decreto 22 marzo 1989; Proc. gen. AriotiSource: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp.325/326-327/328Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23182735 .
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325 GIURISPRUDENZA PENALE 326
Pertanto, poiché — come si è detto — la persona offesa, N.K.S., non fu citata per il giudizio, devono essere ritenuti nulli sia il
decreto di citazione a giudizio dell'imputato davanti al tribunale, sia gli atti successivi, a norma dell'art. 189 c.p.p.
Dev'essere, conseguentemente, annullata sia la sentenza di pri mo grado, sia quello d'appello, col rinvio degli atti al giudice di primo grado, per il giudizio.
PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI
PERUGIA; decreto 22 marzo 1989; Proc. gen. Arioti.
PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI
PERUGIA; decreto 22 marzo 1989; Proc. gen. Arioti.
Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice — Responsa bilità civile dei magistrati
— Diniego di giustizia — Procedi
mento penale — Estremi — Fattispecie (Cod. proc. pen., art.
148; 1. 13 aprile 1988 n. 117, risarcimento dei danni cagionati
nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei
magistrati, art. 3).
In materia penale l'ipotesi di denegata giustizia prevista dall'art.
3 l. n. 117 del 1988 può riguardare soltanto gli atti di cui al
l'art. 148 c.p.p.; ne consegue che non ricorre nel caso di istan
za al procuratore della repubblica intesa alla formulazione dei
capi d'imputazione (fattispecie in tema di richiesta di proroga del termine di trenta giorni previsto dall'art. 3, 1° comma). (1)
(1) Questione nuova. Il provvedimento del procuratore generale della
repubblica presso la Corte d'appello di Perugia, è senz'altro da condivi
dere, atteso che non può parlarsi di denegata giustizia se l'interessato
non ha un diritto all'adozione (indipendentemente dal contenuto) del prov vedimento invocato.
Nel caso in esame, poi, ancorché non siano noti tutti i particolari della
fattispecie, neppure può sostenersi la sussistenza di un interesse, diretta
mente o indirettamente tutelato dall'ordinamento, dell'imputato alla for
mulazione dell'imputazione, sia perché nessuna norma lo prevede, sia in
quanto ad essa potrebbe anche non addivenirsi e, quindi, il procedimento concludersi con un'archiviazione (evidentemente nel caso oggetto dal prov vedimento che si riporta l'azione penale non era stata ancora esercitata, in caso contrario l'imputazione sarebbe già stata formulata).
Un interesse siffatto neppure può essere riconosciuto alla parte civile, la quale partecipa al procedimento penale (a prescindere da ogni conside
razione sulla possibilità di esercitare un'azione civile anteriormente al pro movimento di quella penale) come titolare di un rapporto di natura
civilistica; seppure, di fatto, portatrice di un interesse alla persecuzione del reo, tale interesse non costituisce, infatti, «la vera anima dell'azione
della parte civile» (Foschini, Le conclusioni della parte civile, in II dibat
timento, Studi, Milano, 1956, 208). A non diverse conclusioni dovrà per venirsi con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, per il quale la costituzione di parte civile non esplica effetti prima dell'eserci
zio dell'azione penale (v. art. 79 e 405) e la persona offesa dal reato — al pari di quella sottoposta alle indagini preliminari — può solo chie
dere, nel caso di inerzia del pubblico ministero, al procuratore generale di avocare le indagini a norma dell'art. 412, 1° comma (v. art. 413, 1°
comma). A siffatta richiesta riteniamo, comunque, che sia applicabile il disposto dell'art. 3 1. 117 del 1988.
Lascia, piuttosto, perplessi che per un procedimento pendente davanti
alla procura della repubblica si sia pronunciato il procuratore generale. Il 2° comma dell'art. 3 1. 117 dispone che «il termine di trenta giorni
può essere prorogato, prima della sua scadenza, dal dirigente dell'ufficio
con decreto motivato . . .»; dirigente dell'ufficio come emerge anche dal
l'art. 70 dall'ordinamento giudiziario del 1941 (e, ancora più chiaramen
te, dall'art. 20 d.p.r. 449 dal 1988 — norme per l'adeguamento
dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a cari
co degli imputati minorenni — che entrerà in vigore, sostituendo il citato
art. 70, nel prossimo ottobre), è, per ciò che concerne gli uffici del pub
blico ministero, il procuratore generale o il procuratore della repubblica. I due uffici sono dotati di autonomia organizzativa e funzionale ed è
da escludere tra di essi la sussistenza di un qualsivoglia rapporto
Il Foro Italiano — 1989.
Il procuratore generale, letta l'istanza del procuratore della re
pubblica di Terni tendente ad ottenere una proroga sino al 30
aprile 1989 ai sensi dell'art. 3 1. 13 aprile 1988 n. 117, osserva:
Secondo le disposizioni normative della 1. 13 aprile 1988 n.
117 le fonti della responsabilità del magistrato sono: il comporta
mento, l'atto ed il provvedimento. Per quanto ci interessa per la fattispecie in esame e cioè la
responsabilità nascente dal diniego di giustizia, prevista dall'art.
3 della citata normativa, è da porre in evidenza che due sono
le nozioni concettuali giuridiche prese in esame dal legislatore, nulla rilevando il comportamento, che, essendo una mera concre
tizzazione di una situazione psicologica assolutamente soggettiva, non appare rilevante sotto il profilo del diniego di giustizia.
In effetti, in tutte le tre ipotesi poste a base del diniego di
giustizia sussiste un comportamento omissivo del magistrato vuoi
che esso si concretizzi in un rifiuto o nella pura omissione o nel
semplice ritardo.
È evidente che il magistrato deve trovarsi nell'esercizio delle
sue funzioni e quindi solo il magistrato titolare del procedimento
può essere chiamato a rispondere del comportamento denegante. Ma ciò che più interessa nel caso in esame è risolvere quale
atto può essere sollecitato dalla parte. La questione non è di poco momento poiché scegliere una o
altra soluzione inciderebbe o meno su principi cardini del nostro
ordinamento processuale. Innanzi tutto deve rilevarsi che per atto processuale si intende
un comportamento volontario posto in essere da uno dei soggetti
avente influenza sulla costituzione, modificazione ed estinzione
del rapporto processuale.
Appare immediatamente evidente che, dare alla parte, qualun
que essa sia, la possibilità di interferire attraverso la presentazio
gerarchico, ancorché sui generis, non essendo pacificamente espressione di un rapporto siffatto il potere d'avocazione previsto dall'art. 392 dal
codice di rito (cfr. Cass. 12 febbraio 1979, Proc. rep. Trib. Roma, Foro
it., 1979, II, 506; 7 febbraio 1978, Niola, id., Rep. 1979, voce Istruzione
penale, n. 81 e Mass. pen., 1979, 197, con nota adesiva di W. Zagrebel
sky; 9 novembre 1968, Tarantino, Foro it., Rep. 1969, voce cit., n. 38;
analogamente, in dottrina, oltre Zagrebelsky, v. U. Pioletti, Osserva
zioni sui limiti funzionali del procuratore generale della corte d'appello, in Riv. pen., 1968, I, 500; Gius. Sabatini, Il pubblico ministero, Torino,
1963, I, 136; cfr., altresì, AA.VV. Pubblico ministero e accusa penale - Problemi e prospettive di riforma, Bologna, 1980; Scaparone, Pubbli
co ministero (dir. proc. pen.), voce dell' Enciclopedia del diritto, XXXVII,
1108, 1102). A conclusioni analoghe si deve pervenire con riferimento
ai poteri attribuiti al procuratore generale dagli art. 53, 3° comma, e
412 del nuovo codice di procedura penale, che configura il potere di avo
cazione in modo radicalmente diverso da quello vigente e solo in caso
di inerzia del procuratore della repubblica.
Conseguentemente, i soli legittimati a provvedere sulle richieste di pro
roga concernenti istanze relative a procedimenti assegnati ai loro sostituti
sono il procuratore della repubblica ed il procuratore generale (Pintus,
Responsabilità del giudice, voce dell' Enciclopedia del diritto, XXXIX,
1988, 1478, parla di capo dell'«ufficio cui appartiene il magistrato . . .»).
Qualche dubbio potrebbe sorgere (e non è da escludere che sia questa
l'ipotesi nella specie ricorrente) per il caso in cui il procuratore della re
pubblica eserciti personalmente la funzione di pubblico ministero in un
determinato procedimento penale; viene meno, in tal caso, seguendo la
tesi qui sostenuta, ogni forma di controllo sul suo operato, dovendo allo
stesso riconoscersi il potere di disporre la proroga prevista dall'art. 3,
2° comma, e, quindi, di provvedere sulla sua richiesta. A prescindere dalla considerazione che ogni abuso che egli faccia di siffatto potere è
suscettibile di repressione in sede disciplinare, è da rilevare che una diver
sa interpretazione sarebbe peggiore del male paventato e, comunque, non
servirebbe ad eliminare radicalmente l'inconveniente allorché l'istanza ex
art. 3, 1° comma, abbia ad oggetto un atto del procuratore generale rela
tivo ad un affare trattato dal titolare dell'ufficio.
Per varie questioni di legittimità costituzionale della 1. 117 del 1988,
v. Corte cost. 19 gennaio 1989, n. 18 (che ha dichiarato parzialmente
illegittimo l'art. 16), Foro it., 1989, I, 305, con note di Pizzorusso e
Scotti, alle quali si rinvia anche per citazioni di dottrina, cui adde Cirillo
Sorrentino, La responsabilità del giudice, Milano, 1988; Rossi, Respon
sabilità civile: la sentenza della Corte costituzionale, in La magistratura,
1989, n. 1, 39. [G. Ciani]
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PARTE SECONDA
ne di un numero indeterminato di istanze atte a sollecitare la con
dotta del magistrato, significherebbe paralizzare l'attività proces suale ed inciderebbe sulla scelta discrezionale del giudice circa
la modalità di conduzione della propria attività finalizzata al rag
giungimento di un determinato scopo. Sembra quindi evidente che la parte possa sollecitare solo ed
esclusivamente i provvedimenti (e non tutti a parere di questo
p.g.) che, secondo la più autorevole dottrina, costituiscono atti
semivincolati in quanto, pur essendo attuazione di una volontà,
non cadono nell'ambito dell'autonomia piena, poiché al potere
corrisponde il dovere di agire per l'adempimento di una determi
nata funzione.
Essi, secondo il nostro diritto positivo, sono le sentenze, i de
creti e le ordinanze che secondo il disposto normativo di cui al
l'art. 148 c.p.p. sono tassativamente indicati nel nostro codice.
D'altra parte anche dalla semplice interpretazione letterale del
la norma in esame si evince che l'istanza sollecitatoria deve ten
dere ad ottenere l'emissione di un provvedimento e non di un
semplice atto processuale in senso lato.
Ed invero, seppur la norma evidenzia il trascorso del termine
per il compimento dell'atto da parte del magistrato, appare evi
dente che tale atto deve rientrare tra quelli parzialmente vincolati
e quindi, come dianzi esposto, tra i provvedimenti ed infatti la
norma chiarisce che detta istanza deve tendere ad ottenere pro
prio un provvedimento e non altro.
Interpretare la norma in altro senso significherebbe incidere sul
principio della discrezionalità del giudice e sul principio dispositi
vo, oltre che non avrebbe senso, se non antigiuridico, sotto il
profilo della dinamica processuale. Non v'ha dubbio che nella specie si verta in tema di emissione
di atti processuali da parte del magistrato; infatti la formulazione
dei capi di imputazione rientra nella sua espressione nella più
ampia accezione di atto processuale e di certo non costituisce un
provvedimento, poiché non solo non è previsto dall'art. 148 c.p.p., ma di certo non è atto semivincolato, apparendo l'attività del
p.m., nel contesto, nella sua più ampia discrezionalità e libertà
giuridica. Ne consegue che nessuna istanza sollecitatoria appare ammissi
bile per accelerare l'attività del magistrato, il quale, peraltro, in
caso di evidente scarso rendimento, sarà normalmente sottoposto al potere di vigilanza del superiore gerarchico.
Per questi motivi, ritiene di non doversi concedere alcuna pro
roga esulando la fattispecie dalla previsione normativa di cui al
l'art. 3 1. 14 aprile 1988 n. 117.
TRIBUNALE DI LARINO; sentenza 13 aprile 1988; Pres. Rizzi, Est. Fidelbo; imp. D'Avirro.
TRIBUNALE DI LARINO;
Tributi in genere — Irregolare tenuta di scritture contabili obbli
gatorie — Reato — Estremi — Fattispecie (D.l. 10 luglio 1982
n. 429, norme per la repressione della evasione in materia di
imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la defi
nizione delle pendenze in materia tributaria, art. 1; 1. 7 agosto 1982 n. 516, conversione in legge, con modificazioni, del d.l.
10 luglio 1982 n. 429, art. 1).
Va esclusa l'applicazione della fattispecie di irregolare tenuta di
scritture contabili obbligatorie, di cui all'art. 1, 6° comma, d.l.
429/82, convertito in l. 516/82, laddove le irregolarità accerta
te non abbiano in nessun modo posto in pericolo il bene pro tetto dalla norma, che deve essere individuato nell'interesse a
che non sia ostacolato o impedito l'accertamento dell'an e del
quantum debeatur di imposta (c.d. trasparenza fiscale). (1)
(1) La presente sentenza si inserisce in un orientamento abbastanza dif fuso nella giurisprudenza di merito, nel quale è dato cogliere un dichiara to tentativo di razionalizzazione, e di conseguente delimitazione, della
Il Foro Italiano — 1989.
Fatto. —- In seguito ad una verifica fiscale eseguita presso la
ditta individuale «D'Avirro Maria Nicola», con sede in S. Marti
no in Pensilis, veniva trasmesso alla procura della repubblica di
Larino rapporto penale di denuncia in cui si evidenziavano alcu
ne irregolarità nella tenuta dei libri sociali.
La titolare della società veniva quindi imputata della contrav
venzione prevista dall'art. 1, ultimo comma, d.l. 10 luglio 1982
n. 429, convertito nella 1. n. 516 del 1982, per non aver tenuto
il registro dei corrispettivi sin dall'inizio dell'attività svolta (eser
cizio al minuto di merceria).
Interrogata dal magistrato la D'Avirro riferiva di aver dato
incarico al rag. Garofalo di mantenerle la contabilità e di acqui
stare tutti i libri contabili previsti dalle norme di legge. Per questi fatti l'imputata veniva tratta a giudizio. All'udienza dibattimentale la D'Avirro ribadiva quanto già di
chiarato in istruttoria; quindi, sentito il teste Rapisarda Alfio,
il p.m. e la difesa concludevano come in atti.
Diritto. — L'ultimo comma dell'art. 1 1. 7 agosto 1982 n. 516
prevede come ipotesi contravvenzionale la mancata tenuta o la
mancata conservazione delle scritture contabili obbligatorie, pre
viste dal d.p.r. 600/73. Si tratta di un reato che ha carattere omis
sivo e che si realizza con la violazione dell'obbligo di tenere le
scritture contabili cosi come prescritto dall'art. 22 d.p.r. 600/73,
il quale, per quanto attiene alla conservazione ed alle modalità
della tenuta, rinvia agli art. 2215 e 2219 c.c.
In realtà, la fattispecie criminosa prevista dalla norma indica
tre differenti ipotesi: a) mancata tenuta delle scritture previste dall'art. 14, lett. a) e b), cioè del libro giornale e del libro degli
inventari, nonché dei libri indicati ai fini dell'imposta sul valore
aggiunto; b) mancata conservazione dei libri e scritture contabili
per il periodo fissato dall'art. 22; c) tenuta irregolare delle scrit
ture in violazione delle regole stabilite dagli art. 2215 e 2219 c.c.
Nel caso di specie la contestazione cui l'imputata è chiamata
a rispondere riguarda l'omessa tenuta del registro dei corrispetti
portata applicativa della fattispecie prevista dall'art. 1, ultimo comma, 1. 516/82. In prospettiva sostanzialmente analoga, v. Trib. Viterbo 22
gennaio 1986, Foro it., 1987, II, 71; Trib. Vicenza 19 maggio 1986, id.,
Rep. 1986, voce Tributi in genere, n. 1152; Trib. Torino 6 marzo 1987, id., Rep. 1987, voce Valore aggiunto (imposta sul), n. 294; Trib. Venezia 8 novembre 1988, Fisco, 1989, 683; Trib. Torino 7 maggio 1987, id., 1988, 6397. Con quest'ultima pronuncia si è in particolare affermato che «L'inciso «in conformità all'art. 22 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600» di cui all'art. 1, 6° comma, 1. 7 agosto 1982 n. 516 va riferito alla sola
ipotesi di omessa conservazione delle scritture contabili e, di conseguen za, il verbo «tenere» va interpretato nel senso di «istituire»; tale interpre tazione, infatti, comporta l'assoggettamento alla sanzione penale soltanto delle due condotte (e cioè l'omessa istituzione e l'omessa conservazione delle scritture contabili) fiscalmente più insidiose e l'irrilevanza penale di tutte quelle condotte che possono esere inquadrate nello schema del
l'irregolare gestione, alcune delle quali (es. abrasione, spazi bianchi, in
terlinee) di minima pericolosità fiscale (e per le quali, quindi, sono sufficienti le sanzioni amministrative)».
Il problema dell'ambito di applicazione della fattispecie de qua è peral tro oggetto di un vivo dibattito anche in dottrina. Per un quadro generale e più precise indicazioni, v., di recente, Biffani, Commento all'art. 1, 6° comma, in Caraccioli-Giarda-Lanzi, Diritto e procedura penale tri
butaria, Padova, 1989, 71 ss. In relazione alla fattispecie di cui all'art. 1, ultimo comma, 1. 516/82
è stata inoltre recentemente sollevata un'eccezione di legittimità costitu
zionale, sotto il profilo di una eventuale rilevanza, ai fini dell'applicazio ne della disposizione, dei casi di omessa annotazione di fatture nel registro degli acquisti: la questione segnala un preteso contrasto con l'art. 3 Cost., «in quanto, mentre con riferimento alla mancata annotazione dei corri
spettivi esiste la soglia di punibilità dei 50 milioni e del 25% (art. 1,
cpv., n. 1, 1. 516/82), avuto riguardo agli acquisti non esiste analoga soglia di punibilità, ed in quanto la ratio informativa dell'intero corpo normativo di cui all'art. 1 citato è quella di sanzionare violazioni formali al fine di impedire che con le stesse si attuino evasioni fiscali, ed è mag giormente utile a fine di evasione il non annotare vendite (o quanto meno utile al pari del non annotare acquisti)» (Trib. Torino 13 ottobre 1988, Fisco, 1989, 1124). Per ulteriori indicazioni su quest'ultimo problema, v., per tutti, Patrono-Tinti, Contravvenzioni e delitti tributari nella leg ge n. 516 del 1982, Torino, 1988, 71.
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