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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione I civile; sentenza 26 novembre 1987,...

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sezione I civile; sentenza 26 novembre 1987, n. 8770; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Senofonte, P. M. Minetti (concl. conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Favara) c. Perrone (Avv. Berliri). Conferma Comm. trib. centrale 3 agosto 1984, n. 7826 Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1988), pp. 813/814-817/818 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23181138 . Accessed: 25/06/2014 10:10 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 188.72.126.47 on Wed, 25 Jun 2014 10:10:51 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 26 novembre 1987, n. 8770; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est.Senofonte, P. M. Minetti (concl. conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Favara) c. Perrone (Avv.Berliri). Conferma Comm. trib. centrale 3 agosto 1984, n. 7826Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 813/814-817/818Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181138 .

Accessed: 25/06/2014 10:10

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

tale infondatezza, non potendosi confondere la posizione proces

suale delle parti (che, non potendo essere modificata rispetto a

quella del precedente giudizio, pone relative limitazioni al thema

decidendum del giudizio di rinvio e all'attività processuale delle

parti) con la ben diversa posizione del difensore, abilitato all'e

sercizio delle funzioni di procuratore unicamente nell'ambito ter

ritoriale stabilito dall'ordinamento professionale. È del tutto ovvio,

pertanto, che il professionista, cui sia stata conferita la procura

per il precedente giudizio di appello, ove risulti iscritto — come

nella specie — nell'albo dei procuratori di un tribunale non com

preso nel distretto della corte d'appello in cui ha sede il giudice

di rinvio, non «perde» lo ius postulandi — come si assume nel

ricorso — posto che tale diritto non gli è mai appartenuto alla

stegua della legge professionale, ma non può assumere (o riassu

mere) la rappresentanza della parte nel nuovo giudizio, ostandovi

l'espresso divieto sancito dalla stessa legge (art. 5).

Le suesposte considerazioni, che conducono al rigetto del pri

mo motivo di gravame, sono in parte riferibili anche al secondo.

Né in dottrina né in giurisprudenza è stata mai espressa l'opi

nione che il rito del lavoro introdotto con la 1. 11 agosto 1973

n. 533 costituisca uno schema processuale completo e del tutto

autonomo, retto esclusivamente da principi propri e perciò chiu

so alla integrazione delle norme e dei principi generali del proces

so civile ordinario. Al contrario, è comunemente ammesso che

il nuovo rito, benché caratterizzato da rilevanti innovazioni che

10 distinguono dal processo ordinario, costituisce lo strumento

normale per la tutela giurisdizionale dei diritti nelle controversie

di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria ed è armonica

mente inserito nel sistema normativo del processo civile, sicché

postula necessariamente l'applicazione delle «disposizioni genera

li» contenute nel libro I del codice di procedura civile e di quelle

che regolano il procedimento davanti al tribunale ed al pretore,

anche se non espressamente richiamate, nei limiti in cui le stesse

non contrastino con le peculiarità dettate dagli art. 413 ss. c.p.c.

e non siano incompatibili con la struttura e la funzione del pro

cesso del lavoro.

Alla stregua di tali criteri si è esattamente sostenuto in dottrina

che l'art. 414 c.p.c. (richiamato, per le impugnazioni, dall'art.

434 c.p.c.), il quale non prevede — fra gli elementi che il ricorso

deve contenere — l'indicazione della procura e del procuratore

né la sottoscrizione, deve intendersi integrato dalla disposizione

generale di cui all'art. 125 c.p.c., secondo la quale, salvo che

la legge disponga altrimenti, gli atti di parte, fra cui il ricorso,

debbono essere sottoscritti dalla parte stessa, se questa sta in giu

dizio personalmente, oppure dal difensore; con l'avvertenza che,

nelle controversie di lavoro, a differenza che in quelle ordinarie,

la procura al difensore non può essere rilasciata dopo la proposi

zione del ricorso, ai sensi del 2° comma del citato art. 125, per

ché tale norma esige che il rilascio avvenga anteriormente alla

costituzione della parte, laddove nel rito speciale la costituzione

in giudizio coincide con il deposito del ricorso.

È appena il caso, poi, di ricordare che anche in detto rito la

sottoscrizione costituisce, per costante giurisprudenza, condizio

ne di esistenza dell'atto processuale e garanzia della sua prove

nienza, sicché l'atto di citazione (e il ricorso introduttivo del

giudizio nelle controversie di lavoro) che risulti «sottoscritto, per

la parte, da un procuratore legale territorialmente incompetente»

(perché non iscritto «in un albo di procuratori del distretto nella

cui giurisdizione trovasi il giudice adito») «è da considerarsi inva

lido, con la conseguente nullità assoluta del rapporto processuale

che dall'atto ha avuto origine» (Cass. 22 gennaio 1983, n. 656,

Foro it., Rep. 1983, voce Procedimento davanti al pretore, n.

1). Altre decisioni confermano l'applicabilità, nelle controversie

di lavoro, dell'art. 82, 3° comma, in relazione all'art. 5 r.d.l.

n. 1578 del 1933 (v. Cass. 24 gennaio 1981, n. 551, id., Rep.

1981, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 594, e 11 ago

sto 1977, n. 3729, id., Rep. 1977, voce Procedimento civile, n.

96) nonché la natura di norme di ordine pubblico delle disposi

zioni che disciplinano l'esercizio delle professioni di avvocato e

procuratore (v. Cass. 20 dicembre 1980, n. 6571, id., Rep. 1980,

voce cit., n. 76). Non ha, dunque, alcun pregio la singolare affermazione del

ricorrente secondo cui nel nuovo rito del lavoro non sarebbe pre

vista «costituzione di procuratore legale ma soltanto di avvocato

per l'esercizio del diritto di difesa». A confutazione di siffatta

tesi, manifestamente incompatibile con la disciplina positiva e con

i canoni fondamentali del processo civile (applicabili — come si

11 Foro Italiano — 1988 — Parte /-16.

è detto — anche al processo del lavoro), è sufficiente osservare

che il procedimento regolato dal rito speciale, benché informato

ai principi della immediatezza, concentrazione ed oralità, prevede il compimento di una serie di attività e di incombenti di natura

tecnica, non dissimili da quelli richiesti nel giudizio ordinario e

in gran parte sottoposti a termini stabiliti a pena di decadenza,

ai quali non potrebbe adeguatamente provvedere la parte (salva la particolare ipotesi in cui la stessa può stare in giudizio perso

nalmente, a norma dell'art. 417 c.p.c.) e che esulano dalla fun

zione di assistenza dell'avvocato. È proprio per garantire una

efficace e completa tutela del diritto di difesa che la legge riserva

al procuratore lo svolgimento di tale attività, prescrivendo che

davanti al tribunale ed alle corti d'appello le parti debbono stare

in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente.

E non si comprende davvero la ragione per la quale tale garanzia dovrebbe ritenersi esclusa in un tipo di processo manifestamente

teso a privilegiare la tutela dei diritti dei lavoratori.

Né può giovare al ricorrente il generico riferimento a disposi

zioni di legge (quali gli art. 309 e 348 c.p.c.) e ad istituti che

possono subire deroghe nel rito speciale per incompatibilità con

i cennati principi che lo caratterizzano, ma non hanno alcuna

attinenza con la questione fin qui esaminata e sono assolutamen

te inidonei a sorreggere l'assunto del ricorrente.

Si deve, pertanto, concludere che la Corte d'appello di Bari

ha correttamente applicato le disposizioni di legge, di cui infon

datamente si denunzia la violazione, ed ha fornito ampia e logica

spiegazione del proprio convincimento, sicché la decisione impu

gnata si sottrae ad ogni censura.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 26 novem

bre 1987, n. 8770; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Seno

fonte, P. M. Minetti (conci, conf.); Min. finanze (Avv. dello

Stato Favara) c. Perrone (Avv. Berliri). Conferma Comm.

trib. centrale 3 agosto 1984, n. 7826.

Ricchezza mobile (imposta sulla) — Cessione di titoli azionari

da parte di soggetto non imprenditore — Mancanza di intento

speculativo — Maggior valore realizzato — Assoggettabilità —

Esclusione (D.p.r. 29 gennaio 1958 n. 645, t.u. delle leggi sulle

imposte dirette, art. 81).

In mancanza di intento speculativo, non è assoggettabile all'im

posta di ricchezza mobile il maggior valore realizzato, da sog

getto non imprenditore, mediante la cessione di titoli azionari. (1)

(1) Una lunghissima serie di pronunce dà corpo ad un orientamento

giurisprudenziale estremamente consolidato, fondato sulla tesi dell'intas

sabilità, ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, delle plusvalenze conse

guite mediante cessioni di beni, da parte di soggetti non imprenditori ed in assenza di intento speculativo, durante la vigenza dell'abrogato te

sto unico delle imposte dirette (d.p.r. n. 645 del 1958). La sentenza in epigrafe si inserisce in tale contesto, recando l'ennesima

conferma al suesposto principio, nelle ipotesi in cui le cessioni in parola abbiano ad oggetto titoli azionari o, in genere, quote sociali.

In senso conforme, v. Cass. 2 marzo 1987, n. 2168, Foro it., Mass.,

353; 29 settembre 1984, n. 4828, id., Rep. 1985, voce Ricchezza mobile,

n. 15; Comm. trib. centrale 3 agosto 1984, n. 7826, id., Rep. 1984, voce

cit., nn. 44, 45, confermata dalla sentenza che si riporta; Cass. 30 luglio

1984, n. 4542, id., Rep. 1985, voce cit., n. 27; Comm. trib. centrale

10 maggio 1984, n. 4858, id., Rep. 1984, voce cit., n. 53; Cass. 19 gen naio 1984, n. 457, ibid., n. 46; Comm. trib. centrale 25 ottobre 1983,

n. 3290, ibid., n. 30; 16 giugno 1983, n. 1344, id., Rep. 1985, voce cit.,

n. 26; App. Torino 15 novembre 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 43;

Comm. trib. centrale 8 febbraio 1982, n. 1144, id., Rep. 1982, voce cit.,

n. 23, in un'ipotesi particolare di cessione di quota di società in ammini

strazione straordinaria; 13 giugno 1981, n. 6928, ibid., n. 58; 3 giugno

1981, n. 6004, ibid., n. 55; 19 maggio 1981, n. 3638, id., Rep. 1983,

voce cit., n. 51; Cass. 28 marzo 1981, n. 1786, id., Rep. 1981, voce

cit., n. 88; Comm. trib. centrale 26 marzo 1981, n. 3636, ibid., n. 78;

Comm. trib. II grado Roma 10 marzo 1981, id., Rep. 1982, voce cit.,

n. 65; Comm. trib. II grado Cosenza 3 giugno 1980, id., Rep. 1981,

voce cit., n. 94; Cass. 19 novembre 1979, n. 6022, id., Rep. 1979, voce

cit., n. 57; 12 marzo 1979, n. 1537, ibid., n. 56; Comm. trib. centrale

24 ottobre 1977, n. 13018, id., Rep. 1978, voce cit., n. Ili; 2 aprile

1977, n. 468, id., Rep. 1977, voce cit., n. 63; 18 ottobre 1975, n. 16446,

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PARTE PRIMA

Svolgimento del processo. — Nel maggio del 1973 i germani

Ferdinando, Ferdinanda Maria Pia e Cleonice Perrone trasferiro

no alla s.r.l. Resi la metà delle azioni da essi posseduta, dalla

s.p.a. Sem - Società editrice II Messaggero, della s.p.a. Sei - So

cietà editrice italiana (proprietaria degli immobili adibiti a sede

de II Messaggero e della s.p.a. Sep - Società editrice pubblicazio ni (editrice de II Secolo XIX di Genova).

Con tre separati avvisi, notificati nel dicembre del 1977, l'uffi

cio delle imposte dirette di Roma accertò a carico di ciascuno

dei tre germani, ai fini delle imposte di ricchezza mobile e com

plementare, redditi di lire 2.474.000.000 circa, quali plusvalenze realizzate con le cessioni ridette.

La commissione tributaria di primo grado, premesso che l'uffi

cio aveva esattamente qualificato queste ultime come cessioni di

azienda, ridusse a lire 1.640.000.000 gli imponibili per ciascuno

dei contribuenti.

Proposero appello l'ufficio, chiedendo la conferma dei redditi

accertati, e i Perrone, contestando l'esistenza del presupposto im

positivo. Con tre separate decisioni, la commissione di secondo grado,

in accoglimento del secondo motivo di gravame proposto dai con

tribuenti, annullò gli accertamenti, escludendo la tassabilità delle

plusvalenze, in quanto derivanti non da cessione di azienda ma

di quote sociali da parte di soggetti non imprenditori, senza che

ne fosse stato provato l'intento speculativo (sotto altri aspetti,

peraltro, concretamente irrilevante). Con la decisione n. 7826 del 3 agosto 1984, (Foro it., Rep.

1984, voce Ricchezza mobile, nn. 44, 45), ora impugnata, la Com

missione tributaria centrale, riuniti i processi, ha rigettato il ri

corso dell'ufficio.

Ricorre per cassazione, con motivo unico, l'amministrazione

finanziaria dello Stato. Resistono, con controricorso, gli intimati, che hanno anche proposto ricorso incidentale condizionato. Le

parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione. — I due ricorsi vanno, preliminarmen

te, riuniti (art. 335 c.p.c.). L'amministrazione finanziaria fonda, con il proprio ricorso,

la tassabilità dei «redditi» di cui si tratta su due principi cosi,

conclusivamente, enunciati: a) «costituisce, in ogni caso, reddito

imponibile derivante da partecipazione in società anche la diffe

renza tra quanto dal socio percepito, in qualsiasi modo e da qual siasi soggetto, in occasione della (totale o parziale) liquidazione o cessione della quota (o di corrispondente pacchetto azionario) e quanto dal socio stesso conferito alla società all'atto della sua

costituzione o successivamente»; b) «un reddito derivante dalla

partecipazione in società non può in alcun caso essere riqualifica to come reddito dipendente da operazione speculativa».

L'enunciazione, diffusamente argomentata, si alimenta, in sin

tesi, delle proposizioni che seguono: 1) «plusvalenza si ha quan do il socio, che aveva in precedenza acquistato la partecipazione da socio uscente (o riducente la propria quota di partecipazione), realizza un prezzo (nel caso di successiva cessione della partecipa zione a terzo) o un rimborso (nel caso di liquidazione della socie tà o di recesso da essa) superiore a quello originariamente corrisposto»; 2) «eccedenza si ha quando il socio recupera co

munque denaro o altri beni in misura maggiore di quanto aveva in precedenza conferito in società»; 3) questa eccedenza, costi tuendo ricchezza accumulata, deve essere necessariamente sotto

posta ad imposizione sui redditi in capo al socio nel momento in cui

id., Rep. 1976, voce cit., n. 68; 13 ottobre 1975, n. 11896, ibid., n. 66; 21 maggio 1971, n. 4736, id., Rep. 1972, voce cit., n. 98; 2 maggio 1969, n. 2970, id., Rep. 1970, voce cit., n. 89; 10 febbraio 1967, n. 88207, id., Rep. 1967, voce cit., n. 84; 23 novembre 1966, n. 86481, ibid., n.

63; 23 novembre 1966, n. 86482, ibid., n. 68. Per i casi di cessione dell'intero pacchetto azionario, v. Comm. trib.

centrale 22 marzo 1984, n. 2658, id., Rep. 1984, voce cit., n. 89; 16 giugno 1983, n. 1345, id., Rep. 1983, voce cit., n. 44; 21 maggio 1983, n. 905, ibid., n. 68; 27 novembre 1981, n. 10528, id., Rep. 1982, voce cit., n. 29; Cass. 28 ottobre 1981, nn. 5643-5644, id., Rep. 1981, voce cit., nn. 82, 83, che ravvisano un'implicazione di trasferimento di azien da; 22 luglio 1980, n. 4783, id., 1980, I, 2741, con nota di richiami, cui adde, Comm. trib. centrale 4 maggio 1980, n. 5820, id., Rep. 1981, voce cit., n. 84, che ritiene configurabile la cessione dell'azienda.

In dottrina, i profili su indicati sono trattati da M. Miscali, La tassa zione delle plusvalenze speculative derivanti da cessioni azionarie, in Dir. e pratica trib., 1981, II, 697, e da F. Moschetti, Cessione di quota di società personale e realizzo di plusvalenza, in Giur. comm., 1977, II, 699.

Il Foro Italiano — 1988.

gli viene attribuita, venendo meno, a quel momento, tutte le ra

gioni di interesse asseritamente generale (favore per lo sviluppo economico e per l'occupazione) che possono avere indotto il legis latore a dettare norme tributarie «benevoli» nei confronti del

l'impresa o addirittura a sovvenzionarla esplicitamente; 4) non

vale opporre che la ricchezza accumulata in capo alla società sa

rebbe stata presso di essa già sottoposta ad imposizione sui reddi

ti (sugli utili societari), poiché solo con la 1. n. 904 del 1977 si

è avviato il processo di superamento della doppia imposizione della «ricchezza novella» (in capo alla società prima e in capo al socio poi), né i contribuenti hanno, comunque, dimostrato, nel caso concreto, che le tre società di cui facevano parte abbiano

effettivamente pagato l'imposta di ricchezza mobile, quanto me

no, negli anni trascorsi dal 1952 (data della successione paterna) al 1972; 5) la sottoposizione delle «eccedenze» ad imposizione, assicurata già dal testo unico del 1877 (art. 8) sulle imposte diret

te e poi dall'art. 41 d.p.r. 579/73, era, all'epoca che qui interes

sa, chiaramente desumibile dagli art. 135 e 81, 1° comma, d.p.r. 645/58, il quale non richiedeva affatto, a questo fine, l'intento

speculativo da parte di soggetti non imprenditori che avessero

posto in essere operazioni incrementati ve.

Il ricorso non può essere accolto. Il tema del dibattito «fissa

to» nei gradi anteriori è del tutto chiaro: l'ufficio — in ragione della ristretta base azionaria e della composizione di carattere fa

miliare della società Sei, Sem e Sep — ha individuato plusvalenze derivanti da cessione di azienda (e, quindi, tassabili con le impo ste reddituali, ai sensi degli art. 81, 2° comma, la parte, 100

e 106 d.p.r. 645/58, indipendentemente dall'accertamento dell'in

tento speculativo) nei corrispettivi percepiti dai contribuenti per il trasferimento alla soc. Resi delle azioni di rispettiva spettanza.

La commissione tributaria di primo grado, pur riducendo l'am

montare dei «redditi» accertati, ha condiviso questa tesi, rifiuta

ta, invece, dalla commissione d'appello e dalla Commissione

centrale nella scia di una nutrita giurisprudenza (radicata in prin

cipi indiscutibili del diritto societario — distinta soggettività della società di capitale rispetto a quella del socio, appartenenza del

patrimonio sociale alla prima, semplice diritto di partecipazione dei soci alla ripartizione degli utili di gestione, ecc. — su cui non è, ovviamente, il caso di soffermarsi) secondo la quale, nel

sistema delineato dal d.p.r. del 1958 il maggior valore realizzato

da soggetto non imprenditore (anche) mediante la vendita di tito

li azionari non costituisce, per sé, plusvalenza tassabile, ex art.

81 e 100 cit., neppure nell'ipotesi di cessione dell'intero pacchetto azionario, non potendosi quest'ultima identificare con il trasferi

mento del patrimonio sociale, che rimane di proprietà della socie

tà, con la conseguenza che, in tal caso (e, a più forte ragione,

nell'ipotesi di cessione parziale), il plusvalore conseguito è sog

getto a tassazione solo se la cessione si configuri come operazione

speculativa e sia, quindi, assistita dall'intento corrispondente (Cass.

2128/83, id., Rep. 1983, voce cit., n. 62; 1786/81, id., Rep. 1981, voce cit., n. 88; 2871/85, id., Rep. 1985, voce cit., n. 16; 4828, 4542 e 457/84, id., Rep. 1984, voce cit., nn. 49, 43, 46; 4783/80,

id., 1980, I, 2741, tra le tante). Pienamente consapevole di questo indirizzo e nel tentativo di

scongiurarne gli esiti negativi, l'amministrazione ricorrente pro

pone, ora, di abbandonare il concetto di «plusvalenze» e di ra

gionare, invece, al fine della tassabilità dei «redditi» di cui si

discute, in termini di «eccedenze», nella versione già nota.

Ma (detto anche che non è, in linea di principio, consentito

ribaltare radicalmente nel giudizio di legittimità il sistema difensi

vo adottato nelle sedi di merito e indipendentemente dalla legitti mità della latitudine concettuale assegnata al nuovo termine, tradizionalmente riferito alla differenza tra i conferimenti e il re

siduo attivo proporzionalmente riparabile tra i soci della società

sciolta) la proposta non è accettabile, perché si risolve in una

palese interversione del titolo (plusvalenze derivanti da cessione

di azienda) dell'imposizione posto a base degli accertamenti e sul

quale l'ufficio impositore ha sempre insistito (persino con mono

tonia) nelle fasi pregresse, senza, quindi, mai dolersi (corretta

mente) della corrispondente qualificazione da parte della

commissione giudicante e che si vorrebbe qui, inammissibilmen

te, sovvertire.

Sul punto (conviene sottolineare: sulla natura della fattispecie

impositiva «affermata» dall'ufficio, a prescindere dalla sua fon

datezza, contestata, questa, dai contribuenti) si è, infatti, pro nunciata — espressamente e irretrattabilmente — la commissione

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

di primo grado con statuizione non precedentemente impugnata

e, quindi, passata in giudicato.

Questo particolare profilo rende già vano il riferimento fatto

dalla difesa dell'amministrazione al potere «officioso» di qualifi cazione della fattispecie e al principio iura novit curia, perché, da un lato, anche sulla qualificazione giuridica del rapporto con

troverso può formarsi il giudicato, dall'altro il principio della ri

levabilità d'ufficio «in ogni stato e grado» deve essere coordinato

con il sistema delle impugnazioni e non opera, perciò, nel giudi

zio di appello o di cassazione, relativamente alle questioni che

abbiano costituito oggetto di statuizione esplicita non specifica

mente impugnata. Ma il riferimento non è appropriato anche per altra (e decisiva)

ragione. È noto che ciascun credito è individuato non dal petitum me

diato (eventualmente coincidente con quello di altri) ma dalla sua

«causa» e che il mutamento degli elementi fattuali di quest'ulti

ma si traduce, di conseguenza, nella prospettazione di una prete

sa nuova, che eccede l'ambito della presunzione del dato storico

entro il pertinente schema giuridico. Ne segue che, nella specie, l'amministrazione finanziaria, anco

rando, in questa sede, il proprio credito ad un titolo («ecceden

ze» derivanti da cessione di quote azionarie) diverso da quello

originario (plusvalenze realizzate mediante trasferimento di beni

aziendali), non propone, in realtà, di «riqualificare» soltanto il

presupposto impositivo inizialmente fatto valere, ma ne altera so

stanzialmente la fisionomia, stravolgendo, cosi, inammissibilmente,

il thema decidendum.

Il ricorso principale deve essere pertanto, rigettato.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 16 ottobre

1987, n. 7682; Pres. Pandolfelli, Est. De Rosa, P. m. Tridi

co (conci, conf.); Banca Toscana (Avv. Zangari) c. La Marti

na (Avv. Bottai). Cassa Trib. Pisa 19 ottobre 1983.

Lavoro (rapporto) — Unità produttiva — Nozione (L. 20 maggio

1970 n. 300, norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavo

ratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi

di lavoro e norme sul collocamento, art. 19, 20, 22, 35).

La nozione di unità produttiva, individuata dal contratto colletti

vo aziendale tramite il raggruppamento di più filiali dell'azien

da collocata in comuni diversi, riguarda tutti gli istituti che

necessariamente la presuppongono e non solo quelli ai quali

il contratto collettivo stesso faccia esplicito riferimento. (1)

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 3 luglio 1987,

n. 5852; Pres. Chiavelli, Est. Marotta, P. M. Nicita (conci,

conf.); Petruzzo (Avv. Di Biase) c. Soc. Lloyd Europeo (Avv.

Bernardini). Cassa Trib. Chieti 9 maggio 1985.

Lavoro (rapporto) — Unità produttiva — Nozione — Fattispecie

(L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 18, 35).

A che si abbia un 'unità produttiva di un 'impresa, e cioè una arti

colazione autonoma avente sotto il profilo finalistico e funzio

nale idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di

produzione di beni o servizi dell'impresa stessa, di cui costitui

sce elemento organizzativo, è indispensabile anche l'esistenza

di un supporto di mezzi reali, quali, tra gli altri, locali per

la sede e per lo svolgimento dell'attività, strumenti di lavoro,

dotazione di fondi (nella specie, è stata cassata la decisione

del giudice di merito che ha negato la tutela reale del posto

di lavoro ad ispettore di assicurazione che lavorava da solo,

sul semplice rilievo che tutto il ramo riguardante l'accertamen

to, la liquidazione e l'eventuale contenzioso dei sinistri di una

certa zona veniva trattato dall'ispettore stesso, e senza accerta

re la sussistenza del suddetto supporto materiale). (2)

(1-2) Non si rinvengono precedenti negli esatti termini circa il principio di cui alla prima massima. Trib. Pisa 19 ottobre 1983, ora cassata, è rias

II Foro Italiano — 1988.

I

Motivi della decisione. — Con il primo motivo di gravame,

deducendo violazione e falsa applicazione degli art. 22 e 35 1.

n. 300 del 20 maggio 1970 nonché illogicità e contraddittorietà

di motivazione, la ricorrente osserva che — contraddicendo la

regola propostasi di delibare la questione con corretta aderenza

al testo letterale delle norme — il tribunale ha sostanzialmente

recepito il principio, sostenuto dal resistente, della natura struttu

rale dell'unità produttiva e condiviso la conseguenza della obbli

gatorietà del nulla-osta anche per il trasferimento del dirigente

sindacale all'interno della medesima.

Ciò in conseguenza di una definizione del concetto dell'istituto

che non teneva conto del coordinamento fra l'art. 22 e l'art. 35

1. 300/70, che propone, invece, una nozione unitaria dell'istituto

medesimo valido per tutte le norme, che ne facciano richiamo.

Tale difetto di coordinamento ha portato il tribunale a non

considerare che requisito essenziale dell'unità produttiva era l'ag

gregazione di almeno sedici dipendenti, il quale difettava in cia

scuna delle filiali considerate e che era stato realizzato soltanto

con l'accorpamento delle stesse, consentito dal punto XXV dei

criteri di comportamento alligato al contratto integrativo azien

dale che tale pluralità di dipendenti riduceva ad otto. Contraria

mente all'assunto del tribunale, l'aggregazione fra le singole filiali — ciascuna priva dell'elemento quantitativo richiesto dalla nor

ma statuale e da quella collettiva — aveva sortito l'effetto non

già di restringere, ma di allargare l'ambito della tutela sindacale

perché aveva consentito la costituzione di una r.s.a. nel numero

minimale di otto dipendenti previsto dalla contrattazione collettiva.

Con il secondo motivo di gravame, deducendo violazione e fal

sa applicazione delle clausole della contrattazione collettiva, as

sunte come mezzo di etero-integrazione degli art. 22 e 25 1. 300/70,

la ricorrente osserva che il tribunale ha scorrettamente interpreta

to tali disposizioni, ritenute decisive per la soluzione della contro

versia opinando che la formulazione letterale del punto XXV dei

criteri di comportamento non consentiva una interpretazione che

ne estendesse gli effetti e tutti gli istituti contemplati nel titolo

III della 1. 300 essendo la formula del raggruppamento interco

munale stata prevista ai soli fini della applicabilità dell'art. 19

(costituzione della r.s.a.) e dell'art. 20 (diritto di riunione in as

semblea). Al contrario — e in coerenza con la affermazione che il colle

gamento delle filiali all'interno dello stesso comune, previsto dal

l'art. 9 del contratto collettivo di categoria, aveva prodotto l'effetto

di una considerazione unitaria di più strutture autonome, valida

a tutti gli effetti in essi compreso quello del trasferimento dei

dirigenti sindacali — il tribunale avrebbe dovuto considerare che

l'applicazione della clausola del contratto integrativo comportava

l'esigenza di considerare come l'unica unità produttiva tutte le

filiali raggruppate, con conseguente efficacia di tutte le norme

dello statuto che tale nozione presupponeva. Conseguentemente,

non era esatta la tesi dell'obbligo delle parti con

sunta in Foro it., Rep. 1984, voce Lavoro (rapporto), n. 1080. Per l'af

fermazione che è il territorio comunale ad essere «dato selettivo orizzon

tale per l'individuazione dell'unità produttiva», e che sono valide le clausole

dei contratti collettivi (nella specie dell'art. 9 della convenzione 18 giugno 1970 del settore bancario richiamata da Cass. 7682/87 in epigrafe) che,

ai fini di tale individuazione, raggruppano le filiali endocomunali di un'a

zienda, cfr. Cass. 7 febbraio 1987, n. 1315, id., 1987, I, 2436, con nota

di L. Angiello.

In tema di nozione di unità produttiva nella materia dei trasferimenti

dei sindacalisti, cfr. Pret. Torino 18 giugno 1987, ibid., 1990, con nota

di richiami, e, sulla prospettiva unitaria della nozione, accolta da Cass.

7682/87 e nettamente dominante (Cass. 1315/87, cit. e Cass. 19 dicembre

1987, n. 9475, inedita), Cass. 18 marzo 1987, n. 2761, id., Mass., 458.

Per affermazione conforme alla sola prima parte della massima sub

2, e cioè nulla dicendosi circa l'indispensabilità dei mezzi reali, cfr. Cass.

1315/87, cit. Adde, Cass. 1° dicembre 1986, n. 7096, 27 novembre 1986,

n. 7019, 5 giugno 1986, n. 3763, 18 aprile 1986, n. 2765, id., Rep. 1986,

voce Lavoro (rapporto), nn. 937-940 (in Cass. 3763/86, cit. è detto che

l'autonomia va individuata dal punto di vista economico e strutturale

e/o da quello funzionale e/o dal risultato produttivo); Cass. 22 novem

bre 1985, n. 5806, id., Rep. 1985, voce cit., n. 1954, che ha confermato

la pronuncia di merito che aveva ritenuto come unità produttiva proprio

l'ispettorato sinistri periferico di una compagnia assicurativa operante sul

territorio nazionale.

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