.

«Dopo quello che è successo allo Zen, la gente guarda bene prima di premere anche un solo bottone. Oggi il controllore ha dovuto urlare due volte perché il ritmo era calato. Ha minacciato di chiamare la sicurezza.»«La gente ha paura.»«Vero, ma io ho ancora più paura degli androidi. Ricordi cosa è

successo due anni fa?»Sue Lin annuì. Gli asserviti nello stabilimento minerario Xeno-B

incrociarono le braccia per tre giorni. Venti operai erano morti in

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una frana, nessuno aveva voglia di sparire, inghiottito dalla terra. Tre giorni di blocco della produzione, poi la Corporazione aveva mandato gli androidi e il giorno dopo era arrivata gente nuova a timbrare il cartellino, a colmare i vuoti. Come si poteva dimenticare?Il bus li aspettava al termine della strada. Un ammasso di ruggine,

acciaio e lastre di vetro scheggiato, un catorcio su otto ruote, i cui fari erano occhi gialli nella coltre fumosa. Salirono sul veicolo, abbozzando un saluto all’autista. Presero posto, le poltrone rivestite da sintopelle logora, i bordi mangiucchiati da cui sbucava spugna sbiadita.Sue, come al solito, era seduta vicino al finestrino. Amava poggiare

la fronte contro il vetro e osservare Sonho-1 durante il tragitto che la riportava al ghetto. Osservava le forme degli edifici, le pareti di cristallo, le luci e sognava d’essere dall’altra parte del muro. Il bus superò una curva e lei vide la forma appuntita dell’Hollywood. Le lettere bianche dell’insegna erano segnate da bordi rossi, pulsanti. Un centro commerciale, le disse una volta l’autista. Un grattacielo in cui i cittadini di Sonho-1 potevano trascorrere intere giornate facendo acquisti, spendendo i crediti della Corporazione. Immaginò se stessa spingere un carrello, perdersi tra gli scaffali, nella moltitudine di prodotti esposti. Vedere un vestito, uno di quelli indossato dalle annunciatrici sugli schermi al plasma nel ghetto, e correre a comprarlo. Indossare qualcosa di diverso dall’uniforme rattoppata e sporca e incontrare gli amici in uno di quei ristoranti di lusso sullo Shangai Boulevard. Niente più unghia spezzate e sporche di grasso, niente più cibo grigio consumato in un angolo grigio. Se la misera sopravvivenza avesse avuto un sapore, sarebbe stato quello della merda che mangiava ogni giorno per stare in piedi.Sue sognava a occhi aperti un’esistenza non da asservita, cullata dal

brusio di voci dei passeggeri. Si voltò, anche Tyler guardava fuori dal vetro, gli occhi neri spalancati, quasi fosse ipnotizzato. Sentì il peso della busta premuto contro la gamba e pensò che quello fosse il

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momento giusto per dirglielo. Dischiuse le labbra e fece per parlare, ma lui la anticipò.«Quanto pensi che manchi per ottenere la cittadinanza?» le chiese

sottovoce.«Troppo» sussurrò Sue. Chiuse le palpebre per un istante e ingoiò

quello che aveva in testa.«Ci siamo.»La voce di Tyler seguì il fischio dei freni. Quando scesero in strada

le luci del Blast Bar li accolsero in uno squallido abbraccio. Due ragazze ubriache si trascinarono fuori dal locale per alcuni metri, poi una delle due cadde in un frastuono di risate, rischiando di trascinare anche la compagna con sé.«Casa dolce casa» sospirò Sue mentre fissava un drogato di

anezetamolo con un braccio teso a chiedere l’elemosina.Si confusero nella penombra di un vicolo che puzzava d’urina, le

voci e la musica si attutirono mentre si allontanavano dalla strada principale. Quella era la loro scorciatoia. Permetteva di tagliare in due il distretto in cui vivevano fino alla casa comune della Signora Hwong. Lo percorrevano ogni sera alla fine del turno, un tratto che Sue era in grado di fare a occhi chiusi. Anche ora, tutto sembrava essere al proprio posto: le pozzanghere, i cocci di vetro, la spazzatura, i graffiti sbiaditi sulle pareti. Elementi di un unico quadro, un dipinto in disfacimento. Tutto le sembrava familiare, tutto tranne la faccia butterata di Ivan Kreug.«Ma guarda un po’ chi si vede» sibilò Kreug emergendo

dall’oscurità. Due ragazzi erano alle sue spalle e sorridevano.Sue conosceva quella gente, volti che aveva da sempre imparato a

evitare. La loro presenza in quel vicolo le fece gelare il sangue nelle vene. Si voltò verso la strada da cui lei e Tyler erano venuti.«No no» disse un quarto uomo, scuotendo la testa. Era apparso alle

loro spalle e non se ne erano nemmeno accorti.Tyler fece un passo in avanti facendole scudo con il proprio corpo.

Lin si ritrovò a stringere il suo braccio.

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«Che cosa vuoi, Kreug? Lo sai che non abbiamo crediti» disse l’amico con voce non del tutto ferma.«Primo, voglio che ti togli dal cazzo.» Ivan si diede una pacca sul

ventre prominente. Rispetto a Tyler era enorme, una montagna di lardo e brufoli. «Secondo, mi stai offendendo. Pensi che io, o i miei amici qui, siamo gente che va in giro a chiedere crediti? Se avessi voluto soldi, avrei passato la giornata a spaccarmi la schiena in una fabbrica proprio come te, stronzo. Adesso fai il bravo, non farmi perdere tempo. Gira i tacchi e lasciaci soli con la tua amichetta.»Sue sentì il panico bucarle lo stomaco. Era paralizzata, le gambe

inchiodate all’asfalto, i timpani assordati dal battito del cuore. Tutto parve succedere troppo in fretta, precipitarle addosso senza lasciarle via di fuga.Il tizio che era alle sue spalle l’afferrò per un braccio. Tyler reagì,

girandosi di scatto. Piantò il gomito nella faccia di quel tipo e lo spinse di lato.«Scappa Sue!»Tyler la strattonò per la tuta, la trascinò per alcuni metri. Poi i lupi

azzannarono.Sue inciampò e cadde. Vide Tyler lottare, i pugni che fendevano il

vuoto un istante prima che la lama di un coltello, snudata nel buio, sparisse nel suo addome.La ragazza provò a rimettersi in piedi, si morse il labbro. Kreug le

venne vicino senza fretta, un sorriso stampato sulla faccia. Le tirò i capelli e la costrinse a girarsi sul dorso.«Adesso ti faccio stare bene, piccola.»«Ti prego, no… aspetta…»Sue cercò di sottrarsi al tanfo di sudore, al peso del corpo di quel

bastardo, alla lingua che le raspava il collo mentre lui armeggiava con i bottoni della tuta.Kreug le strappò i pantaloni. Lin gli conficcò le unghie nella faccia e

lui ringhiò, le assestò uno schiaffo che le fece quasi perdere i sensi. Sue avvertì il tocco dell’aria gelida sulle cosce, sentì il respiro venirle

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meno. L’uomo le stringeva la gola con una mano, la teneva incollata al suolo. Tyler la stava chiamando, udiva la sua voce smorzata dai tonfi del pestaggio, dal lamento delle ossa schiantate.Sue si lasciò andare. I muscoli di braccia e gambe si sciolsero, il

cuore rallentò il battito quasi fino a fermarsi. La sua mente volò altrove, lontano da quel vicolo, lontano da Kreug e dai suoi amici. Sue si rifugiò dove le mani di nessun uomo potevano toccarla, in un posto dove si sentiva a casa. Fluttuava nel vuoto, cullata dalla luce di stelle lontane, i pianeti erano sfere opache che affollavano l’Universo. Sotto di lei, la Terra era una sfera azzurra. Precipitò e la sensazione di pace che l’aveva pervasa mutò, divenne un vortice che le attorcigliava le budella, un’energia che le trasformava il sangue in fuoco. Riaprì di colpo gli occhi e, quando vide il volto brutale dell’uomo che voleva stuprarla, gridò.Un urlo lacerante, che prese l’aria intorno a lei e la trasformò in

detonazione.Kreug fu afferrato da artigli invisibili, sollevato in tutta la sua mole e

sbattuto contro una parete in fondo al vicolo. I compagni, curvi su Tyler, finirono a gambe all’aria. Le teste risuonarono nell’impatto con il cemento. I vetri andarono in frantumi, i pilastri degli edifici sussultarono.Sue si rialzò, colta da un senso di capogiro. I palmi delle mani le

sanguinavano. Aveva stretto i pugni con tale forza che le unghie si erano conficcate nella carne. Tirati su i pantaloni, si trascinò fino a Tyler che si teneva le mani premute sull’addome insanguinato, il volto era un mosaico di escoriazioni.«Dobbiamo andare, Ty. Dobbiamo andare.»La ragazza si fece passare un braccio dell’amico sopra le spalle. Fece

forza sulle gambe e strinse i denti prima di spingersi fuori dal vicolo.«A casa… a casa…» farfugliò Tyler.Sue ritornò sulla strada principale. Non si accorse che le ombre si

erano staccate dagli angoli degli edifici, erano strisciate sull’asfalto fino ad assumere i contorni di una sagoma.

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Sue non si rese conto che quella sagoma li stava seguendo.

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III«Resta con me, Tyler.» Sue arrancò, trascinando l’amico con sé.

Sentiva che lui stava mollando, diventava a ogni passo più pesante. La pioggia martellante la costringeva a tenere gli occhi socchiusi. La strada era affollata, figure strette nei parka, forme indefinite che la guardavano con indifferenza, si scansavano al suo passaggio.Sollevò lo sguardo sopra la spalla, temendo d’essere seguita. Ogni

movimento sembrava quello dei suoi assalitori, ogni voce le ricordava la voce di Kreug. Nemmeno la pioggia riusciva a toglierle dal corpo la sensazione d’essere stata stretta dalle mani di quel bastardo. La paura d’essere braccata era trasformata in adrenalina che la spingeva ad andare avanti.«Lasciami… qui…» la voce di Tyler era un sussurro, la scia di sangue

sulla strada segnava la sua agonia. Le gocce si dissolvevano, cancellate dalla pioggia, portando a ogni passo un pezzo della sua vita.«Non ti lascio, dannazione!»Sue ringhiò come uno di quei cani dei combattimenti clandestini.

Nel corpo c’erano ancora le tracce della sua reazione. Un’alterazione dei sensi, un’energia che non riusciva a spiegarsi. La gola le bruciava, avvertiva un calore nel petto, come se il cuore fosse stato stritolato da un pugno di fuoco. Barcollava, la mente attraversata da dubbi. Che cosa aveva fatto? Le era già capitato di perdere l’attimo, di rifugiarsi in un mondo solo suo. I bambini l’avevano chiamata “Sue la matta” per questo. Ma mai, mai prima d’ora era stata in grado di fare del male agli altri.Scrollò il capo e continuò a trascinarsi in avanti.Le luci dei bazar erano spettri rossi che danzavano sotto la pioggia.

Sue svoltò un angolo e si ritrovò in uno spiazzo circondato da edifici ricoperti da crepe e graffiti. Era a pezzi, sentiva che stava per cedere, la lucidità andava svanendo. D’un tratto le strade le sembrarono

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tutte uguali, ogni vicolo, ogni insegna: i punti di riferimento di quello che per diciannove anni era stato il suo mondo le erano diventati estranei.Il braccio con cui Tyler era appoggiato alle sue spalle cominciò a

scivolare. La stretta si allentò e quando lei se ne rese conto fu troppo tardi. Crollarono in avanti e l’urto le tolse il respiro. L’asfalto le pestò uno zigomo. Rimase per qualche secondo immobile, un sapore di rame in bocca, poi sollevò il capo. Gocce d’acqua gelida le sferzavano la faccia, si mescolavano al sapore del sangue sulle sue labbra. Tastò la schiena di Tyler e lo scosse. Non si muoveva, il volto premuto sul catrame sbrecciato. Temette che fosse morto e avvicinò l’orecchio, tirò un sospiro di sollievo quando si accorse che respirava ancora.«Ty, devi aiutarmi» Sue si tirò in piedi. Aveva un taglio al mento ma

ignorò il dolore. Provò a girare il compagno sulla schiena. Era troppo pesante. «Non ce la faccio da sola.»Un movimento.La ragazza si asciugò la faccia con un braccio e sbatté le palpebre.

Cercò di mettere a fuoco la figura. C’era un uomo immobile, proprio davanti a lei. Una statua nera nella pioggia.«Che vuoi?» sputò fuori quelle parole con rabbia.Avvertiva vibrazioni nel petto, l’idea che quanto accaduto nel vicolo

con Kreug non fosse ancora finito dentro di lei. Contrasse i muscoli del collo. Era pronta a difendersi, in qualsiasi modo.L’individuo non rispose. Il volto era nascosto da un cappuccio tirato

fin sopra il naso. Una barba arruffata gli cadeva sul petto e due oggetti scuri gli sporgevano dalle spalle battute dalla pioggia.«Che cosa vuoi?» ripeté, staccandosi una ciocca di capelli dalla

faccia.L’uomo fece un passo in avanti. Le tese la mano.

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Kain era stregato dagli occhi della ragazza. Blu come il cielo dei tempi dimenticati, come il mare delle estati cancellate dall’uomo e dalla sua stupidità, dall’istinto primordiale a distruggere, a distruggersi. Si morse il labbro. Era spossato da una ricerca fatta di sforzi per mettere insieme pezzi della sua esistenza, ricordi che dovevano essergli appartenuti in questa vita, o in quelle precedenti. Sotto i vestiti, la fredda carezza delle piastrine gli ricordava chi era. Dietro le spalle, il peso delle spade gli dava una ragione.Fissò quel blu, prigioniero nelle iridi della ragazza, e la sua mente

vacillò sconvolta da un’esplosione di immagini.Ricorda perché vivi.Era nella giungla, stretto tra lo scorrere di un fiume e la morsa della

vegetazione. Il sole era alto e picchiava sulla pelle. Le voce del vecchio gli riempiva la testa. Quello era il suo modo di comunicare, una scheggia che scalfiva la corteccia cerebrale, i suoi occhi a mandorla erano ridotti in fessure mentre lo incalzava con le spade di bambù. Sopra, sotto, punta verso la gola, stoccata trasversale. Era instancabile, il corpo agile come un felino, i muscoli scattanti sotto le pieghe della tunica.Ricorda chi sei. Ricorda perché vivi.Kain digrignava i denti e parava gli attacchi facendo turbinare le

braccia. Per quanto si sforzasse di superare i limiti che gli erano stati imposti dalla natura, non sarebbe mai stato alla sua altezza. Ne era convinto, ma non si era arreso. Lui aveva uno scopo. Era stato il vecchio a dirglielo, il giorno che l’aveva raccolto mezzo morto sulla riva del fiume. Nel 1968.Strinse la mano della ragazza e l’aiutò a rialzarsi. Aveva visto cosa

era stata in grado di fare in quel vicolo e ora il cuore gli batteva all’impazzata, assordante. La sua vita al servizio dei segni. Assistere e restare immobile. Guardare il mondo cambiare, vedere gli uomini cadere e rialzarsi. Scoprire l’amore e poi dimenticarlo. Conoscere l’odio, la rabbia, la paura. Incrociare lo sguardo della morte e voltare

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il capo dall’altra parte. Impotente, senza interferire. Tutto e solo per una ragione. Un’unica ragione.Ricorda perché vivi. I segni.La ragazza gli stava parlando, ma lui non le prestava ascolto. Aveva

atteso e ora capiva il perché. Avrebbe voluto gridare, ridere come un folle. Tutto questo tempo. Forse era davvero folle, ma non perse il controllo. Poteva spaventarla, il suo amico era stato ferito, e lui doveva aiutare.Prese quel ragazzo in braccio. Ne sentiva il peso, vedeva il suo volto

pallido, le labbra livide.«Guidami in un posto sicuro.» Ascoltò il suono della propria voce,

profonda, cavernosa.La giovane parve indugiare, il viso da bambina segnato da pioggia e

lacrime. Fece un piccolo passo verso di lui, poi notò le spade e si bloccò. Kain iniziò a irritarsi. Sollevò le braccia, mostrandole il compagno ferito.«Cosa aspetti? Vuoi che muoia qui?»La ragazza spalancò gli occhi, si guardò un istante intorno, quasi

stesse ricordando la strada giusta, poi iniziò a correre.«Da questa parte» gridò, imboccando una strada tra due edifici

sbrecciati.Le andò dietro, correndo sotto la pioggia. Sopra i tetti, oltre la cappa

di nuvole scure che avvolgeva Sonho-1, c’erano risposte a domande taciute.Kain Lewis seguì la ragazza. Andò incontro al destino.

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ANTONIO LANZETTAè nato a Salerno e con i suoi romanzi, WARRIOR e REVOLUTION,

sempre editi da La Corte Editore, ha conquistato pubblico e critica, affermandosi come uno dei più talentuosi scrittori italiani. Con questo racconto breve sperimenta un nuovo genere e arriva tra finalista della 42° Ed. del Gran Giallo di Cattolica, ppatrocinato da Mondadori.

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IndiceCopertinaNella pioggiaAnteprima RevolutionPrologoCapitolo 01Capitolo 02Capitolo 03Antonio Lanzetta


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