sezioni unite civili; sentenza 10 giugno 1988, n. 3940; Pres. Brancaccio, Est. Taddeucci, P.M.Caristo (concl. conf.); Istituto autonomo case popolari di Palermo (Avv. Trotta) c. Di Gregorio eBaiamonte (Avv. Di Prima, Carroccio). Conferma App. Palermo 28 aprile 1984Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 2261/2262-2271/2272Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181372 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
divenuta un vero e proprio ammortizzatore sociale del traumati
co fenomeno proprio della società post-industriale che in tempi relativamente brevi sta trasferendo una quota dell'occupazione
generale dall'industria al terziario.
Se dunque la c.i.g. — come d'altronde è sotto gli occhi di tutti — può servire anche soltanto a procrastinare o ad evitare licen
ziamenti (cfr. in tal senso Cass. 12 marzo 1980, n. 1648, id.,
1981, I, 485; Pret. Milano 28 novembre 1981, id., Rep. 1982,
voce cit., n. 1482; Trib. Milano 8 maggio 1982, ibid., n. 1445), viene meno l'argomento della pretesa oggettiva indifferenziazione
della causa integrabile e, quindi, della necessità d'una uguale ri
partizione dell'onere connessovi mediante il ricorso alla rotazione
di tutti i dipendenti. A questo punto è opportuna una pausa di riflessione.
Tra i due orientamenti citati vi è dissonanza più sul metro d'in
dagine che sui contenuti.
In realtà parlare di obbligo della rotazione nei limiti della fun
gibilità di mansioni non è affermazione molto distante da quella
che nega la doverosità del c.d. «dente di sega» salvo precisare che la c.i.g. non deve essere utilizzata per fini illeciti o discrimi
natori (e su ciò si è tutti d'accordo). In entrambi i casi non si
disconosce che la fonte del potere sospensivo dell'imprenditore si rinviene nell'oggettiva esistenza della causa integrabile (cfr., ad es., Trib. Napoli 26 novembre 1984, id., 1985, I, 561). La
sola differenza è data dal fatto che mentre nell'uno la fungibilità di mansioni è sufficiente per dedurre dalla mancata rotazione un
difetto di buona fede o correttezza da parte datoriale — e quindi
un sintomo di sviamento di potere in danno di lavoratori sgraditi — nell'altro la fungibilità di mansioni non basta ad escludere
che vi possano essere ulteriori esigenze organizzative (ad. es. in
termini di valutazione sinergetica) atte a giustificare che solo ta
luni lavoratori vengano collocati a zero ore.
Non a caso, trattandosi di problema peculiare di ciascuna real
tà aziendale, la rotazione costituisce oggetto ed obiettivo della
contrattazione collettiva di volta in volta raggiunto (in tutto od
in parte) dagli accordi gestionali. Infine va disattesa la censura di cui alla lettera D del ricorso.
Premesso che è comunque controverso che il ricorrente abbia
svolto prevalentemente mansioni di «picchettazione», cioè di as
semblaggio di più elementi d'una stessa struttura (in ricorso si
dice solo che ha svolto anche questi compiti), e che tale attività
sia parte integrante del ciclo produttivo della società convenuta,
si ricordi che anche in caso contrario l'aver appaltato il servizio
a ditta esterna non costituirebbe presumptio iuris et de iure di
volazione della 1. 23 ottobre 1960 n. 1369, ma solo un indizio
valutabile in concorso con altri per desumere eventualmente un'in
terposizione vietata che però, nella fattispecie, è del tutto impro
ponibile sia per la genericità della relativa allegazione, sia perché
smentita dal fatto che la cessione dell'attività suddetta era stata
pattuita con le organizzazioni sindacali dei lavoratori proprio nel
l'accordo aziendale del 9 maggio 1985 (v. punto 1.6, lett. d).
Da ultimo, non è neppure chiara la finalità della lamentela mos
sa: se intesa a contestare Van della sospensione (cioè l'esistenza
della causa integrabile) il ricorrente avrebbe dovuto impugnare il relativo provvedimento amministrativo; se invece l'attore vole
va negare la congruità causale della sua personale sospensione a zero ore rispetto alla causa integrabile (cioè contestare il man
cato rispetto del limite interno) avrebbe dovuto spiegare perché — a suo avviso — la ristrutturazione aziendale della società con
venuta avrebbe potuto prescindere dall'appaltare l'attività di «pic
chettazione».
Dunque la domanda va respinta, sia pure compensando per
intero fra le parti le spese di lite reputandosi equo non aggravare
ulteriormente la situazione d'un lavoratore che si trova già espo
sto a subire in prima battuta gli effetti d'un processo economico
che passa al di sopra delle sue possibilità decisionali.
Il Foro Italiano — 1988.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 10 giu
gno 1988, n. 3940; Pres. Brancaccio, Est. Taddeucci, P.M.
Caristo (conci, conf.); Istituto autonomo case popolari di Pa
lermo (Aw. Trotta) c. Di Gregorio e Baiamonte (Aw. Di
Prima, Carroccio). Conferma App. Palermo 28 aprile 1984.
Espropriazione per pubblico interesse — Occupazione d'urgenza
illegittima — Realizzazione dell'opera pubblica — Proprietà del
terreno — Acquisto — Risarcimento danni al privato — Decre
to di esproprio — Successiva emanazione — Irrilevanza (Cod.
civ., art. 934, 2043; 1. 25 giugno 1865 n. 2359, espropriazioni
per causa di pubblica utilità, art. 50; 1. 22 ottobre 1971 n. 865,
programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sull'espropriazione per pubblica utilità, modifiche ed in
tegrazioni alle leggi 17 agosto 1942 n. 1150, 18 aprile 1962 n.
167, 29 settembre 1964 n. 847, ed autorizzazione di spesa per
interventi straordinari nel settore della edilizia residenziale, age
volata e convenzionata, art 20).
Occupato illegittimamente dalla pubblica amministrazione, per de
corso del termine di tre mesi previsto dall'art. 20 l. 22 ottobre
1971 n. 865, un terreno appartenente a privato, destinato alla
esecuzione di opera pubblica, la radicale trasformazione del fon
do, conseguente alla irreversibile realizzazione dell'opera, de
termina l'acquisto, a titolo originario, della proprietà da parte
della medesima pubblica amministrazione e l'insorgere del di
ritto del privato al risarcimento dei danni derivanti dalla perdi
ta subita, a nulla rilevando la successiva emanazione del decre
to di esproprio. (1)
Svolgimento del processo. — Tommaso Di Gregorio e Giusep
pe Baiamonte, con atto notificato il 7 marzo 1980 convenivano
in giudizio davanti al Tribunale di Palermo l'istituto autonomo
per le case popolari di quella provincia esponendo: che, autoriz
zata con decreto prefettizio del 1° marzo 1973 la occupazione
temporanea ed urgente di alcuni appezzamenti di terreno di loro
proprietà, ricompresi nel piano di zona per la edilizia economica
e popolare, l'ente predetto di era immesso nel possesso di quelle
aree il 1° agosto 1973, dopo la scadenza del termine di tre mesi
di cui all'art. 20 1. 22 ottobre 1971 n. 865 e quindi illegittimamen
te; che, sebbene il procedimento espropriativo non fosse stato
completato entro il termine a tal fine stabilito, l'opera pubblica
era stata già realizzata si da rendere impossibile la restituzione
dei suoli. Chiedeva pertanto che l'istituto convenuto fosse condannato
al risarcimento dei danni arrecati, in misura pari al valore venale
dei terreni occupati e dei soprassuoli distrutti.
L'istituto, costituitosi, controdeduceva che il valore del fondo
doveva essere calcolato in relazione alla sua natura agricola e
con riferimento all'epoca della occupazione.
Intervenuto in corso di giudizio, il 16 dicembre 1981, il provve
dimento prefettizio di espropriazione per pubblica utilità, gli at
tori ne negavano la legittimità e la idoneità a provocare la auto
matica conversione della loro domanda risarcitoria in quella
(1) Le sezioni unite ribadiscono l'orientamento di sez. un. 26 febbraio
1983, n. 1464, Foro it., 1983, I, 626, con osservazioni di R. Oriani,
disattendendo, con solerzia e tempestività, le contrarie enunciazioni di
Cass. 18 aprile 1987, n. 3872, id., 1987, I, 1727, con osservazioni di
A. Romano, postasi deliberatamente in antitesi con la pronuncia del 1983.
È appena il caso di avvertire, tuttavia, che l'indirizzo, ora confermato
dalle sezioni unite, è stato ribadito, sia pure alla stregua di una incomple ta informazione giurisprudenziale, fra le altre, da Cass. 6 agosto 1987, n. 6755, id., 1987, I, 2984, con osservazioni di C. M. Barone e da Cass.
13 novembre 1987, n. 8344, ibid., 3236, con ulteriori indicazioni. Cass.
15 luglio 1986, n. 4567, id., 1988, 1, 930, con richiami e osservazioni
di S. Afeltra (per la quale l'emanazione in corso di causa del provvedi mento impositivo della relativa servitù coattiva determina l'improponibi lità della domanda con la quale il proprietario del fondo occupato di
fatto dalla Snam, per installarvi condutture per la distribuzione di gas
per usi domestici, chiede la rimozione del manufatto), ha ritenuto, inve
ce, di non potersi uniformare al ricordato indirizzo «per il fatto che nella
specie non si è verificata una trasformazione irreversibile del fondo, la
cui utilizzabilità e godibilità da parte del privato proprietario è stata sola
mente diminuita e non eliminata, per effetto del compimento dell'opera
pubblica».
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2263 PARTE PRIMA 2264
di opposizione alla stima (con conseguente spostamento della com
petenza). Il tribunale adito, ritenuto legittimo il provvedimento ablato
rio, respingeva la domanda. I soccombenti interponevano grava me reiterando le loro pretese e l'istituto resisteva alla impugna zione eccependo, tra l'altro, la prescrizione del diritto al risar
cimento.
La Corte d'appello di Palermo, con sentenza del 28 aprile 1984,
accoglieva la domanda in dichiarata applicazione dei principi di
diritto enunciati da queste sezioni unite con pronunzia n. 1464
del 1983 (Foro it., 1983, I, 626) in tema di occupazione c.d. ac
quisitiva; rigettava la eccezione di prescrizione e condannava per tanto l'istituto al risarcimento dei danni, liquidati in lire 267.540.000.
Avverso tale sentenza l'istituto autonomo per le case popolari della provincia di Palermo ha proposto ricorso, sulla base di tre
motivi di censura, illustrati anche da memoria. Gli intimati han
no resistito con controricorso.
Motivi della decisione. — 1. - Il primo mezzo di annullamento
è rivolto a contestare la fondatezza logico-giuridica dell'orienta
mento giurisprudenziale istaurato con la pronuncia a sezioni uni
te n. 1464 del 26 febbraio 1983 e da allora costantemente ribadito
da questa corte regolatrice, a tenore del quale nelle ipotesi in
cui la p.a. (od un suo concessionario) occupi un fondo di pro
prietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occu
pazione sia illegittima per tale mancanza di un provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'oc
cupazione si configuri legittima, la radicale trasformazione del
fondo, con la irreversibile sua destinazione al fine della costru
zione dell'opera pubblica, comporta la estinzione del diritto di
proprietà e la contestuale acquisizione, a titolo originario, della
proprietà in capo all'ente costruttore; con la conseguenza che un
provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente al momento di tale acquisizione, de
ve considerarsi del tutto privo di rilevanza ai fini dell'assetto pro
prietario. Nel ricorso viene addebitato alla impugnata sentenza — la quale
al suindicato insegnamento si è adeguata — la violazione degli art. 936 e 952 c.c. e dell'art. 42 Cost., e più in generale delle
norme che escludono la perdita del diritto di proprietà al di fuori
dei casi espressamente contemplati dalla legge. Nella memoria illustrativa il ricorrente ha poi fatto testuale ri
chiamo alla sentenza n. 3872 del 1987 (id., 1987, I, 1727) con
cui la seconda sezione di questa corte ha di recente espresso moti
vato dissenso dai principi di diritto sopra richiamati, dando cosi
luogo ad un contrasto che ha consigliato, ai sensi del 2° comma
dell'art. 374 c.p.c., la remissione dei ricorso all'esame delle sezio
ni unite.
E poiché le censure del ricorrente ripetono pedissequamente le
argomentazioni svolte nella sentenza n. 3872 del 1987, occorre
verificare i punti nodali con essa segnalati come oggetto di un
diverso orientamento interpretativo, punti che investono: a) la
inconciliabilità della permanenza in vita del diritto di proprietà con il totale svuotamento dei poteri del proprietario di godere della cosa; ti) la inevitabilità del richiamo ai principi generali per
l'inquadramento della vicenda della occupazione illegittima del
l'immobile di un privato per la costruzione su di essa di una ope ra pubblica implicante la radicale trasformazione del bene.
Una nuova riflessione critica sui temi ora enunciati e su quelli con essi connessi conduce questa corte a sezioni unite a ribadire
la validità dell'indirizzo instaurato con la sentenza n. 1464 del
1983 e da allora incontrastatamente seguito, salvo che dalla pro nuncia n. 3972 del 1987, dalla giurisprudenza delle sezioni sem
plici, nonché dalla giurisprudenza di merito (nell'ambito della quale non è dato registrare alcun significativo dissenso).
2. - La conciliabilità della permanenza in vita del diritto di
proprietà con il totale svuotamento dei poteri del proprietario di godere e di disporre del suo bene, una volta occupato dalla
p.a. e radicalmente trasformato mediante l'esecuzione dell'opera
pubblica, è assunto cui non presta adeguato conforto né il richia
mo al principio della c.d. «elasticità» del diritto di proprietà, né
la contestazione del carattere definitivo della sua perdita. Possono ritenersi ormai pacificamente accolte — ed avallate
del resto in sede di vaglio di legittimità costituzionale — le affer
mazioni: che l'elemento caratterizzante del fenomeno della espro
priazione non è il trasferimento del diritto di proprietà da uno
ad altro titolare, bensì' il sacrificio coattivo del diritto reale, quale
Il Foro Italiano — 1988.
bene-valore, per ragioni di pubblico interesse; che natura espro
priativa riveste, dunque, l'atto il quale imponga limitazioni tali
da svuotare di contenuto il diritto di proprietà, incidendo sul go dimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile
in rapporto alla natura del bene stesso o determinando il venir
meno o una penetrante diminuzione del suo valore di scambio
(cfr. Corte cost. n. 6 del 1966, id., 1966, I, 203); che, essendo
costituzionalmente garantita la possibilità per il proprietario di
godere del proprio bene secondo la sua destinazione essenziale,
ogni qualvolta tale possibilità di godimento sia compromessa, im
mediatamente ed a tempo indeterminato, da un atto (giuridico e materiale) della p.a., ancorché diretto al perseguimento di fina
lità di interesse generale, la garanzia predetta deve operare nella
direzione di assicurare al proprietario un adeguato ristoro del pre
giudizio subito.
E dato che il momento essenziale del fenomeno espropriativo è rappresentato dalla privazione e cessazione coattiva, nel senso
contenutistico sopra ricordato, del diritto di proprietà, ben si spiega
perché l'indennizzo deve essere calcolato in base al valore del
bene al momento della sua perdita, cosicché una violazione del
disposto di cui all'art. 42 Cost, è stata ravvisata, tra l'altro, al
lorché nella norma ordinaria sia prevista una scissione tra la data
dell'espropriazione e quella anteriore considerata ai fini della de
terminazione del valore del bene espropriato (cfr. Corte cost. n.
155 del 1976, id., 1976, I, 2767). Orbene, quando la privazione o cessazione della utilità per il
proprietario del bene sia cosi esaustiva e totale da precludere al
titolare del diritto non solo ogni forma di godimento ma altresì
ogni possibilità, presente o futura, di intervento circa la destina
zione della res verso una qualsiasi utilizzazione difforme da quel la impressagli dalla p.a., non sembra realistico negare (a parte
l'aspetto della legittimità sostanziale o formale del fenomeno e
di questo considerando, per il momento, il grado di incidenza
fatturale) che si sia in presenza di un evento in senso lato ablato
rio; evento che tale impronta conserva anche quando l'annulla
mento del contenuto del diritto di proprietà non sia avvenuto
in modo tale da comportare una declaratoria specifica di caduca
zione dalla titolarità del diritto stesso.
Ciò in quanto, a fronte di una espropriazione sostanziale o
di valore, la superstite conservazione, nel privato, di una titolari
tà di segno esclusivamente nominale, mai potrebbe essere fatta
valere in contrasto ed a superamento della nuova destinazione
d'interesse pubblico assegnata al bene senza cadere nella più gra ve delle contraddizioni con il precetto costituzionale (art. 42): a
tenore del quale le garanzie apprestate alla proprietà privata —
mediante leggi che ne determinino i modi di acquisto, di godi mento ed i limiti — sono finalizzate, appunto, allo scopo preci
puo di assicurare, di essa, la «funzione sociale».
Della naturale espansività del diritto di proprietà, una volta
venuta meno la ragione di una sua compressione, può quindi far
si questione relativamente a limitazioni o ad attentati non cosi
radicali da comportare in forma definitiva l'azzeramento del con
tenuto sostanziale del diritto stesso o la vanificazione, nella sua
individualità, del bene che ne costituisce oggetto.
Quanto poi al connotato della definitività della perdita del di
ritto e del detrimento patrimoniale che la caratterizza, sembra
eccessivo caricare il concetto di un significato di assoluta ed ineli
minabile perpetuità; ma più ragionevolmente quell'aspetto deve
intendersi presente in ogni situazione di privazione permanente, a tempo indeterminato e destinata ad avere una durata eguale a quella del fatto (costruzione dell'opera pubblica e sua destina
zione a scopi di pubblica utilità) che l'ha determinata, secondo
un criterio di ordinaria prevedibilità. Criterio che — può ricordarsi per inciso — deve presiedere,
del resto, anche alla soluzione di problemi per qualche verso si
milari, quali quello della risarcibilità del danno da esecuzione le
gittima dell'opera pubblica o del danno non preveduto nella de
terminazione dell'indennizzo per l'occupazione temporanea (art. 46 e 70 1. n. 2359 del 1865).
In definitiva, l'eventualità che in un futuro più o meno lontano
l'opera stessa venga disgregata, declassata e dimessa e che il bene
del privato possa riacquistare perduti tratti di originaria, autono
ma individualità, non si profila come ipotesi atta ad anticipare, nel presente e nel concreto, gli effetti di una situazione, solo sul
piano della possibilità, astrattamente raffigurabile. Cosi non si vede come possa conciliarsi con elementari esigenze
di certezza del diritto la tesi secondo cui per tutto il primo ven
tennio dalla realizzazione dell'opera pubblica (successivamente ope
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
rando il fenomeno della usucapione) il privato — pur conservan
do sull'immobile un diritto dominicale di tipo puramente nomi
nale — continuerebbe ad essere legittimato, in luogo della p.a., dal lato attivo o passivo, riguardo alle azioni in materia di pro
prietà e di servitù; e continuerebbe ad essere gravato da oneri
fiscali, da obbligazioni ob rem e da qualsiasi altro peso ricondu
cibile ad una posizione proprietaria. Inconciliabile con elementari
sentimenti di giustizia suonerebbe, poi, l'affermazione che, sin
quando non venga pronunziato un decreto di espropriazione il
perimento fortuito dell'immobile occupato dalla p.a. incide in dan
no del proprietario «nominale», cui nessun indennizzo spetterebbe. 3. - Il contestato richiamo ai principi generali dell'ordinamento
per un inquadramento razionale, nel sistema, della cosi detta «oc
cupazione acquisitiva», e la discussa possibilità per la p.a. di per venire all'acquisto del bene del privato in esito ad una vicenda,
anomala, carente di specifica disciplina perché esorbitante dai modi
normativamente prefigurati per la acquisizione medesima, sono
punti che richiedono una più articolata analisi.
Preliminare ad ogni altro è la precisazione che il fenomeno
in esame non è quello, indeterminato e generico, dell'apprensione sine titulo da parte di un ente pubblico, per qualsivoglia ragione e fine, di un bene immobile del privato; bensì il fenomeno speci
fico, caratterizzato quale suo indefettibile punto di partenza da
una dichiarazione di pubblica utilità dell'opera e quale suo inde
fettibile punto di arrivo dalla realizzazione dell'opera medesima;
nonché dall'inserimento tra questi due poli di una attività esecuti
va manipolatrice del bene altrui nella sua fisionomia materiale
e posta in essere in deviazione dal modello di comportamento dettato dalle leggi in materia.
In tale ambito, come è noto, possono distinguersi quattro di
verse forme di occupazione del bene del privato, da parte della
p.a. e per una causa di pubblica utilità: a) l'occupazione tempo
ranea, ex art. 64 1. 2359 del 1865, prevista a scopo di approvvi
gionamento di materiali, di impianto di cantieri e di appresta
mento di altri usi necessari all'esecuzione dell'opera pubblica; oc
cupazione che non cade necessariamente sull'area destinata
all'insediamento dell'opera pubblica e che del bene postula come
normale la restituzione una volta esaurita la necessità dell'appro
priazione temporanea di alcune sue utilità; b) l'occupazione di
urgenza o strumentale, consentita nei casi di forza maggiore di
cui alla prima parte del 1° comma dell'art. 71 1. cit., che pari
menti ha ad oggetto l'uso temporaneo che da un fondo, in ragio
ne della sua naturale posizione rispetto all'opera pubblica ese
guenda, può essere strumentalmente tratto per la migliore e più
sollecita esecuzione di quella; c) l'occupazione temporanea d'ur
genza preordinata ai fini della espropriazione, prevista nella se
conda parte del 1° comma dell'art. 71 1. 2359 del 1865 e nell'art.
20 1. 22 ottobre 1971 n. 865 relativamente ai lavori dichiarati
urgenti ed indifferibili per l'esecuzione dell'opera pubblica; occu
pazione che normalmente ha per oggetto il bene del privato costi
tuente sede dei lavori (e dell'opera attraverso di essi realizzanda),
e che persegue la finalità di accelerare la esecuzione dell'opera
medesima rendendone possibile il sollecito inizio mercé l'antici
pata immissione nel procedimento dei fondi occorrenti prima an
cora che il procedimento espropriativo giunga alla sua naturale
conclusione con la pronunzia del decreto ablatorio; d) l'occupa
zione che sin dall'inizio si presenta come definitiva e che, in casi
eterogenei disciplinati da leggi speciali, assume i connotati tipici
di una procedura abbreviata di espropriazione.
Ora, premesso che nessuna delle figure sopra delineate risulta
presentare profili di contrasto con il disposto di cui all'art. 42,
3° comma, Cost, (laddove non risulta interdetta la possibile coe
sistenza, nell'ordinamento, di una pluralità di modelli espropria
tivi e laddove la mancata menzione dell'istituto della occupazione
non assume valore squalificante), l'esperienza viva consente di
registrare il fenomeno della sempre più larga diffusione della fi
gura dell'occupazione temporanea d'urgenza (cfr. supra sub c),
dapprima in forza di innumerevoli leggi settoriali, poi in forza
dell'art. 39 r.d. 8 febbraio 1923 n. 442 e più di recente in forza
della 1. n. 1 del 3 gennaio 1978. E sempre l'esperienza giudiziaria
impone di non tacere che, con la diffusione, è andato anche au
mentando nel tempo l'abuso nella utilizzazione dell'istituto, non
infrequentemente rivolto ad attingere, sul piano effettuale, risul
tati analoghi a quelli solo in ben diverse e particolari ipotesi di
legge conseguibili per via di occupazione definitiva (cfr. supra
sub d). È innegabile, infatti, che soltanto questo ultimo tipo di occu
II Foro Italiano — 1988.
pazione consente all'ente esecutore dell'opera pubblica di antici
pare nel tempo, legittimamente, i risultati della espropriazione. Una volta che vengano all'occupante permanentemente trasfe
rite tutte le facoltà riconnesse alla titolarità e derivanti dal godi mento del diritto di proprietà (tra cui quelle di apportate modifi
che anche strutturali al fondo, di stravolgere la fisionomia e per sino di annullarne la individualità); una volta che il soggetto privato sia irreversibilmente escluso da ogni facoltà di godimento e di
disponibilità dell'immobile, non si vede come al provvedimento di occupazione definitiva possa essere negato valore di atto d'im
perio attuativo di un trasferimento coattivo per causa di pubblica utilità del dominio sul bene dal proprietario ad altro soggetto;
provvedimento rispetto al quale quello eventuale e successivo di
espropriazione nessuna altra funzione potrebbe assolvere oltre a
quella di formalizzare un trasferimento già avvenuto e di appre stare un legittimo titolo per la intestazione catastale di un'opera
già realizzata.
Effetti traslativi della proprietà del bene — e, in questo senso
sostanziale, anticipatori di quelli tipici del decreto di espropria zione — non possono invece essere ricollegati ad un provvedi mento di occupazione d'urgenza (cfr. supra sub c), che è contras
segnato, vuoi ai sensi dell'art. 71 della legge fondamentale del
1865 vuoi ai sensi dell'art. 20 1. n. 865 del 1971, dalla caratteristi
ca costante della temporaneità dell'autorizzato impossessamento
del bene altrui.
Occorre infatti tenere presente che, tanto ai sensi della 1. 2359
del 1865 (art. 1) quanto ai sensi della 1. n. 865 del 1971 (art.
9, 10 e 11) l'espropriazione è intesa come strumento finalizzato
all'esecuzione di opere pubbliche, alla realizzazione degli inter
venti per esse previsti ed alla acquisizione materiale delle aree
occorenti; e deve quindi precedere i suindicati momenti esecutivi
non essendo alla p.a. consentito di disporre uti dominus del bene
alieno se non dopo averne acquisito legittimo titolo.
In questa prospettiva, riveste carattere derogatorio di un prin
cipio generale l'istituto della occupazione temporanea d'urgenza,
tanto da richiedere, a sua volta, il presidio di un titolo autorizza
torio e la garanzia sostanziale dell'indicazione di termini di vali
dità, sia iniziale che finale.
Tale connotato della temporaneità, propria della occupazione
d'urgenza anticipata, impone alla p.a. — pressata dal duplice do
vere di rispettare i termini ed i modi della procedura espropriati
va e di mettere a frutto gli indugi imposti dall'/ter burocratico — l'onere di coordinare i tempi dell'attività materiale e dell'atti
vità amministrativa.
Per un verso, infatti, il dovere del sollecito inizio dei lavori
consente l'impianto e l'organizzazione in loco degli apparati e
dei mezzi occorrenti per la realizzazione dell'opera pubblica ed
anche la messa in atto di alterazioni le quali, all'occorrenza, sia
no passibili di remissione nel pristino stato; per altro verso la
esecuzione di modifiche e di trasformazioni del fondo cosi radi
cali e distruttive da precludere ogni possibilità di futura riconse
gna del bene secondo la sua originaria fisionomia, destinazione
e consistenza e da rendere, cioè, definitiva l'occupazione iniziata
come temporanea, impone pur sempre alla p.a. (a mente dell'art.
73 della legge fondamentale) di munirsi di un titolo ablatorio.
Cosicché l'anticipazione nel tempo dell'esautoramento del pro
prietario da ogni contenuto del diritto si presenta come assistita
da un crisma di legittimità rigidamente condizionato alla pronun
cia del decreto di espropriazione prima della scadenza del termine
assegnato alla occupazione temporanea d'urgenza. Termine sca
duto il quale l'attività di irreversibile trasformazione della strut
tura e della destinazione essenziale del bene si paleserà priva di
giustificazione e quindi abusiva; e diverrà, nel contempo, attuale
e non più soggetto a condizione il diritto del proprietario, del
bene stesso di agire in sede giudiziaria in reazione all'abuso
sofferto.
Se tale continuità e saldatura, tra gli effetti sostanziali antici
patamente e condizionatamente assentiti in via temporanea d'ur
genza e quelli definitivamente legittimati per via d'esproprio, non
si realizzano — o per essere del tutto mancato il provvedimento
autorizzatorio dell'occupazione temporanea, o per essere venuta
meno sin dall'origine la sua validità, o per essere spirato il termi
ne per la sua efficacia — l'occupazione, sempreché contrassegna
ta dalla radicale trasformazione del bene di cui la p.a. si sia ap
propriata per la realizzazione di un'opera già dichiarata di pub
blico interesse, si disvela dunque quale occupazione definitiva
illegittima in quanto posta in essere al di fuori dei casi nei quali
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2267 PARTE PRIMA 2268
è per legge consentito alla p.a. di pervenire, anteriormente alla
pronuncia di un provvedimento formale di espropriazione, alla
ablazione per causa di pubblica utilità del diritto altrui di proprietà.
La constatazione della illegittimità di siffatto comportamento — illegittimità che è bene, ancora una volta, sottolineare — non
comporta, peraltro, quale necessario corollario l'affermazione che
da esso mai potrebbero derivare effetti privativi della proprietà
privata. La dipendenza da una causa di pubblico interesse legal
mente dichiarata (art. 834 c.c.) non può dirsi a priori incompati
bile con il fenomeno dell'occupazione definitiva, ancorché scatu
rita da abusiva degenerazione da occupazione temporanea; né l'art.
42 Cost, demanda alla legge ordinaria di determinare, oltre ai
modi di acquisto della proprietà privata, anche quelli della sua
perdita: tra i quali, comunque, deve annoverarsi in primo luogo
la perdita del diritto causata dal venir meno del suo oggetto, e
cioè del bene di cui l'ordinamento riconosce e protegge l'apparte
nenza soggettiva in ragione dell'interesse economico-sociale che
la sua utilizzazione può soddisfare.
La conseguenza che ne scaturisce, dell'insorgere a carico del
l'autore della distribuzione o della devastazione del bene, di una
obbligazione risarcitoria, corrisponde, del resto, ad un principio
di diritto comune, dalla stessa legge fondamentale n. 2359 del
1865 espressamente recepito nell'art. 70, relativamente alla ipote
si in cui l'esecutore dell'opera pubblica durante l'occupazione tem
poranea si sia avvalso del terreno occupato per usi non consentiti
eppure abbia ad esso arrecato danni non previsti nella determina
zione della indennità. Ipotesi, questa, di sia pur minore gravità
rispetto a quella della ocupazione «acquisitiva» ma comunque sin
dai primi commentatori della norma, oltre un secolo fa, venne
ritenuta foriera di un'obbligazione risarcitoria per equivalente pe
cuniario, non pure di un obbligazione di riduzione dei luoghi nel
loro pristino stato.
4. - Maggiormente persuasiva non risulta l'obiezione che, co
struendo la occupazione definitiva illegittima come occupazione
acquisitiva, si addiverrebbe alla attribuzione in favore della p.a.
in un modo di acquisto della proprietà non soltanto privo di pre
visione normativa, ma altresì desumibile solo attraverso una di
storta interpretazione dei principi generali dell'ordinamento.
Premesso che all'inquadramento del tema non giova il richia
mo all'art. 922 c.c. (il quale tratta dei modi di acquisto della
proprietà privata ma non esaurisce la elencazione dei modi attra
verso cui l'ente pubblico perviene all'accrescimento del proprio
demanio o del proprio patrimonio indisponibile), occorre subito
notare che un problema di identificazione dell'assetto proprieta
rio non si pone neppure in ordine a quei beni demaniali che,
per definizione, devono necessariamente appartenere allo Stato
od alle regioni (cosi detto demanio necessario).
In tali casi la sola creazione del bene demaniale nei suoi limiti
spaziali nuovi è sufficiente — anche in difetto di un procedimen
to espropriativo: cfr. Cass. n. 1287 del 1960 (id., Rep. 1960, voce
Strade, n. 12), n. 5349 del 1978 (id., Rep. 1978, voce cit., n.
34), n. 2644 del 1981 (id., Rep. 1981, voce Servitù e zone milita
ri, n. 1) — a far conseguire alla res nel suo complesso il carattere
pubblico ed inoltre a determinare le condizioni giuridiche proprie
del suo regime di appartenenza. Ma resta, ben inteso, salvo il
diritto del privato ad ottenere il ristoro per la perdita del suo
immobile ricompreso, non per causa puramente naturale, nella
perimetrazione ed entrato a far parte del bene del demanio neces
sario (ipotesi di c.d. espropriazione di fatto o di espropriazione
larvata). In altri casi è l'intervento di una espressa disposizione di legge
a precisare i limiti oggettivi, dell'appartenenza all'ente pubblico e dell'assoggettamento al regime relativo, di determinate catego
rie di beni demaniali. Cosi, ad esempio, l'art. 20 1. 20 marzo
1865 n. 2248 all. F, sulle opere pubbliche, non solo precisa che
il suolo delle strade nazionali è proprietà dello Stato, quello delle
strade provinciali appartiene alle province, ed è proprietà del co
mune il suolo delle strade comunali, ma elenca altresì i manufatti
e le pertinenze che sono considerati quali parti di dette strade
a tutti gii effetti amministrativi. Anche in questi casi resta sempre salvo il diritto al ristoro del danno in ipotesi di espropriazione di fatto od occulte, con riserva al giudice ordinario o di decidere
su ogni questione insorta in ordine alla proprietà del suolo o del
le opere annesse alle strade.
Il problema dell'appartenenza soggettiva viene, comunque, in
piena evidenza relativamente ai beni pubblici c.d. «artificiali»,
siano essi demaniali o componenti il patrimonio indispensabile
li Foro Italiano — 1988.
dell'ente pubblico; problema che la più qualificata dottrina im
posta ricollegando l'acquisto della qualità di «bene pubblico» in
primo luogo ad una situazione di fatto (vale a dire alla costruzio
ne di un bene con le caratteristiche tipologiche proprie di una
determinata categoria di beni considerati pubblici) e quindi alla
manifestazione della volontà dell'ente pubblico di destinare il be
ne da lei realizzato al soddisfacimento di determinati interessi pub
blici. Manifestazione che può rivestire anche carattere tacito e
che, rispetto ai beni demaniali, rileva quale fattore concorrente
alla formazione della situazione fattuale sopra accennata, mentre
rispetto ai beni del patrimonio indisponibile privi di caratteristi
che specifiche proprie assume una più incisiva ed autonoma ri
levanza.
Tralasciando altri aspetti delle vicende relative all'acquisto del
la qualità di «bene pubblico» (demaniale o indisponibile), per l'economia della decisione delle questioni ora in esame sembra
opportuno mettere in evidenza che anche la volontà relativa alla
destinazione del bene di nuova creazione, oltre a non richiedere
per la sua operatività una veste formale, può essere desunta dal
semplice comportamento fattuale dell'ente, e cioè attraverso l'e
same dei fini concretamente perseguiti ed attinti attraverso la co
struzione dell'opera pubblica; costruzione che, una volta realizza
ta, palesa l'emergere, nel mondo fisico ed in quello del diritto,
di un nuovo bene in senso giuridico, creato a soddisfacimento
di un interesse pubblico. Tale carattere di novità postula che il bene-opera pubblica, nel
la sua unitarietà funzionale, abbia un regime giuridico unico e
non distinto e frazionato a seconda della ritualità o meno dei
modi attraverso i quali l'ente ha conseguito la disponibilità delle
varie parti componenti, o frazioni fisiche, del bene medesimo.
Come questa corte di legittimità ha già avuto occasione di af
fermare (cfr. sent. n. 3243 del 1979, id., 1980, I, 162) e di ribadi re (cfr. sent. n. 6755 del 1987, id., 1987, I, 2984), l'opera pubbli
ca, una volta realizzata, costituisce un nuovo bene immobile il
quale, anche se utilizza un preesistente bene privato, l'attrae nella
propria disciplina giuridica, facendogli perdere la sua connota
zione originaria ed imprimendogli quella stessa qualificazione di
«pubblico» che accede all'opera nella sua unità.
Orbene, l'attrazione del regime giuridico proprio dell'opera pub blica nel suo complesso, delle singole parti che comunque con
corrono a costituirlo, non potrebbe verificarsi se non postulando la propagazione — su ciascuna e su tutte quelle componenti —
del titolo di appartenenza allo Stato od all'ente pubblico in gene
re. Ed invero, se le qualificazioni di «bene pubblico demaniale»
o di «bene pubblico indisponibile» rappresentano delle sottodi
stinzioni operanti nell'ambito della più generale categoria dei be
ni appartenenti alla p.a., sarebbe inconcepibile riconoscere, ri
spetto ad un singolo bene nel suo complesso, la qualificazione
pubblicistica agli effetti della disciplina giuridica ad esso applica bile e negarne poi, limitatamente ad una sua frazione, il regime di appartenenza soggettiva.
Tale fenomeno, di attrazione nella unitaria condizione giuridi ca e di propagazione, alle singole parti, del titolo di appartenenza sul tutto, è del resto presente ed operante pure nelle ipotesi, so
pra ricordate, di conglobamento del suolo del privato nella for
mazione di un nuovo bene del demanio necessario, o di delimita
zione legale dell'oggetto e dei confini del bene appartenente ad
una determinata categoria del demanio c.d. artificiale; ed è feno
meno che corrisponde ad esigenze di certezza del diritto e di fun
zionalità di disciplina, cosi generali da rendere arbitrario un re
stringimento del suo ambito di applicazione a determinati settori,
oppure ai casi di espressa previsione normativa.
5. - Per la soluzione della questione sopra esaminata, dell'ac
quisto a titolo originario da parte dell'ente pubblico del suolo
illegittimamente occupato per l'inserimento dell'opera pubblica, del tutto normale si palesa pertanto il richiamo ai principi gene
rali dell'ordinamento.
Come sul versante civilistico, per la soluzione di problemi per
qualche aspetto analoghi, l'odinamento attribuisce prevalenza al
la posizione soggettiva caratterizzata dall'interesse apparso meri
tevole di maggiore protezione, cosi sul versante pubblicistico de
ve ritenersi pertinente e coerente la individuazione del portatore dell'interesse prevalente, tra il privato proprietario del suolo e
la p.a. costruttrice dell'opera pubblica, allorché si ricerchi la giu stificazione del fenomeno da autorevole dottrina qualificato co
me «espropriazione di fatto».
La normativa civilistica, di cui agli art. 934, 936 e 938 c.c., venne del resto presa in esame nella precedente sentenza n. 1464
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
del 1983 di queste sezioni unite, non certo ai fini di una sua diret
ta applicazione e regolamentazione del fenomeno suindicato, ma
quale indice rivelatore della esistenza, nell'ordinamento, di un cri
terio costante e quindi di un principio generale in ordine alla ne
cessità di graduazione, e all'occorrenza di sacrificio, di interessi
tra di loro incompatibili.
In questa ottica trova, del resto, base razionale il rigetto della
tesi della ammissibilità di una accessione in favore del privato
proprietario del suolo, della proprietà dell'opera pubblica realiz
zata dalla p.a. e destinata ad un pubblico servizio quale nuovo
bene di pertinenza del demanio o del patrimonio indisponibile.
Secondo quanto la prevalente dottrina ed un insegnamento giu
risprudenziale assolutamente fermo nel tempo (cfr. Cass. 1184
del 1948, id., Rep. 1948, voce Proprietà, n. 42; n. 3386 del 1954,
id., Rep. 1954, voce cit., n. 23; n. 1440 del 1961, id., 1961, I, 1663; n. 1840 del 1961, ibid., 1315; n. 2644 del 1981, cit.) hanno
posto in evidenza, nell'ipotesi in esame non ricorrono assoluta
mente né i presupposti generali né la ratio dell'art. 936 c.c., i
quali limitano l'applicabilità nell'istituto ai rapporti tra i privati
in relazione alle normali costruzioni effettuate sul terreno altrui
e suscettibili di arrecare, comunque, a questo un aumento di va
lore; mentre è da escludere che sussista un qualche interesse del
proprietario del suolo a ricevere un'opera pubblica, od una fra
zione di essa priva di valore commerciale e sovente non suscetti
bile di utilizzazione privata. Sono inoltre da disattendere gli assunti secondo cui: a) nono
stante la irreversibile trasformazione del fondo sarebbe legittimo
ed efficace il successivo decreto di espropriazione, purché emesso
entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità
ed entro i termini finali assegnati per le espropriazioni e per i
lavori: b) l'azione accordata dall'odinamento a tutela del privato
spogliato del bene perché utilizzato nella costruzione dell'opera
pubblica, non avrebbe natura personale ed aquiliana, bensì natu
ra reale e petitoria, con conseguente imprescrittibilità ex art. 948
c.c.; c) la cosi detta «occupazione acquisitiva» finirebbe col pre
miare, e quindi con l'incentivare, un comportamento dell'ammi
strazione palesemente illecito e contrastante con i principi della
legalità; d) la permanenza della proprietà del suolo nel patrimo
nio del privato potrebbe essere conciliata con la pratica impossi
bilità di ottenre il ripristino della situazione anteriore stante l'o
stacolo rappresentato dalla presenza dell'opera pubblica, ravvi
sando nell'azione promossa dal privato al fine di ottenere il
pagamento della aestimatio rei la volontà, quanto meno implici
ta, di rinunziare alla proprietà in favore dell'ente occupante, se
condo uno schema abdicatorio non estraneo all'assetto della pro
prietà privata (art. 1070 e 550 c.c.). In ordine al punto sub a) giova ribadire che al decreto di espro
priazione può essere attribuita efficacia sanante ex tunc della ille
gittimità — originaria o meno — di una occupazione pregressa
soltanto se non si sia già verificata l'irreversibile trasformazione
dell'immobile ed il suo inserimento, strutturale e funzionale, nel
la costruzione dell'opera di pubblico interesse. Ciò in quanto,
come già in passato precisato da questa corte (cfr. sent. n. 3243
del 1979, cit.), con detta costruzione non soltanto si consolida,
consumandosi ed esaurendosi definitivamente, il fatto illecito po
sto in essere con l'abusiva occupazione, ma si realizza altresì lo
scopo dell'apprensione dell'altrui bene, con appropriazione da parte
della p.a. di tutte le utilità da esso ritraibili. La circostanza, quin
di, che non siano ancora scaduti i termini di legge per la ultima
zione dei lavori e delle espropriazioni, pur palesando che in astratto
nell'autore della indebita occupazione non è venuto meno il pote
re espropriativo, non vale ad escludere che di esso sia però venu
to meno l'oggetto, non essendo concepibile che di quel potere
l'ente possa avvalersi al fine di appropriarsi di un immobile già
in precedenza entrato a far parte del suo demanio o del suo patri
monio indisponibile (cfr. Cass. n. 8344 del 1987, id., 1987, I,
3236). Ed una volta verificatosi, in tutte le sue componenti fat
tuali, quest'ultimo evento, vano sarebbe il tentativo di ravvisare
nella successiva pronuncia di un decreto di esproprio qualcosa
di più e di diverso dalla creazione, a posteriori, di un titolo for
male di acquisto, non più ai fini dell'assetto proprietario, bensì
solo a quelli della classificazione amministrativa e dell'accatasta
mento del bene.
In ordine alla prospettazione sub b) sembra opportuno precisa
re che la radicale trasformazione e la irreversibile destinazione
del fondo del privato alla realizzazione dell'opera pubblica, l'at
trazione di esso nel regime proprio del bene pubblico comporta
li Foro Italiano — 1988 — Parte I-44.
no la neutralizzazione del diritto di proprietà con effetti analoghi
a quelli della perdita definitiva dell'oggetto del diritto medesimo.
Ora, anche secondo l'economia della disciplina prevista dall'art.
948 c.c., la situazione fatta valere in giudizio del privato che si
dolga della irriversibile privazione del suo fondo occorso per la
costruzione dell'opera pubblica è ampiamente assimilabile a quel
la della distruzione materiale della cosa, con conseguente impos
sibilità della sua restituzione, mentre presenta ben scarsi punti
di contatto con la diversa ipotesi della impossibilità di restituzio
ne della res da parte del convenuto che successivamente alla do
manda ne abbia per fatto proprio perduto il possesso.
Senonché soltanto in quest'ultima ipotesi può ritenersi, secon
do la migliore dottrina, che l'azione di rivendicazione rivesta na
tura reale e carattere restitutorio imprescrittibile pur avendo ad
oggetto il controvalore della cosa; mentre nella prima ipotesi l'a
zione mirante ad ottenere il valore pecuniario del bene distrutto
assuma natura risarcitoria e resta quindi soggetta alla prescrizio
ne quinquennale. Nei suindicati sensi si è in passato più volte espressa questa
Suprema corte, non senza mancare di precisare che è ammissibile
l'azione personale di risarcimento del danno e non quella di ri
vendicazione, allorché la cosa al momento della domanda per
un qualunque motivo non esiste più nella sua individualità (cfr.
sent. n. 1269 del 1962, id., Rep. 1962, voce Rivendicazione, n.
9; n. 2135 del 1966, id., Rep. 1966, voce cit., n. 48).
L'obiezione che, negandosi l'esperibilità dell'azione di rivendi
cazione del privato contro la p.a. per il recupero del fondo abusi
vamente occupato, essa verrebbe ad essere premiata nel suo scor
retto operare — supra sub c) — oltre a non tenere conto della
impossibilità pratica di ottenere una restituzione in esito a giudi
zio di ottemperanza, qualora l'opera pubblica abbia trasformato
l'area ed immutato la sua destinazione determinando obiettiva
condizione di irreversibilità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16 maggio
1980, n. 505, id., Rep. 1980, voce Strade, n. 15) non risulta assi
stita da giuridico fondamento.
L'acquisizione del fondo alieno per via di occupazione definiti
va illegittima anziché attraverso la rituale procedura espropriati
va comporta infatti, per il privato, un ristoro più completo e
per l'ente occupante oneri più gravi.
Mentre la indennità di espropriazione non rappresenta una in
tegrale riparazione della perdita subita dal proprietario, bensì il
massimo di contributo garantito all'interesse privato, tenuto con
to dell'interesse pubblico che l'espropriazione mira a realizzare,
il risarcimento del danno dovuto al proprietario del fondo arbi
trariamente occupato non potrà mai essere inferiore al valore ve
nale di esso e potrà all'occorrenza superare tale misura in ragione
dei frutti perduti. La somma attribuita a titolo di risarcimento
del danno, inoltre, è passibile di rivalutazione monetaria a diffe
renza di quella dovuta a titolo di indennità da espropriazione
(principio di consolidata giurisprudenza); l'ammontare della somma
risarcitoria non è poi soggetta a decurtazione (come invece quella
indennitaria) qualora dalla esecuzione dell'opera pubblica derivi
un vantaggio ad altra parte del fondo; il maturare, infine, a cari
co della p.a. di un debito risarcitorio di entità superiore a quello
indennitario non dovrebbe lasciare andar esente da addebito, nei
confronti dell'ente di appartenenza, il funzionario responsabile
della lievitazione del costo dell'opera pubblica.
Inidoneo ad approdare a fruttuosi risultati è da ultimo il tenta
tivo — cfr. supra sub d) — di enucleare dall'esperimento dell'a
zione di risarcimento del danno contro la p.a., per l'occupazione
del bene del privato e la costruzione su di esso di un'opera pub
blica, una chiara volontà del privato di abbandonare il diritto
di proprietà in favore dell'occupante (cfr. la citata sentenza n.
3872 del 1987). A parte che la ventilata costruzione non si attaglia ai casi in
cui dall'attore sia stata proposta azione di rilascio dell'immobile,
e solo in linea subordinata quella del risarcimento dell'equivalen
te pecuniario, oppure unicamente la prima azione, ostano alla
persuasività dell'assunto diverse considerazioni.
Nelle varie ipotesi, normativamente previste, di abbandono del
proprio diritto (art. 550, 1070, 1104 c.c.) la rinunzia del proprie tario assume costantemente carattere di gratuità, di volontaria
accettazione, cioè, di una decurtazione del proprio patrimonio,
sia pure in vista di evitare spese od oneri maggiori; ma non può
mai tradursi in strumento per immutare, nel patrimonio stesso,
una sua componente sostituendo al bene immobile dereliquendo
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2271 PARTE PRIMA 2272
il suo controvalore monetario ed imponendo ad altri di prestarsi a tanto mercé una sorta di acquisto coattivo.
In secondo luogo l'abbandono della proprietà del bene immo
bile, proprio perché di per sé incapace di approdare ad effetti
traslativi nei confronti di terzi determinati, provocherebbe quelle vacuità di assetto proprietario dante luogo, secondo la previsione
di cui all'art. 827 c.c., alla attribuzione del bene stesso al patri monio dello Stato (e non dell'ente che lo ha occupato, se diverso
dallo Stato). In terzo luogo, in tanto è possibile ricollegare una qualsiasi
conseguenza giuridica alla volontà, che il privato avrebbe mani
festato, di dismettere il diritto dominicale su di un bene, in quan
to nel momento della manifestazione non sia venuta meno la si
tuazione di soggettiva appartenenza, essendo prive di significato,
prima ancora che di effetti, la volontà di abbandono, o di rinun
zia alla rivendicazione, che avessero ad oggetto un bene alieno.
La costruzione in esame riposa, dunque, su di una premessa
(la superstite permanenza nel privato di un diritto dominicale di
tipo puramente nominale) che per quanto a suo luogo osservato
non può essere condivisa; e conduce ad una conclusione ancor
più inaccettabile: quale quella che riconnette l'acquisto della pro
prietà sul fondo utilizzato per la costruzione dell'opera pubblica e con quest'ultimo sussunto nell'ambito del regime pubblicistico
proprio dei beni demaniali o patrimoniali indisponibili, non già ad una volontà della p.a. (espressa mediante un atto di destina
zione), bensì ad una (presunta) volontà proveniente da un sogget to privato che, rispetto a quella destinazione, può rivestire posi zione passiva, di paziente e di danneggiato, non certo quella di
arbitro o di autore. (Omissisj
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 10 mag
gio 1988, n. 3415; Pres. Santosuosso, Est. Schermi, P.M. De
Martini (conci, conf.); Alberti (Avv. Iannotta) c. Soc. Mio
dini (Aw. Angelini, Isi). Conferma App. Bologna 1° settem
bre 1982.
Circolazione stradale — Tamponamento a catena — Danni ai
veicoli intermedi — Presunzione di corresponsabilità — Fatti
specie (Cod. civ., art. 2054).
Nell'ipotesi di scontro tra veicoli, in cui non sia possibile rico
struire l'esatta dinamica del sinistro e individuare con certezza
l'atto generatore del danno, deve presumersi che tutti i condu
centi, la cui condotta colposa potrebbe aver causato tale dan
no, abbiano ugualmente concorso alla sua produzione (nella
specie, trattavasi di un tamponamento a catena in cui il condu
cente di un veicolo intermedio aveva riportato gravi danni fisici e non era stato possibile accertare in giudizio da quale tampo namento tali danni fossero stati causati). (1)
(1) La pronuncia della Cassazione verte su una controversia instaura
tasi tra i conducenti di due (dei tanti) veicoli intermedi coinvolti in un
tamponamento a catena di vaste proporzioni ed enuncia un decisum di
indubbio interesse. Si trattava, nella specie, di verificare la veridicità di due opposte «ver
sioni» circa la dinamica dell'incidente (tra autotreni), in cui il ricorrente aveva riportato rilevanti danni fisici. Il controricorrente non negava di aver tamponato, da tergo, l'automezzo dell'infortunato, ma asseriva che i danni riportati da quest'ultimo — il cui autotreno, ad incidente avvenu
to, si presentava letteralmente incastrato tra due mezzi pesanti — fossero stati causati da un precedente violento scontro di tale veicolo con quello antistante. Viceversa, il ricorrente sosteneva di essere riuscito ad arrestare in tempo utile il proprio automezzo, che sarebbe stato spinto contro quel lo antistante solo a seguito del tamponamento, da tergo, dell'autotreno condotto dal controricorrente. Non v'è chi non s'avveda come le opposte versioni conducano anche a differenti giudizi di responsabilità. Complice la fitta nebbia, nessuno aveva visto nulla, tranne, ovviamente, le parti in causa; nell'accertamento della polizia stradale si era «riconosciuto che
non esistevano elementi per stabilire» l'esatta versione dei fatti. Le stesse
risultanze istruttorie, infine, non avevano consentito di ricostruire la di
1l Foro Italiano — 1988.
II
PRETURA DI MILANO; sentenza 24 marzo 1987; Giud. Auli
sa; Foroni (Avv. Pisani) c. Torlai e altri (Avv. Monti, Scia
LANDRONE, LaURENTI).
Circolazione stradale — Tamponamento a catena — Responsabi lità (Cod. civ., art. 2043).
Nel tamponamento a catena causato da un autoveicolo, che ab
bia urtato l'ultima delle auto ferme in colonna, il conducente
del primo è responsabile nei confronti di tutti i danneggiati. (2)
I
Svolgimento del processo. — Il 1° aprile 1969, verso le ore
6,40, in territorio di Lodivecchio, sulla carreggiata nord dell'au
tostrada del sole, un autotreno Fiat 690 guidato da Primo Ca
priotti, costretto progressivamente a rallentare per la fitta neb
bia, era tamponato da un altro autotreno Fiat 690 di proprietà di Santo Bottani e guidato da Antonio Cavatorta. La motrice del
secondo autotreno usciva di strada, mentre il rimorchio era tam
namica dell'incidente e, quindi, di individuare l'atto generatore del danno
ed il responsabile. Questi i fatti. Quanto alla decisione, la corte di merito
aveva ritenuto applicabile la presunzione di pari concorso nella produzio ne del danno ex art. 2054, 2° comma, c.c., con il risultato di condannare
ciascuna parte a risarcire la metà del danno riportato dall'altra. Tale de
cisione è confermata dalla presente pronuncia del Supremo collegio, in
presenza di due «versioni» alternative, entrambe del tutto verosimili (per cui incongruo è da ritenersi il richiamo, in motivazione, a Cass. 24 gen naio 1975, n. 277, Foro it., 1975, I, 2041, dove si presunse esclusivamen
te un pari concorso di colpa in una fattispecie in cui era pacifica la dina
mica dell'incidente). Il motivo di principale interesse della sentenza è nella prospettata pos
sibilità di una duplice interpretazione della predetta norma. In grado di
appello l'attuale controricorrente aveva sostenuto che la nostra presun zione è presunzione di pari concorso colposo e trova applicazione nei
soli casi in cui sia certo l'atto che ha causato il sinistro e incerto solo
il grado di colpa attribuibile ai conducenti (per un'applicazione pratica, v. Trib. Piacenza 4 luglio 1984, id., Rep. 1985, voce Circolazione strada
le, n. 146, per esteso in Arch, circolaz., 1985, 514: «nel caso in cui non
sia possibile ricostruire l'esatta dinamica di uno scontro tra due autovei
coli, in quanto le versioni contrapposte fornite dai protagonisti hanno
riscontro nelle rispettive risultanze probatorie [nella specie: entrambi i
conducenti affermavano di essere transitati nell'area semaforizzata aven
do a proprio favore la luce verde], trova applicazione la presunzione di
pari concorso colposo ex art. 2054 c.c.»). In caso contrario — incertezza
dell'atto generatore del sinistro — non si riteneva possibile un giudizio affermativo di responsabilità perché mancherebbe la prova del nesso di
causalità tra collisione ed evento dannoso. In questa prospettiva, l'appli cabilità dell'art. 2054, 2° comma, c.c., presupporrebbe che sia certo il
comportamento, l'evento-danno e il nesso di causalità. Incerto è solo il
grado di colpa; beninteso, della particolare colpa — se proprio si vuole
adoperare questo termine (cfr., al riguardo, le osservazioni critiche di
M. Franzoni, Colpa presunta e responsabilità del debitore, Padova, 1988,
spec. 156 ss.) — di non aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ai sensi del 1° comma della norma in oggetto. Tale lettura dell'art. 2054, 2° comma, c.c., è stata di recente avvalorata da Cass. 25 luglio 1987, n. 6456, Foro it., Mass., 1102, a cui tenore «la sentenza penale di pro
scioglimento dell'imputato per insufficienza di prove da reati connessi
alla circolazione dei veicoli rende improponibile l'azione civile ex art. 2054
c.c., . . . quando abbia messo in dubbio ... il nesso causale tra collisio
ne e evento dannoso».
L'applicazione di tale criterio potrebbe comportare, di fatto, un arduo
onere probatorio a carico del danneggiato in tamponamenti a catena.
In tale fattispecie, infatti, i tamponamenti che coinvolgono gli autoveicoli
intermedi sono due ed è facile che il convenuto eccepisca che la causa
del danno non risiede nel «proprio» tamponamento. La tattica proces suale cui si ricorre nell'ipotesi di scontro tra due veicoli — scambiarsi
reciproche accuse di colpa — potrebbe, perciò, nella nostra fattispecie, essere estesa anche all'atto che ha causato il sinistro. Ponendosi in una
prospettiva di maggior tutela del danneggiato, la presente decisione si
pronuncia per l'applicabilità dell'art. 2054 c.c. anche quando non sia pos sibile accertare il comportamento che ha causato il danno: con la conse
guenza che, in tutti i casi in cui non sia possibile accertare l'atto genera tore del sinistro, quanti hanno subito i danni più rilevanti sarebbero in
centivati ad agire in giudizio e, limitandosi ad esporre l'avvenuto scontro,
potrebbero ottenere il risarcimento della metà dei danni. La presunzione contenuta nell'art. 2054, 2° comma, c.c. esprimerebbe, pertanto, una
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