Claudio Bonechi (clavicordo)
NUMERI E COMUNICAZIONE
30 September 2015
Noi tutti usiamo i numeri con grande disinvoltura e non capita spesso di farsi domande sulla loro
natura. Se ne studia qualcosa a scuola e, al di là del corso universitario di matematica, i numeri
vengono usati secondo i criteri pratici suggeriti dalle necessità di turno. Gli informatici e anche gli
elettronici hanno dimestichezza con il sistema binario e la maggior parte di loro sa anche perché
i computer lo preferiscono a quello decimale. Lo stesso dicasi per la comunicazione. Nel nostro
mondo sempre più digitale numeri e comunicazione sono sempre più correlati.
Numeri
Il discorso generale sui numeri è indubbiamente molto complesso, soprattutto guardandolo dal
punto di vista storico e nella sua interazione con il linguaggio verbale.
Sigrid Agren - Numero Magazine Cover [France] (November 2012)
I numeri sono entità concettuali, intuitivamente associati al concetto astratto di quantità, che noi
possediamo in modo intuitivo, fin da bambini. Quando impariamo a contare sappiamo indicare la
quantità di oggetti con un nome, detto “numero”, che cambia proprio come cambia la quantità. Ciò
significa che ogni volta che si aggiunge un oggetto all'insieme di partenza serve un nome diverso
per indicarne la quantità (1, 2, 3,.. sono nomi che indicano quantità). In tempi antichi, quando
nacque l’esigenza di dare un nome alle quantità, i nomi dei numeri erano pochi: da un certo punto
in poi, bastava dire qualcosa di simile a “molti”.
Poi le necessità economiche imposero di diventare più precisi e, per non dover gestire troppi nomi
diversi, si inventò la composizione dei nomi delle quantità a partire da pochi simboli. Questa
“invenzione”, ossia il comporre, accostare pochi simboli lungo una linea ideale, orizzontale o
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verticale, per formare una “sequenza” (simile parola scritta) che a sua volta diventa un simbolo,
con funzione di nome, costituisce un salto evolutivo notevolissimo nella direzione dell’astrazione
logico-matematica, senza la quale nessun pensiero economico o scientifico è possibile. Il
procedimento detto “composizione” permette di ottenere una grande quantità di nomi tutti diversi
utilizzando pochi simboli “componenti”.
I Romani (e non solo loro) adottarono un criterio “additivo” nella composizione: la numerazione
romana è proprio di questo tipo. Le bastano pochi simboli, presi a prestito dall'alfabeto, per
rappresentare quantità fino alle migliaia e anche oltre, ma in modo sempre più scomodo. Il
criterio era già per ordini di grandezza (su base 10): la posizione dei simboli era significativa, ma
poco “lineare”. Inoltre questo sistema non consentiva operazioni matematiche ed era per questo
necessario un aiuto esterno, l’abaco.
Nel medio evo il matematico Leonardo da Pisa (figlio di Guglielmo dei Bonacci, da cui Fibonacci)
importò lo zero, appreso dagli arabi, che a loro volta l’avevano imparato dagli indiani. Si diffuse la
rappresentazione “posizionale” indiana, che sostituì quella additiva: si usavano dieci simboli
specifici (le cifre 0, 1, …, 9), attribuendo un significato di “potenza” alla posizione della cifra. Questo
significato della posizione poteva funzionare solo con la presenza dello zero, che indicava l’assenza
di quella certa potenza di 10. Il sistema posizionale era già noto a Cinesi, Babilonesi e Maya, però
non era evoluto come quello indiano, tuttora in uso. Si scoprì poi, molto dopo, che il 10 era solo una
delle possibili “basi”, scelta per il suo legame con le dita. Altri popoli avevano usato basi diverse,
come 12 (associata alle falangi delle 4 dita opposte al pollice, che fa da cursore, o ai 12 mesi), 60
(usato in astronomia e associato ai 360 giorni annuali ossia 12 mesi lunari di 30 giorni), ma anche
5 (una sola mano) e 20 (mani e piedi). Nel 1913 da una statistica tra centinaia di tribù del Nord
America emerse che il 31% faceva uso di una base 10, il 31% di una base quinaria-decimale, il 27%
di una arcaica base 2, il 10% di una base vigesimale e l'1% di una base 3.
La base 10 trionfò in occidente per almeno due motivi.
1. E’ un compromesso efficace tra possibilità della memoria umana di ricordare simboli diversi
e capacità di rappresentare grandi quantità: una base più grande, come la base 60, permette
rappresentazioni sintetiche (“parole” di poche cifre) ma non è facile ricordare 60 simboli diversi;
d’altra parte, la base 2 si ricorda bene, ma richiede parole molto lunghe e di nessuna immediatezza
(qualcuno sa dire subito che quantità è 10011010110001 ? 9905).
2. L’imporsi degli indoeuropei nel mondo occidentale, perché essi fornivano una sola lingua
Numeri arabi e indiani
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madre (ma questa affermazione viene oggi contestata da alcuni), ciò che facilitava notevolmente
la diffusione delle idee. Storicamente la scelta della base 10 si è definita in maniera quasi ufficiale
e politica con le decisioni prese dalla Convenzione di Parigi dopo la Rivoluzione francese che
disciplinò anche i sistemi di misurazione almeno per ciò che riguarda l'Europa continentale.
L’altra grande rappresentazione simbolica che l’uomo ha conquistato nella storia recente (qualche
millennio) è la scrittura verbale. Dopo la scrittura pittografica (sequenze di immagini delle
cose, come il disegno del sole) viene quella ideografica, in cui l’ideogramma rappresenta un’idea,
come gli attuali cartelli stradali). Si passa poi alle scritture sillabico-alfabetiche, fondate sulla
rappresentazione non più di cose o idee ma dei suoni della lingua parlata. Gli alfabeti sono raccolte
di simboli (caratteri) con i quali si compongono sequenze che rappresentano le parole della lingua.
La “base” del linguaggio verbale scritto è costituita da una quantità di simboli variabile, intorno a
20 - 30. In tal modo non è necessario ricordarsi centinaia o migliaia di simboli ideografici.
Quando noi diciamo “numero” intendiamo in realtà almeno tre cose: la quantità, il nome associato
alla quantità e il simbolo che la rappresenta. Le tre cose sono concetti astratti. A volte invece il
numero assume funzione di etichetta, di indicatore, di nome di un oggetto. Ma alla fine è necessario
disporre di qualcosa di fisico per rendere il numero comunicabile in concreto. Questo qualcosa,
detto “segnale”, è stato fino a non molto tempo fa una traccia fisica visiva (inchiostro su pelle o
carta, incisioni su pietra) che è anche una memoria, o un evento acustico specifico (parole che
pronunciano i nomi delle quantità, nella lingua in uso). Soltanto negli ultimi decenni hanno preso
il sopravvento i segnali elettromagnetici.
Comunicazione
La comunicazione, la necessità di comunicare in modo preciso, razionale, inequivocabile, è
la prima motivazione che ha stimolato l’umanità a sviluppare la scrittura verbale e i numeri.
Poiché la comunicazione utilizza segnali fisici (che sono sempre fatti di energia) per trasportare
informazione da un soggetto a un altro, se i segnali sono relativi a simboli (e non sono per esempio i
tratti di un disegno), è indispensabile la presenza e l’utilizzo di un sistema di regole di associazione
tra segnali (che fanno parte a loro volta dei “significanti”) e significati: tale sistema è detto “codice”,
sul quale ritorneremo. Si tratta in realtà di insiemi di regole, a volte fatte di corrispondenze
biunivoche, a volte di relazioni anche molto complicate. “Codice” è una parola dai molti impieghi,
che infatti crea spesso confusione.
Geroglifici egiziani
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Anche se viene studiata da sempre, la comunicazione ha avuto una sistemazione scientifica solo
a partire dagli studi di linguistica dello svizzero Ferdinand de Sassure (1857-1913), il quale, nel
suo “Corso di linguistica generale”, introdusse i concetti di base della semiologia (o semiotica),
tra cui quello di significante e significato. La semiotica, di cui la linguistica doveva essere solo
una parte - quella, appunto che riguarda il linguaggio parlato e scritto - è la “Scienza generale dei
segni, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si
significa qualcosa, o si produce un oggetto comunque simbolico” (Treccani). E che cos’è il segno?
“il segno è in generale "qualcosa che rinvia a qualcos'altro" (per i filosofi medievali "aliquid stat pro
aliquo")” e la semiotica studia i fenomeni della significazione. “Per significazione infatti si intende
ogni relazione che lega qualcosa di materialmente presente a qualcos'altro di assente (la luce rossa
del semaforo significa, o sta per, "stop"). Ogni volta che si mette in pratica o si usa una relazione di
significazione si attiva un processo di comunicazione (il semaforo è rosso e quindi arresto l'auto).
Le relazioni di significazione definiscono il sistema di segni che viene a essere presupposto dai
concreti processi di comunicazione”. Mentre il significante è qualcosa di fisico che veicola energia,
il significato è un concetto, o un'immagine mentale, o uno stato d'animo. Per esempio la parola
\fiore\ è un significante che rimanda all'immagine mentale di un fiore qualsiasi, che ha come
referente un fiore concreto, che noi abbiamo visto e vediamo da qualche parte.
Significante e significato sono naturalmente legati al "referente", ossia ciò che diviene oggetto della
comunicazione, ciò che viene significato: il tutto viene tradizionalmente espresso con il "triangolo
del segno".
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Ad esempio, nel semaforo, la luce rossa è il significante, l'immagine mentale di "stop" è il
significato e il comportamento da tenere in presenza del semaforo è il referente. Molti dei codici
della comunicazione quotidiana sono impliciti o sono stati appresi in tenera età. L’associazione tra
il segnale “luce rossa” e l’azione “stop” la impariamo da bambini, così come impariamo il codice
della nostra lingua madre, prima parlato e poi scritto. Altri codici li impariamo successivamente
a scuola e in generale tramite l’esperienza, a volte non piacevole. La famosa “età critica”
dell’adolescenza deve questo attributo negativo in gran parte proprio alla difficoltà di apprendere i
codici impliciti del comportamento nei rapporti interpersonali, specie quelli amorosi.
Capire qualcosa nella semiotica, che dovrebbe spiegare appunto la natura e l'uso dei segni, non è
stato per niente facile, almeno per me. L'argomento ha tante facce, è piuttosto intricato e pieno
di termini in apparenza astrusi. Cercherò di accennarne solo i tratti che mi sembrano salienti,
ovviamente senza alcuna pretesa di completezza.
Codice
Come dicevo prima, la parola “codice” è fonte di confusione, perché si applica a molti contesti,
sia diversi (e allora è più facile orientarsi) sia simili o apparentemente simili (e qui le cose si
complicano): codice civile, penale, della strada, manoscritto, comunicativo, postale, etico, ASCII,
di programmazione, QR, ...). I codici riguardano infatti molti aspetti della comunicazione. La
maggiore fonte di ambiguità, spesso pericolosa, quando vogliamo comunicare, riguarda la
distinzione tra un oggetto e la sua rappresentazione, o, in forma di metafora, tra “territorio”
e “mappa del territorio”: sono due cose diverse, sembra ovvio. Eppure l’esperienza dimostra che
tanto ovvio non è… Molte barzellette, tra l’altro, si fondano su questa confusione, come anche molti
paradossi matematici e logici.
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A me sembra che un po’ di luce sia venuta dal modello di Hjelmslev, un linguista danese
(1899-1965), che riprende e sviluppa l’impostazione di De Saussure. Il modello nasce nella
linguistica ma lo si può estendere a qualsiasi sistema di segni.
Per Hjelmslev ogni sistema linguistico ritaglia nella “materia” della comunicazione due piani:
quello dell’espressione e quello del contenuto.
L’atto di questo “ritagliare” è chiamato funzione segnica, per la quale i segni vengono scelti
e combinati secondo certe finalità comunicative, quelle che un soggetto ha verso altri soggetti
(esseri umani, animali, macchine). La funzione segnica si realizza quando espressione e contenuto
entrano in relazione, anzi in correlazione. Tale correlazione è di tipo convenzionale: è definita,
esplicitamente o implicitamente, dal contesto sociale in cui viene usata. Ma la stessa espressione
o lo stesso contenuto possono anche entrare in correlazione con altri elementi, dando così origine
a un'altra funzione segnica. Basti pensare a una espressione come |piano|, per cui possiamo
registrare una notevole serie di contenuti («livello», «progetto», «lentamente», «strumento
musicale» ecc.): ecco che abbiamo identificato almeno quattro funzioni segniche, |piano|=W,
|piano|=X, |piano|=Y, |piano|=Z.
La materia dell’espressione è, in linguistica, il puro suono che precede ogni linguaggio; in senso
generale è qualsiasi configurazione della materia o dell'energia che possa essere decodificata da un
ricevente.
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La materia del contenuto non è altro che il magma indistinto dei nostri pensieri, delle nostre
emozioni, delle nostre percezioni (e quindi della nostra esperienza del mondo esterno).
Ognuno dei due piani, espressione e contenuto, è a sua volta diviso in due parti: forma e
sostanza.
• Sostanza dell’espressione: è il livello fisico immediato del segno, la “materialità” con
cui esso si presenta alla nostra percezione (Es.: la voce articolata, studiata dalla fonetica).
• Forma dell’espressione: è l’ordinamento arbitrario, strutturato e formale degli
elementi costitutivi col quale si presenta la sostanza dell’espressione (la fonologia, la
morfologia di una lingua).
• Forma del contenuto: è l’insieme di relazioni logiche che danno forma al mening
(materia o senso) e corrisponde quindi alla sintassi.
• Sostanza del contenuto: è il valore “semantico” (ossia legato al significato) delle unità
così ritagliate (è quella porzione della “materia” ritagliata dalla forma del contenuto).
Questa quadripartizione è costitutiva di ogni funzione segnica.
Processo e sistema
In ogni linguaggio ci sono due “assi”: un asse del processo (detto anche sintagma),
convenzionalmente rappresentato da una linea orizzontale, e un asse del sistema (detto anche
paradigma ) , convenzionalmente rappresentato da una linea verticale perpendicolare alla prima.
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Dovendo comporre una frase sceglierò alcuni termini - cioè alcuni segni verbali – che mi sono
stati forniti dalla mia conoscenza linguistica (sistema) e li combinerò tra loro in base a una serie di
regole di combinazione, logiche e di senso (processo).
Se, dunque, ritroviamo segni sia a livello di processo che a livello di sistema, diversa è la natura di
questi segni, e diverse sono le relazioni che essi intrattengono tra di loro.
Quello che è immediatamente osservabile è il processo (asse orizzontale), che nel caso del
linguaggio verbale Hjelmslev chiama testo. Il processo si svolge tramite un succedersi di funzioni
segniche.
Il processo ha natura lineare, ha una progressione spazio-temporale. Ciò che conta non è la
direzione, ma l’ordine posizionale (come nel semaforo). Esempio del numero di telefono:
00-39-011-9628730 in cui 00 = Chiamata internazionale 39 = Italia 11 = Distretto di Torino 962 =
Centrale telefonica (al di fuori della rete urbana di Torino) 8730 = Utente.
Il processo utilizza dunque i segni del sistema e si svolge in generale sia sul piano dell’espressione
che sul piano del contenuto.
La funzione segnica si serve cioè di un sistema di segni (asse verticale), detto “codice”, che
stabilisce, come già accennato, le relazioni tra i segni.
Il codice contiene dunque le regole di associazione sia in senso “orizzontale” (associazione tra
elementi dell’espressione, o tra elementi del contenuto) sia in senso “verticale” (associazione tra
i due piani, ossia elementi dell’espressione ed elementi del contenuto). Se facciamo l’esempio dei
segnali stradali, l’associazione orizzontale è costituita da alcune caratteristiche comuni di forma
per le quali noi individuiamo un cartello come “segnale stradale”. L’associazione verticale è invece
quella che lega la figura del segnale al comportamento previsto per l’automobilista.
Solo la presenza di codici “verticali” rende possibile la comunicazione, ossia lo scambio di segni
(o meglio di funzioni segniche) che, per definizione contengono espressione (o “significante”) e
contenuto (o “significato”) associati tra loro.
Un’altra condizione indispensabile per la comunicazione è che l’emittente e il ricevente
condividano lo stesso codice (“parlino la stessa lingua”) durante lo scambio di messaggi (i
messaggi sono insiemi di segni); anzi, sarebbe meglio dire “gli stessi codici”, perché i codici che
realizzano la comunicazione sono spesso più di uno. Per esempio nel linguaggio verbale, oltre alla
lingua, c’è un codice sul piano dell’espressione: parlato o scritto. Se uno sa la lingua ma è analfabeta
e il linguaggio è solo scritto, non potrà avere luogo alcuna comunicazione.
Si usa suddividere la comunicazione in tre livelli:
• Sintassi: relazioni formali tra segni (piano dell’espressione)
• Semantica: significato dei segni (piano del contenuto)
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• Pragmatica: relazione dei segni con i comunicanti (effetti della comunicazione sui
riceventi: comportamenti, emozioni, etc.)
Come appare chiaro (spero...) in questo articolo ho cercato di dare più rilievo ad alcuni aspetti della
sintassi.
Modello di Hjelmslev applicato alle telecomunicazioni e all'informatica
Ora possiamo chiederci come si collocano le telecomunicazioni e l’informatica, spesso riunite nella
cosiddetta Information and Communication Technology, rispetto al modello di Hjelmslev.
Le telecomunicazioni riguardano solo il piano dell’espressione. La sostanza dell’espressione
è costituita dai segnali elettrici mentre la forma dell’espressione è costituita dall’organizzazione
dei segnali stessi, dalla loro sintassi. Ci hanno sempre spiegato che le telecomunicazioni si
disinteressano del contenuto informativo ma si occupano solo di farlo giungere a destinazione
il più possibile integro. Alle centrali telefoniche, ai router, ai vari apparati sparsi per le reti non
importa niente di quello che si dicono due innamorati o madre e figlia che parlano al telefono.
Nell’informatica le cose sono un po’ più articolate: le macchine hanno un loro linguaggio fondato
sul sistema binario, che fa parte della forma dell’espressione. Ricordiamoci che Shannon ha
dimostrato la possibilità pratica di realizzare i computer in logica binaria booleana (dopo che
Turing aveva dimostrato la fattibilità logica) che utilizza gli stessi circuiti del calcolo aritmetico
in base 2, per cui “vero” e “falso” diventano due numeri e i calcoli logici del tutto simili a quelli
numerici.
Sia nelle telecomunicazioni che nell'informatica si pone il problema della rappresentazione
dei messaggi, che si svolge sul piano dell’espressione. Dato che siamo nella tecnologia
elettromagnetica, i messaggi vengono rappresentati con segnali elettromagnetici, che costituiscono
la sostanza dell’espressione. Nel campo analogico, se i messaggi sono voce e musica, i segnali sono
continui e il codice che lega forma e sostanza dell’espressione è molto semplice: forme d’onda
elettriche uguali a quelle dei segnali acustici. Se i messaggi sono dati, i segnali di trasmissione
sono ancora continui (almeno finora...) scelti in modo opportuno, cioè in modo da adattarsi al
meglio al canale cui sono destinati (secondo le tecniche della codifica di canale). In ogni caso, i
canali elettromagnetici di trasmissione in uso attualmente, che siano cavi elettrici, fibre ottiche, o
lo spazio libero, sono da considerare continui e quindi “analogici”.
Nell'informatica, all'interno dei computer, è necessario rappresentare i numeri binari. Qui bisogna
distinguere i piani del contenuto e quello dell’espressione.
Sul piano del contenuto, la rappresentazione (ossia la forma del contenuto) avviene con varie
modalità e raggruppamenti ben conosciuti o, detto altrimenti, con varie “codifiche”. Tra le tante, la
norma IEEE 754 definisce il modo di codificare un numero reale “in virgola mobile” e definisce tre
componenti, che, in singola precisione (32 bit) sono: il segno (rappresentato da un solo bit, il bit
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di peso maggiore, quello più a sinistra), l'esponente (codificato sugli 8 bit consecutivi al segno, la
mantissa (i bit posti dopo la virgola)sui 23 bit rimanenti.
Prima di parlare del piano dell’espressione in ambito informatico è bene fare qualche
considerazione di tipo generale.
Quali sono le caratteristiche principali dell’espressione? Il discorso non è semplice e la
Storia ci parla di momenti in cui le varie civiltà hanno compiuto salti evolutivi proprio quando
sono riuscite a esprimere, rappresentare i propri contenuti in maniera socialmente rilevante,
ossia rendendoli condivisibili e utilizzabili a vari gradi. La lingua nasce in una cultura in modo
spontaneo, a partire dalle necessità comunicative più elementari e utilizza la voce come
espressione, sia come sostanza fonatoria sia dando forma a vari suoni e rumori. L’arte è
sicuramente una delle più alte espressioni che il genere umano è capace di realizzare, ma la sua
utilità sociale è quasi sempre nascosta, indiretta, per quanto di estrema importanza (cosa che i
nostri politici non capiscono). Inoltre l’arte è complessa, dotata di più livelli di contenuto e la
sua fruizione completa richiede una formazione culturale particolare che, fino ai tempi moderni,
era accessibile solo a gruppi ristretti di persone. Anche se spesso il livello più esteriore può
essere, o deve essere, facile da decodificare (perché deve comunicare alla gente la grandezza
del committente, o deve raccontare in immagini le storie della Bibbia nelle chiese cattoliche),
l’arte è spesso caratterizzata da una notevole ambiguità nei livelli sottostanti, spesso difficili da
decodificare, magari meno difficili da fruire, godere.
L’ambiguità è forse la caratteristica “negativa” principale che deve essere affrontata nel piano
dell’espressione. Affinché l’espressione sia utile alla comunicazione l’ambiguità deve essere ridotta
al minimo o, idealmente, eliminata. Più grande è l’ambiguità, minore è l’efficacia della
comunicazione. Ciò non vale per l’arte, come ho detto, e non vale nemmeno sempre nei rapporti
interumani profondi, dove la precisione della razionalità può rivelarsi perdente (come spesso
accade nei rapporti uomo donna, dove l'uomo razionale tende a soccombere di fronte alla donna
irrazionale e intuitiva). Ma questo discorso riguarda forse di più il piano del contenuto, sebbene
anche l’espressione, soprattutto la forma dell’espressione, abbia il suo peso e l’interazione tra
forma e contenuto possa diventare assai complessa.
La caratteristica “positiva”, contrapposta all'ambiguità, quella che rende efficace l’espressione ai
fini comunicativi, è la distinguibilità dei messaggi. Tutta la teoria dell’informazione di Shannon,
che ha reso possibili le trasmissioni dallo spazio e sui nostri cellulari, è basata su questo concetto
di fondo: individuare le tecniche di riduzione dell’ambiguità dei messaggi. Parlo naturalmente
dell’ambiguità che si crea sul piano dell’espressione. La teoria dell’informazione si disinteressa
completamente del piano del contenuto e il termine "informazione" è, a pensarci bene, inadeguato
e fonte di confusione, perché nel linguaggio ordinario “informazione” riguarda soprattutto i
contenuti e non la forma mediale con cui essi vengono veicolati. Per inciso, anche la teoria della
relatività einsteiniana soffre dello stesso problema, dato che contraddice proprio il principio di
relatività galileiano. La teoria dell’informazione si basa sul concetto di probabilità nel definire le
caratteristiche della comunicazione (le cose meno probabili sono più informative di quelle più
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probabili), e nel renderla efficiente (usare il minor numero di simboli possibile) ed efficace (ridurre
al minimo la probabilità di errore in ricezione).
Messaggi simbolici
Ricordiamo che il segno è un’entità composta da due elementi: significante (che è descritto dal
piano dell’espressione) e significato (che è descritto dal piano del contenuto). La classificazione dei
segni proposta da Peirce comprende tre tipi:
• Indice. Un segno è un indice se è naturale e non frutto di convenzione, né assomiglia a
un concetto. Ad esempio il fumo è un indice perché è immediatamente associato al fuoco.
Significante e significato sono come fusi insieme.
• Icona. Un segno è un’icona quando il suo significante assomiglia al concetto
rappresentato. Ad esempio il disegno di una faccia umana assomiglia alla faccia.
• Simbolo. Un segno è un simbolo quando il suo significante è frutto di una convenzione
e non assomiglia ad alcun concetto. Ad esempio sono simboli le bandiere e i caratteri
alfanumerici.
Ci conviene adesso concentrarci sui messaggi composti da insiemi di simboli, lasciando fuori il
discorso generale, che comprende anche i messaggi composti da indici e da icone. I simboli hanno
una natura più vicina al digitale di quanto non lo siano le icone e gli indici, che sono più spesso
espressi da significanti “continui”. Inoltre, tramite la conversione A/D, è possibile rappresentare
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anche le icone e gli indici tramite successioni di simboli (in particolare simboli numerici) e il
famoso teorema del campionamento di Shannon ne stabilisce le condizioni e i limiti di attuabilità.
Consideriamo quindi i messaggi come stringhe (successioni unidimensionali) di simboli, i quali
appartengono a un insieme detto “alfabeto”: la scrittura letterale è un tipico messaggio simbolico
con un alfabeto (internazionale) di 26 simboli, la numerazione decimale ha un alfabeto di 10
simboli, mentre un quadro del Botticelli è un messaggio analogico.
Distinguere è necessario: il "terzo elemento"
Tornando al tema della distinguibilità, quando siamo in un contesto di comunicazione esso
comprende due aspetti: distinguibilità alla sorgente dell’informazione, ossia disporre di un
insieme di messaggi diversi tra loro (codifica di sorgente) e distinguibilità dopo la trasmissione sul
canale, alla ricezione (codifica di canale). Se due messaggi sono rappresentati da due stringhe
di simboli, come possiamo valutare la loro distinguibilità? Se le due stringhe sono costituite da
simboli binari in uguale numero, il criterio più usato è la distanza di Hamming (DH(S1,S2)),
che è il numero di posizioni nelle quali i simboli corrispondenti sono diversi. In altri termini,
la distanza di Hamming misura il numero di sostituzioni necessarie per convertire una stringa
nell'altra, o, vista in altro modo, il numero minimo di errori che possono aver portato alla
trasformazione di una stringa nell'altra. Se i simboli sono bit la DH è la quantità di “1” risultante
dall’XOR delle due stringhe. Ad esempio DH(10110, 10011)=2. E’ evidente che se i messaggi
devono essere trasmessi, è meglio che già in partenza siano tutti il più possibile diversi (e quindi
distinguibili) perché poi ci penserà l’inevitabile rumore del canale ad alterarli. Se la loro diversità
è la massima possibile, l’alterazione non potrà che rendere due messaggi più simili di quanto lo
erano in partenza. Il ricevitore quindi, nel decodificare i segnali, può adottare il criterio di massima
verosimiglianza, se possiede in memoria lo stesso repertorio di messaggi della sorgente. Altrimenti
potrà adottare il criterio di massima probabilità, ma di questo non parleremo.
Noi siamo abituati a scrivere numeri e lettere fin da bambini e non ci rendiamo conto della loro
diversità, delle caratteristiche grafiche che ce li fanno distinguere bene. Nel mondo digitale tutto
viene ridotto a stringhe di bit, i quali sono rappresentati per via elettromagnetica. Il modo più
semplice è realizzato, si dice con due livelli di tensione (o di corrente), un per l’”1” e l’altro per lo
“0”. Ma bastano davvero questi due livelli di tensione? Se in un filo c’è un solo bit, naturalmente
sì. Ma dato che i bit da maneggiare diventano sempre di più, sarebbe generalmente poco pratico
utilizzare un bit per ogni filo. Certo, nelle memorie “statiche” (anche non permanenti, come le
RAM) occorre una cella per ogni bit e quindi milioni e miliardi di celle. Stiamo parlando adesso
non solo della forma dell’espressione, ma anche della sua sostanza, cioè del tipo di materiale o di
energia che usiamo per realizzarla.
Per trasmettere bit non possiamo usare miliardi di fili, però possiamo usare miliardi di Hertz!
Possiamo cioè passare dallo spazio al tempo. Per farlo non bastano i due livelli di tensione, ma
occorre introdurre un terzo elemento, un'unità di misura e cioè, in questo caso, la durata del
bit. Senza questo elemento di durata non sarebbe possibile distinguere un bit da un altro; non
potremmo distinguere la sequenza 1100 da 1010, o da 1000, o da 1111110, e così via.
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Lo stesso accade nella memorizzazione spaziale. Se vogliamo memorizzare una sequenza di bit
disegnando strisce bianche e nere non possiamo distinguere i bit se non assegniamo almeno una
dimensione spaziale alla striscia "bit". Non solo, serve anche uno sfondo diverso, se vogliamo
capire quando la sequenza inizia e quando termina. Non sempre ciò è necessario: spesso si può
tollerare che la fine della sequenza sia una particolare sotto sequenza, ad esempio caratterizzata
da 0000000… o da 111111…o da 1010101… o da 010101… e così via: basta escludere nella codifica
che una parte definita della sotto sequenza non possa essere un messaggio; quello che si paga è il
tempo di attesa. Un problema simile si ha quando si vuole individuare l'inizio di una successione
di messaggi (in una trama) per mezzo di una particolare sequenza "di sincronismo".
Se si vuole l’immediatezza, invece, lo sfondo è indispensabile, ed è un quarto elemento. Se
dipingiamo un affresco su un muro bianco, non è detto che non si possa usare il bianco dentro
l’affresco. Quando il bianco comincia ad estendersi più di un tot in una porzione di spazio noi
deduciamo che quella parte bianca non appartiene più al quadro ma lo delimita. Tuttavia, se
il muro si estende molto in una direzione, non possiamo essere sicuri che il quadro termini:
l’artista potrebbe voler provocare la nostra abitudine a interpretare solo sulla base dell’esperienza
quotidiana. In generale, i simboli grafici hanno bisogno di uno sfondo da cui emergere, come il
suono ha bisogno del silenzio, o almeno di un suono più debole, da cui emergere, poter essere
riconosciuto. Come in tutto, c'è bisogno di un contesto. I caratteri alfabetici sono scritti in un colore
diverso dal foglio. C’è bisogno di distinguere un simbolo non solo da un altro simbolo ma anche da
ciò che non è simbolo.
Ortogonalità e dimensioni
Una garanzia di indipendenza, e quindi di distinguibilità assoluta, la si ha in matematica con il
concetto di ortogonalità. Due vettori sono ortogonali se il loro prodotto scalare è nullo: essi sono
anche linearmente indipendenti. All'ortogonalità è strettamente legato il concetto di dimensione,
che naturalmente non è la misura dell’occupazione dello spazio. In geometria, diciamo che il
punto ha zero dimensioni, la retta ha una dimensione e il piano ha due dimensioni. Lo spazio
in cui viviamo ha tre dimensioni, chiamate lunghezza, altezza e profondità, rappresentate spesso
da assi cartesiani x, y, z tra loro perpendicolari, ossia ortogonali. In cinematica le dimensioni
corrispondono ai gradi di libertà. Nella rappresentazione cartesiana un punto su una retta è
individuato da una coordinata (un numero), su un piano da due coordinate, e cosi via: una
coordinata per ogni dimensione. Se due vettori sono ortogonali, il loro prodotto scalare, che è la
somma dei prodotti delle componenti corrispondenti, è uguale a zero. Questa proprietà viene usata
nella decodifica dei segnali.
In generale noi troviamo comodo rappresentare tutto in due dimensioni: su un piano, su una
superficie, su un foglio (disegno e scrittura). Le dimensioni diventano così sinonimo di attributi
tra loro indipendenti. Mentre in geometria non riusciamo a immaginare più di tre dimensioni,
niente ci vieta di pensare un numero di attributi grande quanto si vuole. Per analogia con lo
spazio ordinario, si parla di "spazio" come insieme di attributi o "dimensioni". Poiché un punto
nello spazio può essere associato a un vettore che lo congiunge all'origine e ogni vettore ha una
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componente in ogni dimensione, è abbastanza facile pensare a un vettore in uno spazio a n
dimensioni. Anche le comuni tabelle, o i fogli Excel, possono essere viste come insiemi di vettori
(righe) che hanno tanti componenti quante sono le colonne, a patto che le colonne non siano
"campi calcolati": i vettori n-dimensionali, cioè, vengono proiettati nello spazio a 2 dimensioni,
quello del foglio.
In generale “ortogonalità” diventa sinonimo di indipendenza e si può collegare anche a un concetto
di “riduzione dimensionale” tramite l’operazione detta “proiezione” in senso geometrico: le
proiezioni ortogonali che ci insegnano a scuola. Ad esempio la proiezione ortogonale dell’asse y
sull’asse x è un punto (l’origine): l’asse y passa da dimensione 1 (la retta) a dimensione 0. Un
piano proiettato su un altro piano ortogonale diventa una retta e passa quindi da dimensione 2
a dimensione 1. Per analogia, quando individuiamo certe caratteristiche di un oggetto, possiamo
chiamarle “(tra loro) ortogonali” se nessuna di esse può essere ricavata combinando le altre. Se
ad esempio ho una serie di oggetti di cui conosco le caratteristiche “peso” e “prezzo”, l’ulteriore
caratteristica “prezzo per kg” non è ortogonale alle altre due. Nelle prime trasmissioni telefoniche
l’ortogonalità, ossia la non sovrapposizione di conversazioni contemporanee, era garantita
dall’utilizzo di canali fisici diversi, costituiti da fili elettrici. I primi multiplatori hanno usato poi
la stessa ortogonalità dei canali radio e cioè la modulazione di portanti distanziate in frequenza.
Infatti due segnali sinusoidali di frequenza diversa sono sempre ortogonali e modulando si può
riempire tutta la banda a disposizione. Nell’era digitale si affiancò la multiplazione nel tempo, in
cui l’ortogonalità è garantita dallo sfasamento dei campionamenti dei vari segnali.
Funzioni come vettori
Una funzione (del tempo o dello spazio), ad esempio un segnale vocale, resa discontinua può
essere rappresentata come un vettore. La cosa è più semplice di quanto possa sembrare a prima
vista. La funzione viene resa discontinua tramite il campionamento e ogni campione può essere
pensato come componente di un vettore nello “spazio” dei campioni (non quelli sportivi!). Se i
campioni sono n, lo spazio è a n dimensioni. La misura di ogni campione corrisponde quindi al
modulo del vettore in quella dimensione: per il campione temporale k-esimo la dimensione è il
time slot Tk. Passando alla rappresentazione binaria, una sequenza lunga per esempio 1024 bit
è pensabile come un vettore in uno spazio a 1024 dimensioni. Ma anche una funzione continua
si può rappresentare in modo “vettoriale” utilizzando la serie di Fourier: le funzioni sinusoidali
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a frequenze multiple crescenti costituiscono l’equivalente di una base ortogonale di vettori e
i coefficienti di Fourier sono i moduli dei vettori componenti. Una funzione continua si può
considerare un vettore in uno spazio a dimensionalità che tende all’infinito e così il prodotto
scalere di due funzioni diventa l’integrale da – a + infinito del prodotto delle due funzioni.
Questa impostazione vettoriale viene usata nella codifica dei messaggi, specialmente nella
protezione verso il rumore. Non solo i codici possono essere scelti in modo da ottenere messaggi
ortogonali tra loro in partenza, ma la codifica può proteggere i messaggi dall’inquinamento del
rumore, anche quando questo è molto più forte del segnale. Consideriamo un numero finito di
messaggi di lunghezza fissa, composti cioè dallo stesso numero di campioni. Un messaggio può
essere pensato come un vettore. Il rumore è un vettore che si somma al vettore “segnale”. Il
vettore “segnale” si trova in una ipersfera dello spazio n-dimensionale, collegando l’origine degli
assi con un punto della superficie dell’ipersfera, il cui raggio è il modulo del vettore segnale
(a sua volta proporzionale alla radice quadrata della potenza media del segnale). La “punta”
del vettore “segnale”, al variare delle sue componenti, si muoverà comunque nella superficie
dell’ipersfera. Se al vettore “segnale” si somma il vettore “rumore”, il vettore risultante darà luogo
a una ipersfera di raggio maggiore o minore, a seconda del segno positivo o negativo del rumore. Il
fatto notevole è che aumentando la dimensionalità dello spazio (in pratica aumentando il numero
dei campioni del nostro messaggio), il volume dell’ipersfera tende a concentrarsi nella superficie
dell’ipersfera, assomigliando più a una pallina da ping pong che a una bolla di gas. Ne consegue
che il vettore somma (segnale + rumore) rimane sostanzialmente simile al solo vettore “segnale”,
che quindi non risente del rumore. Se i messaggi sono in partenza ortogonali, lo rimarranno
sostanzialmente anche quando alterati dall’aggiunta del rumore. Utilizzando questa proprietà degli
spazi n-dimensionali Shannon dimostra genialmente che esiste un codice che realizzando tale
ortogonalità, rende la probabilità di errore di ricezione piccola a piacere, a patto di non superare
quella velocità massima di trasmissione, tipica di ogni canale e detta “capacità del canale”; ma non
dice come si fa a trovarlo. A questo ha pensato però la ricerca successiva, che ha individuato codici
sempre più efficienti.
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La teoria dell’informazione di Shannon quindi pone le basi per garantire la distinguibilità dei
messaggi digitale sul piano dell’espressione e lo fa utilizzando una codifica “orizzontale”, ossia
aggiungendo ridondanza in modo controllato a blocchi di simboli, ossia aggiungendo simboli al
messaggio di partenza. In questo modo si aggira l’”invadenza del rumore”: per riceverlo senza
errori (o meglio con probabilità di errore bassa a piacere) un segnale deve essere codificato il modo
che la sua statistica sia “molto diversa” da quella del rumore. Ciò corrisponde ad aumentare la
dimensionalità dello spazio vettoriale di partenza. Un aumento simile avviene quando si modula
un segnale aumentandone la banda, per esempio in FM. Il prezzo da pagare in tale codifica digitale
è doppio. Da una parte si ha il ritardo dovuto alla codifica che deve esaminare un blocco per
codificarlo: la dimensionalità dello spazio vettoriale è proporzionale alla lunghezza del blocco
in bit. Dall’altra parte sorge un “effetto soglia” per il quale , sotto un certo rapporto segnale/
rumore il segnale sparisce completamente. L’effetto soglia, che si ha anche nella modulazione
FM, è spiegabile con un teorema della topologia (la branca delle matematica che studia gli spazi),
secondo il quale mappando uno-a-uno una figura su uno spazio a dimensionalità diversa da quello
di partenza comporta il formarsi di un fenomeno di discontinuità: due vettori adiacenti nello spazio
dei messaggi non necessariamente rimangono adiacenti nel nuovo spazio dei segnali trasformati
se il rumore li altera in modo significativo, quantitativamente previsto dalla teoria.
Bibliografia
• Carlson – Communication Systems – MGHill 1975
• Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura di Tullio De Mauro, Roma-
Bari, Laterza [1967], 2009
• U. Eco – Le forme del contenuto- Bompiani 1971
• Claude E. Shannon A Mathematical Theory of Communication, Bell System Technical
Journal, vol. 27, luglio e ottobre 1948.
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