sezione I civile; sentenza 26 novembre 1987, n. 8770; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est.Senofonte, P. M. Minetti (concl. conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Favara) c. Perrone (Avv.Berliri). Conferma Comm. trib. centrale 3 agosto 1984, n. 7826Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 813/814-817/818Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181138 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
tale infondatezza, non potendosi confondere la posizione proces
suale delle parti (che, non potendo essere modificata rispetto a
quella del precedente giudizio, pone relative limitazioni al thema
decidendum del giudizio di rinvio e all'attività processuale delle
parti) con la ben diversa posizione del difensore, abilitato all'e
sercizio delle funzioni di procuratore unicamente nell'ambito ter
ritoriale stabilito dall'ordinamento professionale. È del tutto ovvio,
pertanto, che il professionista, cui sia stata conferita la procura
per il precedente giudizio di appello, ove risulti iscritto — come
nella specie — nell'albo dei procuratori di un tribunale non com
preso nel distretto della corte d'appello in cui ha sede il giudice
di rinvio, non «perde» lo ius postulandi — come si assume nel
ricorso — posto che tale diritto non gli è mai appartenuto alla
stegua della legge professionale, ma non può assumere (o riassu
mere) la rappresentanza della parte nel nuovo giudizio, ostandovi
l'espresso divieto sancito dalla stessa legge (art. 5).
Le suesposte considerazioni, che conducono al rigetto del pri
mo motivo di gravame, sono in parte riferibili anche al secondo.
Né in dottrina né in giurisprudenza è stata mai espressa l'opi
nione che il rito del lavoro introdotto con la 1. 11 agosto 1973
n. 533 costituisca uno schema processuale completo e del tutto
autonomo, retto esclusivamente da principi propri e perciò chiu
so alla integrazione delle norme e dei principi generali del proces
so civile ordinario. Al contrario, è comunemente ammesso che
il nuovo rito, benché caratterizzato da rilevanti innovazioni che
10 distinguono dal processo ordinario, costituisce lo strumento
normale per la tutela giurisdizionale dei diritti nelle controversie
di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria ed è armonica
mente inserito nel sistema normativo del processo civile, sicché
postula necessariamente l'applicazione delle «disposizioni genera
li» contenute nel libro I del codice di procedura civile e di quelle
che regolano il procedimento davanti al tribunale ed al pretore,
anche se non espressamente richiamate, nei limiti in cui le stesse
non contrastino con le peculiarità dettate dagli art. 413 ss. c.p.c.
e non siano incompatibili con la struttura e la funzione del pro
cesso del lavoro.
Alla stregua di tali criteri si è esattamente sostenuto in dottrina
che l'art. 414 c.p.c. (richiamato, per le impugnazioni, dall'art.
434 c.p.c.), il quale non prevede — fra gli elementi che il ricorso
deve contenere — l'indicazione della procura e del procuratore
né la sottoscrizione, deve intendersi integrato dalla disposizione
generale di cui all'art. 125 c.p.c., secondo la quale, salvo che
la legge disponga altrimenti, gli atti di parte, fra cui il ricorso,
debbono essere sottoscritti dalla parte stessa, se questa sta in giu
dizio personalmente, oppure dal difensore; con l'avvertenza che,
nelle controversie di lavoro, a differenza che in quelle ordinarie,
la procura al difensore non può essere rilasciata dopo la proposi
zione del ricorso, ai sensi del 2° comma del citato art. 125, per
ché tale norma esige che il rilascio avvenga anteriormente alla
costituzione della parte, laddove nel rito speciale la costituzione
in giudizio coincide con il deposito del ricorso.
È appena il caso, poi, di ricordare che anche in detto rito la
sottoscrizione costituisce, per costante giurisprudenza, condizio
ne di esistenza dell'atto processuale e garanzia della sua prove
nienza, sicché l'atto di citazione (e il ricorso introduttivo del
giudizio nelle controversie di lavoro) che risulti «sottoscritto, per
la parte, da un procuratore legale territorialmente incompetente»
(perché non iscritto «in un albo di procuratori del distretto nella
cui giurisdizione trovasi il giudice adito») «è da considerarsi inva
lido, con la conseguente nullità assoluta del rapporto processuale
che dall'atto ha avuto origine» (Cass. 22 gennaio 1983, n. 656,
Foro it., Rep. 1983, voce Procedimento davanti al pretore, n.
1). Altre decisioni confermano l'applicabilità, nelle controversie
di lavoro, dell'art. 82, 3° comma, in relazione all'art. 5 r.d.l.
n. 1578 del 1933 (v. Cass. 24 gennaio 1981, n. 551, id., Rep.
1981, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 594, e 11 ago
sto 1977, n. 3729, id., Rep. 1977, voce Procedimento civile, n.
96) nonché la natura di norme di ordine pubblico delle disposi
zioni che disciplinano l'esercizio delle professioni di avvocato e
procuratore (v. Cass. 20 dicembre 1980, n. 6571, id., Rep. 1980,
voce cit., n. 76). Non ha, dunque, alcun pregio la singolare affermazione del
ricorrente secondo cui nel nuovo rito del lavoro non sarebbe pre
vista «costituzione di procuratore legale ma soltanto di avvocato
per l'esercizio del diritto di difesa». A confutazione di siffatta
tesi, manifestamente incompatibile con la disciplina positiva e con
i canoni fondamentali del processo civile (applicabili — come si
11 Foro Italiano — 1988 — Parte /-16.
è detto — anche al processo del lavoro), è sufficiente osservare
che il procedimento regolato dal rito speciale, benché informato
ai principi della immediatezza, concentrazione ed oralità, prevede il compimento di una serie di attività e di incombenti di natura
tecnica, non dissimili da quelli richiesti nel giudizio ordinario e
in gran parte sottoposti a termini stabiliti a pena di decadenza,
ai quali non potrebbe adeguatamente provvedere la parte (salva la particolare ipotesi in cui la stessa può stare in giudizio perso
nalmente, a norma dell'art. 417 c.p.c.) e che esulano dalla fun
zione di assistenza dell'avvocato. È proprio per garantire una
efficace e completa tutela del diritto di difesa che la legge riserva
al procuratore lo svolgimento di tale attività, prescrivendo che
davanti al tribunale ed alle corti d'appello le parti debbono stare
in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente.
E non si comprende davvero la ragione per la quale tale garanzia dovrebbe ritenersi esclusa in un tipo di processo manifestamente
teso a privilegiare la tutela dei diritti dei lavoratori.
Né può giovare al ricorrente il generico riferimento a disposi
zioni di legge (quali gli art. 309 e 348 c.p.c.) e ad istituti che
possono subire deroghe nel rito speciale per incompatibilità con
i cennati principi che lo caratterizzano, ma non hanno alcuna
attinenza con la questione fin qui esaminata e sono assolutamen
te inidonei a sorreggere l'assunto del ricorrente.
Si deve, pertanto, concludere che la Corte d'appello di Bari
ha correttamente applicato le disposizioni di legge, di cui infon
datamente si denunzia la violazione, ed ha fornito ampia e logica
spiegazione del proprio convincimento, sicché la decisione impu
gnata si sottrae ad ogni censura.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 26 novem
bre 1987, n. 8770; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Seno
fonte, P. M. Minetti (conci, conf.); Min. finanze (Avv. dello
Stato Favara) c. Perrone (Avv. Berliri). Conferma Comm.
trib. centrale 3 agosto 1984, n. 7826.
Ricchezza mobile (imposta sulla) — Cessione di titoli azionari
da parte di soggetto non imprenditore — Mancanza di intento
speculativo — Maggior valore realizzato — Assoggettabilità —
Esclusione (D.p.r. 29 gennaio 1958 n. 645, t.u. delle leggi sulle
imposte dirette, art. 81).
In mancanza di intento speculativo, non è assoggettabile all'im
posta di ricchezza mobile il maggior valore realizzato, da sog
getto non imprenditore, mediante la cessione di titoli azionari. (1)
(1) Una lunghissima serie di pronunce dà corpo ad un orientamento
giurisprudenziale estremamente consolidato, fondato sulla tesi dell'intas
sabilità, ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, delle plusvalenze conse
guite mediante cessioni di beni, da parte di soggetti non imprenditori ed in assenza di intento speculativo, durante la vigenza dell'abrogato te
sto unico delle imposte dirette (d.p.r. n. 645 del 1958). La sentenza in epigrafe si inserisce in tale contesto, recando l'ennesima
conferma al suesposto principio, nelle ipotesi in cui le cessioni in parola abbiano ad oggetto titoli azionari o, in genere, quote sociali.
In senso conforme, v. Cass. 2 marzo 1987, n. 2168, Foro it., Mass.,
353; 29 settembre 1984, n. 4828, id., Rep. 1985, voce Ricchezza mobile,
n. 15; Comm. trib. centrale 3 agosto 1984, n. 7826, id., Rep. 1984, voce
cit., nn. 44, 45, confermata dalla sentenza che si riporta; Cass. 30 luglio
1984, n. 4542, id., Rep. 1985, voce cit., n. 27; Comm. trib. centrale
10 maggio 1984, n. 4858, id., Rep. 1984, voce cit., n. 53; Cass. 19 gen naio 1984, n. 457, ibid., n. 46; Comm. trib. centrale 25 ottobre 1983,
n. 3290, ibid., n. 30; 16 giugno 1983, n. 1344, id., Rep. 1985, voce cit.,
n. 26; App. Torino 15 novembre 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 43;
Comm. trib. centrale 8 febbraio 1982, n. 1144, id., Rep. 1982, voce cit.,
n. 23, in un'ipotesi particolare di cessione di quota di società in ammini
strazione straordinaria; 13 giugno 1981, n. 6928, ibid., n. 58; 3 giugno
1981, n. 6004, ibid., n. 55; 19 maggio 1981, n. 3638, id., Rep. 1983,
voce cit., n. 51; Cass. 28 marzo 1981, n. 1786, id., Rep. 1981, voce
cit., n. 88; Comm. trib. centrale 26 marzo 1981, n. 3636, ibid., n. 78;
Comm. trib. II grado Roma 10 marzo 1981, id., Rep. 1982, voce cit.,
n. 65; Comm. trib. II grado Cosenza 3 giugno 1980, id., Rep. 1981,
voce cit., n. 94; Cass. 19 novembre 1979, n. 6022, id., Rep. 1979, voce
cit., n. 57; 12 marzo 1979, n. 1537, ibid., n. 56; Comm. trib. centrale
24 ottobre 1977, n. 13018, id., Rep. 1978, voce cit., n. Ili; 2 aprile
1977, n. 468, id., Rep. 1977, voce cit., n. 63; 18 ottobre 1975, n. 16446,
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PARTE PRIMA
Svolgimento del processo. — Nel maggio del 1973 i germani
Ferdinando, Ferdinanda Maria Pia e Cleonice Perrone trasferiro
no alla s.r.l. Resi la metà delle azioni da essi posseduta, dalla
s.p.a. Sem - Società editrice II Messaggero, della s.p.a. Sei - So
cietà editrice italiana (proprietaria degli immobili adibiti a sede
de II Messaggero e della s.p.a. Sep - Società editrice pubblicazio ni (editrice de II Secolo XIX di Genova).
Con tre separati avvisi, notificati nel dicembre del 1977, l'uffi
cio delle imposte dirette di Roma accertò a carico di ciascuno
dei tre germani, ai fini delle imposte di ricchezza mobile e com
plementare, redditi di lire 2.474.000.000 circa, quali plusvalenze realizzate con le cessioni ridette.
La commissione tributaria di primo grado, premesso che l'uffi
cio aveva esattamente qualificato queste ultime come cessioni di
azienda, ridusse a lire 1.640.000.000 gli imponibili per ciascuno
dei contribuenti.
Proposero appello l'ufficio, chiedendo la conferma dei redditi
accertati, e i Perrone, contestando l'esistenza del presupposto im
positivo. Con tre separate decisioni, la commissione di secondo grado,
in accoglimento del secondo motivo di gravame proposto dai con
tribuenti, annullò gli accertamenti, escludendo la tassabilità delle
plusvalenze, in quanto derivanti non da cessione di azienda ma
di quote sociali da parte di soggetti non imprenditori, senza che
ne fosse stato provato l'intento speculativo (sotto altri aspetti,
peraltro, concretamente irrilevante). Con la decisione n. 7826 del 3 agosto 1984, (Foro it., Rep.
1984, voce Ricchezza mobile, nn. 44, 45), ora impugnata, la Com
missione tributaria centrale, riuniti i processi, ha rigettato il ri
corso dell'ufficio.
Ricorre per cassazione, con motivo unico, l'amministrazione
finanziaria dello Stato. Resistono, con controricorso, gli intimati, che hanno anche proposto ricorso incidentale condizionato. Le
parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione. — I due ricorsi vanno, preliminarmen
te, riuniti (art. 335 c.p.c.). L'amministrazione finanziaria fonda, con il proprio ricorso,
la tassabilità dei «redditi» di cui si tratta su due principi cosi,
conclusivamente, enunciati: a) «costituisce, in ogni caso, reddito
imponibile derivante da partecipazione in società anche la diffe
renza tra quanto dal socio percepito, in qualsiasi modo e da qual siasi soggetto, in occasione della (totale o parziale) liquidazione o cessione della quota (o di corrispondente pacchetto azionario) e quanto dal socio stesso conferito alla società all'atto della sua
costituzione o successivamente»; b) «un reddito derivante dalla
partecipazione in società non può in alcun caso essere riqualifica to come reddito dipendente da operazione speculativa».
L'enunciazione, diffusamente argomentata, si alimenta, in sin
tesi, delle proposizioni che seguono: 1) «plusvalenza si ha quan do il socio, che aveva in precedenza acquistato la partecipazione da socio uscente (o riducente la propria quota di partecipazione), realizza un prezzo (nel caso di successiva cessione della partecipa zione a terzo) o un rimborso (nel caso di liquidazione della socie tà o di recesso da essa) superiore a quello originariamente corrisposto»; 2) «eccedenza si ha quando il socio recupera co
munque denaro o altri beni in misura maggiore di quanto aveva in precedenza conferito in società»; 3) questa eccedenza, costi tuendo ricchezza accumulata, deve essere necessariamente sotto
posta ad imposizione sui redditi in capo al socio nel momento in cui
id., Rep. 1976, voce cit., n. 68; 13 ottobre 1975, n. 11896, ibid., n. 66; 21 maggio 1971, n. 4736, id., Rep. 1972, voce cit., n. 98; 2 maggio 1969, n. 2970, id., Rep. 1970, voce cit., n. 89; 10 febbraio 1967, n. 88207, id., Rep. 1967, voce cit., n. 84; 23 novembre 1966, n. 86481, ibid., n.
63; 23 novembre 1966, n. 86482, ibid., n. 68. Per i casi di cessione dell'intero pacchetto azionario, v. Comm. trib.
centrale 22 marzo 1984, n. 2658, id., Rep. 1984, voce cit., n. 89; 16 giugno 1983, n. 1345, id., Rep. 1983, voce cit., n. 44; 21 maggio 1983, n. 905, ibid., n. 68; 27 novembre 1981, n. 10528, id., Rep. 1982, voce cit., n. 29; Cass. 28 ottobre 1981, nn. 5643-5644, id., Rep. 1981, voce cit., nn. 82, 83, che ravvisano un'implicazione di trasferimento di azien da; 22 luglio 1980, n. 4783, id., 1980, I, 2741, con nota di richiami, cui adde, Comm. trib. centrale 4 maggio 1980, n. 5820, id., Rep. 1981, voce cit., n. 84, che ritiene configurabile la cessione dell'azienda.
In dottrina, i profili su indicati sono trattati da M. Miscali, La tassa zione delle plusvalenze speculative derivanti da cessioni azionarie, in Dir. e pratica trib., 1981, II, 697, e da F. Moschetti, Cessione di quota di società personale e realizzo di plusvalenza, in Giur. comm., 1977, II, 699.
Il Foro Italiano — 1988.
gli viene attribuita, venendo meno, a quel momento, tutte le ra
gioni di interesse asseritamente generale (favore per lo sviluppo economico e per l'occupazione) che possono avere indotto il legis latore a dettare norme tributarie «benevoli» nei confronti del
l'impresa o addirittura a sovvenzionarla esplicitamente; 4) non
vale opporre che la ricchezza accumulata in capo alla società sa
rebbe stata presso di essa già sottoposta ad imposizione sui reddi
ti (sugli utili societari), poiché solo con la 1. n. 904 del 1977 si
è avviato il processo di superamento della doppia imposizione della «ricchezza novella» (in capo alla società prima e in capo al socio poi), né i contribuenti hanno, comunque, dimostrato, nel caso concreto, che le tre società di cui facevano parte abbiano
effettivamente pagato l'imposta di ricchezza mobile, quanto me
no, negli anni trascorsi dal 1952 (data della successione paterna) al 1972; 5) la sottoposizione delle «eccedenze» ad imposizione, assicurata già dal testo unico del 1877 (art. 8) sulle imposte diret
te e poi dall'art. 41 d.p.r. 579/73, era, all'epoca che qui interes
sa, chiaramente desumibile dagli art. 135 e 81, 1° comma, d.p.r. 645/58, il quale non richiedeva affatto, a questo fine, l'intento
speculativo da parte di soggetti non imprenditori che avessero
posto in essere operazioni incrementati ve.
Il ricorso non può essere accolto. Il tema del dibattito «fissa
to» nei gradi anteriori è del tutto chiaro: l'ufficio — in ragione della ristretta base azionaria e della composizione di carattere fa
miliare della società Sei, Sem e Sep — ha individuato plusvalenze derivanti da cessione di azienda (e, quindi, tassabili con le impo ste reddituali, ai sensi degli art. 81, 2° comma, la parte, 100
e 106 d.p.r. 645/58, indipendentemente dall'accertamento dell'in
tento speculativo) nei corrispettivi percepiti dai contribuenti per il trasferimento alla soc. Resi delle azioni di rispettiva spettanza.
La commissione tributaria di primo grado, pur riducendo l'am
montare dei «redditi» accertati, ha condiviso questa tesi, rifiuta
ta, invece, dalla commissione d'appello e dalla Commissione
centrale nella scia di una nutrita giurisprudenza (radicata in prin
cipi indiscutibili del diritto societario — distinta soggettività della società di capitale rispetto a quella del socio, appartenenza del
patrimonio sociale alla prima, semplice diritto di partecipazione dei soci alla ripartizione degli utili di gestione, ecc. — su cui non è, ovviamente, il caso di soffermarsi) secondo la quale, nel
sistema delineato dal d.p.r. del 1958 il maggior valore realizzato
da soggetto non imprenditore (anche) mediante la vendita di tito
li azionari non costituisce, per sé, plusvalenza tassabile, ex art.
81 e 100 cit., neppure nell'ipotesi di cessione dell'intero pacchetto azionario, non potendosi quest'ultima identificare con il trasferi
mento del patrimonio sociale, che rimane di proprietà della socie
tà, con la conseguenza che, in tal caso (e, a più forte ragione,
nell'ipotesi di cessione parziale), il plusvalore conseguito è sog
getto a tassazione solo se la cessione si configuri come operazione
speculativa e sia, quindi, assistita dall'intento corrispondente (Cass.
2128/83, id., Rep. 1983, voce cit., n. 62; 1786/81, id., Rep. 1981, voce cit., n. 88; 2871/85, id., Rep. 1985, voce cit., n. 16; 4828, 4542 e 457/84, id., Rep. 1984, voce cit., nn. 49, 43, 46; 4783/80,
id., 1980, I, 2741, tra le tante). Pienamente consapevole di questo indirizzo e nel tentativo di
scongiurarne gli esiti negativi, l'amministrazione ricorrente pro
pone, ora, di abbandonare il concetto di «plusvalenze» e di ra
gionare, invece, al fine della tassabilità dei «redditi» di cui si
discute, in termini di «eccedenze», nella versione già nota.
Ma (detto anche che non è, in linea di principio, consentito
ribaltare radicalmente nel giudizio di legittimità il sistema difensi
vo adottato nelle sedi di merito e indipendentemente dalla legitti mità della latitudine concettuale assegnata al nuovo termine, tradizionalmente riferito alla differenza tra i conferimenti e il re
siduo attivo proporzionalmente riparabile tra i soci della società
sciolta) la proposta non è accettabile, perché si risolve in una
palese interversione del titolo (plusvalenze derivanti da cessione
di azienda) dell'imposizione posto a base degli accertamenti e sul
quale l'ufficio impositore ha sempre insistito (persino con mono
tonia) nelle fasi pregresse, senza, quindi, mai dolersi (corretta
mente) della corrispondente qualificazione da parte della
commissione giudicante e che si vorrebbe qui, inammissibilmen
te, sovvertire.
Sul punto (conviene sottolineare: sulla natura della fattispecie
impositiva «affermata» dall'ufficio, a prescindere dalla sua fon
datezza, contestata, questa, dai contribuenti) si è, infatti, pro nunciata — espressamente e irretrattabilmente — la commissione
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
di primo grado con statuizione non precedentemente impugnata
e, quindi, passata in giudicato.
Questo particolare profilo rende già vano il riferimento fatto
dalla difesa dell'amministrazione al potere «officioso» di qualifi cazione della fattispecie e al principio iura novit curia, perché, da un lato, anche sulla qualificazione giuridica del rapporto con
troverso può formarsi il giudicato, dall'altro il principio della ri
levabilità d'ufficio «in ogni stato e grado» deve essere coordinato
con il sistema delle impugnazioni e non opera, perciò, nel giudi
zio di appello o di cassazione, relativamente alle questioni che
abbiano costituito oggetto di statuizione esplicita non specifica
mente impugnata. Ma il riferimento non è appropriato anche per altra (e decisiva)
ragione. È noto che ciascun credito è individuato non dal petitum me
diato (eventualmente coincidente con quello di altri) ma dalla sua
«causa» e che il mutamento degli elementi fattuali di quest'ulti
ma si traduce, di conseguenza, nella prospettazione di una prete
sa nuova, che eccede l'ambito della presunzione del dato storico
entro il pertinente schema giuridico. Ne segue che, nella specie, l'amministrazione finanziaria, anco
rando, in questa sede, il proprio credito ad un titolo («ecceden
ze» derivanti da cessione di quote azionarie) diverso da quello
originario (plusvalenze realizzate mediante trasferimento di beni
aziendali), non propone, in realtà, di «riqualificare» soltanto il
presupposto impositivo inizialmente fatto valere, ma ne altera so
stanzialmente la fisionomia, stravolgendo, cosi, inammissibilmente,
il thema decidendum.
Il ricorso principale deve essere pertanto, rigettato.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 16 ottobre
1987, n. 7682; Pres. Pandolfelli, Est. De Rosa, P. m. Tridi
co (conci, conf.); Banca Toscana (Avv. Zangari) c. La Marti
na (Avv. Bottai). Cassa Trib. Pisa 19 ottobre 1983.
Lavoro (rapporto) — Unità produttiva — Nozione (L. 20 maggio
1970 n. 300, norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavo
ratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi
di lavoro e norme sul collocamento, art. 19, 20, 22, 35).
La nozione di unità produttiva, individuata dal contratto colletti
vo aziendale tramite il raggruppamento di più filiali dell'azien
da collocata in comuni diversi, riguarda tutti gli istituti che
necessariamente la presuppongono e non solo quelli ai quali
il contratto collettivo stesso faccia esplicito riferimento. (1)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 3 luglio 1987,
n. 5852; Pres. Chiavelli, Est. Marotta, P. M. Nicita (conci,
conf.); Petruzzo (Avv. Di Biase) c. Soc. Lloyd Europeo (Avv.
Bernardini). Cassa Trib. Chieti 9 maggio 1985.
Lavoro (rapporto) — Unità produttiva — Nozione — Fattispecie
(L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 18, 35).
A che si abbia un 'unità produttiva di un 'impresa, e cioè una arti
colazione autonoma avente sotto il profilo finalistico e funzio
nale idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di
produzione di beni o servizi dell'impresa stessa, di cui costitui
sce elemento organizzativo, è indispensabile anche l'esistenza
di un supporto di mezzi reali, quali, tra gli altri, locali per
la sede e per lo svolgimento dell'attività, strumenti di lavoro,
dotazione di fondi (nella specie, è stata cassata la decisione
del giudice di merito che ha negato la tutela reale del posto
di lavoro ad ispettore di assicurazione che lavorava da solo,
sul semplice rilievo che tutto il ramo riguardante l'accertamen
to, la liquidazione e l'eventuale contenzioso dei sinistri di una
certa zona veniva trattato dall'ispettore stesso, e senza accerta
re la sussistenza del suddetto supporto materiale). (2)
(1-2) Non si rinvengono precedenti negli esatti termini circa il principio di cui alla prima massima. Trib. Pisa 19 ottobre 1983, ora cassata, è rias
II Foro Italiano — 1988.
I
Motivi della decisione. — Con il primo motivo di gravame,
deducendo violazione e falsa applicazione degli art. 22 e 35 1.
n. 300 del 20 maggio 1970 nonché illogicità e contraddittorietà
di motivazione, la ricorrente osserva che — contraddicendo la
regola propostasi di delibare la questione con corretta aderenza
al testo letterale delle norme — il tribunale ha sostanzialmente
recepito il principio, sostenuto dal resistente, della natura struttu
rale dell'unità produttiva e condiviso la conseguenza della obbli
gatorietà del nulla-osta anche per il trasferimento del dirigente
sindacale all'interno della medesima.
Ciò in conseguenza di una definizione del concetto dell'istituto
che non teneva conto del coordinamento fra l'art. 22 e l'art. 35
1. 300/70, che propone, invece, una nozione unitaria dell'istituto
medesimo valido per tutte le norme, che ne facciano richiamo.
Tale difetto di coordinamento ha portato il tribunale a non
considerare che requisito essenziale dell'unità produttiva era l'ag
gregazione di almeno sedici dipendenti, il quale difettava in cia
scuna delle filiali considerate e che era stato realizzato soltanto
con l'accorpamento delle stesse, consentito dal punto XXV dei
criteri di comportamento alligato al contratto integrativo azien
dale che tale pluralità di dipendenti riduceva ad otto. Contraria
mente all'assunto del tribunale, l'aggregazione fra le singole filiali — ciascuna priva dell'elemento quantitativo richiesto dalla nor
ma statuale e da quella collettiva — aveva sortito l'effetto non
già di restringere, ma di allargare l'ambito della tutela sindacale
perché aveva consentito la costituzione di una r.s.a. nel numero
minimale di otto dipendenti previsto dalla contrattazione collettiva.
Con il secondo motivo di gravame, deducendo violazione e fal
sa applicazione delle clausole della contrattazione collettiva, as
sunte come mezzo di etero-integrazione degli art. 22 e 25 1. 300/70,
la ricorrente osserva che il tribunale ha scorrettamente interpreta
to tali disposizioni, ritenute decisive per la soluzione della contro
versia opinando che la formulazione letterale del punto XXV dei
criteri di comportamento non consentiva una interpretazione che
ne estendesse gli effetti e tutti gli istituti contemplati nel titolo
III della 1. 300 essendo la formula del raggruppamento interco
munale stata prevista ai soli fini della applicabilità dell'art. 19
(costituzione della r.s.a.) e dell'art. 20 (diritto di riunione in as
semblea). Al contrario — e in coerenza con la affermazione che il colle
gamento delle filiali all'interno dello stesso comune, previsto dal
l'art. 9 del contratto collettivo di categoria, aveva prodotto l'effetto
di una considerazione unitaria di più strutture autonome, valida
a tutti gli effetti in essi compreso quello del trasferimento dei
dirigenti sindacali — il tribunale avrebbe dovuto considerare che
l'applicazione della clausola del contratto integrativo comportava
l'esigenza di considerare come l'unica unità produttiva tutte le
filiali raggruppate, con conseguente efficacia di tutte le norme
dello statuto che tale nozione presupponeva. Conseguentemente,
non era esatta la tesi dell'obbligo delle parti con
sunta in Foro it., Rep. 1984, voce Lavoro (rapporto), n. 1080. Per l'af
fermazione che è il territorio comunale ad essere «dato selettivo orizzon
tale per l'individuazione dell'unità produttiva», e che sono valide le clausole
dei contratti collettivi (nella specie dell'art. 9 della convenzione 18 giugno 1970 del settore bancario richiamata da Cass. 7682/87 in epigrafe) che,
ai fini di tale individuazione, raggruppano le filiali endocomunali di un'a
zienda, cfr. Cass. 7 febbraio 1987, n. 1315, id., 1987, I, 2436, con nota
di L. Angiello.
In tema di nozione di unità produttiva nella materia dei trasferimenti
dei sindacalisti, cfr. Pret. Torino 18 giugno 1987, ibid., 1990, con nota
di richiami, e, sulla prospettiva unitaria della nozione, accolta da Cass.
7682/87 e nettamente dominante (Cass. 1315/87, cit. e Cass. 19 dicembre
1987, n. 9475, inedita), Cass. 18 marzo 1987, n. 2761, id., Mass., 458.
Per affermazione conforme alla sola prima parte della massima sub
2, e cioè nulla dicendosi circa l'indispensabilità dei mezzi reali, cfr. Cass.
1315/87, cit. Adde, Cass. 1° dicembre 1986, n. 7096, 27 novembre 1986,
n. 7019, 5 giugno 1986, n. 3763, 18 aprile 1986, n. 2765, id., Rep. 1986,
voce Lavoro (rapporto), nn. 937-940 (in Cass. 3763/86, cit. è detto che
l'autonomia va individuata dal punto di vista economico e strutturale
e/o da quello funzionale e/o dal risultato produttivo); Cass. 22 novem
bre 1985, n. 5806, id., Rep. 1985, voce cit., n. 1954, che ha confermato
la pronuncia di merito che aveva ritenuto come unità produttiva proprio
l'ispettorato sinistri periferico di una compagnia assicurativa operante sul
territorio nazionale.
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