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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezioni unite civili; sentenza 10 giugno...

Date post: 27-Jan-2017
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sezioni unite civili; sentenza 10 giugno 1988, n. 3940; Pres. Brancaccio, Est. Taddeucci, P.M. Caristo (concl. conf.); Istituto autonomo case popolari di Palermo (Avv. Trotta) c. Di Gregorio e Baiamonte (Avv. Di Prima, Carroccio). Conferma App. Palermo 28 aprile 1984 Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1988), pp. 2261/2262-2271/2272 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23181372 . Accessed: 25/06/2014 01:05 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.101 on Wed, 25 Jun 2014 01:05:59 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite civili; sentenza 10 giugno 1988, n. 3940; Pres. Brancaccio, Est. Taddeucci, P.M.Caristo (concl. conf.); Istituto autonomo case popolari di Palermo (Avv. Trotta) c. Di Gregorio eBaiamonte (Avv. Di Prima, Carroccio). Conferma App. Palermo 28 aprile 1984Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 2261/2262-2271/2272Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181372 .

Accessed: 25/06/2014 01:05

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

divenuta un vero e proprio ammortizzatore sociale del traumati

co fenomeno proprio della società post-industriale che in tempi relativamente brevi sta trasferendo una quota dell'occupazione

generale dall'industria al terziario.

Se dunque la c.i.g. — come d'altronde è sotto gli occhi di tutti — può servire anche soltanto a procrastinare o ad evitare licen

ziamenti (cfr. in tal senso Cass. 12 marzo 1980, n. 1648, id.,

1981, I, 485; Pret. Milano 28 novembre 1981, id., Rep. 1982,

voce cit., n. 1482; Trib. Milano 8 maggio 1982, ibid., n. 1445), viene meno l'argomento della pretesa oggettiva indifferenziazione

della causa integrabile e, quindi, della necessità d'una uguale ri

partizione dell'onere connessovi mediante il ricorso alla rotazione

di tutti i dipendenti. A questo punto è opportuna una pausa di riflessione.

Tra i due orientamenti citati vi è dissonanza più sul metro d'in

dagine che sui contenuti.

In realtà parlare di obbligo della rotazione nei limiti della fun

gibilità di mansioni non è affermazione molto distante da quella

che nega la doverosità del c.d. «dente di sega» salvo precisare che la c.i.g. non deve essere utilizzata per fini illeciti o discrimi

natori (e su ciò si è tutti d'accordo). In entrambi i casi non si

disconosce che la fonte del potere sospensivo dell'imprenditore si rinviene nell'oggettiva esistenza della causa integrabile (cfr., ad es., Trib. Napoli 26 novembre 1984, id., 1985, I, 561). La

sola differenza è data dal fatto che mentre nell'uno la fungibilità di mansioni è sufficiente per dedurre dalla mancata rotazione un

difetto di buona fede o correttezza da parte datoriale — e quindi

un sintomo di sviamento di potere in danno di lavoratori sgraditi — nell'altro la fungibilità di mansioni non basta ad escludere

che vi possano essere ulteriori esigenze organizzative (ad. es. in

termini di valutazione sinergetica) atte a giustificare che solo ta

luni lavoratori vengano collocati a zero ore.

Non a caso, trattandosi di problema peculiare di ciascuna real

tà aziendale, la rotazione costituisce oggetto ed obiettivo della

contrattazione collettiva di volta in volta raggiunto (in tutto od

in parte) dagli accordi gestionali. Infine va disattesa la censura di cui alla lettera D del ricorso.

Premesso che è comunque controverso che il ricorrente abbia

svolto prevalentemente mansioni di «picchettazione», cioè di as

semblaggio di più elementi d'una stessa struttura (in ricorso si

dice solo che ha svolto anche questi compiti), e che tale attività

sia parte integrante del ciclo produttivo della società convenuta,

si ricordi che anche in caso contrario l'aver appaltato il servizio

a ditta esterna non costituirebbe presumptio iuris et de iure di

volazione della 1. 23 ottobre 1960 n. 1369, ma solo un indizio

valutabile in concorso con altri per desumere eventualmente un'in

terposizione vietata che però, nella fattispecie, è del tutto impro

ponibile sia per la genericità della relativa allegazione, sia perché

smentita dal fatto che la cessione dell'attività suddetta era stata

pattuita con le organizzazioni sindacali dei lavoratori proprio nel

l'accordo aziendale del 9 maggio 1985 (v. punto 1.6, lett. d).

Da ultimo, non è neppure chiara la finalità della lamentela mos

sa: se intesa a contestare Van della sospensione (cioè l'esistenza

della causa integrabile) il ricorrente avrebbe dovuto impugnare il relativo provvedimento amministrativo; se invece l'attore vole

va negare la congruità causale della sua personale sospensione a zero ore rispetto alla causa integrabile (cioè contestare il man

cato rispetto del limite interno) avrebbe dovuto spiegare perché — a suo avviso — la ristrutturazione aziendale della società con

venuta avrebbe potuto prescindere dall'appaltare l'attività di «pic

chettazione».

Dunque la domanda va respinta, sia pure compensando per

intero fra le parti le spese di lite reputandosi equo non aggravare

ulteriormente la situazione d'un lavoratore che si trova già espo

sto a subire in prima battuta gli effetti d'un processo economico

che passa al di sopra delle sue possibilità decisionali.

Il Foro Italiano — 1988.

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 10 giu

gno 1988, n. 3940; Pres. Brancaccio, Est. Taddeucci, P.M.

Caristo (conci, conf.); Istituto autonomo case popolari di Pa

lermo (Aw. Trotta) c. Di Gregorio e Baiamonte (Aw. Di

Prima, Carroccio). Conferma App. Palermo 28 aprile 1984.

Espropriazione per pubblico interesse — Occupazione d'urgenza

illegittima — Realizzazione dell'opera pubblica — Proprietà del

terreno — Acquisto — Risarcimento danni al privato — Decre

to di esproprio — Successiva emanazione — Irrilevanza (Cod.

civ., art. 934, 2043; 1. 25 giugno 1865 n. 2359, espropriazioni

per causa di pubblica utilità, art. 50; 1. 22 ottobre 1971 n. 865,

programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sull'espropriazione per pubblica utilità, modifiche ed in

tegrazioni alle leggi 17 agosto 1942 n. 1150, 18 aprile 1962 n.

167, 29 settembre 1964 n. 847, ed autorizzazione di spesa per

interventi straordinari nel settore della edilizia residenziale, age

volata e convenzionata, art 20).

Occupato illegittimamente dalla pubblica amministrazione, per de

corso del termine di tre mesi previsto dall'art. 20 l. 22 ottobre

1971 n. 865, un terreno appartenente a privato, destinato alla

esecuzione di opera pubblica, la radicale trasformazione del fon

do, conseguente alla irreversibile realizzazione dell'opera, de

termina l'acquisto, a titolo originario, della proprietà da parte

della medesima pubblica amministrazione e l'insorgere del di

ritto del privato al risarcimento dei danni derivanti dalla perdi

ta subita, a nulla rilevando la successiva emanazione del decre

to di esproprio. (1)

Svolgimento del processo. — Tommaso Di Gregorio e Giusep

pe Baiamonte, con atto notificato il 7 marzo 1980 convenivano

in giudizio davanti al Tribunale di Palermo l'istituto autonomo

per le case popolari di quella provincia esponendo: che, autoriz

zata con decreto prefettizio del 1° marzo 1973 la occupazione

temporanea ed urgente di alcuni appezzamenti di terreno di loro

proprietà, ricompresi nel piano di zona per la edilizia economica

e popolare, l'ente predetto di era immesso nel possesso di quelle

aree il 1° agosto 1973, dopo la scadenza del termine di tre mesi

di cui all'art. 20 1. 22 ottobre 1971 n. 865 e quindi illegittimamen

te; che, sebbene il procedimento espropriativo non fosse stato

completato entro il termine a tal fine stabilito, l'opera pubblica

era stata già realizzata si da rendere impossibile la restituzione

dei suoli. Chiedeva pertanto che l'istituto convenuto fosse condannato

al risarcimento dei danni arrecati, in misura pari al valore venale

dei terreni occupati e dei soprassuoli distrutti.

L'istituto, costituitosi, controdeduceva che il valore del fondo

doveva essere calcolato in relazione alla sua natura agricola e

con riferimento all'epoca della occupazione.

Intervenuto in corso di giudizio, il 16 dicembre 1981, il provve

dimento prefettizio di espropriazione per pubblica utilità, gli at

tori ne negavano la legittimità e la idoneità a provocare la auto

matica conversione della loro domanda risarcitoria in quella

(1) Le sezioni unite ribadiscono l'orientamento di sez. un. 26 febbraio

1983, n. 1464, Foro it., 1983, I, 626, con osservazioni di R. Oriani,

disattendendo, con solerzia e tempestività, le contrarie enunciazioni di

Cass. 18 aprile 1987, n. 3872, id., 1987, I, 1727, con osservazioni di

A. Romano, postasi deliberatamente in antitesi con la pronuncia del 1983.

È appena il caso di avvertire, tuttavia, che l'indirizzo, ora confermato

dalle sezioni unite, è stato ribadito, sia pure alla stregua di una incomple ta informazione giurisprudenziale, fra le altre, da Cass. 6 agosto 1987, n. 6755, id., 1987, I, 2984, con osservazioni di C. M. Barone e da Cass.

13 novembre 1987, n. 8344, ibid., 3236, con ulteriori indicazioni. Cass.

15 luglio 1986, n. 4567, id., 1988, 1, 930, con richiami e osservazioni

di S. Afeltra (per la quale l'emanazione in corso di causa del provvedi mento impositivo della relativa servitù coattiva determina l'improponibi lità della domanda con la quale il proprietario del fondo occupato di

fatto dalla Snam, per installarvi condutture per la distribuzione di gas

per usi domestici, chiede la rimozione del manufatto), ha ritenuto, inve

ce, di non potersi uniformare al ricordato indirizzo «per il fatto che nella

specie non si è verificata una trasformazione irreversibile del fondo, la

cui utilizzabilità e godibilità da parte del privato proprietario è stata sola

mente diminuita e non eliminata, per effetto del compimento dell'opera

pubblica».

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2263 PARTE PRIMA 2264

di opposizione alla stima (con conseguente spostamento della com

petenza). Il tribunale adito, ritenuto legittimo il provvedimento ablato

rio, respingeva la domanda. I soccombenti interponevano grava me reiterando le loro pretese e l'istituto resisteva alla impugna zione eccependo, tra l'altro, la prescrizione del diritto al risar

cimento.

La Corte d'appello di Palermo, con sentenza del 28 aprile 1984,

accoglieva la domanda in dichiarata applicazione dei principi di

diritto enunciati da queste sezioni unite con pronunzia n. 1464

del 1983 (Foro it., 1983, I, 626) in tema di occupazione c.d. ac

quisitiva; rigettava la eccezione di prescrizione e condannava per tanto l'istituto al risarcimento dei danni, liquidati in lire 267.540.000.

Avverso tale sentenza l'istituto autonomo per le case popolari della provincia di Palermo ha proposto ricorso, sulla base di tre

motivi di censura, illustrati anche da memoria. Gli intimati han

no resistito con controricorso.

Motivi della decisione. — 1. - Il primo mezzo di annullamento

è rivolto a contestare la fondatezza logico-giuridica dell'orienta

mento giurisprudenziale istaurato con la pronuncia a sezioni uni

te n. 1464 del 26 febbraio 1983 e da allora costantemente ribadito

da questa corte regolatrice, a tenore del quale nelle ipotesi in

cui la p.a. (od un suo concessionario) occupi un fondo di pro

prietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occu

pazione sia illegittima per tale mancanza di un provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'oc

cupazione si configuri legittima, la radicale trasformazione del

fondo, con la irreversibile sua destinazione al fine della costru

zione dell'opera pubblica, comporta la estinzione del diritto di

proprietà e la contestuale acquisizione, a titolo originario, della

proprietà in capo all'ente costruttore; con la conseguenza che un

provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente al momento di tale acquisizione, de

ve considerarsi del tutto privo di rilevanza ai fini dell'assetto pro

prietario. Nel ricorso viene addebitato alla impugnata sentenza — la quale

al suindicato insegnamento si è adeguata — la violazione degli art. 936 e 952 c.c. e dell'art. 42 Cost., e più in generale delle

norme che escludono la perdita del diritto di proprietà al di fuori

dei casi espressamente contemplati dalla legge. Nella memoria illustrativa il ricorrente ha poi fatto testuale ri

chiamo alla sentenza n. 3872 del 1987 (id., 1987, I, 1727) con

cui la seconda sezione di questa corte ha di recente espresso moti

vato dissenso dai principi di diritto sopra richiamati, dando cosi

luogo ad un contrasto che ha consigliato, ai sensi del 2° comma

dell'art. 374 c.p.c., la remissione dei ricorso all'esame delle sezio

ni unite.

E poiché le censure del ricorrente ripetono pedissequamente le

argomentazioni svolte nella sentenza n. 3872 del 1987, occorre

verificare i punti nodali con essa segnalati come oggetto di un

diverso orientamento interpretativo, punti che investono: a) la

inconciliabilità della permanenza in vita del diritto di proprietà con il totale svuotamento dei poteri del proprietario di godere della cosa; ti) la inevitabilità del richiamo ai principi generali per

l'inquadramento della vicenda della occupazione illegittima del

l'immobile di un privato per la costruzione su di essa di una ope ra pubblica implicante la radicale trasformazione del bene.

Una nuova riflessione critica sui temi ora enunciati e su quelli con essi connessi conduce questa corte a sezioni unite a ribadire

la validità dell'indirizzo instaurato con la sentenza n. 1464 del

1983 e da allora incontrastatamente seguito, salvo che dalla pro nuncia n. 3972 del 1987, dalla giurisprudenza delle sezioni sem

plici, nonché dalla giurisprudenza di merito (nell'ambito della quale non è dato registrare alcun significativo dissenso).

2. - La conciliabilità della permanenza in vita del diritto di

proprietà con il totale svuotamento dei poteri del proprietario di godere e di disporre del suo bene, una volta occupato dalla

p.a. e radicalmente trasformato mediante l'esecuzione dell'opera

pubblica, è assunto cui non presta adeguato conforto né il richia

mo al principio della c.d. «elasticità» del diritto di proprietà, né

la contestazione del carattere definitivo della sua perdita. Possono ritenersi ormai pacificamente accolte — ed avallate

del resto in sede di vaglio di legittimità costituzionale — le affer

mazioni: che l'elemento caratterizzante del fenomeno della espro

priazione non è il trasferimento del diritto di proprietà da uno

ad altro titolare, bensì' il sacrificio coattivo del diritto reale, quale

Il Foro Italiano — 1988.

bene-valore, per ragioni di pubblico interesse; che natura espro

priativa riveste, dunque, l'atto il quale imponga limitazioni tali

da svuotare di contenuto il diritto di proprietà, incidendo sul go dimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile

in rapporto alla natura del bene stesso o determinando il venir

meno o una penetrante diminuzione del suo valore di scambio

(cfr. Corte cost. n. 6 del 1966, id., 1966, I, 203); che, essendo

costituzionalmente garantita la possibilità per il proprietario di

godere del proprio bene secondo la sua destinazione essenziale,

ogni qualvolta tale possibilità di godimento sia compromessa, im

mediatamente ed a tempo indeterminato, da un atto (giuridico e materiale) della p.a., ancorché diretto al perseguimento di fina

lità di interesse generale, la garanzia predetta deve operare nella

direzione di assicurare al proprietario un adeguato ristoro del pre

giudizio subito.

E dato che il momento essenziale del fenomeno espropriativo è rappresentato dalla privazione e cessazione coattiva, nel senso

contenutistico sopra ricordato, del diritto di proprietà, ben si spiega

perché l'indennizzo deve essere calcolato in base al valore del

bene al momento della sua perdita, cosicché una violazione del

disposto di cui all'art. 42 Cost, è stata ravvisata, tra l'altro, al

lorché nella norma ordinaria sia prevista una scissione tra la data

dell'espropriazione e quella anteriore considerata ai fini della de

terminazione del valore del bene espropriato (cfr. Corte cost. n.

155 del 1976, id., 1976, I, 2767). Orbene, quando la privazione o cessazione della utilità per il

proprietario del bene sia cosi esaustiva e totale da precludere al

titolare del diritto non solo ogni forma di godimento ma altresì

ogni possibilità, presente o futura, di intervento circa la destina

zione della res verso una qualsiasi utilizzazione difforme da quel la impressagli dalla p.a., non sembra realistico negare (a parte

l'aspetto della legittimità sostanziale o formale del fenomeno e

di questo considerando, per il momento, il grado di incidenza

fatturale) che si sia in presenza di un evento in senso lato ablato

rio; evento che tale impronta conserva anche quando l'annulla

mento del contenuto del diritto di proprietà non sia avvenuto

in modo tale da comportare una declaratoria specifica di caduca

zione dalla titolarità del diritto stesso.

Ciò in quanto, a fronte di una espropriazione sostanziale o

di valore, la superstite conservazione, nel privato, di una titolari

tà di segno esclusivamente nominale, mai potrebbe essere fatta

valere in contrasto ed a superamento della nuova destinazione

d'interesse pubblico assegnata al bene senza cadere nella più gra ve delle contraddizioni con il precetto costituzionale (art. 42): a

tenore del quale le garanzie apprestate alla proprietà privata —

mediante leggi che ne determinino i modi di acquisto, di godi mento ed i limiti — sono finalizzate, appunto, allo scopo preci

puo di assicurare, di essa, la «funzione sociale».

Della naturale espansività del diritto di proprietà, una volta

venuta meno la ragione di una sua compressione, può quindi far

si questione relativamente a limitazioni o ad attentati non cosi

radicali da comportare in forma definitiva l'azzeramento del con

tenuto sostanziale del diritto stesso o la vanificazione, nella sua

individualità, del bene che ne costituisce oggetto.

Quanto poi al connotato della definitività della perdita del di

ritto e del detrimento patrimoniale che la caratterizza, sembra

eccessivo caricare il concetto di un significato di assoluta ed ineli

minabile perpetuità; ma più ragionevolmente quell'aspetto deve

intendersi presente in ogni situazione di privazione permanente, a tempo indeterminato e destinata ad avere una durata eguale a quella del fatto (costruzione dell'opera pubblica e sua destina

zione a scopi di pubblica utilità) che l'ha determinata, secondo

un criterio di ordinaria prevedibilità. Criterio che — può ricordarsi per inciso — deve presiedere,

del resto, anche alla soluzione di problemi per qualche verso si

milari, quali quello della risarcibilità del danno da esecuzione le

gittima dell'opera pubblica o del danno non preveduto nella de

terminazione dell'indennizzo per l'occupazione temporanea (art. 46 e 70 1. n. 2359 del 1865).

In definitiva, l'eventualità che in un futuro più o meno lontano

l'opera stessa venga disgregata, declassata e dimessa e che il bene

del privato possa riacquistare perduti tratti di originaria, autono

ma individualità, non si profila come ipotesi atta ad anticipare, nel presente e nel concreto, gli effetti di una situazione, solo sul

piano della possibilità, astrattamente raffigurabile. Cosi non si vede come possa conciliarsi con elementari esigenze

di certezza del diritto la tesi secondo cui per tutto il primo ven

tennio dalla realizzazione dell'opera pubblica (successivamente ope

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

rando il fenomeno della usucapione) il privato — pur conservan

do sull'immobile un diritto dominicale di tipo puramente nomi

nale — continuerebbe ad essere legittimato, in luogo della p.a., dal lato attivo o passivo, riguardo alle azioni in materia di pro

prietà e di servitù; e continuerebbe ad essere gravato da oneri

fiscali, da obbligazioni ob rem e da qualsiasi altro peso ricondu

cibile ad una posizione proprietaria. Inconciliabile con elementari

sentimenti di giustizia suonerebbe, poi, l'affermazione che, sin

quando non venga pronunziato un decreto di espropriazione il

perimento fortuito dell'immobile occupato dalla p.a. incide in dan

no del proprietario «nominale», cui nessun indennizzo spetterebbe. 3. - Il contestato richiamo ai principi generali dell'ordinamento

per un inquadramento razionale, nel sistema, della cosi detta «oc

cupazione acquisitiva», e la discussa possibilità per la p.a. di per venire all'acquisto del bene del privato in esito ad una vicenda,

anomala, carente di specifica disciplina perché esorbitante dai modi

normativamente prefigurati per la acquisizione medesima, sono

punti che richiedono una più articolata analisi.

Preliminare ad ogni altro è la precisazione che il fenomeno

in esame non è quello, indeterminato e generico, dell'apprensione sine titulo da parte di un ente pubblico, per qualsivoglia ragione e fine, di un bene immobile del privato; bensì il fenomeno speci

fico, caratterizzato quale suo indefettibile punto di partenza da

una dichiarazione di pubblica utilità dell'opera e quale suo inde

fettibile punto di arrivo dalla realizzazione dell'opera medesima;

nonché dall'inserimento tra questi due poli di una attività esecuti

va manipolatrice del bene altrui nella sua fisionomia materiale

e posta in essere in deviazione dal modello di comportamento dettato dalle leggi in materia.

In tale ambito, come è noto, possono distinguersi quattro di

verse forme di occupazione del bene del privato, da parte della

p.a. e per una causa di pubblica utilità: a) l'occupazione tempo

ranea, ex art. 64 1. 2359 del 1865, prevista a scopo di approvvi

gionamento di materiali, di impianto di cantieri e di appresta

mento di altri usi necessari all'esecuzione dell'opera pubblica; oc

cupazione che non cade necessariamente sull'area destinata

all'insediamento dell'opera pubblica e che del bene postula come

normale la restituzione una volta esaurita la necessità dell'appro

priazione temporanea di alcune sue utilità; b) l'occupazione di

urgenza o strumentale, consentita nei casi di forza maggiore di

cui alla prima parte del 1° comma dell'art. 71 1. cit., che pari

menti ha ad oggetto l'uso temporaneo che da un fondo, in ragio

ne della sua naturale posizione rispetto all'opera pubblica ese

guenda, può essere strumentalmente tratto per la migliore e più

sollecita esecuzione di quella; c) l'occupazione temporanea d'ur

genza preordinata ai fini della espropriazione, prevista nella se

conda parte del 1° comma dell'art. 71 1. 2359 del 1865 e nell'art.

20 1. 22 ottobre 1971 n. 865 relativamente ai lavori dichiarati

urgenti ed indifferibili per l'esecuzione dell'opera pubblica; occu

pazione che normalmente ha per oggetto il bene del privato costi

tuente sede dei lavori (e dell'opera attraverso di essi realizzanda),

e che persegue la finalità di accelerare la esecuzione dell'opera

medesima rendendone possibile il sollecito inizio mercé l'antici

pata immissione nel procedimento dei fondi occorrenti prima an

cora che il procedimento espropriativo giunga alla sua naturale

conclusione con la pronunzia del decreto ablatorio; d) l'occupa

zione che sin dall'inizio si presenta come definitiva e che, in casi

eterogenei disciplinati da leggi speciali, assume i connotati tipici

di una procedura abbreviata di espropriazione.

Ora, premesso che nessuna delle figure sopra delineate risulta

presentare profili di contrasto con il disposto di cui all'art. 42,

3° comma, Cost, (laddove non risulta interdetta la possibile coe

sistenza, nell'ordinamento, di una pluralità di modelli espropria

tivi e laddove la mancata menzione dell'istituto della occupazione

non assume valore squalificante), l'esperienza viva consente di

registrare il fenomeno della sempre più larga diffusione della fi

gura dell'occupazione temporanea d'urgenza (cfr. supra sub c),

dapprima in forza di innumerevoli leggi settoriali, poi in forza

dell'art. 39 r.d. 8 febbraio 1923 n. 442 e più di recente in forza

della 1. n. 1 del 3 gennaio 1978. E sempre l'esperienza giudiziaria

impone di non tacere che, con la diffusione, è andato anche au

mentando nel tempo l'abuso nella utilizzazione dell'istituto, non

infrequentemente rivolto ad attingere, sul piano effettuale, risul

tati analoghi a quelli solo in ben diverse e particolari ipotesi di

legge conseguibili per via di occupazione definitiva (cfr. supra

sub d). È innegabile, infatti, che soltanto questo ultimo tipo di occu

II Foro Italiano — 1988.

pazione consente all'ente esecutore dell'opera pubblica di antici

pare nel tempo, legittimamente, i risultati della espropriazione. Una volta che vengano all'occupante permanentemente trasfe

rite tutte le facoltà riconnesse alla titolarità e derivanti dal godi mento del diritto di proprietà (tra cui quelle di apportate modifi

che anche strutturali al fondo, di stravolgere la fisionomia e per sino di annullarne la individualità); una volta che il soggetto privato sia irreversibilmente escluso da ogni facoltà di godimento e di

disponibilità dell'immobile, non si vede come al provvedimento di occupazione definitiva possa essere negato valore di atto d'im

perio attuativo di un trasferimento coattivo per causa di pubblica utilità del dominio sul bene dal proprietario ad altro soggetto;

provvedimento rispetto al quale quello eventuale e successivo di

espropriazione nessuna altra funzione potrebbe assolvere oltre a

quella di formalizzare un trasferimento già avvenuto e di appre stare un legittimo titolo per la intestazione catastale di un'opera

già realizzata.

Effetti traslativi della proprietà del bene — e, in questo senso

sostanziale, anticipatori di quelli tipici del decreto di espropria zione — non possono invece essere ricollegati ad un provvedi mento di occupazione d'urgenza (cfr. supra sub c), che è contras

segnato, vuoi ai sensi dell'art. 71 della legge fondamentale del

1865 vuoi ai sensi dell'art. 20 1. n. 865 del 1971, dalla caratteristi

ca costante della temporaneità dell'autorizzato impossessamento

del bene altrui.

Occorre infatti tenere presente che, tanto ai sensi della 1. 2359

del 1865 (art. 1) quanto ai sensi della 1. n. 865 del 1971 (art.

9, 10 e 11) l'espropriazione è intesa come strumento finalizzato

all'esecuzione di opere pubbliche, alla realizzazione degli inter

venti per esse previsti ed alla acquisizione materiale delle aree

occorenti; e deve quindi precedere i suindicati momenti esecutivi

non essendo alla p.a. consentito di disporre uti dominus del bene

alieno se non dopo averne acquisito legittimo titolo.

In questa prospettiva, riveste carattere derogatorio di un prin

cipio generale l'istituto della occupazione temporanea d'urgenza,

tanto da richiedere, a sua volta, il presidio di un titolo autorizza

torio e la garanzia sostanziale dell'indicazione di termini di vali

dità, sia iniziale che finale.

Tale connotato della temporaneità, propria della occupazione

d'urgenza anticipata, impone alla p.a. — pressata dal duplice do

vere di rispettare i termini ed i modi della procedura espropriati

va e di mettere a frutto gli indugi imposti dall'/ter burocratico — l'onere di coordinare i tempi dell'attività materiale e dell'atti

vità amministrativa.

Per un verso, infatti, il dovere del sollecito inizio dei lavori

consente l'impianto e l'organizzazione in loco degli apparati e

dei mezzi occorrenti per la realizzazione dell'opera pubblica ed

anche la messa in atto di alterazioni le quali, all'occorrenza, sia

no passibili di remissione nel pristino stato; per altro verso la

esecuzione di modifiche e di trasformazioni del fondo cosi radi

cali e distruttive da precludere ogni possibilità di futura riconse

gna del bene secondo la sua originaria fisionomia, destinazione

e consistenza e da rendere, cioè, definitiva l'occupazione iniziata

come temporanea, impone pur sempre alla p.a. (a mente dell'art.

73 della legge fondamentale) di munirsi di un titolo ablatorio.

Cosicché l'anticipazione nel tempo dell'esautoramento del pro

prietario da ogni contenuto del diritto si presenta come assistita

da un crisma di legittimità rigidamente condizionato alla pronun

cia del decreto di espropriazione prima della scadenza del termine

assegnato alla occupazione temporanea d'urgenza. Termine sca

duto il quale l'attività di irreversibile trasformazione della strut

tura e della destinazione essenziale del bene si paleserà priva di

giustificazione e quindi abusiva; e diverrà, nel contempo, attuale

e non più soggetto a condizione il diritto del proprietario, del

bene stesso di agire in sede giudiziaria in reazione all'abuso

sofferto.

Se tale continuità e saldatura, tra gli effetti sostanziali antici

patamente e condizionatamente assentiti in via temporanea d'ur

genza e quelli definitivamente legittimati per via d'esproprio, non

si realizzano — o per essere del tutto mancato il provvedimento

autorizzatorio dell'occupazione temporanea, o per essere venuta

meno sin dall'origine la sua validità, o per essere spirato il termi

ne per la sua efficacia — l'occupazione, sempreché contrassegna

ta dalla radicale trasformazione del bene di cui la p.a. si sia ap

propriata per la realizzazione di un'opera già dichiarata di pub

blico interesse, si disvela dunque quale occupazione definitiva

illegittima in quanto posta in essere al di fuori dei casi nei quali

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2267 PARTE PRIMA 2268

è per legge consentito alla p.a. di pervenire, anteriormente alla

pronuncia di un provvedimento formale di espropriazione, alla

ablazione per causa di pubblica utilità del diritto altrui di proprietà.

La constatazione della illegittimità di siffatto comportamento — illegittimità che è bene, ancora una volta, sottolineare — non

comporta, peraltro, quale necessario corollario l'affermazione che

da esso mai potrebbero derivare effetti privativi della proprietà

privata. La dipendenza da una causa di pubblico interesse legal

mente dichiarata (art. 834 c.c.) non può dirsi a priori incompati

bile con il fenomeno dell'occupazione definitiva, ancorché scatu

rita da abusiva degenerazione da occupazione temporanea; né l'art.

42 Cost, demanda alla legge ordinaria di determinare, oltre ai

modi di acquisto della proprietà privata, anche quelli della sua

perdita: tra i quali, comunque, deve annoverarsi in primo luogo

la perdita del diritto causata dal venir meno del suo oggetto, e

cioè del bene di cui l'ordinamento riconosce e protegge l'apparte

nenza soggettiva in ragione dell'interesse economico-sociale che

la sua utilizzazione può soddisfare.

La conseguenza che ne scaturisce, dell'insorgere a carico del

l'autore della distribuzione o della devastazione del bene, di una

obbligazione risarcitoria, corrisponde, del resto, ad un principio

di diritto comune, dalla stessa legge fondamentale n. 2359 del

1865 espressamente recepito nell'art. 70, relativamente alla ipote

si in cui l'esecutore dell'opera pubblica durante l'occupazione tem

poranea si sia avvalso del terreno occupato per usi non consentiti

eppure abbia ad esso arrecato danni non previsti nella determina

zione della indennità. Ipotesi, questa, di sia pur minore gravità

rispetto a quella della ocupazione «acquisitiva» ma comunque sin

dai primi commentatori della norma, oltre un secolo fa, venne

ritenuta foriera di un'obbligazione risarcitoria per equivalente pe

cuniario, non pure di un obbligazione di riduzione dei luoghi nel

loro pristino stato.

4. - Maggiormente persuasiva non risulta l'obiezione che, co

struendo la occupazione definitiva illegittima come occupazione

acquisitiva, si addiverrebbe alla attribuzione in favore della p.a.

in un modo di acquisto della proprietà non soltanto privo di pre

visione normativa, ma altresì desumibile solo attraverso una di

storta interpretazione dei principi generali dell'ordinamento.

Premesso che all'inquadramento del tema non giova il richia

mo all'art. 922 c.c. (il quale tratta dei modi di acquisto della

proprietà privata ma non esaurisce la elencazione dei modi attra

verso cui l'ente pubblico perviene all'accrescimento del proprio

demanio o del proprio patrimonio indisponibile), occorre subito

notare che un problema di identificazione dell'assetto proprieta

rio non si pone neppure in ordine a quei beni demaniali che,

per definizione, devono necessariamente appartenere allo Stato

od alle regioni (cosi detto demanio necessario).

In tali casi la sola creazione del bene demaniale nei suoi limiti

spaziali nuovi è sufficiente — anche in difetto di un procedimen

to espropriativo: cfr. Cass. n. 1287 del 1960 (id., Rep. 1960, voce

Strade, n. 12), n. 5349 del 1978 (id., Rep. 1978, voce cit., n.

34), n. 2644 del 1981 (id., Rep. 1981, voce Servitù e zone milita

ri, n. 1) — a far conseguire alla res nel suo complesso il carattere

pubblico ed inoltre a determinare le condizioni giuridiche proprie

del suo regime di appartenenza. Ma resta, ben inteso, salvo il

diritto del privato ad ottenere il ristoro per la perdita del suo

immobile ricompreso, non per causa puramente naturale, nella

perimetrazione ed entrato a far parte del bene del demanio neces

sario (ipotesi di c.d. espropriazione di fatto o di espropriazione

larvata). In altri casi è l'intervento di una espressa disposizione di legge

a precisare i limiti oggettivi, dell'appartenenza all'ente pubblico e dell'assoggettamento al regime relativo, di determinate catego

rie di beni demaniali. Cosi, ad esempio, l'art. 20 1. 20 marzo

1865 n. 2248 all. F, sulle opere pubbliche, non solo precisa che

il suolo delle strade nazionali è proprietà dello Stato, quello delle

strade provinciali appartiene alle province, ed è proprietà del co

mune il suolo delle strade comunali, ma elenca altresì i manufatti

e le pertinenze che sono considerati quali parti di dette strade

a tutti gii effetti amministrativi. Anche in questi casi resta sempre salvo il diritto al ristoro del danno in ipotesi di espropriazione di fatto od occulte, con riserva al giudice ordinario o di decidere

su ogni questione insorta in ordine alla proprietà del suolo o del

le opere annesse alle strade.

Il problema dell'appartenenza soggettiva viene, comunque, in

piena evidenza relativamente ai beni pubblici c.d. «artificiali»,

siano essi demaniali o componenti il patrimonio indispensabile

li Foro Italiano — 1988.

dell'ente pubblico; problema che la più qualificata dottrina im

posta ricollegando l'acquisto della qualità di «bene pubblico» in

primo luogo ad una situazione di fatto (vale a dire alla costruzio

ne di un bene con le caratteristiche tipologiche proprie di una

determinata categoria di beni considerati pubblici) e quindi alla

manifestazione della volontà dell'ente pubblico di destinare il be

ne da lei realizzato al soddisfacimento di determinati interessi pub

blici. Manifestazione che può rivestire anche carattere tacito e

che, rispetto ai beni demaniali, rileva quale fattore concorrente

alla formazione della situazione fattuale sopra accennata, mentre

rispetto ai beni del patrimonio indisponibile privi di caratteristi

che specifiche proprie assume una più incisiva ed autonoma ri

levanza.

Tralasciando altri aspetti delle vicende relative all'acquisto del

la qualità di «bene pubblico» (demaniale o indisponibile), per l'economia della decisione delle questioni ora in esame sembra

opportuno mettere in evidenza che anche la volontà relativa alla

destinazione del bene di nuova creazione, oltre a non richiedere

per la sua operatività una veste formale, può essere desunta dal

semplice comportamento fattuale dell'ente, e cioè attraverso l'e

same dei fini concretamente perseguiti ed attinti attraverso la co

struzione dell'opera pubblica; costruzione che, una volta realizza

ta, palesa l'emergere, nel mondo fisico ed in quello del diritto,

di un nuovo bene in senso giuridico, creato a soddisfacimento

di un interesse pubblico. Tale carattere di novità postula che il bene-opera pubblica, nel

la sua unitarietà funzionale, abbia un regime giuridico unico e

non distinto e frazionato a seconda della ritualità o meno dei

modi attraverso i quali l'ente ha conseguito la disponibilità delle

varie parti componenti, o frazioni fisiche, del bene medesimo.

Come questa corte di legittimità ha già avuto occasione di af

fermare (cfr. sent. n. 3243 del 1979, id., 1980, I, 162) e di ribadi re (cfr. sent. n. 6755 del 1987, id., 1987, I, 2984), l'opera pubbli

ca, una volta realizzata, costituisce un nuovo bene immobile il

quale, anche se utilizza un preesistente bene privato, l'attrae nella

propria disciplina giuridica, facendogli perdere la sua connota

zione originaria ed imprimendogli quella stessa qualificazione di

«pubblico» che accede all'opera nella sua unità.

Orbene, l'attrazione del regime giuridico proprio dell'opera pub blica nel suo complesso, delle singole parti che comunque con

corrono a costituirlo, non potrebbe verificarsi se non postulando la propagazione — su ciascuna e su tutte quelle componenti —

del titolo di appartenenza allo Stato od all'ente pubblico in gene

re. Ed invero, se le qualificazioni di «bene pubblico demaniale»

o di «bene pubblico indisponibile» rappresentano delle sottodi

stinzioni operanti nell'ambito della più generale categoria dei be

ni appartenenti alla p.a., sarebbe inconcepibile riconoscere, ri

spetto ad un singolo bene nel suo complesso, la qualificazione

pubblicistica agli effetti della disciplina giuridica ad esso applica bile e negarne poi, limitatamente ad una sua frazione, il regime di appartenenza soggettiva.

Tale fenomeno, di attrazione nella unitaria condizione giuridi ca e di propagazione, alle singole parti, del titolo di appartenenza sul tutto, è del resto presente ed operante pure nelle ipotesi, so

pra ricordate, di conglobamento del suolo del privato nella for

mazione di un nuovo bene del demanio necessario, o di delimita

zione legale dell'oggetto e dei confini del bene appartenente ad

una determinata categoria del demanio c.d. artificiale; ed è feno

meno che corrisponde ad esigenze di certezza del diritto e di fun

zionalità di disciplina, cosi generali da rendere arbitrario un re

stringimento del suo ambito di applicazione a determinati settori,

oppure ai casi di espressa previsione normativa.

5. - Per la soluzione della questione sopra esaminata, dell'ac

quisto a titolo originario da parte dell'ente pubblico del suolo

illegittimamente occupato per l'inserimento dell'opera pubblica, del tutto normale si palesa pertanto il richiamo ai principi gene

rali dell'ordinamento.

Come sul versante civilistico, per la soluzione di problemi per

qualche aspetto analoghi, l'odinamento attribuisce prevalenza al

la posizione soggettiva caratterizzata dall'interesse apparso meri

tevole di maggiore protezione, cosi sul versante pubblicistico de

ve ritenersi pertinente e coerente la individuazione del portatore dell'interesse prevalente, tra il privato proprietario del suolo e

la p.a. costruttrice dell'opera pubblica, allorché si ricerchi la giu stificazione del fenomeno da autorevole dottrina qualificato co

me «espropriazione di fatto».

La normativa civilistica, di cui agli art. 934, 936 e 938 c.c., venne del resto presa in esame nella precedente sentenza n. 1464

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

del 1983 di queste sezioni unite, non certo ai fini di una sua diret

ta applicazione e regolamentazione del fenomeno suindicato, ma

quale indice rivelatore della esistenza, nell'ordinamento, di un cri

terio costante e quindi di un principio generale in ordine alla ne

cessità di graduazione, e all'occorrenza di sacrificio, di interessi

tra di loro incompatibili.

In questa ottica trova, del resto, base razionale il rigetto della

tesi della ammissibilità di una accessione in favore del privato

proprietario del suolo, della proprietà dell'opera pubblica realiz

zata dalla p.a. e destinata ad un pubblico servizio quale nuovo

bene di pertinenza del demanio o del patrimonio indisponibile.

Secondo quanto la prevalente dottrina ed un insegnamento giu

risprudenziale assolutamente fermo nel tempo (cfr. Cass. 1184

del 1948, id., Rep. 1948, voce Proprietà, n. 42; n. 3386 del 1954,

id., Rep. 1954, voce cit., n. 23; n. 1440 del 1961, id., 1961, I, 1663; n. 1840 del 1961, ibid., 1315; n. 2644 del 1981, cit.) hanno

posto in evidenza, nell'ipotesi in esame non ricorrono assoluta

mente né i presupposti generali né la ratio dell'art. 936 c.c., i

quali limitano l'applicabilità nell'istituto ai rapporti tra i privati

in relazione alle normali costruzioni effettuate sul terreno altrui

e suscettibili di arrecare, comunque, a questo un aumento di va

lore; mentre è da escludere che sussista un qualche interesse del

proprietario del suolo a ricevere un'opera pubblica, od una fra

zione di essa priva di valore commerciale e sovente non suscetti

bile di utilizzazione privata. Sono inoltre da disattendere gli assunti secondo cui: a) nono

stante la irreversibile trasformazione del fondo sarebbe legittimo

ed efficace il successivo decreto di espropriazione, purché emesso

entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità

ed entro i termini finali assegnati per le espropriazioni e per i

lavori: b) l'azione accordata dall'odinamento a tutela del privato

spogliato del bene perché utilizzato nella costruzione dell'opera

pubblica, non avrebbe natura personale ed aquiliana, bensì natu

ra reale e petitoria, con conseguente imprescrittibilità ex art. 948

c.c.; c) la cosi detta «occupazione acquisitiva» finirebbe col pre

miare, e quindi con l'incentivare, un comportamento dell'ammi

strazione palesemente illecito e contrastante con i principi della

legalità; d) la permanenza della proprietà del suolo nel patrimo

nio del privato potrebbe essere conciliata con la pratica impossi

bilità di ottenre il ripristino della situazione anteriore stante l'o

stacolo rappresentato dalla presenza dell'opera pubblica, ravvi

sando nell'azione promossa dal privato al fine di ottenere il

pagamento della aestimatio rei la volontà, quanto meno implici

ta, di rinunziare alla proprietà in favore dell'ente occupante, se

condo uno schema abdicatorio non estraneo all'assetto della pro

prietà privata (art. 1070 e 550 c.c.). In ordine al punto sub a) giova ribadire che al decreto di espro

priazione può essere attribuita efficacia sanante ex tunc della ille

gittimità — originaria o meno — di una occupazione pregressa

soltanto se non si sia già verificata l'irreversibile trasformazione

dell'immobile ed il suo inserimento, strutturale e funzionale, nel

la costruzione dell'opera di pubblico interesse. Ciò in quanto,

come già in passato precisato da questa corte (cfr. sent. n. 3243

del 1979, cit.), con detta costruzione non soltanto si consolida,

consumandosi ed esaurendosi definitivamente, il fatto illecito po

sto in essere con l'abusiva occupazione, ma si realizza altresì lo

scopo dell'apprensione dell'altrui bene, con appropriazione da parte

della p.a. di tutte le utilità da esso ritraibili. La circostanza, quin

di, che non siano ancora scaduti i termini di legge per la ultima

zione dei lavori e delle espropriazioni, pur palesando che in astratto

nell'autore della indebita occupazione non è venuto meno il pote

re espropriativo, non vale ad escludere che di esso sia però venu

to meno l'oggetto, non essendo concepibile che di quel potere

l'ente possa avvalersi al fine di appropriarsi di un immobile già

in precedenza entrato a far parte del suo demanio o del suo patri

monio indisponibile (cfr. Cass. n. 8344 del 1987, id., 1987, I,

3236). Ed una volta verificatosi, in tutte le sue componenti fat

tuali, quest'ultimo evento, vano sarebbe il tentativo di ravvisare

nella successiva pronuncia di un decreto di esproprio qualcosa

di più e di diverso dalla creazione, a posteriori, di un titolo for

male di acquisto, non più ai fini dell'assetto proprietario, bensì

solo a quelli della classificazione amministrativa e dell'accatasta

mento del bene.

In ordine alla prospettazione sub b) sembra opportuno precisa

re che la radicale trasformazione e la irreversibile destinazione

del fondo del privato alla realizzazione dell'opera pubblica, l'at

trazione di esso nel regime proprio del bene pubblico comporta

li Foro Italiano — 1988 — Parte I-44.

no la neutralizzazione del diritto di proprietà con effetti analoghi

a quelli della perdita definitiva dell'oggetto del diritto medesimo.

Ora, anche secondo l'economia della disciplina prevista dall'art.

948 c.c., la situazione fatta valere in giudizio del privato che si

dolga della irriversibile privazione del suo fondo occorso per la

costruzione dell'opera pubblica è ampiamente assimilabile a quel

la della distruzione materiale della cosa, con conseguente impos

sibilità della sua restituzione, mentre presenta ben scarsi punti

di contatto con la diversa ipotesi della impossibilità di restituzio

ne della res da parte del convenuto che successivamente alla do

manda ne abbia per fatto proprio perduto il possesso.

Senonché soltanto in quest'ultima ipotesi può ritenersi, secon

do la migliore dottrina, che l'azione di rivendicazione rivesta na

tura reale e carattere restitutorio imprescrittibile pur avendo ad

oggetto il controvalore della cosa; mentre nella prima ipotesi l'a

zione mirante ad ottenere il valore pecuniario del bene distrutto

assuma natura risarcitoria e resta quindi soggetta alla prescrizio

ne quinquennale. Nei suindicati sensi si è in passato più volte espressa questa

Suprema corte, non senza mancare di precisare che è ammissibile

l'azione personale di risarcimento del danno e non quella di ri

vendicazione, allorché la cosa al momento della domanda per

un qualunque motivo non esiste più nella sua individualità (cfr.

sent. n. 1269 del 1962, id., Rep. 1962, voce Rivendicazione, n.

9; n. 2135 del 1966, id., Rep. 1966, voce cit., n. 48).

L'obiezione che, negandosi l'esperibilità dell'azione di rivendi

cazione del privato contro la p.a. per il recupero del fondo abusi

vamente occupato, essa verrebbe ad essere premiata nel suo scor

retto operare — supra sub c) — oltre a non tenere conto della

impossibilità pratica di ottenere una restituzione in esito a giudi

zio di ottemperanza, qualora l'opera pubblica abbia trasformato

l'area ed immutato la sua destinazione determinando obiettiva

condizione di irreversibilità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16 maggio

1980, n. 505, id., Rep. 1980, voce Strade, n. 15) non risulta assi

stita da giuridico fondamento.

L'acquisizione del fondo alieno per via di occupazione definiti

va illegittima anziché attraverso la rituale procedura espropriati

va comporta infatti, per il privato, un ristoro più completo e

per l'ente occupante oneri più gravi.

Mentre la indennità di espropriazione non rappresenta una in

tegrale riparazione della perdita subita dal proprietario, bensì il

massimo di contributo garantito all'interesse privato, tenuto con

to dell'interesse pubblico che l'espropriazione mira a realizzare,

il risarcimento del danno dovuto al proprietario del fondo arbi

trariamente occupato non potrà mai essere inferiore al valore ve

nale di esso e potrà all'occorrenza superare tale misura in ragione

dei frutti perduti. La somma attribuita a titolo di risarcimento

del danno, inoltre, è passibile di rivalutazione monetaria a diffe

renza di quella dovuta a titolo di indennità da espropriazione

(principio di consolidata giurisprudenza); l'ammontare della somma

risarcitoria non è poi soggetta a decurtazione (come invece quella

indennitaria) qualora dalla esecuzione dell'opera pubblica derivi

un vantaggio ad altra parte del fondo; il maturare, infine, a cari

co della p.a. di un debito risarcitorio di entità superiore a quello

indennitario non dovrebbe lasciare andar esente da addebito, nei

confronti dell'ente di appartenenza, il funzionario responsabile

della lievitazione del costo dell'opera pubblica.

Inidoneo ad approdare a fruttuosi risultati è da ultimo il tenta

tivo — cfr. supra sub d) — di enucleare dall'esperimento dell'a

zione di risarcimento del danno contro la p.a., per l'occupazione

del bene del privato e la costruzione su di esso di un'opera pub

blica, una chiara volontà del privato di abbandonare il diritto

di proprietà in favore dell'occupante (cfr. la citata sentenza n.

3872 del 1987). A parte che la ventilata costruzione non si attaglia ai casi in

cui dall'attore sia stata proposta azione di rilascio dell'immobile,

e solo in linea subordinata quella del risarcimento dell'equivalen

te pecuniario, oppure unicamente la prima azione, ostano alla

persuasività dell'assunto diverse considerazioni.

Nelle varie ipotesi, normativamente previste, di abbandono del

proprio diritto (art. 550, 1070, 1104 c.c.) la rinunzia del proprie tario assume costantemente carattere di gratuità, di volontaria

accettazione, cioè, di una decurtazione del proprio patrimonio,

sia pure in vista di evitare spese od oneri maggiori; ma non può

mai tradursi in strumento per immutare, nel patrimonio stesso,

una sua componente sostituendo al bene immobile dereliquendo

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2271 PARTE PRIMA 2272

il suo controvalore monetario ed imponendo ad altri di prestarsi a tanto mercé una sorta di acquisto coattivo.

In secondo luogo l'abbandono della proprietà del bene immo

bile, proprio perché di per sé incapace di approdare ad effetti

traslativi nei confronti di terzi determinati, provocherebbe quelle vacuità di assetto proprietario dante luogo, secondo la previsione

di cui all'art. 827 c.c., alla attribuzione del bene stesso al patri monio dello Stato (e non dell'ente che lo ha occupato, se diverso

dallo Stato). In terzo luogo, in tanto è possibile ricollegare una qualsiasi

conseguenza giuridica alla volontà, che il privato avrebbe mani

festato, di dismettere il diritto dominicale su di un bene, in quan

to nel momento della manifestazione non sia venuta meno la si

tuazione di soggettiva appartenenza, essendo prive di significato,

prima ancora che di effetti, la volontà di abbandono, o di rinun

zia alla rivendicazione, che avessero ad oggetto un bene alieno.

La costruzione in esame riposa, dunque, su di una premessa

(la superstite permanenza nel privato di un diritto dominicale di

tipo puramente nominale) che per quanto a suo luogo osservato

non può essere condivisa; e conduce ad una conclusione ancor

più inaccettabile: quale quella che riconnette l'acquisto della pro

prietà sul fondo utilizzato per la costruzione dell'opera pubblica e con quest'ultimo sussunto nell'ambito del regime pubblicistico

proprio dei beni demaniali o patrimoniali indisponibili, non già ad una volontà della p.a. (espressa mediante un atto di destina

zione), bensì ad una (presunta) volontà proveniente da un sogget to privato che, rispetto a quella destinazione, può rivestire posi zione passiva, di paziente e di danneggiato, non certo quella di

arbitro o di autore. (Omissisj

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 10 mag

gio 1988, n. 3415; Pres. Santosuosso, Est. Schermi, P.M. De

Martini (conci, conf.); Alberti (Avv. Iannotta) c. Soc. Mio

dini (Aw. Angelini, Isi). Conferma App. Bologna 1° settem

bre 1982.

Circolazione stradale — Tamponamento a catena — Danni ai

veicoli intermedi — Presunzione di corresponsabilità — Fatti

specie (Cod. civ., art. 2054).

Nell'ipotesi di scontro tra veicoli, in cui non sia possibile rico

struire l'esatta dinamica del sinistro e individuare con certezza

l'atto generatore del danno, deve presumersi che tutti i condu

centi, la cui condotta colposa potrebbe aver causato tale dan

no, abbiano ugualmente concorso alla sua produzione (nella

specie, trattavasi di un tamponamento a catena in cui il condu

cente di un veicolo intermedio aveva riportato gravi danni fisici e non era stato possibile accertare in giudizio da quale tampo namento tali danni fossero stati causati). (1)

(1) La pronuncia della Cassazione verte su una controversia instaura

tasi tra i conducenti di due (dei tanti) veicoli intermedi coinvolti in un

tamponamento a catena di vaste proporzioni ed enuncia un decisum di

indubbio interesse. Si trattava, nella specie, di verificare la veridicità di due opposte «ver

sioni» circa la dinamica dell'incidente (tra autotreni), in cui il ricorrente aveva riportato rilevanti danni fisici. Il controricorrente non negava di aver tamponato, da tergo, l'automezzo dell'infortunato, ma asseriva che i danni riportati da quest'ultimo — il cui autotreno, ad incidente avvenu

to, si presentava letteralmente incastrato tra due mezzi pesanti — fossero stati causati da un precedente violento scontro di tale veicolo con quello antistante. Viceversa, il ricorrente sosteneva di essere riuscito ad arrestare in tempo utile il proprio automezzo, che sarebbe stato spinto contro quel lo antistante solo a seguito del tamponamento, da tergo, dell'autotreno condotto dal controricorrente. Non v'è chi non s'avveda come le opposte versioni conducano anche a differenti giudizi di responsabilità. Complice la fitta nebbia, nessuno aveva visto nulla, tranne, ovviamente, le parti in causa; nell'accertamento della polizia stradale si era «riconosciuto che

non esistevano elementi per stabilire» l'esatta versione dei fatti. Le stesse

risultanze istruttorie, infine, non avevano consentito di ricostruire la di

1l Foro Italiano — 1988.

II

PRETURA DI MILANO; sentenza 24 marzo 1987; Giud. Auli

sa; Foroni (Avv. Pisani) c. Torlai e altri (Avv. Monti, Scia

LANDRONE, LaURENTI).

Circolazione stradale — Tamponamento a catena — Responsabi lità (Cod. civ., art. 2043).

Nel tamponamento a catena causato da un autoveicolo, che ab

bia urtato l'ultima delle auto ferme in colonna, il conducente

del primo è responsabile nei confronti di tutti i danneggiati. (2)

I

Svolgimento del processo. — Il 1° aprile 1969, verso le ore

6,40, in territorio di Lodivecchio, sulla carreggiata nord dell'au

tostrada del sole, un autotreno Fiat 690 guidato da Primo Ca

priotti, costretto progressivamente a rallentare per la fitta neb

bia, era tamponato da un altro autotreno Fiat 690 di proprietà di Santo Bottani e guidato da Antonio Cavatorta. La motrice del

secondo autotreno usciva di strada, mentre il rimorchio era tam

namica dell'incidente e, quindi, di individuare l'atto generatore del danno

ed il responsabile. Questi i fatti. Quanto alla decisione, la corte di merito

aveva ritenuto applicabile la presunzione di pari concorso nella produzio ne del danno ex art. 2054, 2° comma, c.c., con il risultato di condannare

ciascuna parte a risarcire la metà del danno riportato dall'altra. Tale de

cisione è confermata dalla presente pronuncia del Supremo collegio, in

presenza di due «versioni» alternative, entrambe del tutto verosimili (per cui incongruo è da ritenersi il richiamo, in motivazione, a Cass. 24 gen naio 1975, n. 277, Foro it., 1975, I, 2041, dove si presunse esclusivamen

te un pari concorso di colpa in una fattispecie in cui era pacifica la dina

mica dell'incidente). Il motivo di principale interesse della sentenza è nella prospettata pos

sibilità di una duplice interpretazione della predetta norma. In grado di

appello l'attuale controricorrente aveva sostenuto che la nostra presun zione è presunzione di pari concorso colposo e trova applicazione nei

soli casi in cui sia certo l'atto che ha causato il sinistro e incerto solo

il grado di colpa attribuibile ai conducenti (per un'applicazione pratica, v. Trib. Piacenza 4 luglio 1984, id., Rep. 1985, voce Circolazione strada

le, n. 146, per esteso in Arch, circolaz., 1985, 514: «nel caso in cui non

sia possibile ricostruire l'esatta dinamica di uno scontro tra due autovei

coli, in quanto le versioni contrapposte fornite dai protagonisti hanno

riscontro nelle rispettive risultanze probatorie [nella specie: entrambi i

conducenti affermavano di essere transitati nell'area semaforizzata aven

do a proprio favore la luce verde], trova applicazione la presunzione di

pari concorso colposo ex art. 2054 c.c.»). In caso contrario — incertezza

dell'atto generatore del sinistro — non si riteneva possibile un giudizio affermativo di responsabilità perché mancherebbe la prova del nesso di

causalità tra collisione ed evento dannoso. In questa prospettiva, l'appli cabilità dell'art. 2054, 2° comma, c.c., presupporrebbe che sia certo il

comportamento, l'evento-danno e il nesso di causalità. Incerto è solo il

grado di colpa; beninteso, della particolare colpa — se proprio si vuole

adoperare questo termine (cfr., al riguardo, le osservazioni critiche di

M. Franzoni, Colpa presunta e responsabilità del debitore, Padova, 1988,

spec. 156 ss.) — di non aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ai sensi del 1° comma della norma in oggetto. Tale lettura dell'art. 2054, 2° comma, c.c., è stata di recente avvalorata da Cass. 25 luglio 1987, n. 6456, Foro it., Mass., 1102, a cui tenore «la sentenza penale di pro

scioglimento dell'imputato per insufficienza di prove da reati connessi

alla circolazione dei veicoli rende improponibile l'azione civile ex art. 2054

c.c., . . . quando abbia messo in dubbio ... il nesso causale tra collisio

ne e evento dannoso».

L'applicazione di tale criterio potrebbe comportare, di fatto, un arduo

onere probatorio a carico del danneggiato in tamponamenti a catena.

In tale fattispecie, infatti, i tamponamenti che coinvolgono gli autoveicoli

intermedi sono due ed è facile che il convenuto eccepisca che la causa

del danno non risiede nel «proprio» tamponamento. La tattica proces suale cui si ricorre nell'ipotesi di scontro tra due veicoli — scambiarsi

reciproche accuse di colpa — potrebbe, perciò, nella nostra fattispecie, essere estesa anche all'atto che ha causato il sinistro. Ponendosi in una

prospettiva di maggior tutela del danneggiato, la presente decisione si

pronuncia per l'applicabilità dell'art. 2054 c.c. anche quando non sia pos sibile accertare il comportamento che ha causato il danno: con la conse

guenza che, in tutti i casi in cui non sia possibile accertare l'atto genera tore del sinistro, quanti hanno subito i danni più rilevanti sarebbero in

centivati ad agire in giudizio e, limitandosi ad esporre l'avvenuto scontro,

potrebbero ottenere il risarcimento della metà dei danni. La presunzione contenuta nell'art. 2054, 2° comma, c.c. esprimerebbe, pertanto, una

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