sezione II penale; sentenza 4 novembre 1993; Pres. Simeone, Est. Della Penna, P.M. Martusciello(concl. diff.); ric. Proc. gen. App. Firenze c. Cappelletti e altri; ric. Sisinni. Conferma App.Firenze 24 novembre 1992Source: Il Foro Italiano, Vol. 117, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1994), pp.137/138-141/142Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23188441 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II penale; sentenza 4 no
vembre 1993; Pres. Simeone, Est. Della Penna, P.M. Mar
tusciello (conci, diff.); ric. Proc. gen. App. Firenze c. Cap
pelletti e altri; ric. Sisinni. Conferma App. Firenze 24 novem
bre 1992.
CORTE DI CASSAZIONE;
Antichità e belie arti — Danneggiamento del patrimonio artisti
co nazionale — Soggetto attivo — Legale rappresentante di
ente pubblico — Reato — Esclusione (Cod. pen., art. 733).
Danneggiamento — Dolo — Estremi — Esclusione — Fattispe cie (Cod. pen., art. 635).
L'ambito di operatività dell'art. 733 c.p. è ristretto al solo pri vato che abbia danneggiato un monumento o una cosa d'arte
di sua proprietà, e non ricomprende fatti posti in essere dal
legale rappresentante di ente pubblico. (1) Pur essendo sufficiente, per la confìgurabilità del delitto di dan
neggiamento, il dolo generico, esso non ricorre allorché la
scelta di una condotta si presenti obiettivamente incerta per la difficoltà della materia e per la presenza di indicazioni tra loro contrastanti (nella specie, il danneggiamento della pavi
mentazione settecentesca di piazza della Signoria a Firenze,
conseguente a una scelta errata circa le modalità di restauro,
è stato ritenuto frutto di negligenza e imperizia). (2)
(Omissis). Ritiene il collegio, esaminando inizialmente il ri corso del p.g. presso la Corte di appello di Firenze, che, nel
primo dei dedotti motivi, ha proposto un tema di generale inte
resse per tutti gli imputati, la non fondatezza delle censure e
delle osservazioni all'uopo formulate sottraendosi a qualsiasi sin
dacato di legittimità la decisione adottata dalla corte in ordine
alla configurazione come reato «proprio» della contravvenzione
prevista dall'art. 733 c.p., per la correttezza giuridica della in
terpretazione che della norma è stata data in sentenza e per la coerenza delle conclusioni cui la corte stessa è pervenuta,
sovvertendo il giudizio che, al riguardo, aveva erroneamente
espresso il primo giudice.
(1-2) Si conclude la vicenda della pavimentazione di piazza della Si
gnoria, sui cui precedenti, v. Pret. Firenze 21 febbraio 1992, Foro it.,
1992, II, 664 e App. Firenze 24 novembre 1992, id., 1993, II, 93, en
trambe con note di richiami, cui adde, sulla possibilità di concorso del
ì'extraneus nel reato proprio di cui all'art. 733 c.p., Pret. Belluno 29
ottobre 1992, Riv. giur. edilizia, 1993, I, 985. La Cassazione si limita
in sostanza ad avvalorare, quanto al carattere proprio della contravven
zione di danneggiamento al patrimonio storico-artistico, la motivazione
della corte d'appello, che, muovendo dall'interpretazione storica e siste
matica della norma, perveniva ad individuare una zona franca nella
repressione penale dei danneggiamenti ai beni culturali, costituita dai
fatti colposi commessi dai pubblici amministratori, e tuttavia adeguata mente coperta, secondo la Suprema corte, dalla responsabilità discipli nare e contabile.
Nella pronuncia, che sembra aderire, quanto alla lettura dell'art. 9
Cost., ad una tesi «minimale» circa la portata del dettato costituzionale
(soprattutto destinato a giustificare le limitazioni alla proprietà privata in funzione dell'interesse pubblico alla tutela del patrimonio storico
artistico, alla luce dell'art. 42, 2° comma, Cost.: sul punto, v. Merusi, in Commentario alla Costituzione a cura di Branca, Bologna-Roma,
1975, 434, sub art. 9) si colgono però alcuni spunti di un certo interes
se, che, pur costituendo affermazioni incidentali, offrono un contributo
ad una più precisa connotazione di questa contravvenzione, la cui ap
plicabilità, già problematica per la necessaria presenza di numerosi re
quisiti (il che induce Mantovani, Lineamenti della tutela penale del
patrimonio artistico, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1976, 77, a definirla
«contravvenzione gigante»), resta definitivamente ridimensionata: — l'azione di danno contemplata dall'art. 733 c.p. può provenire,
oltre che dal privato proprietario, dal rappresentante del proprietario stesso in caso di appartenenza del bene a persona giuridica privata (cfr. Cass. 21 giugno 1991, Crudetti, Foro it., Rep. 1992, voce Antichità,
n. 79); — il comportamento in violazione della norma di cui all'art. 733
c.p. può essere commissivo od omissivo (cfr. Pret. Firenze 5 giugno
1990, ibid., n. 89, in extenso in Giur. merito, 1992, 1336); — il reato è di danno, e non di pericolo, per cui «l'autorizzazione
eventualmente rilasciata dall'autorità amministrativa all'esecuzione del
l'opera non potrebbe produrre alcun effetto discriminatorio circa la sus
sistenza del danno che ne possa essere conseguito ed ostativo in ordine
alla relativa valutazione» (cfr. Pret. Firenze 21 febbraio 1992, cit., e
19 giugno 1990, Foro it., 1992, II, 374, con richiami e nota di Benini).
Il Foro Italiano — 1994 — Parte II-5.
Non v'è dubbio che la suindicata qualificazione giuridica del reato di cui all'art. 733 c.p. trova esauriente riscontro nel dato
storico e nella collocazione sistematica della norma correttamente
intesa dai giudici di appello, in conformità a quanto ritenuto, sulla base anche dell'elemento letterale dalla uniforme dottrina
e dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. sez. II 18
marzo 1988, Brasi, Foro it., Rep. 1989, voce Antichità, n. 69;
6 giugno 1988, Fantilli, id., Rep. 1990, voce cit., n. 69; 17 otto bre 1986, Lunari, id., Rep. 1988, voce cit., n. 49; sez. Ili 15
ottobre 1980 Aufiero, id., Rep. voce cit., n. 46; 19 luglio 1991,
Crudetti, id., Rep. 1992, voce cit., n. 79), per cui è stata ravvi
sata la ricorrenza della contravvenzione in oggetto solo se l'a
zione di danno proviene dal privato in quanto proprietario o,
per lo meno, in rappresentanza del proprietario stesso nel caso
di appartenenza del bene a persona giuridica privata. Non possono, infatti, considerarsi superate per il solo passag
gio del tempo, come preteso dal p.g. ricorrente, le precisazioni
che sulla genesi e sulla portata della norma incriminatrice si
contengono nella relazione al codice penale, opportunamente
riportate in sentenza, per la conferma che della loro perdurante valenza ed attualità scaturisce dalla più approfondita indagine sulla natura giuridica della limitazione al diritto di proprietà introdotta con l'art. 733 c.p., che, rendendo punibile il danneg
giamento di cosa propria (di regola escluso), si correla con il
disposto dell'art. 832 c.c. secondo la riserva ivi formulata circa
il «contenuto» del diritto di proprietà del privato. Sicché l'in
terpretazione «storica» della norma alla quale si è richiamata
la corte si riscontra in quella sistematica della norma stessa,
che nell'ordinamento giuridico si coordina con altra norma di
generale portata concernente la proprietà privata e che trova
giustificazione di sé nei principi fondamentali dell'ordinamento
che ammettono la possibilità di imporre limiti o di sottoporre
ad obblighi l'anzidetto diritto. Come puntualmente precisato nella citata relazione al codice
penale «si ha qui una limitazione penalmente sanzionata del
diritto di proprietà fondata sul concetto della prevalenza del
l'interesse pubblico su quello privato» e, cioè, su quello stesso
interesse che ha ispirato il legislatore costituzionale nell'annun
ciare nell'art. 9 Cost, il principio per cui è compito della repub
blica la tutela del patrimonio storico e artistico della nazione
e nell'ammettere nell'art. 42, 2° comma, la legittimità della im
posizione ex lege — evidentemente anche per realizzare in con
creto quella difesa — di limiti alla proprietà privata e, quindi,
al pieno godimento ed alla libera disponibilità del bene da parte
del proprietario. Ma che l'ambito di operatività dell'art. 733 c.p. sia ristretto
al solo privato, proprietario del bene di cui il predetto abbia
cagionato il danneggiamento con la sua condotta commissiva
od omissiva, risulta chiaramente anche dal disposto del 2° com
ma della norma in oggetto, laddove è prevista la possibilità del
la confisca del bene stesso. Si tratta, a ben vedere, di una di
sposizione che amplia i casi di confisca facoltativa previsti dal l'art. 240, prima parte, c.p. non essendo richiesta la condanna
dell'imputato che costituisce, invece, l'indispensabile presuppo
sto stabilito dalla legge per l'eventuale applicazione della misu
ra di sicurezza patrimoniale e che trova giustificazione proprio
nelle finalità cui, è, nella specie, preordinata la confisca stessa,
la quale, comportando la devoluzione del bene all'erario, «mentre
toglie a chi se ne è mostrato immeritevole la proprietà della
cosa ne garantisce la conservazione nel pubblico interesse».
Risulta, allora, ancor più evidente in forza della naturale in
compatibilità della adozione della confisca rispetto ad un bene
«pubblico» di rilevante pregio archeologico, storico ed artistico
non potendo lo Stato espopriare in suo favore un bene che già
gli appartiene o privare del bene un ente pubblico, territoriale
o non territoriale, nella cui disponibilità il bene si trova per
la funzione pubblica che assolve, come la norma incriminatrice
di cui all'art. 733 c.p. concerna esclusivamente la proprietà pri
vata colpendo chi del bene ne è il proprietario.
Né potrebbe obiettarsi che la confisca proprio perché discre
zionalmente applicabile troverebbe in ciò la sua regolamenta
zione nel senso che potrebbe essere disposta solo nei casi in
cui essa sia compatibile con la situazione realizzatasi in concre
to dovendo intendersi la discrezionalità di cui all'art. 240, pri
ma parte, c.p. come correlata non alle connotazioni soggettive
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PARTE SECONDA
del fatto e, in particolare, alla qualità pubblica o privata del
proprietario del bene danneggiato o deteriorato, ma a connota
zioni più propriamente oggettive in conformità alla funzione
cui la confisca è preordinata di prevenire la commissione di nuovi
reati mediante la espropriazione in favore dello Stato di quelle cose che «provenendo da fatti illeciti o in altra guisa collegan dosi alla loro esecuzione manterrebbero viva l'idea o l'attrattiva
del reato» (cfr. Relazione al progetto definitivo del codice pe
nale, n. 202). Sicché, ove volesse stabilirsi un collegamento con le qualità
personali del soggetto attivo, dovrebbero essere considerate sol
tanto quelle apprezzabili in funzione del giudizio di probabilità cui è subordinato l'esercizio del potere discrezionale previsto dall'art. 240, prima parte, c.p., eppertanto le qualità personali
significative della capacità del brevetto di soggiacere o di resi
stere alla «attrattiva del reato» perpetuata dalla libera disponi bilità della cosa, che per le misure di sicurezza personali e per la cauzione di buona condotta vengono ricondotte, a sensi del
l'art. 203 c.p., al concetto di pericolosità sociale.
La predisposizione dell'art. 733 c.p. alla tutela penalmente sanzionata del patrimonio storico e artistico della nazione nei
confronti del solo privato non consente, però, di ravvisare la
sussistenza di quei profili di incostituzionalità adombrati dal p.g. ricorrente per eventuale violazione dell'art. 9, in relazione al
l'art. 3 Cost, nel senso che il dipendente pubblico responsabile di aver cagionato per colpa l'evento previsto e punito dalla con
travvenzione di cui all'art. 733 c.p. non sarebbe chiamato a
risponderne a differenza del privato, ove si consideri, riguar dando la citata disposizione in un più ampio contesto normati
vo, che dal legislatore non sono state ignorate situazioni del
genere. Alle quali risulta, infatti, riservata una disciplina ragio nevolmente diversificata ma non per questo meno incisiva di
quella affrontata dall'art. 733 c.p. proprio in considerazione
della non coincidenza delle posizioni in cui hanno operato il
proprietario privato ed il dipendente pubblico che gestisce il be
ne di rilevante pregio storico, artistico o archeologico di pubbli ca appartenenza. In quanto la tutela apprestata contro quest'ul timo implica accanto alla responsabilità dell'agente ipotizzabile a titolo di dolo ai sensi dell'art. 635, cpv., n. 3, c.p. nel concor
so dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 9, c.p., la responsabiità
disciplinare e la responsabilità amministrativo-contabile del pre detto ravvisabili anche a titolo di colpa. E, quindi, al di fuori di ogni comportamento doloso, cosi coprendo, mediante la pre visione di sanzioni diverse, ma non per questo meno afflittive
di quelle fissate dalla legge penale per una semplice contravven
zione come quella di cui all'art. 733 c.p. (per di più oblabile
a sensi dell'art. 162 bis c.p.), vaste aree di responsabilità che
non rimangono, pertanto, impunite, costituendo, comunque, og
getto di adeguata considerazione legislativa e di conseguente re
pressione ai fini della realizzazione nel modo più ampio e con
creto della tutela del patrimonio storico e artistico della nazio
ne, espressamente considerato nell'art. 9 della Carta
costituzionale.
Non v'è, quindi, spazio per interpretazioni che, collegandosi a criteri di per sé labili (eppertanto inaffidabili) come quello
evolutivo, comportano l'ampliamento della sfera di operatività di una norma incriminatrice come l'art. 733 c.p. in maniera
del tutto arbitraria con conseguente violazione del categorico
imperativo enunciato nell'art. 1 c.p. Ma la sentenza non merita censura neppure in ordine all'altra
statuizione cui è pervenuta la corte di appello, allorquando ha
assolto gli imputati dal danneggiamento loro ascritto perché il
fatto non costituisce reato con riferimento all'elemento psicolo
gico del reato stesso.
Va preliminarmente osservato che l'ipotesi di danneggiamen to che ha costituito oggetto di specifica contestazione da parte dei ricorrenti attiene non all'opera di rimozione dei basoli sette
centeschi ed alle relative tecniche di prelievo, menzionate an
ch'esse in rubrica sub art. 635 c.p., ma ai metodi di lavorazione
adottati per il ricondizionamento delle pietre recuperate ed il
loro «reimpaginamento» nella pavimentazione successivamente
realizzata, avendo, infatti, la corte registrato con riferimento
alla prima delle due situazioni surricordate incertezza e labilità
della prova circa la possibilità di attribuire il danno, consistente
Il Foro Italiano — 1994.
nella elevata frantumazione in sede di prelievo delle pietre del
lastricato originario, ai metodi di rimozione delle stesse piutto
sto che allo stato di usura delle singole lastre.
Altra osservazione che occorre premettere al fine della deter
minazione dell'ambito del presente giudizio concerne la irrile
vanza di fini della decisione delle deduzioni formulate dalla di fesa del ricorrente Sisinni con riferimento «all'oggetto della tu
tela», incentrate sulla negazione anche del pregio storico dei
basoli, concerndo tutte le surrichiamate deduzioni la rawisabi
lità nella specie della contravvenzione all'art. 733 c.p., già escluse
per motivi diversi da quelli indicati in ricorso dalla corte di ap pello, con motivazione che il collegio ha condiviso dopo averne
riscontrato la fondatezza. V'è, semmai, da aggiungere che le
«scelte della pubblica amministrazione» non potrebbero comun
que condizionare il giudizio emesso in sede penale con riferi
mento al reato di danneggiamento, essendo lo stesso un reato
di danno e non di condotta per cui l'autorizzazione eventual
mente rilasciata dall'autorità amministrativa all'esecuzione del
l'opera non potrebbe produrre alcun effetto discriminatorio cir
ca la sussistenza del danno che ne possa essere conseguito ed
ostativo in ordine alla relativa valutazione.
Va ancora rilevata la infondatezza delle affermazioni conte
nute nel secondo motivo del ricorso proposto dal Sisinni in cui
è stata contestata la «sussistenza della materialità della condot
ta richiesta dall'art. 635 c.p.», ritenuta dalla corte di appello,
ove si consideri, da un verso, che ai fini del reato in oggetto non risulta determinante il pregio storico o artistico del bene
distrutto o deteriorato, che, peraltro, la corte ha motivatamente
ritenuto sussistente con particolare riferimento all'insieme della
pavimentazione bicentenaria della piazza e, dall'altro, che per escludere sotto il profilo della materialità della condotta la sus
sistenza del reato in oggetto è necessario che il danno sia tal
mente esiguo da non poter integrare una modificazione struttu
rale o funzionale della cosa ovvero un deterioramento di una
certa consistenza o evidenza (cfr. sez. V 23 marzo 1981, Miti
dieri, id., Rep. 1982, voce Danneggiamento, n. 2; 7 febbraio
1978, Vacchieri, id., Rep. 1978, voce cit., n. 3). Eppertanto che ricorrano situazioni certamente non verificatesi nella specie ove si considerino i lavori di riadattamento e di utilizzazione
delle singole lastre che ne annullarono le caratteristiche origina rie e ne vanificarono il significato storico, come indicato in sen
tenza per cui dette lavorazioni, implicanti a seguito del taglio a macchina nelle sei facce dei basoli, il loro ridimensionamento
sia in spessore che nelle dimensioni complessive, «ebbero come
esito la utilizzazione delle pietre recuperate alla stregua del ma
teriale inerte proveniente da una cava qualsiasi e non di piazza della Signoria» e comportarono, dopo il loro riposizionamento, «un disegno complessivo che non rispettava e non poteva più
rispettare la precedente posizione né singolarmente né comples
sivamente, poiché l'ordito era risultato diverso da quello sette
centesco». Sicché il danno conseguente è stato fondatamente
ravvisato in relazione sia ai singoli «pezzi» che al loro insieme
monumentale.
L'unico problema posto, quindi, dall'attuale processo con ri
ferimento al reato di cui all'art. 635 c.p. è quello che concerne, secondo la corretta impostazione dell'indagine seguita al riguar do dalla corte di appello la sussistenza nella specie dell'elemen
to psicologico del reato di danneggiamento che è stato negativa mente risolto in sentenza in quanto nella condotta tenuta da
tutti gli imputati nella tormentata vicenda della pavimentazione della storica piazza fiorentina potevano ravvisarsi solo gli estre
mi della colpa sotto il profilo della superficialità e della imperizia. Occorre, peraltro, precisare che l'indagine consentita in que
sta sede non consente la rilettura dell'elemento probatorio la
cui ricerca e valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito, dovendosi, infatti, negare, secondo le categoriche indicazioni contenute nell'art. 606, lett. e, c.p.p. — specifica mente richiamato da entrambi i ricorrenti al fine di inquadrare
giuridicamente le verifiche richieste nei ricorsi rispettivamente
proposti — la deducibilità nel presente giudizio di «ragioni atti nenti la individuazione, la cernita e la valutazione dei fatti pro cessuali». Per cui il vizio di motivazione (non risolventesi in mancanza assoluta) è circoscritto nel nuovo rito alla manifesta
illogicità che risulti dal «testo del provvedimento impugnato» ed il potere-dovere di cognizione della corte di legittimità è limi
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GIURISPRUDENZA PENALE
tato all'esame della struttura logica del documento, con esclu
sione di verifiche negli atti del procedimento (cfr. sez. V 20
agosto 1991, Iermanò, id., Rep. 1992, voce Cassazione penale,
n. 48; sez. I 30 maggio 1991, Birra, ibid., n. 49; sez. I 24 set tembre 1990, Caponaccio, id., Rep. 1991, voce cit., n. 6; sez.
VI 30 gennaio 1992, Prisinzano, id., Rep. 1992, voce cit., n. 31).
In sostanza, l'omissione come sopra intesa deve apparire tale
nello stesso sviluppo logico del provvedimento impugnato e non
nella diversa prospettiva addotta dal ricorrente.
Orbene, alla stregua dei suindicati principi formulati sulla ba se della corretta interpretazione dell'art. 606, lett. e, c.p.c. e
che delimitano rigorosamente l'ambito dell'attuale indagine, la
impugnata sentenza risulta immune da vizi apprezzabili in sede
di legittimità per la razionalità strutturale della motivazione, il
cui apparato argomentativo risulta correttamente impostato sul
piano giuridico e coerentemente sviluppato in punto di fatto
perché ancorato a precise e significative risultanze processuali
per cui le conclusioni si pongono in rapporto di inevitabile con
seguenzialità con le suindicate risultanze.
Invero, il delitto di danneggiamento previsto dall'art. 635 c.p.
non postula il dolo specifico, cioè, l'intento di arrecare danno
bastando ad integrare l'elemento psicologico che l'azione da cui
il danno deriva sia compiuta volontariamente e con la coscienza
dell'evento che ne seguirà ed è proprio con riferimento a tale
consapevolezza che la corte di appello all'esito dell'attento rie
same delle carte processuali e con riferimento al tormentato iter
della progettazione e della esecuzione dei lavori concernenti la
pavimentazione di piazza della Signoria ha rinvenuto elementi
che sul piano della prova la convincevano ad inquadrare negli
schemi della colpa la condotta tenuta dagli imputati nel lungo
arco di tempo in cui la intera vicenda si è sviluppata. Come,
peraltro, già rilevato dallo stesso pretore, che, pur prospettando
la possibilità di ravvisare nel comportamento di alcuni imputati «elementi di dolo indiretto», ha, però, considerato la colpa,
intesa quale inosservanza del dovere di usare perizia, diligenza
e prudenza nella realizzazione dell'opera, come il qualificante
denominatore comune della posizione di tutti gli imputati. I contrasti negli orientamenti e la contraddittorietà delle ini
ziative attestate dalla stessa molteplicità dei protocolli di intesa
concordati tra autorità centrale e autorità locale, le scelte fatte
e, poi, contraddette da coloro che a diversi livelli erano chiama
ti a risolvere le problematiche di non facile soluzione che la
realizzazione dell'opera necessariamente comportava, anche per
la mancanza di risolutivi interventi in situazioni similari, la plu ralità delle voci contrastanti, delle opinioni divergenti e degli interventi diversamente ispirati che si sono registrati nella vicen
da, la mancanza di specifiche competenze in materia da parte
dei singoli operatori sono tutti elementi che nel loro incontesta
bile e concordante significato sono stati ragionevolmente consi
derati dalla corte di appello a dimostrazione inconfutabile di
una condizione di incertezza che non poteva che essere ricon
dotta nello schema tipico della colpa.
Né valgono i riferimetni contenuti nel ricorso del p.g. alla esistenza di talune, seppur autorevoli voci di dissenso, rispetto
agli orientamenti ed alle iniziative seguite dalla pubblica ammi
nistrazione, che la corte avrebbe trascurato o sottovalutato, a
dimostrare la «irrazionalità» del giudizio conclusivo cui la stes
sa è pervenuta ed a riaprire il discorso in materia, ove si consi
deri che i richiamati elementi, corrispondendo a mere opinioni
ed a personali convincimenti, sono di per sé privi di valore riso
lutivo ai fini della decisione e che le suindicate deduzioni risul tano in buona sostanza finalizzate ad un riesame in punto di
fatto eppertanto ad una indagine estranea rispetto alla verifica
consentita dall'art. 606, lett. e, c.p.p. e, comunque, inammissi
bile in considerazione delle competenze istituzionali del giudice di legittimità.
Altrettanto è a dirsi in ordine alle censure dedotte nel terzo
motivo del ricorso proposto dal Sisinni, che, contestando essen
zialmente in fatto l'impugnata sentenza, ha sollecitato, osser
vando una inesistente mancanza di motivazione, una indagine
che, implicando il controllo della posizione e della condotta del
predetto in relazione allo svolgimento della vicenda di cui è sta
to, comunque, parte attiva, introdurrebbe anch'essa accertamenti
e valutazioni di per sé incompatibili con il giudizio di legittimità
Il Foro Italiano — 1994.
esigendo necessariamente il riesame degli elementi di prova ac
quisiti nel corso del giudizio. Mentre a nulla rileva il richiamo fatto dai difensori alle com
petenze proprie del Sisinni nell'ambito del ministero, di cui oc cupa una posizione di vertice, a fronte dell'accertata sua parte
cipazione alla pluriennale vicenda e della conseguente assunzio
ne da parte del predetto di dirette responsabilità nello svolgimento
della stessa.
Neppure può essere condivisa la doglianza formulata nell'ul
timo motivo del ricorso del p.g. di Firenze, nel quale si riscon
tra quella analoga anche se contrariamente finalizzata del Sisin
ni, di una valutazione non specifica delle posizioni dei singoli imputati ove si consideri che le condotte rispettivamente tenute
dai predetti durante l'annosa vicenda era stata già attentamente
ricostruita in punto di fatto dal primo giudice e che a tale rico
struzione si è riferita la corte, che ha dissentito dal giudizio
conclusivo espresso dal pretore solo in punto di diritto esclu
dendo la configurabilità nella specie della contravvenzione al
l'art. 733 c.p. ed ammettendo in suo luogo la ipotizzabilità del
delitto di cui all'art. 635 c.p., poi, ravvisato insussistente con
riferimetno all'elemento psicologico. Donde la non necessità di
una ulteriore valutazione analitica di comportamenti attentamente
ricostruiti e definiti nei loro successivi sviluppi sulla base delle
risultanze acquisite nel corso del processo.
Ritiene, pertanto, il collegio di dover rigettare entrambi gli
interposti ricorsi, con conseguente condanna del Sisinni al pa
gamento delle spese processuali.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 13 ot
tobre 1993; Pres. Tridico, Est. Onorato, P.M. Galgano
(conci, diff.); ric. P.m. in c. Cusani. Annulla Trib. Milano, ord. 20 agosto 1993.
Misure cautelari personali — Decisione del tribunale del riesa
me — Ricorso per cassazione — Interesse del pubblico mini
stero — Fattispecie (Cod. proc. pen., art. 274, 311, 568).
Misure cautelari personali — Esigenze cautelari — Esigenze di
difesa sociale — Fattispecie (Cod. proc. pen., art. 274).
Sussiste l'interesse del pubblico ministero ad impugnare la deci
sione del «tribunale della libertà» anche ove l'ordinanza del
tribunale abbia fissato una durata della misura cautelare pari
al termine massimo di fase, limitandone, dunque, la sfera d'a
zione alle sole esigenze di cui all'art. 274, lett. a), c.p.c. (1) Ove il giudice individui, quale esigenza cautelare, la probabile
reiterazione dei reati, è irrilevante, ai fini della sua esatta con
figurazione giuridica, il motivo che la ispira; ne consegue che
(1) Nel senso dell'applicabilità del criterio dell'interesse anche alle
impugnazioni de libertate, cfr. Cass. 12 aprile 1991, De Biasi, Foro
it., Rep. 1992, voce Misure cautelari personali, n. 517, nonché, per
talune applicazioni, Cass. 20 maggio 1991, Cazzola, ibid., n. 516, e
1° aprile 1992, Albano, ibid., n. 515, secondo cui «il p.m. ha interesse
a impugnare il provvedimento del g.i.p. che ritenga sussistente l'esigen
za cautelare di cui all'art. 274, 1° comma, lett. a), c.p.p. ma non anche
quella di cui alla lett. c) di tale norma», in quanto «sussiste un concreto
interesse del p.m. al riconoscimento di esigenze cautelari diverse da quella
di cui alla lett. a), soggetta alla fissazione di un termine, perché, indi
pendentemente dalla fissazione di tale termine in misura coincidente
con quella massima di fase, le esigenze di cui alle successive lett. b)
e c) sono destinate a permanere oltre la fase delle indagini preliminari».
In generale, sulla fisionomia dell'interesse ad impugnare del pubblico
ministero, cfr. Cass., sez. un., 11 maggio 1993, P.m. in c. Amato,
id., 1993, II, 556, con nota di ulteriori richiami.
Sui limiti del controllo di legittimità in materia cautelare, cfr., tra
le altre, Cass. 20 agosto 1991, Mercuri, id., Rep. 1992, voce cit., n. 539.
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