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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione III penale; sentenza 24 settembre 1990; Pres....

Date post: 27-Jan-2017
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sezione III penale; sentenza 24 settembre 1990; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Ranieri (concl. conf.); ric. Proc. gen. App. Genova in causa Monti. Conferma App. Genova 21 febbraio 1990 Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp. 295/296-301/302 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23186370 . Accessed: 25/06/2014 03:21 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.79 on Wed, 25 Jun 2014 03:21:53 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione III penale; sentenza 24 settembre 1990; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Ranieri(concl. conf.); ric. Proc. gen. App. Genova in causa Monti. Conferma App. Genova 21 febbraio1990Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.295/296-301/302Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186370 .

Accessed: 25/06/2014 03:21

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PARTE SECONDA

ord. 10 maggio 1990, Prete, Foro it., 1991, II, 107). E ciò in

quanto, secondo la prima delle due citate pronunce di legittimi

tà, detto provvedimento conclusivo non derogherebbe alla rego

la generale della sentenza posta dall'art. 605 c.p.p.

A parte invero il rilievo — di valore ermeneutico solo contin

gente, perché derivante da una norma transitoria — che la re

gola generale dell'art. 605 non si applica ai procedimenti inizia

ti, come questo in esame, prima dell'entrata in vigore del nuovo

codice, per i quali continua ad aver vigore l'art. 523 del vec

chio, che espressamente collega l'obbligo di pronunciare senten

za con l'avvenuto svolgimento di un dibattimento («in seguito

al dibattimento pronuncia sentenza»); a parte ciò sembra evi

dente che anche l'art. 605 abbia inteso riferirsi alla pronuncia

conclusiva della fase dibattimentale.

Al contrario, il fatto di avere il legislatore espressamente pre

visto la sentenza solo per il giudizio camerale di primo grado

(art. 442 c.p.p. e 247 disp. trans.) e non anche per quello d'ap

pello, pure camerale, conferma che per quest'ultimo la forma

voluta è appunto quella dell'ordinanza esecutiva, propria dei

procedimenti in camera di consiglio.

La seconda pronuncia del Supremo collegio afferma invece

che la forma richiesta dalla legge è in ogni caso quella della

sentenza, per le seguenti ulteriori ragioni:

1) la decisione ex art. 599 e 127 c.p.p. si basa su una valuta

zione di merito, sicché deve seguire «il principio secondo cui

il processo di cognizione necessita nel merito di una definizione

con sentenza». Afferma inoltre che sia incompatibile con il si

stema processuale che una sentenza possa essere riformata da

un'ordinanza.

Ad avviso di questa corte la regola della sentenza già soffre

eccezione relativamente ad altri procedimenti speciali come quelli

di prevenzione e di sicurezza. Si tratta, è vero, di procedimenti

a cognizione ridotta, nei quali le ragioni di speditezza e sempli

cità prevalgono sulla solennità della forma del provvedimento

conclusivo. Ma, come si è detto in principio, questo è appunto

il caso dei procedimenti speciali previsti dagli art. 438 s., 599,

1° e 4° comma, del nuovo codice.

Quanto al secondo rilievo, questa corte non crede che il siste

ma processuale resti sovvertito dall'anomalia: la deroga alla nor

ma è infatti parte del sistema (art. 15 c.p.) e le già accennate

sue ragioni la giustificano appieno;

2) in base all'art. 311, 5° comma, del nuovo codice, la Corte

di cassazione decide in materia di misure cautelari osservando

le forme previste dall'art. 127. E ciononostante l'art. 623, lett.

a), dello stesso codice, per il caso d'annullamento di un'ordi

nanza, indistintamente prevede la forma della sentenza.

Il citato art. 623, lett. a), dispone che, «se è annullata un'or

dinanza, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano tras

messi al giudice che l'ha pronunciata, il quale provvede unifor

mandosi alla sentenza d'annullamento».

Va però obiettato che la Corte di cassazione provvede in ca

mera di consiglio con le forme, in parte derogate, dell'art. 127 — fatta eccezione delle sentenze pronunciate con rito abbrevia

to a norma dell'art. 442 — ogni qualvolta deve decidere su ri

corso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento (art.

611 c.p.p.) e che la decisione camerale assume di norma la for

ma dell'ordinanza, ma talvolta anche quella della sentenza (art.

32 c.p.p.; 623, lett. a, cit.). Dal fatto che in determinati procedimenti sia espressamente

prevista per il giudizio di cassazione la forma della sentenza

non sembra possa dedursi che il giudizio d'appello debba an

ch'esso concludersi, nei diversi casi di cui all'art. 599 c.p.p.,

con una sentenza anziché con un'ordinanza.

L'eccezione alla regola del procedimento camerale posta dal

l'art. 611, 1° comma, solo relativamente alle «sentenze pronun ciate a norma dell'art. 442» — ossia alle sentenze rese in primo

grado a seguito di giudizio abbreviato — e non posta anche

per il provvedimento conclusivo del giudizio d'appello ai sensi

degli art. 443, n. 4, e 127 c.p.p., conferma che l'atto terminati

vo del giudizio camerale d'appello è un'ordinanza e non una

sentenza.

La limitatezza dell'eccezione trova infatti spiegazione nel fat

to che solo in primo grado il giudizio, pur svolgendosi come

in secondo grado in camera di consiglio, deve concludersi, per

Il Foro Italiano — 1991.

espresso e, si è già detto, razionale dettato della legge, con una

sentenza.

3-4) Si afferma anche, nella medesima pronuncia del Supre

mo collegio, che ove nella procedura camerale ex art. 599 e

127 c.p.p. sia da applicare una delle cause di non punibilità

previste dall'art. 129 c.p.p. (art. 152 c.p.p. abr.) la forma del

relativo provvedimento deve sempre essere quella della senten

za, perché espressamente previsto dallo stesso art. 129.

Si aggiunge poi — con ciò toccando la vera e sola ragion

d'essere del problema, che non è quella formale di stabilire se

i giudizi speciali d'appello previsti dagli art. 443, 4° comma,

e 599, 1° e 4° comma, debbano concludersi con una sentenza

o con un'ordinanza, bensì' di accertare se il provvedimento sia

o no immediatamente esecutivo, in via provvisoria — che una

conferma che si tratti di sentenza si ricava dal fatto che l'imme

diata esecutività stabilita dall'art. 127, 8° comma, è inconcilia

bile con l'art. 650, 1° comma, del nuovo codice, che nel caso

di condanna riconosce esecutività solo alle sentenze e ai decreti

penali quando sono divenuti irrevocabili.

Sembra però al collegio che tanto al primo quanto al secondo

argomento possa obiettarsi che gli art. 129 e 650 c.p.p. sono

norme di carattere generale alle quali ben può la legge deroga

re, cosi come il nuovo codice ha derogato attraverso le norme

speciali dettate per i casi previsti dagli art. 443, 4° comma, e

599, 1° e 4° comma.

Non di inconciliabilità si tratta ma, semmai, di mancanza di

espresso coordinamento tra le diverse norme. La stessa osserva

zione sembra possa farsi per quanto riguarda il richiamo, da

ultimo effettuato dall'ordinanza del Supremo collegio, agli art.

648, 649 e 650, che attribuiscono solo alla sentenza e al decreto

penale di condanna l'efficacia di cosa giudicata sostanziale.

Ma, conclusivamente, va anche rilevato che se detti procedi

menti dovessero definirsi in appello con una sentenza non di

immediata esecuzione, verrebbe frustrato lo scopo della spedi tezza perseguito dal nuovo legislatore con la fondamentale in

novazione introdotta con gli art. 599 e 127 c.p.p., poiché ver

rebbe anzi incoraggiata l'impugnazione meramente dilatoria, per

sino nel caso in cui su tutto v'è stato accordo fra le parti,

condiviso dal giudice (art. 599, 4° comma). (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 24 set

tembre 1990; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Ranie

ri (conci, conf.); ric. Proc. gen. App. Genova in causa Mon

ti. Conferma App. Genova 21 febbraio 1990.

Tributi in genere — Reato tributario — Errore su norma tribu

taria — Estremi — Fattispecie (D.l. 10 luglio 1982 n. 429,

norme per la repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione

delle pendenze in materia tributaria, art. 8; 1. 7 agosto 1982

n. 516, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 10

luglio 1982 n. 429, art. 1).

A seguito della parziale declaratoria di illegittimità costituzio

nale dell'art. 5 c.p. (sentenza n. 364/88 della Corte costitu

zionale), anche l'art. 8 I. 516/82, che rappresenta un'applica

zione speciale del 3° comma dell'art. 47 c.p., deve essere in

terpretato nel senso di riconoscere efficacia scusante ad ogni

situazione di difficoltà interpretativa, che si presenti come «ine vitabile» per il «comune cittadino» (nella specie, è stato rite

nuto non punibile il liquidatore di una società a responsabili tà limitata, il quale, a causa della particolare complessità del

la specifica disciplina di legge, e pur essendosi previamente

informato presso un consulente finanziario, era caduto in er

rore nell'individuazione dei termini previsti per legge, ed ave

va presentato in ritardo la dichiarazione dei redditi relativa

alla società liquidata). (1)

(1) Principi di notevole importanza e novità vengono affermati da

questa nuova pronuncia della Corte suprema sulla disciplina dell'errore

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GIURISPRUDENZA PENALE

Motivi della decisione. — 1. - La ricostruzione in fatto e la

conclusione tratta dalla corte d'appello. Il 9 novembre 1983 l'as

semblea straordinaria dei soci della s.r.l. Ermi Fur ha delibera to lo scioglimento e la messa in liquidazione della società ed

ha nominato il Monti liquidatore. Egli, ai sensi dell'art. 10 d.p.r. 600/73, avrebbe dovuto presentare la dichiarazione dei redditi, mod. 760, relativa al periodo 1° gennaio 1983-9 novembre 1983, entro quattro mesi dalla data della «delibera» di messa in liqui dazione e l'ha, invece, presentata il 30 luglio 1984 e cioè dopo lo scadere della data indicata.

Va ancora ricordato che, sin dalla prima contestazione del

l'addebito, il Monti ha dichiarato che, se l'effettiva data della

in materia penale tributaria (art. 8 1. 516/82). La decisione era per certi versi attesa. E ciò soprattutto per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo per un'auspicata verifica delle più o meno esplicite risposte che la Corte di cassazione avrebbe potuto avanzare, rispetto a tutti i com

menti, in alcuni casi apertamente critici, che l'orientamento interpreta tivo assunto nell'unico precedente a tutt'oggi noto aveva suscitato (v. Cass. 25 febbraio 1986, Piro, Foro it., 1987, II, 531, con nota di ulte riori richiami e riferimenti alle precedenti decisioni della giurisprudenza di merito). Sotto altro profilo, inoltre, per una più diretta valutazione

degli eventuali riflessi registrabili, sul versante dell'errore su norme tri

butarie, a seguito della sopravvenuta declaratoria d'illegittimità costitu zionale dell'art. 5 c.p. (v. Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, id., 1988, I, 1385, con nota di Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: «prima lettura» della sentenza n. 364/88).

Le indicazioni emergenti dall'attuale presa di posizione non hanno certamente deluso le aspettative, ed offrono sufficiente risposta a molti dei quesiti aperti con quella prima sentenza del 25 febbraio 1986. Come

noto, in tale occasione la Corte di cassazione aveva affermato che: «Con la disposizione di cui all'art. 8 1. 516/82 il legislatore ha inteso ripro durre la disciplina prevista dall'art. 47, ultimo comma, c.p., limitando il campo d'applicazione della nuova normativa a quelle ipotesi di non

punibilità del contribuente, già esistenti in relazione ad illeciti ammini strativi fiscali, che assegnano rilievo scusante all'errore determinato dal l'obiettiva incertezza della normativa tributaria; non ha, pertanto, valo re esimente la mera difforme valutazione interpretativa dell'imputato, derivante da un'erronea, colposa qualificazione giuridica della norma tributaria violata». Per una più completa valutazione dei problemi e delle perplessità suscitate da questa decisione si rinvia ai numerosi suc cessivi commenti, ed in particolare a: R. Bettiol, L'errore su legge extrapenale e legge tributaria, in Rass. trib., 1988, II, 316 ss.; Donini, L'autonomia dell'errore su norme tributarie risolventesi «sul fatto» (art. 8 l. n. 516/1982) rispetto alla disciplina dell'errore «sul divieto» ai sensi dell'art. 5 del codice penale riformato, id., 1989, II, 966; Flora, Verso

un'interpretazione abrogatrice della norma sull'errore di diritto nei rea ti tributari (art. 8 l. n. 516 del 1982)?, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1988, 205; Melchionda, Colpevolezza ed errore nell'attuale sistema di diritto penale tributario, in Dir. e pratica trib., 1988, I, 594 ss.; Tenca

ti, L'efficacia scriminante dell'errore su norme tributarie nel sistema dei reati fiscali, ibid., 1280.

Con questa nuova pronuncia la Cassazione conferma, da un lato, le premesse d'ordine sistematico assunte nella precedente occasione, ma muta radicalmente prospettiva rispetto a quanto attiene all'individua zione dei parametri sui quali viene ad essere fondata la concreta valuta zione dell'errore dell'agente. Sotto il primo profilo, si ribadisce infatti la fondatezza della passata presa di posizione in ordine ad un rapporto di stretta corrispondenza fra la disciplina in tema di errore su norme tributarie e quella più generale prevista dall'art. 47, ultimo comma, c.p. (il punto era stato contestato da un settore della dottrina, che ave va ravvisato nell'art. 8 cit. una disposizione riferibile anche a casi di vero e proprio errore sul precetto: in questo senso v., per tutti, M.

Romano, Osservazioni sul nuovo diritto penale tributario, id., 1983, I, 752. Per ulteriori riferimenti si rinvia alle successive indicazioni bi

bliografiche). Ferma tale premessa di fondo, la motivazione si sofferma tuttavia

in termini critici sul rigoroso orientamento interpretativo, che la stessa

giurisprudenza di legittimità ha per lungo tempo seguito nell'applicazio ne (rectius: nella disapplicazione) di quest'ultima disposizione, e ritiene che un superamento di tali presupposti sia reso oggi necessario, soprat tutto in ragione delle aperture sistematiche che si reputano ravvisabili nella nota declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. sull'errore di diritto. La motivazione muove infatti dall'esplicito

presupposto che l'apportata correzione al principio dell'inescusabilità dell'errore sulla legge penale non possa «non valere — ed a maggior

ragione — per ogni difficoltà interpretativa che si presenti per il "co mune cittadino" come "inevitabile"». Da ciò vengono tratte le mosse

per un diverso apprezzamento dei parametri di valutazione dell'errore rilevante ai sensi dell'art. 47, ultimo comma, c.p. e, quindi, dello stesso

Il Foro Italiano — 1991.

messa in liquidazione della società risaliva al 9 novembre 1983,

l'omologazione della delibera era intervenuta solo il 31 gennaio 1984, ragion per cui egli aveva ritenuto di dover presentare la

dichiarazione dei redditi relativa a tutto il 1983.

In dibattimento ha poi aggiunto che, su consiglio di un com

mercialista, egli aveva ritenuto che i quattro mesi di cui sopra

art. 8 1. 516/82. Alla luce di tali premesse, si ritiene perciò giustificato ampliare i ristretti margini di scusabilità dell'errore precedentemente as

sunti, margini che, come anticipato, in tale prima pronuncia furono sostanzialmente fatti coincidere con il solo accertamento di un'eventua le condizione di obiettiva incertezza della normativa tributaria, sulla falsa riga di quanto già previsto nel campo degli illeciti amministrativi

fiscali, quale presupposto per il riconoscimento della non punibilità in concreto del soggetto agente. Pur ribadendo l'importanza attribuibile alla sussistenza di quest'ultima situazione, la sentenza in rassegna am

plia ulteriormente il campo d'indagine ad una specifica considerazione delle stesse condizioni soggettive del soggetto agente, nonché del com

portamento complessivamente tenuto da quest'ultimo: si valuta cosi il

grado delle effettive conoscenze giuridiche dell'agente, e si valorizza in modo specifico la diligenza con la quale questi aveva cercato di sop perire alla limitatezza di queste ultime, rivolgendosi direttamente a pro fessionista esperto del settore.

La sentenza non dedica particolare attenzione ad un'ulteriore valuta zione delle differenze di disciplina sussistenti fra i casi in cui l'errore del soggetto agente cada sulla sfera precettiva della norma (con conse

guente applicazione dell'art. 5 c.p.), e quelli (come di fatto pare certa mente giustificato ritenere per il caso di specie) riconducibili ad una situazione di vero e proprio errore su elementi normativi della fattispe cie (valutabili, pertanto, stante le premesse interpretative accolte, ai sensi dell'art. 8 cit.). Rispetto al fatto concretamente giudicato ed alla conse

guente fattispecie contravvenzionale contestata all'imputato, un più di retto accertamento di questi ultimi presupposti è probabilmente risulta to superfluo. Ciò non toglie, tuttavia, l'importanza che quest'ultimo profilo assume, nei casi in cui l'errore si riferisca a fattispecie punibili solo a titolo di dolo, e non presenti quei connotati d'inevitabilità, o

comunque di scusabilità, che nella specie sono stati ravvisati. Per più ampi riferimenti in ordine a questi ultimi profili, nonché per

un quadro aggiornato delle diverse posizioni interpretative emerse, v., da ultimo, Donini, Errore sul fatto ed errore sul divieto nello specchio del diritto penale tributario, in Indice pen., 1989, 145 ss.; Flora, Il diritto penale tributario oggi: tra garantismo e «repressione», in Riv. trim. dir. pen. economia, 1989, 30 s.; Gamberini, L'errore nel diritto

penale tributario, in I reati in materia fiscale, scritti coordinati da P. M. Corso e L. Stortoni, Torino, 1990, 389 ss.; Lanzi, Commento all'art.

8, in Caraccioli-Giarda-Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 1989, 379 ss.; Severino Di Benedetto, L'errore su norme

tributarie, in Problemi di diritto penale tributario a cura di G. Fianda ca e E. Musco, Milano, 1990, 205 ss.

Per un'esplicita valutazione dei riflessi sulla disciplina dei reati tribu tari della declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 5 c.p., v. Lanzi, L'e simente dell'errore su norme tributarie fra la giurisprudenza di legitti mità e quella costituzionale, in Rass. trib., 1988,1, 331; Patrono, Pro blematiche attuali dell'errore nel diritto penale dell'economia, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1988, 119 ss.; Tricarico, Qualificazione del l'errore nei reati tributari e riflessi della sentenza della Corte costituzio nale n. 364, in Bollettino trib., 1988, 839 ss.; Vecchio, Reati tributari: errore sulla norma ed ignoranza inescusabile, in Fisco, 1988, 7133.

Sempre con esclusivo riferimento al settore penale tributario, per l'o rientamento seguito dalla giurisprudenza di merito successiva alla pro nuncia della Corte costituzionale sull'art. 5 c.p., v., soprattutto, Trib. Salerno 17 ottobre 1988, Foro it., Rep. 1989, voce Tributi in genere, n. 1210 e Riv. trim. dir. pen. economìa, 1989, 73, con nota di Cadoppi, «Error iuris»: coscienza dell'antigiuridicità extrapenale e ritardo nel ver samento delle ritenute-, App. Venezia 28 aprile 1988, Foro it., Rep. 1989, voce cit., n. 1252; Trib. Biella 14 novembre 1988, ibid., n. 1257; Trib. Venezia 3 giugno 1988, ibid., n. 1258 e Bollettino trib., 1989, 1595, con nota di Brighenti, «Vecchi» reati tributari, accertamento

ed errore di diritto; App. Venezia 9 maggio 1988, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 1236 e Rass. trib., 1988, II, 660, con nota di R. Bettiol, Rilievi in materia di errore su legge tributaria e di ritardo del sostituto

d'imposta; Trib. Siena 16 marzo 1988, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 1315; App. Milano 11 aprile 1990, id., 1990, II, 670.

Rispetto alla richiamata tematica dell'errore su legge extrapenale ex art. 47, 3° comma, c.p., v., da ultimo, Licitra, L'errore su legge ex

trapenale, Padova, 1988, e, più in generale, Flora, Errore, voce del

Digesto pen., Torino, 1990, IV, 255 ss.; C. F. Grosso, Errore (diritto

penale), voce àA\'Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1989, XIII. Per la giurisprudenza più recente, v. Cass. 22 gennaio 1988, Redaelli, Foro it., Rep. 1989, voce Errore in materia penale, n. 2; nonché Cass. 22 febbraio 1988, Pregni, ibid., n. 3. [A. Melchionda]

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PARTE SECONDA

avessero decorrenza dalla data dell'omologazione e non da quella

della delibera.

È anche da ricordare — come ben messo in evidenza dalla

corte d'appello — che, facendo decorrere quattro mesi dalla

data dell'omologazione (e cioè dal 31 gennaio 1984) il termine

per la presentazione della dichiarazione fiscale era venuto a sca

dere il 31 maggio 1984, e tuttavia la dichiarazione presentata il 30 luglio 1984 era egualmente da ritenere come non omessa

grazie al termine di comporto di novanta giorni di cui all'art.

1, 1° comma, 1. 516/82. Tenuto conto di detto termine di com

porto, ma facendo decorrere i quattro mesi dalla data della de

libera, e cioè dal 9 novembre 1983, la dichiarazione fiscale po

teva essere presentata fino al 7 giugno 1984, cioè cinquantatre

giorni prima della data dell'effettiva presentazione. Tutto ciò considerato, la corte d'appello ha correttamente ri

tenuto che l'errore in cui il Monti è incorso, determinato anche

dal parere del consulente, deve essere considerato ragionevole

e scusabile e, conseguentemente, rientrante nell'esimente di cui

all'art. 8 1. 516/82; articolo che, testualmente, recita: «L'errore

sulle norme che disciplinano le imposte dei redditi e sul valore

aggiunto esclude la punibilità quando ha cagionato un errore

sui fatti che costituiscono reato . . .». La richiamata esimente

rappresenta nient'altro — la cosa è del tutto ovvia — che un'ap

plicazione speciale del 3° comma dell'art. 47 c.p. secondo il

quale «l'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude

la punibilità quando ha cagionato un errore sul fatto» costi

tuente reato. Lo sforzo interpretativo va, quindi, portato sul

3° comma dell'art. 47 e sulla norma ad esso strettamente con

nessa e cioè sull'art. 5 c.p. Con riferimento all'art. 8 1. 516/82 la giurisprudenza

— è,

comunque, da ricordare preliminarmente — conforta l'interpre

tazione data dalla corte d'appello: «L'esimente speciale in ma

teria tributaria prevista dall'art. 8 1. 7 agosto 1982 n. 516 ripro

duce il dettato di cui all'art. 47, ultimo comma, c.p. limitandosi

a quelle ipotesi di non punibilità del contribuente, già esistenti

in relazione ad illeciti amministrativi fiscali, nei casi di errore

determinato dalle incertezze e dalla difficoltà interpretativa del

la normativa tributaria» (Cass. 25 febbraio 1986, Piro, Foro

it., 1987, II, 531). 2. - Il 3° comma dell'art. 47 c.p. Ai sensi del 3° comma

richiamato, l'errore è la difettosa ricostruzione o rappresenta

zione della realtà da parte dell'agente capace di turbare l'ele

mento soggettivo (conoscitivo o volitivo) nella sua normale espli

cazione. L'errore può derivare da mancanza di nozioni o di

massime d'esperienza. Il presupposto teorico del 3° comma dell'art. 47 c.p. è rap

presentato, comunque, dalla possibilità di distinguere fra dispo sizioni integratrici e non della legge penale. Ma questo tipo d'a

zione interpretativa è tutt'altro che agevole visto che, sul punto, in dottrina e giurisprudenza, com'è noto, vi è contrasto.

Secondo un orientamento giurisprudenziale, ai fini dell'erro

re, norma penale sarebbe d'intendere non solo quella che stabi

lisce la punibilità del fatto ma ogni altra norma che, pur conte

nuta in legge civile o amministrativa, sia richiamata da quella

penale in modo da contribuire a definire, in qualche modo, il

precetto penale; extrapenale sarebbe da ritenere, invece, la nor

ma destinata ab origine a regolare rapporti giuridici di carattere

non penali (Cass. 18 gennaio 1986, Banacu, id., Rep. 1987, vo

ce Errore penale, n. 1, richiamata nel suo ricorso dal procura tore generale; cfr., inoltre, Cass. 28 marzo 1969, Carretto, id.,

Rep. 1970, voce cit., n. 13; 24 marzo 1977, Zanga, id., Rep.

1978, voce cit., n. 3; 7 gennaio 1980, Passaretti, id., Rep. 1983,

voce Abuso di poteri, n. 6). Questa interpretazione, evidente

mente, è molto restrittiva e non può essere, quindi, accettata.

Un deciso contributo ai fini dell'interpretazione della norma

in questione viene, comunque, oggi dalla lettura sistematica del

3° comma in esame in relazione all'art. 5 c.p.; lette le due nor

me alla luce della sentenza della Corte costituzionale 364/88

(id., 1988, I, 1385). 3. - L'interpretazione sistematica del 5° e del 3° comma del

l'art. 47 c.p. alla luce della sentenza 364/88 della Corte costitu

zionale. Il 3° comma dell'art. 47 c.p. presuppone, infatti, la

norma più generale: «Nessuno può invocare a propria scusa

l'ignoranza della legge penale».

Operata l'interpretazione sistematica dell'art. 5 e dell'ultimo

Il Foro Italiano — 1991.

comma dell'art. 47 c.p. alla luce della richiamata sentenza della

Corte costituzionale, le due norme si leggono oggi come di se

guito: «Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della

legge penale tranne che si tratti di ignoranza inevitabile». «L'er

rore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità

quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato».

Il richiamo dell'art. 5 c.p. e della sua interpretazione di retti

fica costituzionale, come operata dalla Corte costituzionale, è

importante perché serve a mettere in chiara luce l'interpretazio

ne «costituzionale» (e cioè ispirata ai nuovi principi democratici

che devono stare a fondamento ad ogni interpretazione, come

pure la Corte costituzionale ha affermato in varie sentenze).

Se alcuni principi democratici, discendenti dalla Costituzione,

valgono a restringere la portata di quella norma basilare che

è l'art. 5 c.p., essi non possono parimenti non valere — è que

sto l'aspetto fondamentale — per definire delle norme seconda

rie e derivate rispetto all'art. 5. Se l'originaria «rigidità» del

l'art. 5, discendente da un codice d'origine non democratica,

deve essere piegata e resa compatibile con il principio della col

pevolezza e della responsabilità personale del cittadino, le nor

me già volte a garantire che colpevolezza effettiva ed in concre

to vi sia non possono essere interpretate (come talvolta vengono

interpretate e come il procuratore generale propone siano inter

pretate) in senso fortemente restrittivo.

4. - Le affermazioni contenute nella sentenza 364/88 della

Corte costituzionale. Secondo la sentenza della Corte costitu

zionale richiamata, «l'ignoranza della legge penale» «scusa» —

è questa la proposizione fondamentale — quando si versi in

un caso di «ignoranza inevitabile». Il principio non può non

valere — ed a maggior ragione — per ogni difficoltà interpreta

tiva che si presenti per il «comune cittadino» come «inevitabile».

Per valutare il comportamento antigiuridico di un soggetto,

afferma la Corte costituzionale, non è sufficiente considerare

l'istante della violazione della norma; è, invece, indispensabile

non trascurare le cause remote e prossime della violazione e

la loro scusabilità. È questo il corretto orientamento da seguire.

«Nelle precisazioni tassative del codice il soggetto deve poter

trovare, in ogni momento, cosa ... è lecito e cosa ... è

vietato . .

Il presupposto della responsabilità penale è «costituito... dal

la riconoscibilità dell'effettivo contenuto precettivo della norma».

«L'oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto, nella

quale venga a trovarsi chiunque . . . non può gravare sul singo

lo cittadino e costituisce, dunque, un . . . limite della personale

responsabilità penale». È questo un principio di carattere gene rale che ogni giudice deve tenere ben presente e che questa corte

tiene presente. Il cittadino deve essere «chiamato a rispondere penalmente

solo per azioni da lui controllabili». «La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona

implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi

che . . . pesonalmente esprimano» un «riprovevole» compor

tamento.

Il cittadino ha il dovere «strumentale» di informarsi, afferma

la Corte costituzionale. Ciò vale anche con riferimento agli art.

47, 3° comma, c.p. e 8 1. 516/82; ma tale dovere, nel caso

di specie, come bene la Corte d'appello di Genova ha afferma

to, è stato dal ricorrente ampiamente soddisfatto.

5. - L'errore scusabile cui il ricorrente è incorso. L'errore

deve essere ritenuto ragionevole e scusabile, alla luce delle nor

me richiamate, secondo la corte d'appello, dato che il Monti,

come già rilevato, ha consultato un consulente tecnico e data

la particolare complicatezza della normativa:

1) «egli — afferma la corte d'appello — avrebbe dovuto dap

prima inquadrare la delibera di messa in liquidazione tra le mo

dificazioni dell'atto costitutivo;

2) poi avrebbe dovuto «rilevare che l'art. 2436 c.c. ... ri

chiama il 1°, 2° e 3° comma del precedente art. 2411, ma non

anche il 4° comma, e perciò rende possibile l'esecuzione della

delibera anche prima dell'iscrizione nel registro delle imprese;

3) quindi avrebbe dovuto desumerne che la pubblicità di cui

sopra «ha natura dichiarativa e non costitutiva», sul presuppo sto della conoscenza delle due categorie giuridiche;

4) infine avrebbe dovuto «concludere che la delibera di mes

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GIURISPRUDENZA PENALE

sa in liquidazione è efficace sin dalla data in cui viene adottata

e che, dunque, da quella data decorre il termine per la presenta zione della dichiarazione fiscale».

Tutto ciò — aggiunge ancora la corte d'appello — nonostan

te che il legislatore tributario, nell'art. 10 d.p.r. 600/73, faccia

decorrere il termine di presentazione non già dalla delibera di

messa in liquidazione bensì dalla data in cui la delibera «ha

effetto».

In altri termini, al Monti, ignaro di nozioni giuridiche e che

ha ritenuto di consultare un commercialista, non può essere certo

imputata — in presenza dell'espressa esimente di cui all'art. 8

letta alla luce della sentenza della Corte costituzionale richiama

ta — la mancata conoscenza di questo complesso meccanismo

legale, costituito anche da norme civili non certo predisposte ai fini della definizione dei reati e quindi certo non integranti le norme penali, contrariamente a ciò che il procuratore genera le impugnante mostra di ritenere.

Indubbiamente, il Monti è chiamato a rispondere di un reato

di natura contravvenzionale, e, quindi, punibile anche a titolo

di colpa; si tratta però di stabilire se egli ha errato colpevolmen te. La ricostruzione operata di sopra esclude, appunto, ogni errore colpevole.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione feriale; sentenza 6 settem

bre 1990; Pres. Consoli, Est. Losapio, P.M. (conci, conf.); ric. Cucchi. Rettifica parz. App. Roma 2 marzo 1990.

Circostanze di reato — Attenuanti — Lucro di speciale tenuità — Reati connessi all'uso di stupefacenti — Inapplicabilità

(Cod. pen., art. 62; 1. 7 febbraio 1990 n. 19, modifiche in

tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e de

stituzione dei pubblici dipendenti, art. 2; 1. 26 giugno 1990 n. 162, aggiornamento, modifiche ed integrazioni della 1. 22

dicembre 1975 n. 685, art. 14).

Al delitto di spaccio di limitate quantità di sostanze stupefacen

ti, anche nella nuova formulazione di cui all'art. 14, 5° com

ma, l. 162/90 (e ora art. 73, 5° comma, d.p.r. 309/90), e

quindi, sinteticamente, al piccolo commercio di tali sostanze, non è applicabile l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, c.p., siccome modificato dall'art. 2 l. 19/90, in quanto, pur poten dosi ritenere tale fatto determinato da un motivo di lucro

e pur non negandosi che da tale condotta consegua, o possa

comunque conseguire, un lucro di speciale tenuità, è da esclu

dersi la ravvisabilità della coeva e non alternativa condizione

che l'evento dannoso o pericoloso, seguito alla condotta di

(pur piccolo) spaccio sia qualificabile di speciale tenuità, po sto che, realizzandosi, con tale condotta, incremento nella cir

colazione e nella diffusione di sostanze tossiche si verifica un

evento pernicioso per la salute dell'uomo e negativamente in

fluente sul corretto svolgersi dei rapporti sociali. (1)

(1) La sentenza non affronta esplicitamente il problema se l'ipotesi di spaccio di lieve entità (art. 73, 5° comma, d.p.r. 309/90: «quando,

per i mezzi, per le modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la

qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo

sono di lieve entità») integri, in sé considerata, una figura autonoma

di reato ovvero una circostanza attenuante: cfr. nel primo senso App. Genova 28 settembre 1990 e, invece, nel secondo Trib. Genova 21 set

tembre 1990, entrambe in Foro it., 1991, II, 31, con nota di Iacoboni.

Quanto alla nuova circostanza «comune» consistente nell'avere «nei

delitti determinati da motivi di lucro» agito «per conseguire o l'avere

comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'e

vento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità», la relativa introdu

zione (art. 2 1. 19/90) si spiega con l'intento — espressamente dichiara to nei lavori preparatori — di configurare, per ragioni di equità, un'atte

II Foro Italiano — 1991.

1. - Con l'impugnata decisione la corte romana, respinto l'ap

pello proposto da Massimiliano Cucchi avverso la sentenza del

Tribunale di Roma, che lo aveva ritenuto colpevole di spaccio di modica quantità di eroina, rettificò la parte dispositiva della

medesima decisione, correggendo l'entità della pena detentiva

da anni uno e mesi sei di reclusione a quella di anni uno e

mesi quattro, quale risultava dalla parte razionale della senten

za e quale ritenne equa pena per il fatto addebitato al prevenu

to, al quale, in prime cure, era stata riconosciuta l'attenuante

generica. 2. - Ricorre per cassazione il Cucchi, deducendo, tramite il

difensore, violazione di legge per non avere la corte territoriale

riconosciuto l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, c.p., siccome

modificato dall'art. 2 1. 7 febbraio 1990 n. 19; immagina che

lo spaccio di modica quantità di eroina possa considerarsi delit

to determinato da motivi di lucro e che da tale fatto consegua un lucro di speciale tenuità e un evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità.

3. - Con requisitoria del 13 agosto 1990, il procuratore gene rale presso questa corte ha chiesto che il ricorso sia dichiarato

inammissibile per genericità del motivo.

4. - Osserva la corte che la richiesta del procuratore generale deve essere accolta.

Invero, in materia di impugnazioni, deve ritenersi inammissi

bile, per difetto del requisito della specificità prescritto dall'art.

201, 7° comma, c.p.p. del 1930, applicabile nella specie in regi me di prorogatio, per effetto del disposto di cui all'art. 241

d. leg. 28 luglio 1989 n. 271, il ricorso articolato su motivo

privo di riferimento alla fattispecie giudicanda ovvero, come

nel caso de quo, sulla trascrizione, sunteggiata, di un testo nor

mativo, senza alcuna analisi critica sui presupposti in fatto per

l'applicazione della disposizione invocata alla regiudicanda fatto.

La doglianza avverso una decisione giurisdizionale, stante la

stretta interdipendenza tra questa e l'azionata impugnazione, deve concretarsi nell'indicazione precisa dei punti di fatto e di

diritto da sottoporre al giudice dell'impugnazione, nell'esposi zione precisa e chiara delle censure che si muovono ai punti

indicati, nelle ragioni su cui la censura stessa si fonda, onde

consentire al giudice del gravame di esercitare il suo sindacato

con riferimento alle argomentazioni svolte nel provvedimento

impugnato. 5. - Tuttavia, ritiene il collegio, in linea di diritto, che l'even

to realizzato mediante la condotta di spaccio di sostanze stupe facenti non possa essere qualificato di speciale tenuità, tenuto

conto della gravità insita nella diffusione di sostanze tossiche

narcotizzanti, causa di gravi lesioni all'organismo dell'uomo e

non raramente di morte, oltre che di disordine sociale.

nuante modellata in simmetria con l'aggravante di cui all'art. 61, n.

7, c.p.: in tal modo è ora consentito al giudice di valutare la tenuità del lucro in tutti i casi in cui il reato, quale che ne sia l'oggettività giuridica, sia stato concretamente determinato appunto da motivi di lucro.

L'operatività di questa nuova attenuante non è però subordinata sol tanto al perseguimento o al conseguimento di un lucro di speciale tenui

tà; occorre altresì' la speciale tenuità dell'«evento dannoso o pericolo so» conseguente alla realizzazione del fatto tipico: ciò significa che l'at

tenuante è applicabile soltanto ai fatti caratterizzati da un danno

criminale, quale lesione o messa in pericolo del bene penalmente protet to, particolarmente modesto o esiguo (cfr. Fiandaca-Musco, Appendi ce a Diritto penale, parte generale, Bologna, 1989, 5). In realtà, nel l'ambito delle prime prese di posizione dottrinali, l'attenuante in que stione ha suscitato riserve critiche per il suo «contenuto problematico» (Padovani, Diritto penale, Milano, 1990, 329) e, comunque, per i «mar

gini d'ambiguità interpretativi» che lo stesso concetto di evento danno

so o pericoloso di speciale tenuità lascerebbe aperti, nel senso che ri

marrebbe dubbio se detta tenuità debba essere valutata in riferimento

alla qualità dell'offesa tipica astrattamente considerata ovvero all'even

to nella sua conformazione concreta (Fiandaca-Musco, ibid.; accenna

a difficoltà applicative anche Del Corso, in Legislazione pen., 1990, 50). Nella sentenza su riprodotta, la ritenuta incompatibilità tra il reato

di piccolo spaccio e l'attenuante viene, appunto, motivata in base alla

supposta assenza del secondo requisito, posto che la condotta di spac cio darebbe in ogni caso luogo ad un evento particolarmente pernicioso

per la salute (ma non è chiaro se l'organo giudicante intenda concepire tale evento secondo una delle accezioni canonizzate dalla dogmatica pe nalistica oppure lo raffiguri comunque come un effetto dannoso del

fatto, ancorché estraneo alla sua struttura normativa tipica).

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