sezione III penale; sentenza 24 settembre 1990; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Ranieri(concl. conf.); ric. Proc. gen. App. Genova in causa Monti. Conferma App. Genova 21 febbraio1990Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.295/296-301/302Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186370 .
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PARTE SECONDA
ord. 10 maggio 1990, Prete, Foro it., 1991, II, 107). E ciò in
quanto, secondo la prima delle due citate pronunce di legittimi
tà, detto provvedimento conclusivo non derogherebbe alla rego
la generale della sentenza posta dall'art. 605 c.p.p.
A parte invero il rilievo — di valore ermeneutico solo contin
gente, perché derivante da una norma transitoria — che la re
gola generale dell'art. 605 non si applica ai procedimenti inizia
ti, come questo in esame, prima dell'entrata in vigore del nuovo
codice, per i quali continua ad aver vigore l'art. 523 del vec
chio, che espressamente collega l'obbligo di pronunciare senten
za con l'avvenuto svolgimento di un dibattimento («in seguito
al dibattimento pronuncia sentenza»); a parte ciò sembra evi
dente che anche l'art. 605 abbia inteso riferirsi alla pronuncia
conclusiva della fase dibattimentale.
Al contrario, il fatto di avere il legislatore espressamente pre
visto la sentenza solo per il giudizio camerale di primo grado
(art. 442 c.p.p. e 247 disp. trans.) e non anche per quello d'ap
pello, pure camerale, conferma che per quest'ultimo la forma
voluta è appunto quella dell'ordinanza esecutiva, propria dei
procedimenti in camera di consiglio.
La seconda pronuncia del Supremo collegio afferma invece
che la forma richiesta dalla legge è in ogni caso quella della
sentenza, per le seguenti ulteriori ragioni:
1) la decisione ex art. 599 e 127 c.p.p. si basa su una valuta
zione di merito, sicché deve seguire «il principio secondo cui
il processo di cognizione necessita nel merito di una definizione
con sentenza». Afferma inoltre che sia incompatibile con il si
stema processuale che una sentenza possa essere riformata da
un'ordinanza.
Ad avviso di questa corte la regola della sentenza già soffre
eccezione relativamente ad altri procedimenti speciali come quelli
di prevenzione e di sicurezza. Si tratta, è vero, di procedimenti
a cognizione ridotta, nei quali le ragioni di speditezza e sempli
cità prevalgono sulla solennità della forma del provvedimento
conclusivo. Ma, come si è detto in principio, questo è appunto
il caso dei procedimenti speciali previsti dagli art. 438 s., 599,
1° e 4° comma, del nuovo codice.
Quanto al secondo rilievo, questa corte non crede che il siste
ma processuale resti sovvertito dall'anomalia: la deroga alla nor
ma è infatti parte del sistema (art. 15 c.p.) e le già accennate
sue ragioni la giustificano appieno;
2) in base all'art. 311, 5° comma, del nuovo codice, la Corte
di cassazione decide in materia di misure cautelari osservando
le forme previste dall'art. 127. E ciononostante l'art. 623, lett.
a), dello stesso codice, per il caso d'annullamento di un'ordi
nanza, indistintamente prevede la forma della sentenza.
Il citato art. 623, lett. a), dispone che, «se è annullata un'or
dinanza, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano tras
messi al giudice che l'ha pronunciata, il quale provvede unifor
mandosi alla sentenza d'annullamento».
Va però obiettato che la Corte di cassazione provvede in ca
mera di consiglio con le forme, in parte derogate, dell'art. 127 — fatta eccezione delle sentenze pronunciate con rito abbrevia
to a norma dell'art. 442 — ogni qualvolta deve decidere su ri
corso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento (art.
611 c.p.p.) e che la decisione camerale assume di norma la for
ma dell'ordinanza, ma talvolta anche quella della sentenza (art.
32 c.p.p.; 623, lett. a, cit.). Dal fatto che in determinati procedimenti sia espressamente
prevista per il giudizio di cassazione la forma della sentenza
non sembra possa dedursi che il giudizio d'appello debba an
ch'esso concludersi, nei diversi casi di cui all'art. 599 c.p.p.,
con una sentenza anziché con un'ordinanza.
L'eccezione alla regola del procedimento camerale posta dal
l'art. 611, 1° comma, solo relativamente alle «sentenze pronun ciate a norma dell'art. 442» — ossia alle sentenze rese in primo
grado a seguito di giudizio abbreviato — e non posta anche
per il provvedimento conclusivo del giudizio d'appello ai sensi
degli art. 443, n. 4, e 127 c.p.p., conferma che l'atto terminati
vo del giudizio camerale d'appello è un'ordinanza e non una
sentenza.
La limitatezza dell'eccezione trova infatti spiegazione nel fat
to che solo in primo grado il giudizio, pur svolgendosi come
in secondo grado in camera di consiglio, deve concludersi, per
Il Foro Italiano — 1991.
espresso e, si è già detto, razionale dettato della legge, con una
sentenza.
3-4) Si afferma anche, nella medesima pronuncia del Supre
mo collegio, che ove nella procedura camerale ex art. 599 e
127 c.p.p. sia da applicare una delle cause di non punibilità
previste dall'art. 129 c.p.p. (art. 152 c.p.p. abr.) la forma del
relativo provvedimento deve sempre essere quella della senten
za, perché espressamente previsto dallo stesso art. 129.
Si aggiunge poi — con ciò toccando la vera e sola ragion
d'essere del problema, che non è quella formale di stabilire se
i giudizi speciali d'appello previsti dagli art. 443, 4° comma,
e 599, 1° e 4° comma, debbano concludersi con una sentenza
o con un'ordinanza, bensì' di accertare se il provvedimento sia
o no immediatamente esecutivo, in via provvisoria — che una
conferma che si tratti di sentenza si ricava dal fatto che l'imme
diata esecutività stabilita dall'art. 127, 8° comma, è inconcilia
bile con l'art. 650, 1° comma, del nuovo codice, che nel caso
di condanna riconosce esecutività solo alle sentenze e ai decreti
penali quando sono divenuti irrevocabili.
Sembra però al collegio che tanto al primo quanto al secondo
argomento possa obiettarsi che gli art. 129 e 650 c.p.p. sono
norme di carattere generale alle quali ben può la legge deroga
re, cosi come il nuovo codice ha derogato attraverso le norme
speciali dettate per i casi previsti dagli art. 443, 4° comma, e
599, 1° e 4° comma.
Non di inconciliabilità si tratta ma, semmai, di mancanza di
espresso coordinamento tra le diverse norme. La stessa osserva
zione sembra possa farsi per quanto riguarda il richiamo, da
ultimo effettuato dall'ordinanza del Supremo collegio, agli art.
648, 649 e 650, che attribuiscono solo alla sentenza e al decreto
penale di condanna l'efficacia di cosa giudicata sostanziale.
Ma, conclusivamente, va anche rilevato che se detti procedi
menti dovessero definirsi in appello con una sentenza non di
immediata esecuzione, verrebbe frustrato lo scopo della spedi tezza perseguito dal nuovo legislatore con la fondamentale in
novazione introdotta con gli art. 599 e 127 c.p.p., poiché ver
rebbe anzi incoraggiata l'impugnazione meramente dilatoria, per
sino nel caso in cui su tutto v'è stato accordo fra le parti,
condiviso dal giudice (art. 599, 4° comma). (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 24 set
tembre 1990; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Ranie
ri (conci, conf.); ric. Proc. gen. App. Genova in causa Mon
ti. Conferma App. Genova 21 febbraio 1990.
Tributi in genere — Reato tributario — Errore su norma tribu
taria — Estremi — Fattispecie (D.l. 10 luglio 1982 n. 429,
norme per la repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione
delle pendenze in materia tributaria, art. 8; 1. 7 agosto 1982
n. 516, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 10
luglio 1982 n. 429, art. 1).
A seguito della parziale declaratoria di illegittimità costituzio
nale dell'art. 5 c.p. (sentenza n. 364/88 della Corte costitu
zionale), anche l'art. 8 I. 516/82, che rappresenta un'applica
zione speciale del 3° comma dell'art. 47 c.p., deve essere in
terpretato nel senso di riconoscere efficacia scusante ad ogni
situazione di difficoltà interpretativa, che si presenti come «ine vitabile» per il «comune cittadino» (nella specie, è stato rite
nuto non punibile il liquidatore di una società a responsabili tà limitata, il quale, a causa della particolare complessità del
la specifica disciplina di legge, e pur essendosi previamente
informato presso un consulente finanziario, era caduto in er
rore nell'individuazione dei termini previsti per legge, ed ave
va presentato in ritardo la dichiarazione dei redditi relativa
alla società liquidata). (1)
(1) Principi di notevole importanza e novità vengono affermati da
questa nuova pronuncia della Corte suprema sulla disciplina dell'errore
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GIURISPRUDENZA PENALE
Motivi della decisione. — 1. - La ricostruzione in fatto e la
conclusione tratta dalla corte d'appello. Il 9 novembre 1983 l'as
semblea straordinaria dei soci della s.r.l. Ermi Fur ha delibera to lo scioglimento e la messa in liquidazione della società ed
ha nominato il Monti liquidatore. Egli, ai sensi dell'art. 10 d.p.r. 600/73, avrebbe dovuto presentare la dichiarazione dei redditi, mod. 760, relativa al periodo 1° gennaio 1983-9 novembre 1983, entro quattro mesi dalla data della «delibera» di messa in liqui dazione e l'ha, invece, presentata il 30 luglio 1984 e cioè dopo lo scadere della data indicata.
Va ancora ricordato che, sin dalla prima contestazione del
l'addebito, il Monti ha dichiarato che, se l'effettiva data della
in materia penale tributaria (art. 8 1. 516/82). La decisione era per certi versi attesa. E ciò soprattutto per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo per un'auspicata verifica delle più o meno esplicite risposte che la Corte di cassazione avrebbe potuto avanzare, rispetto a tutti i com
menti, in alcuni casi apertamente critici, che l'orientamento interpreta tivo assunto nell'unico precedente a tutt'oggi noto aveva suscitato (v. Cass. 25 febbraio 1986, Piro, Foro it., 1987, II, 531, con nota di ulte riori richiami e riferimenti alle precedenti decisioni della giurisprudenza di merito). Sotto altro profilo, inoltre, per una più diretta valutazione
degli eventuali riflessi registrabili, sul versante dell'errore su norme tri
butarie, a seguito della sopravvenuta declaratoria d'illegittimità costitu zionale dell'art. 5 c.p. (v. Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, id., 1988, I, 1385, con nota di Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: «prima lettura» della sentenza n. 364/88).
Le indicazioni emergenti dall'attuale presa di posizione non hanno certamente deluso le aspettative, ed offrono sufficiente risposta a molti dei quesiti aperti con quella prima sentenza del 25 febbraio 1986. Come
noto, in tale occasione la Corte di cassazione aveva affermato che: «Con la disposizione di cui all'art. 8 1. 516/82 il legislatore ha inteso ripro durre la disciplina prevista dall'art. 47, ultimo comma, c.p., limitando il campo d'applicazione della nuova normativa a quelle ipotesi di non
punibilità del contribuente, già esistenti in relazione ad illeciti ammini strativi fiscali, che assegnano rilievo scusante all'errore determinato dal l'obiettiva incertezza della normativa tributaria; non ha, pertanto, valo re esimente la mera difforme valutazione interpretativa dell'imputato, derivante da un'erronea, colposa qualificazione giuridica della norma tributaria violata». Per una più completa valutazione dei problemi e delle perplessità suscitate da questa decisione si rinvia ai numerosi suc cessivi commenti, ed in particolare a: R. Bettiol, L'errore su legge extrapenale e legge tributaria, in Rass. trib., 1988, II, 316 ss.; Donini, L'autonomia dell'errore su norme tributarie risolventesi «sul fatto» (art. 8 l. n. 516/1982) rispetto alla disciplina dell'errore «sul divieto» ai sensi dell'art. 5 del codice penale riformato, id., 1989, II, 966; Flora, Verso
un'interpretazione abrogatrice della norma sull'errore di diritto nei rea ti tributari (art. 8 l. n. 516 del 1982)?, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1988, 205; Melchionda, Colpevolezza ed errore nell'attuale sistema di diritto penale tributario, in Dir. e pratica trib., 1988, I, 594 ss.; Tenca
ti, L'efficacia scriminante dell'errore su norme tributarie nel sistema dei reati fiscali, ibid., 1280.
Con questa nuova pronuncia la Cassazione conferma, da un lato, le premesse d'ordine sistematico assunte nella precedente occasione, ma muta radicalmente prospettiva rispetto a quanto attiene all'individua zione dei parametri sui quali viene ad essere fondata la concreta valuta zione dell'errore dell'agente. Sotto il primo profilo, si ribadisce infatti la fondatezza della passata presa di posizione in ordine ad un rapporto di stretta corrispondenza fra la disciplina in tema di errore su norme tributarie e quella più generale prevista dall'art. 47, ultimo comma, c.p. (il punto era stato contestato da un settore della dottrina, che ave va ravvisato nell'art. 8 cit. una disposizione riferibile anche a casi di vero e proprio errore sul precetto: in questo senso v., per tutti, M.
Romano, Osservazioni sul nuovo diritto penale tributario, id., 1983, I, 752. Per ulteriori riferimenti si rinvia alle successive indicazioni bi
bliografiche). Ferma tale premessa di fondo, la motivazione si sofferma tuttavia
in termini critici sul rigoroso orientamento interpretativo, che la stessa
giurisprudenza di legittimità ha per lungo tempo seguito nell'applicazio ne (rectius: nella disapplicazione) di quest'ultima disposizione, e ritiene che un superamento di tali presupposti sia reso oggi necessario, soprat tutto in ragione delle aperture sistematiche che si reputano ravvisabili nella nota declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. sull'errore di diritto. La motivazione muove infatti dall'esplicito
presupposto che l'apportata correzione al principio dell'inescusabilità dell'errore sulla legge penale non possa «non valere — ed a maggior
ragione — per ogni difficoltà interpretativa che si presenti per il "co mune cittadino" come "inevitabile"». Da ciò vengono tratte le mosse
per un diverso apprezzamento dei parametri di valutazione dell'errore rilevante ai sensi dell'art. 47, ultimo comma, c.p. e, quindi, dello stesso
Il Foro Italiano — 1991.
messa in liquidazione della società risaliva al 9 novembre 1983,
l'omologazione della delibera era intervenuta solo il 31 gennaio 1984, ragion per cui egli aveva ritenuto di dover presentare la
dichiarazione dei redditi relativa a tutto il 1983.
In dibattimento ha poi aggiunto che, su consiglio di un com
mercialista, egli aveva ritenuto che i quattro mesi di cui sopra
art. 8 1. 516/82. Alla luce di tali premesse, si ritiene perciò giustificato ampliare i ristretti margini di scusabilità dell'errore precedentemente as
sunti, margini che, come anticipato, in tale prima pronuncia furono sostanzialmente fatti coincidere con il solo accertamento di un'eventua le condizione di obiettiva incertezza della normativa tributaria, sulla falsa riga di quanto già previsto nel campo degli illeciti amministrativi
fiscali, quale presupposto per il riconoscimento della non punibilità in concreto del soggetto agente. Pur ribadendo l'importanza attribuibile alla sussistenza di quest'ultima situazione, la sentenza in rassegna am
plia ulteriormente il campo d'indagine ad una specifica considerazione delle stesse condizioni soggettive del soggetto agente, nonché del com
portamento complessivamente tenuto da quest'ultimo: si valuta cosi il
grado delle effettive conoscenze giuridiche dell'agente, e si valorizza in modo specifico la diligenza con la quale questi aveva cercato di sop perire alla limitatezza di queste ultime, rivolgendosi direttamente a pro fessionista esperto del settore.
La sentenza non dedica particolare attenzione ad un'ulteriore valuta zione delle differenze di disciplina sussistenti fra i casi in cui l'errore del soggetto agente cada sulla sfera precettiva della norma (con conse
guente applicazione dell'art. 5 c.p.), e quelli (come di fatto pare certa mente giustificato ritenere per il caso di specie) riconducibili ad una situazione di vero e proprio errore su elementi normativi della fattispe cie (valutabili, pertanto, stante le premesse interpretative accolte, ai sensi dell'art. 8 cit.). Rispetto al fatto concretamente giudicato ed alla conse
guente fattispecie contravvenzionale contestata all'imputato, un più di retto accertamento di questi ultimi presupposti è probabilmente risulta to superfluo. Ciò non toglie, tuttavia, l'importanza che quest'ultimo profilo assume, nei casi in cui l'errore si riferisca a fattispecie punibili solo a titolo di dolo, e non presenti quei connotati d'inevitabilità, o
comunque di scusabilità, che nella specie sono stati ravvisati. Per più ampi riferimenti in ordine a questi ultimi profili, nonché per
un quadro aggiornato delle diverse posizioni interpretative emerse, v., da ultimo, Donini, Errore sul fatto ed errore sul divieto nello specchio del diritto penale tributario, in Indice pen., 1989, 145 ss.; Flora, Il diritto penale tributario oggi: tra garantismo e «repressione», in Riv. trim. dir. pen. economia, 1989, 30 s.; Gamberini, L'errore nel diritto
penale tributario, in I reati in materia fiscale, scritti coordinati da P. M. Corso e L. Stortoni, Torino, 1990, 389 ss.; Lanzi, Commento all'art.
8, in Caraccioli-Giarda-Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 1989, 379 ss.; Severino Di Benedetto, L'errore su norme
tributarie, in Problemi di diritto penale tributario a cura di G. Fianda ca e E. Musco, Milano, 1990, 205 ss.
Per un'esplicita valutazione dei riflessi sulla disciplina dei reati tribu tari della declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 5 c.p., v. Lanzi, L'e simente dell'errore su norme tributarie fra la giurisprudenza di legitti mità e quella costituzionale, in Rass. trib., 1988,1, 331; Patrono, Pro blematiche attuali dell'errore nel diritto penale dell'economia, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1988, 119 ss.; Tricarico, Qualificazione del l'errore nei reati tributari e riflessi della sentenza della Corte costituzio nale n. 364, in Bollettino trib., 1988, 839 ss.; Vecchio, Reati tributari: errore sulla norma ed ignoranza inescusabile, in Fisco, 1988, 7133.
Sempre con esclusivo riferimento al settore penale tributario, per l'o rientamento seguito dalla giurisprudenza di merito successiva alla pro nuncia della Corte costituzionale sull'art. 5 c.p., v., soprattutto, Trib. Salerno 17 ottobre 1988, Foro it., Rep. 1989, voce Tributi in genere, n. 1210 e Riv. trim. dir. pen. economìa, 1989, 73, con nota di Cadoppi, «Error iuris»: coscienza dell'antigiuridicità extrapenale e ritardo nel ver samento delle ritenute-, App. Venezia 28 aprile 1988, Foro it., Rep. 1989, voce cit., n. 1252; Trib. Biella 14 novembre 1988, ibid., n. 1257; Trib. Venezia 3 giugno 1988, ibid., n. 1258 e Bollettino trib., 1989, 1595, con nota di Brighenti, «Vecchi» reati tributari, accertamento
ed errore di diritto; App. Venezia 9 maggio 1988, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 1236 e Rass. trib., 1988, II, 660, con nota di R. Bettiol, Rilievi in materia di errore su legge tributaria e di ritardo del sostituto
d'imposta; Trib. Siena 16 marzo 1988, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 1315; App. Milano 11 aprile 1990, id., 1990, II, 670.
Rispetto alla richiamata tematica dell'errore su legge extrapenale ex art. 47, 3° comma, c.p., v., da ultimo, Licitra, L'errore su legge ex
trapenale, Padova, 1988, e, più in generale, Flora, Errore, voce del
Digesto pen., Torino, 1990, IV, 255 ss.; C. F. Grosso, Errore (diritto
penale), voce àA\'Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1989, XIII. Per la giurisprudenza più recente, v. Cass. 22 gennaio 1988, Redaelli, Foro it., Rep. 1989, voce Errore in materia penale, n. 2; nonché Cass. 22 febbraio 1988, Pregni, ibid., n. 3. [A. Melchionda]
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PARTE SECONDA
avessero decorrenza dalla data dell'omologazione e non da quella
della delibera.
È anche da ricordare — come ben messo in evidenza dalla
corte d'appello — che, facendo decorrere quattro mesi dalla
data dell'omologazione (e cioè dal 31 gennaio 1984) il termine
per la presentazione della dichiarazione fiscale era venuto a sca
dere il 31 maggio 1984, e tuttavia la dichiarazione presentata il 30 luglio 1984 era egualmente da ritenere come non omessa
grazie al termine di comporto di novanta giorni di cui all'art.
1, 1° comma, 1. 516/82. Tenuto conto di detto termine di com
porto, ma facendo decorrere i quattro mesi dalla data della de
libera, e cioè dal 9 novembre 1983, la dichiarazione fiscale po
teva essere presentata fino al 7 giugno 1984, cioè cinquantatre
giorni prima della data dell'effettiva presentazione. Tutto ciò considerato, la corte d'appello ha correttamente ri
tenuto che l'errore in cui il Monti è incorso, determinato anche
dal parere del consulente, deve essere considerato ragionevole
e scusabile e, conseguentemente, rientrante nell'esimente di cui
all'art. 8 1. 516/82; articolo che, testualmente, recita: «L'errore
sulle norme che disciplinano le imposte dei redditi e sul valore
aggiunto esclude la punibilità quando ha cagionato un errore
sui fatti che costituiscono reato . . .». La richiamata esimente
rappresenta nient'altro — la cosa è del tutto ovvia — che un'ap
plicazione speciale del 3° comma dell'art. 47 c.p. secondo il
quale «l'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude
la punibilità quando ha cagionato un errore sul fatto» costi
tuente reato. Lo sforzo interpretativo va, quindi, portato sul
3° comma dell'art. 47 e sulla norma ad esso strettamente con
nessa e cioè sull'art. 5 c.p. Con riferimento all'art. 8 1. 516/82 la giurisprudenza
— è,
comunque, da ricordare preliminarmente — conforta l'interpre
tazione data dalla corte d'appello: «L'esimente speciale in ma
teria tributaria prevista dall'art. 8 1. 7 agosto 1982 n. 516 ripro
duce il dettato di cui all'art. 47, ultimo comma, c.p. limitandosi
a quelle ipotesi di non punibilità del contribuente, già esistenti
in relazione ad illeciti amministrativi fiscali, nei casi di errore
determinato dalle incertezze e dalla difficoltà interpretativa del
la normativa tributaria» (Cass. 25 febbraio 1986, Piro, Foro
it., 1987, II, 531). 2. - Il 3° comma dell'art. 47 c.p. Ai sensi del 3° comma
richiamato, l'errore è la difettosa ricostruzione o rappresenta
zione della realtà da parte dell'agente capace di turbare l'ele
mento soggettivo (conoscitivo o volitivo) nella sua normale espli
cazione. L'errore può derivare da mancanza di nozioni o di
massime d'esperienza. Il presupposto teorico del 3° comma dell'art. 47 c.p. è rap
presentato, comunque, dalla possibilità di distinguere fra dispo sizioni integratrici e non della legge penale. Ma questo tipo d'a
zione interpretativa è tutt'altro che agevole visto che, sul punto, in dottrina e giurisprudenza, com'è noto, vi è contrasto.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, ai fini dell'erro
re, norma penale sarebbe d'intendere non solo quella che stabi
lisce la punibilità del fatto ma ogni altra norma che, pur conte
nuta in legge civile o amministrativa, sia richiamata da quella
penale in modo da contribuire a definire, in qualche modo, il
precetto penale; extrapenale sarebbe da ritenere, invece, la nor
ma destinata ab origine a regolare rapporti giuridici di carattere
non penali (Cass. 18 gennaio 1986, Banacu, id., Rep. 1987, vo
ce Errore penale, n. 1, richiamata nel suo ricorso dal procura tore generale; cfr., inoltre, Cass. 28 marzo 1969, Carretto, id.,
Rep. 1970, voce cit., n. 13; 24 marzo 1977, Zanga, id., Rep.
1978, voce cit., n. 3; 7 gennaio 1980, Passaretti, id., Rep. 1983,
voce Abuso di poteri, n. 6). Questa interpretazione, evidente
mente, è molto restrittiva e non può essere, quindi, accettata.
Un deciso contributo ai fini dell'interpretazione della norma
in questione viene, comunque, oggi dalla lettura sistematica del
3° comma in esame in relazione all'art. 5 c.p.; lette le due nor
me alla luce della sentenza della Corte costituzionale 364/88
(id., 1988, I, 1385). 3. - L'interpretazione sistematica del 5° e del 3° comma del
l'art. 47 c.p. alla luce della sentenza 364/88 della Corte costitu
zionale. Il 3° comma dell'art. 47 c.p. presuppone, infatti, la
norma più generale: «Nessuno può invocare a propria scusa
l'ignoranza della legge penale».
Operata l'interpretazione sistematica dell'art. 5 e dell'ultimo
Il Foro Italiano — 1991.
comma dell'art. 47 c.p. alla luce della richiamata sentenza della
Corte costituzionale, le due norme si leggono oggi come di se
guito: «Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della
legge penale tranne che si tratti di ignoranza inevitabile». «L'er
rore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità
quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato».
Il richiamo dell'art. 5 c.p. e della sua interpretazione di retti
fica costituzionale, come operata dalla Corte costituzionale, è
importante perché serve a mettere in chiara luce l'interpretazio
ne «costituzionale» (e cioè ispirata ai nuovi principi democratici
che devono stare a fondamento ad ogni interpretazione, come
pure la Corte costituzionale ha affermato in varie sentenze).
Se alcuni principi democratici, discendenti dalla Costituzione,
valgono a restringere la portata di quella norma basilare che
è l'art. 5 c.p., essi non possono parimenti non valere — è que
sto l'aspetto fondamentale — per definire delle norme seconda
rie e derivate rispetto all'art. 5. Se l'originaria «rigidità» del
l'art. 5, discendente da un codice d'origine non democratica,
deve essere piegata e resa compatibile con il principio della col
pevolezza e della responsabilità personale del cittadino, le nor
me già volte a garantire che colpevolezza effettiva ed in concre
to vi sia non possono essere interpretate (come talvolta vengono
interpretate e come il procuratore generale propone siano inter
pretate) in senso fortemente restrittivo.
4. - Le affermazioni contenute nella sentenza 364/88 della
Corte costituzionale. Secondo la sentenza della Corte costitu
zionale richiamata, «l'ignoranza della legge penale» «scusa» —
è questa la proposizione fondamentale — quando si versi in
un caso di «ignoranza inevitabile». Il principio non può non
valere — ed a maggior ragione — per ogni difficoltà interpreta
tiva che si presenti per il «comune cittadino» come «inevitabile».
Per valutare il comportamento antigiuridico di un soggetto,
afferma la Corte costituzionale, non è sufficiente considerare
l'istante della violazione della norma; è, invece, indispensabile
non trascurare le cause remote e prossime della violazione e
la loro scusabilità. È questo il corretto orientamento da seguire.
«Nelle precisazioni tassative del codice il soggetto deve poter
trovare, in ogni momento, cosa ... è lecito e cosa ... è
vietato . .
Il presupposto della responsabilità penale è «costituito... dal
la riconoscibilità dell'effettivo contenuto precettivo della norma».
«L'oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto, nella
quale venga a trovarsi chiunque . . . non può gravare sul singo
lo cittadino e costituisce, dunque, un . . . limite della personale
responsabilità penale». È questo un principio di carattere gene rale che ogni giudice deve tenere ben presente e che questa corte
tiene presente. Il cittadino deve essere «chiamato a rispondere penalmente
solo per azioni da lui controllabili». «La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona
implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi
che . . . pesonalmente esprimano» un «riprovevole» compor
tamento.
Il cittadino ha il dovere «strumentale» di informarsi, afferma
la Corte costituzionale. Ciò vale anche con riferimento agli art.
47, 3° comma, c.p. e 8 1. 516/82; ma tale dovere, nel caso
di specie, come bene la Corte d'appello di Genova ha afferma
to, è stato dal ricorrente ampiamente soddisfatto.
5. - L'errore scusabile cui il ricorrente è incorso. L'errore
deve essere ritenuto ragionevole e scusabile, alla luce delle nor
me richiamate, secondo la corte d'appello, dato che il Monti,
come già rilevato, ha consultato un consulente tecnico e data
la particolare complicatezza della normativa:
1) «egli — afferma la corte d'appello — avrebbe dovuto dap
prima inquadrare la delibera di messa in liquidazione tra le mo
dificazioni dell'atto costitutivo;
2) poi avrebbe dovuto «rilevare che l'art. 2436 c.c. ... ri
chiama il 1°, 2° e 3° comma del precedente art. 2411, ma non
anche il 4° comma, e perciò rende possibile l'esecuzione della
delibera anche prima dell'iscrizione nel registro delle imprese;
3) quindi avrebbe dovuto desumerne che la pubblicità di cui
sopra «ha natura dichiarativa e non costitutiva», sul presuppo sto della conoscenza delle due categorie giuridiche;
4) infine avrebbe dovuto «concludere che la delibera di mes
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GIURISPRUDENZA PENALE
sa in liquidazione è efficace sin dalla data in cui viene adottata
e che, dunque, da quella data decorre il termine per la presenta zione della dichiarazione fiscale».
Tutto ciò — aggiunge ancora la corte d'appello — nonostan
te che il legislatore tributario, nell'art. 10 d.p.r. 600/73, faccia
decorrere il termine di presentazione non già dalla delibera di
messa in liquidazione bensì dalla data in cui la delibera «ha
effetto».
In altri termini, al Monti, ignaro di nozioni giuridiche e che
ha ritenuto di consultare un commercialista, non può essere certo
imputata — in presenza dell'espressa esimente di cui all'art. 8
letta alla luce della sentenza della Corte costituzionale richiama
ta — la mancata conoscenza di questo complesso meccanismo
legale, costituito anche da norme civili non certo predisposte ai fini della definizione dei reati e quindi certo non integranti le norme penali, contrariamente a ciò che il procuratore genera le impugnante mostra di ritenere.
Indubbiamente, il Monti è chiamato a rispondere di un reato
di natura contravvenzionale, e, quindi, punibile anche a titolo
di colpa; si tratta però di stabilire se egli ha errato colpevolmen te. La ricostruzione operata di sopra esclude, appunto, ogni errore colpevole.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione feriale; sentenza 6 settem
bre 1990; Pres. Consoli, Est. Losapio, P.M. (conci, conf.); ric. Cucchi. Rettifica parz. App. Roma 2 marzo 1990.
Circostanze di reato — Attenuanti — Lucro di speciale tenuità — Reati connessi all'uso di stupefacenti — Inapplicabilità
(Cod. pen., art. 62; 1. 7 febbraio 1990 n. 19, modifiche in
tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e de
stituzione dei pubblici dipendenti, art. 2; 1. 26 giugno 1990 n. 162, aggiornamento, modifiche ed integrazioni della 1. 22
dicembre 1975 n. 685, art. 14).
Al delitto di spaccio di limitate quantità di sostanze stupefacen
ti, anche nella nuova formulazione di cui all'art. 14, 5° com
ma, l. 162/90 (e ora art. 73, 5° comma, d.p.r. 309/90), e
quindi, sinteticamente, al piccolo commercio di tali sostanze, non è applicabile l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, c.p., siccome modificato dall'art. 2 l. 19/90, in quanto, pur poten dosi ritenere tale fatto determinato da un motivo di lucro
e pur non negandosi che da tale condotta consegua, o possa
comunque conseguire, un lucro di speciale tenuità, è da esclu
dersi la ravvisabilità della coeva e non alternativa condizione
che l'evento dannoso o pericoloso, seguito alla condotta di
(pur piccolo) spaccio sia qualificabile di speciale tenuità, po sto che, realizzandosi, con tale condotta, incremento nella cir
colazione e nella diffusione di sostanze tossiche si verifica un
evento pernicioso per la salute dell'uomo e negativamente in
fluente sul corretto svolgersi dei rapporti sociali. (1)
(1) La sentenza non affronta esplicitamente il problema se l'ipotesi di spaccio di lieve entità (art. 73, 5° comma, d.p.r. 309/90: «quando,
per i mezzi, per le modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la
qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo
sono di lieve entità») integri, in sé considerata, una figura autonoma
di reato ovvero una circostanza attenuante: cfr. nel primo senso App. Genova 28 settembre 1990 e, invece, nel secondo Trib. Genova 21 set
tembre 1990, entrambe in Foro it., 1991, II, 31, con nota di Iacoboni.
Quanto alla nuova circostanza «comune» consistente nell'avere «nei
delitti determinati da motivi di lucro» agito «per conseguire o l'avere
comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'e
vento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità», la relativa introdu
zione (art. 2 1. 19/90) si spiega con l'intento — espressamente dichiara to nei lavori preparatori — di configurare, per ragioni di equità, un'atte
II Foro Italiano — 1991.
1. - Con l'impugnata decisione la corte romana, respinto l'ap
pello proposto da Massimiliano Cucchi avverso la sentenza del
Tribunale di Roma, che lo aveva ritenuto colpevole di spaccio di modica quantità di eroina, rettificò la parte dispositiva della
medesima decisione, correggendo l'entità della pena detentiva
da anni uno e mesi sei di reclusione a quella di anni uno e
mesi quattro, quale risultava dalla parte razionale della senten
za e quale ritenne equa pena per il fatto addebitato al prevenu
to, al quale, in prime cure, era stata riconosciuta l'attenuante
generica. 2. - Ricorre per cassazione il Cucchi, deducendo, tramite il
difensore, violazione di legge per non avere la corte territoriale
riconosciuto l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, c.p., siccome
modificato dall'art. 2 1. 7 febbraio 1990 n. 19; immagina che
lo spaccio di modica quantità di eroina possa considerarsi delit
to determinato da motivi di lucro e che da tale fatto consegua un lucro di speciale tenuità e un evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità.
3. - Con requisitoria del 13 agosto 1990, il procuratore gene rale presso questa corte ha chiesto che il ricorso sia dichiarato
inammissibile per genericità del motivo.
4. - Osserva la corte che la richiesta del procuratore generale deve essere accolta.
Invero, in materia di impugnazioni, deve ritenersi inammissi
bile, per difetto del requisito della specificità prescritto dall'art.
201, 7° comma, c.p.p. del 1930, applicabile nella specie in regi me di prorogatio, per effetto del disposto di cui all'art. 241
d. leg. 28 luglio 1989 n. 271, il ricorso articolato su motivo
privo di riferimento alla fattispecie giudicanda ovvero, come
nel caso de quo, sulla trascrizione, sunteggiata, di un testo nor
mativo, senza alcuna analisi critica sui presupposti in fatto per
l'applicazione della disposizione invocata alla regiudicanda fatto.
La doglianza avverso una decisione giurisdizionale, stante la
stretta interdipendenza tra questa e l'azionata impugnazione, deve concretarsi nell'indicazione precisa dei punti di fatto e di
diritto da sottoporre al giudice dell'impugnazione, nell'esposi zione precisa e chiara delle censure che si muovono ai punti
indicati, nelle ragioni su cui la censura stessa si fonda, onde
consentire al giudice del gravame di esercitare il suo sindacato
con riferimento alle argomentazioni svolte nel provvedimento
impugnato. 5. - Tuttavia, ritiene il collegio, in linea di diritto, che l'even
to realizzato mediante la condotta di spaccio di sostanze stupe facenti non possa essere qualificato di speciale tenuità, tenuto
conto della gravità insita nella diffusione di sostanze tossiche
narcotizzanti, causa di gravi lesioni all'organismo dell'uomo e
non raramente di morte, oltre che di disordine sociale.
nuante modellata in simmetria con l'aggravante di cui all'art. 61, n.
7, c.p.: in tal modo è ora consentito al giudice di valutare la tenuità del lucro in tutti i casi in cui il reato, quale che ne sia l'oggettività giuridica, sia stato concretamente determinato appunto da motivi di lucro.
L'operatività di questa nuova attenuante non è però subordinata sol tanto al perseguimento o al conseguimento di un lucro di speciale tenui
tà; occorre altresì' la speciale tenuità dell'«evento dannoso o pericolo so» conseguente alla realizzazione del fatto tipico: ciò significa che l'at
tenuante è applicabile soltanto ai fatti caratterizzati da un danno
criminale, quale lesione o messa in pericolo del bene penalmente protet to, particolarmente modesto o esiguo (cfr. Fiandaca-Musco, Appendi ce a Diritto penale, parte generale, Bologna, 1989, 5). In realtà, nel l'ambito delle prime prese di posizione dottrinali, l'attenuante in que stione ha suscitato riserve critiche per il suo «contenuto problematico» (Padovani, Diritto penale, Milano, 1990, 329) e, comunque, per i «mar
gini d'ambiguità interpretativi» che lo stesso concetto di evento danno
so o pericoloso di speciale tenuità lascerebbe aperti, nel senso che ri
marrebbe dubbio se detta tenuità debba essere valutata in riferimento
alla qualità dell'offesa tipica astrattamente considerata ovvero all'even
to nella sua conformazione concreta (Fiandaca-Musco, ibid.; accenna
a difficoltà applicative anche Del Corso, in Legislazione pen., 1990, 50). Nella sentenza su riprodotta, la ritenuta incompatibilità tra il reato
di piccolo spaccio e l'attenuante viene, appunto, motivata in base alla
supposta assenza del secondo requisito, posto che la condotta di spac cio darebbe in ogni caso luogo ad un evento particolarmente pernicioso
per la salute (ma non è chiaro se l'organo giudicante intenda concepire tale evento secondo una delle accezioni canonizzate dalla dogmatica pe nalistica oppure lo raffiguri comunque come un effetto dannoso del
fatto, ancorché estraneo alla sua struttura normativa tipica).
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