sezione V penale; sentenza 17 luglio 1987; Pres. Pennacchia, Est. Archidiacono, P. M. Iannelli(concl. diff.); ric. Marcinkus ed altri. Annulla senza rinvio Trib. Milano, ord. 13 aprile 1987Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1988), pp.443/444-447/448Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23179721 .
Accessed: 24/06/2014 20:25
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 185.2.32.14 on Tue, 24 Jun 2014 20:25:47 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
contumace) «in sostituzione dell'avvocato Vittorio Gironda di Bari»
(v. processo verbale di dibattimento). Denuncia il predetto difen
sore (avvocato Aurelio Gironda) la violazione degli art. 475, n.
3, e 524, n. 1, c.p.p., sul presupposto che la corte di merito, con la sentenza impugnata, avrebbe erroneamente reputato che
«l'essere consapevole dell'illecito commesso da un proprio paren te equivale a cagionarlo» (v. il motivo di ricorso redatto nell'inte
resse dell'imputato in data 24 maggio 1986 dall'avvocato Aurelio
Gironda). Il quesito, che — nell'ordine logico — ha precedenza su ogni
altra questione (compresa quella relativa alla nullità ex art. 185, 2° comma, c.p.p., in dipendenza della «irritualità» della sostitu
zione ex art. 127 dello stesso codice), concerne la legittimazione a proporre impugnazione da parte del sostituto. Si vuol così co
noscere se la facoltà di impugnare, ai sensi dell'art. 192, 3° com
ma, c.p.p., spetti ai sostituti dei difensori. Sul punto sono affiorati, nella giurisprudenza di questa corte, due orientamenti: per uno,
esplicandosi i poteri del sostituto nel dibattimento, resterebbe al
lo stesso preclusa la facoltà d'impugnare (sez. Ili 23 marzo 1967, mass. 103844; sez. I 12 gennaio 1981, mass. 147277; sez. V 22
gennaio 1983, mass. 157025; sez. I 30 ottobre 1984, mass. 166464; sez. V 21 maggio 1986, mass. 172748); per un altro non al difen
sore nominato dalla parte bensì al sostituto inerirebbe siffatta
facoltà (sez. I 20 luglio 1979, mass. 142616; sez. IV 9 maggio
1985, mass. 169121). Tra i due orientamenti deve accogliersi il primo, riaffermando
si cosi una recente pronuncia di queste sezioni unite, secondo
cui l'espletamento dell'incarico professionale attraverso un sosti
tuto nella fase dibattimentale non priva il difensore di fiducia
dei poteri connessi alla sua qualità e, in particolare, della legitti mazione a proporre impugnazione ex art. 192, 3° comma, c.p.p.
(sez. un. 21 giugno 1986, ric. Di Geso). D'altra parte, sulla base dell'art. 127 c.p.p., l'attività del sosti
tuto, che è una specie di nuncius del difensore, rimane rigorosa mente circoscritta alla fase dibattimentale. La opinione contraria, che è minoritaria nella giurisprudenza di questa corte, si pone certamente in contrasto con la voluntas legis, posto che, come
si è accennato, i sostituti sono autorizzati ad agire nel dibatti
mento per il tempo in cui si verifica il bisogno della sostituzione
(impedimento del difensore); ond'è che essi non possono propor re impugnazione né sottoscrivere i motivi, essendo privo di rilie
vo l'impedimento del difensore (principale) dopo la conclusione
del dibattimento (supposto che detto impedimento ancora sussista). Simile conclusione trova un significativo riscontro nella circo
stanza che non si ha qui un diritto autonomo del difensore, ma
un diritto dell'imputato, esercitato a titolo di rappresentanza ex
art. 192, 3° comma, c.p.p. In altri termini, il difensore si limita
a proporre «la impugnazione dell'imputato»; l'attività spiegata rientra negli schemi della rappresentanza processuale ex lege, tan
t'è che gli effetti di quell'attività si producono in capo al soggetto
rappresentato (imputato), il quale, come statuisce l'art. 193, 1°
comma, c.p.p., «può togliere effetto, con la propria dichiarazio
ne contraria, alla impugnazione per lui proposta». E, se cosi è, anche nella evenienza del protrarsi dell'impedimento del difenso
re, non si raffigura come possibile una «delega» ad esercitare
Inoltre le sezioni unite, basandosi sulla constatazione delle vaste possi bilità di interferenze che l'imputato ha in ordine all'esercizio del diritto di impugnazione posto in essere dal difensore, hanno affermato che il difensore non è titolare di un diritto di impugnazione autonomo, ma fa soltanto valere come rappresentante ex lege un diritto la cui titolarità è dell'imputato (analogamente v., in dottrina, Kostoris, La rappresen tanza dell'imputato, Milano, 1986, 170 s.; Leone, Manuale di diritto pro cessuale penale'2, Napoli, 1985, 637; Manzini, op. cit., IV, 630; Tranchina, Impugnazione (dir. proc. pen.), voce dell' Enciclopedia de!
diritto, Milano, 1970, XX, 712; contra, per la configurazione del difenso re quale titolare di un autonomo diritto di impugnazione, v. C. Massa, Natura giuridica del difensore impugnante, in Arch, pen., 1953, I, 291).
In altri termini, a differenza della sostituzione processuale delineata dall'art. 81 c.p.c., non si esercita «un diritto altrui in nome proprio», ma si fa valere un diritto in nome e per conto di altra persona «dichia randosi che non si compie l'atto nel proprio interesse». Se ne è dedotto
che, anche qualora perduri l'impedimento del difensore, non è possibile da parte di quest'ultimo una «delega» ad esercitare il diritto di impugna zione per conto dell'imputato.
Il Foro Italiano — 1988.
il diritto di impugnazione per conto dell'imputato. La «delega» di tale diritto si addimostra inconcepibile nell'ambito della rap
presentanza delineata nell'art. 193, 3° comma, c.p.p. Vale a dire
che, a differenza della sostituzione processuale, definita nell'art.
81 c.p.c., non si fa valere un «diritto altrui in nome proprio», ossia nel proprio interesse, bensì s'esplica un diritto in nome e
per conto di altra persona, dichiarandosi che non si compie l'atto
per sé. Il che, per l'appunto, si raccorda alla rappresentanza pro cessuale di cui innanzi; rappresentanza che è limitata alla propo sizione del rimedio (impugnazione), inserendosi tutta l'attività
successiva del difensore nella fase del giudizio di impugnazione nell'autonomo settore dell'assistenza tecnica dell'imputato.
Il ricorso, alla luce dei superiori principi, va dichiarato inam
missibile con le conseguenze di legge.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione V penale; sentenza 17 luglio
1987; Pres. Pennacchia, Est. Archidlacono, P. M. Iannelli
(conci, diff.); ric. Marcinkus ed altri. Annulla senza rinvio Trib.
Milano, ord. 13 aprile 1987.
Competenza e giurisdizione penale — Chiesa cattolica — Ente
centrale — Non ingerenza — Giurisdizione italiana — Esclu
sione (Cod. pen., art. 3; 1. 27 maggio 1929 n. 810, esecuzione
del trattato, dei quattro allegati annessi e del concordato, sot
toscritti in Roma, fra la Santa Sede e l'Italia, I'll febbraio
1929: trattato, art. 11).
Per obbligo di non «ingerenza» dello Stato italiano deve inten
dersi il dovere, internazionalmente assunto, di non esercitare
le funzioni pubbliche della sovranità, comunque implicanti un
intervento nell'organizzazione e nell'azione degli enti centrali
della Chiesa cattolica, e fra queste la giurisdizione. (1)
Motivi della decisione. — I ricorrenti denunciano la nullità del
l'impugnato provvedimento, con il primo motivo, per «difetto
di giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana, in relazione al
l'art. 11 del trattato del Laterano»; con il secondo motivo, per:
«improcedibilità dell'azione penale, per difetto delle condizioni
stabilite dagli art. 9 e 10 c.p., conseguente nullità del mandato
di cattura»; con il terzo motivo, per «errata applicazione degli art. 253 c.p.p., 110 c.p., 223, 216, 219 r.d. 16 marzo 1942 n.
267»; con il quarto motivo, per «violazione per errata applicazio ne dell'art. 263 ter c.p.p., in relazione agli art. 254 e 254 bis
stesso codice»; con il quinto motivo, per: «violazione per errata
applicazione dell'art. 254, 2° comma, c.p.p.»; con il sesto moti
vo, per «nullità del mandato di cattura, per violazione dell'art.
304 bis c.p.p., in riferimento all'art. 524, n. 3, c.p.p.». Il p.g. presso questa corte chiede: «l'annullamento con rinvio
dell'ordinanza impugnata, nella parte relativa al diniego degli ar
resti domiciliari; rigetto nel resto».
La corte osserva: nella giurisdizione sono rigorosamente possi bili solo valutazioni di giuridicità, nell'esame delle leggi che disci
(1) La Cassazione esamina nel merito, pur se nell'ambito di un proce dimento incidentale riguardante la legittimità di un provvedimento sulla libertà personale, i motivi posti dagli stessi imputati a sostegno di analo
go ricorso, dichiarato inammissibile, perché avverso un provvedimento non soggetto ad impugnazione, da Cass., sez. Ili, ord. 4 giugno 1984, Foro it., 1984, II, 481.
L'interpretazione dell'art. 11 del trattato leteranense, che vede la Cas sazione su posizioni difformi dal procuratore generale (la cui requisitoria scritta è pubblicata in Cass, pen., 1987, 1914 ss.) e perfettamente in linea, invece, con il Tribunale vaticano di prima istanza 25 aprile 1987 (in que sto fascicolo, IV, 332), forma oggetto delle questioni di legittimità costi tuzionale sollevate dal giudice istruttore milanese con le ordinanze del 26 novembre e del 2 dicembre 1987 (Gazz. uff., la s.s., 30 dicembre
1987, n. 55). Entrambe le questioni sono state dichiarate inammissibili da Corte cost.
8 giugno 1988, n. 609, in questo fascicolo, I, 2080, con nota di richiami e commento di N. Colaianni, cui si rinvia anche per i profili più stretta mente attinenti alla decisione in epigrafe.
This content downloaded from 185.2.32.14 on Tue, 24 Jun 2014 20:25:47 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
plinano il caso sottoposto a giudizio e non apprezzamenti di di
versa natura.
Nella materia di specie, assume valenza prioritariamente decisi
va la questione di giurisdizione, in relazione alla prima ragione di censura proposta dai ricorrenti.
È dedotto il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in rela
zione alla portata dell'art. 11 del trattato del Laterano, fra la
Santa Sede e lo Stato italiano, reso esecutivo in Italia con 1. 27
maggio 1929 n. 810.
Nella traccia delle sole valutazioni possibili in questa sede di
giudizio, di nessuna rilevanza, ai fini delle esigenze decisorie, è
l'esame delle cause, delle ragioni e delle origini storiche dell'at
tuale posizione della Santa Sede, nell'ambito dell'ordinamento giu ridico internazionale (se, cioè, quale organo supremo della c.d.
societas perfecta, la Chiesa cattolica, o autonomamente; se di
stinta o collegata, per effetto di unione personale o reale, con
10 Stato della Città del Vaticano, come già in passato con lo
Stato pontificio). Unico dato di valutazione determinantemente rilevante è, in
materia, la sua indiscussa e indiscutibile natura di soggetto di
diritto internazionale.
In tale veste, la Santa Sede ha stipulato con lo Stato italiano
11 trattato del Laterano.
Il richiamato art. 11 cosi testualmente e integralmente recita:
«Gli enti centrali della Chiesa cattolica sono esenti da ogni inge renza da parte dello Stato italiano (salve le disposizioni delle leggi italiane concernenti gli acquisti dei corpi morali), nonché dalla
conversione nei riguardi dei beni immobili.»
L'indicazione di tale obbligo di non ingerenza — nel che si
traduce «l'esenzione da ogni ingerenza» — trattandosi di soggetti di diritto internazionale, non può che avere riferimento e quindi
regolare le rispettive relazioni, nell'ambito delle rispettive sfere
di sovranità. Nel senso che l'una sovranità (quella obbligata, cioè,
dello Stato italiano, come soggetto di diritto internazionale, nella
sua globale interezza, al quale è riferito e riferibile l'art. 11), in
tutte le sue esplicazioni pubbliche di poteri, potestà, funzioni,
non può invadere la sfera dell'altra, nella trama di organizzazio ne e di azione dei suoi enti centrali. E l'operatività di tale obbligo di diritto internazionale, non può che essere riferito al territorio
dello Stato italiano, perché è in esso che è esplicabile la relativa
prestazione negativa, cioè la «non ingerenza», quale luogo di svol
gimento della sovranità dello stesso, e non certamente al territo
rio dello Stato della Città del Vaticano o di altri soggetti internazionali.
Conseguentemente, non trattasi di una norma intesa a discipli
nare, nell'ambito nell'ordinamento interno dello Stato italiano, i rapporti fra lo stesso Stato — quale unico soggetto sovrano — e soggetti dipendenti o comunque sottoposti alle manifestazio
ni della sua sovranità, quali certamente non sono gli enti centrali
della Chiesa cattolica, in quanto operanti in Italia.
Per obbligo di non «ingerenza» dello Stato italiano deve, quin
di, intendersi il dovere, internazionalmente assunto, di non eser
citare le funzioni pubbliche della sovranità, comunque implicanti un intervento nell'organizzazione e nell'azione dei detti enti cen
trali della Chiesa cattolica e, fra queste, ovviamente, la giuris dizione.
La valutazione dell'obbligo di non ingerenza, nei termini anzi
detti, risulta particolarmente convalidata dal significato storico
e dal valore giuridico dell'ipotesi di esclusione, espressa in sede
parentetica, cioè: «salvo le disposizioni delle leggi italiane concer
nenti gli acquisti dei corpi morali». Ipotesi di esclusione in nes
sun modo rilevata e commentata dalle parti — e pubblica o privata
—, cosi come l'inciso finale, peraltro avente diretta e particolare valenza di conferma del generale obbligo di non ingerenza.
Sul piano del «significato» storico dell'ipotesi di esclusione, la
preoccupazione dello Stato italiano è stata evidentemente intesa
ad evitare che, mediante acquisti da parte degli enti centrali della
Chiesa cattolica, liberi, incontrollati ed incontrollabili, si potesse
ricostruire in Italia — particolarmente in tema di acquisto di beni
immobili — una situazione di «manomorta», quella stessa situa
zione, cioè, retaggio economico medioevale, che con specifici stru
menti legislativi (vedi leggi c.d. eversive) si era già combattuta
dal 1870. Sul piano del valore giuridico, se agli enti centrali della Chiesa
cattolica — veri organi internazionalmente rilevanti, nei rapporti
Il Foro Italiano — 1988.
fra la Santa Sede e lo Stato italiano — fosse stata, con il detto
obbligo di non ingerenza, consensualmente convenuta l'esclusio
ne dei poteri pubblici di solo contenuto amministrativo dello Sta
to italiano, la loro situazione sarebbe stata in concreto, poco più,
poco meno, quella degli ordinari «enti ecclesiastici», riconosciuti
o comunque operanti all'interno dell'ordinamento giuridico ita
liano, e ad esso assoggettati, salve le particolari disposizioni og
getto per essi di «concordato».
Da tale risultato logico di interpretazione, del valore giuridico del trattato del Laterano, si ha la conferma che la valenza dell'in
dicato obbligo di non ingerenza, nella «comune intenzione» delle
parti contraenti dovesse ovviamente riferirsi — come è normale
sul piano delle relazioni pattizie fra soggetti dell'ordinamento in
ternazionale — a tutte le pubbliche potestà dello Stato italiano, con la sola, specifica eliminazione già detta.
Conclusione inducente a ritenere che la norma dell'art. 11, per la sua «ragion d'essere», nella «comune intenzione» delle parti, sia stata posta a tutela dello Stato italiano, mediante la «riserva»
pattizia di esercizio di una sola, specifica parte dei suoi poteri
sovrani, essendo il rispetto degli organi di rilevanza internaziona
le, dell'altro soggetto contraente, cioè la Santa Sede — in quanto
operanti nell'ambito del territorio del soggetto obbligato — insi
to ex se nei principi internazionali consuetudinariamente ricono
sciuti.
Nell'evidente conclusione, per la portata dell'art. 11, del difet
to di giurisdizione del giudice italiano, questione ulteriormente
rilevante è la natura dell'Istituto per le opere di religione (I.O.R.),
quale, cioè ente centrale della Chiesa catolica.
Sulla valutazione del relativo punto, i dati offerti dalle parti — e pubblica e privata — sono conformemente propositivi dello
I.O.R., come ente centrale della Chiesa cattolica, tanto da rende
re possibile la preliminare premessa: «essere la questione pacifica». La parte privata ha prodotto, in tale prospettiva di deduzione,
la sentenza emessa in data 10 giugno 1987 dal Tribunale di prima
istanza, dello Stato della Città del Vaticano, negativa della con
cessione dell'estradizione degli attuali ricorrenti, nella quale, pre via elencazione di una serie di dati (quali: l'istituto è nato —
per effetto di «chirografo del 27 giugno 1941» — dalla trasfor
mazione della precedente «amministrazione delle opere di religio
ne», affidata ad una commissione cardinalizia, per lo scopo di
custodia ed amministrazione di capitali destinati ad opere di reli
gione e di cristiana pietà; l'istituto — come recitano il «regola mento 1° luglio 1944» e la «Cost. Ap. Regimini Ecclesiae» in
data 15 agosto 1967, n. 120 — ha personalità giuridica, e gli è attribuita piena autonomia patrimoniale rispetto agli ordinari
uffici di amministrazione della Santa Sede; l'istituto svolge un
compito sotto la propria responsabilità, relativo alla chiesa uni
versale) si conclude definendo l'I.O.R. quale ente centrale della
Chiesa cattolica.
Nella stessa linea di deduzione è, con altrettanta evidenza, la
tesi proposta dal p.g., di modo che la valutazione esprimibile in questa sede di giudizio, avendo ad oggetto la qualificazione di un ente facente parte di un ordinamento giuridico estero, non
potrebbe non procedere sul «pacifico» binario costituito dai mez
zi di cognizione offerti dalle parti, e pubblica e privata.
Sul punto, anzi, in prospettiva di valenza preclusiva, si pone la deduzione formulata dal p.g., in termini di interpretazione dei
principi regolanti le relazioni fra soggetti internazionali, nel senso
che: «a fronte di una espressa volontà della Santa Sede, che tale
considera l'istituto, destinatario di una specifica ed attenta rego
lamentazione, non può certo lo Stato italiano pretendere di attri
buirgli una diversa collocazione, svilendo i criteri organizzativi ed amministrativi stabiliti dal governo della Chiesa».
Ma la questione è tale che la sua soluzione (certamente non
svolgibile in virtù del principio iuria novit curia, correlato, per
il giudice, alle sole norme dell'ordinamento interno) trova in que
sta sede, nella traccia delle deduzioni proposte dalle parti, defini
tivo, limpido risultato confermativo di giudizio, nei comuni principi
iuris gentium, propri cioè di tutti gli ordinamenti giuridici dei
soggetti internazionali, in base ai quali è da ritenere nella specie «ente centrale» — cioè costituzionalmente rilevante nell'ordina
mento giuridico della Chiesa cattolica — quello avente: persona
lità giuridica; autonomia patrimoniale; competenza funzionale
universale, cioè estesa a tutto l'ordinamento, per il raggiungimento
dello scopo ad esso connaturatamente essenziale; collocazione al
centro territorialmente proprio dell'universalità.
This content downloaded from 185.2.32.14 on Tue, 24 Jun 2014 20:25:47 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
Una volta ritenuto nella specie essere lo I.O.R. un ente centrale
della Chiesa cattolica, risulta ulteriormente, dalla lettura del man
dato di cattura, emesso dal giudice istruttore del Tribunale di
Milano, in data 20 febbraio 1987, che i ricorrenti, Paul Marcin
kus, Luigi Mennini, e Pellegrino De Strobel, hanno commesso
i fatti, di cui alle contestate imputazioni, non in persona propria, cioè come privati individui, ma nella veste — quali organi o rap
presentanti — di «dirigenti ed amministratori» del detto I.O.R., Istituto per le opere di religione.
Di modo che la questione giuridica, immediatamente rilevante, risulta essere quella negativa della funzione giurisdizionale.
Né può essere dato alcun peso di significato giuridico alle de
duzioni svolte dal p.g., circa gli effetti pratici derivabili dall'indi cata valutazione della portata dell'art. 11 del trattato del Laterano
(nel senso, cioè, che renderebbe possibile la lesione di norme pe nali dell'ordinamento giuridico dello Stato italiano), dato che i
detti effetti potrebbero soltanto costituire la causa, il motivo o
la ragione, nella sede internazionale delle relazioni fra lo Stato
italiano e la Santa Sede, di denunzia del detto trattato, in termini
di proposizione della correlativa questione politica, anche al solo
fine di delimitarne oggettivamente l'attuale estensione.
Effetti pratici e conseguenti ipotesi che, nelle correlate ragioni
propositive, sfuggono in maniera radicalmente assoluta alla co
gnizione di questa corte, che ha il solo compito di imporre il
rispetto delle leggi, attualmente esistenti nell'ordinamento giuri dico dello Stato.
Visti l'art. 11 del trattato del Laterano, la 1. 27 maggio 1929
n. 810, gli art. 3 c.p., 531 c.p.p., conclude come in dispositivo. Per questi motivi, annulla senza rinvio l'ordinanza in data 13
aprile 1987 del Tribunale di Milano, nonché il mandato di cattu
ra emesso dal giudice istruttore presso lo stesso Tribunale di Mi
lano, in data 20 febbraio 1987 nei confronti di Marcinkus Paul, Mennini Luigi e De Strobel Pellegrino.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione V penale; sentenza 18 marzo
1987; Pres. Makvasi, Est. Ventre lla, P.M Cucco (conci,
conf.); ric. Conciani. Annulla senza rinvio App. Firenze 6 marzo
1985.
Lesione personale e percosse — Lesione personale gravissima —
Vasectomia — Reato — Insussistenza (Cod. civ., art. 5; cod.
pen., art. 50, 582, 583; 1. 22 maggio 1978 n. 194, norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria
della gravidanza, art. 22).
La sterilizzazione volontaria (c.d. vasectomia), in seguito all'a
brogazione dell'art. 552 c.p. che incriminava la procurata im
potenza alla procreazione, non può integrare gli estremi della
lesione personale gravissima ex art. 583, 2° comma, n. 3, c.p., dal momento che tra le due norme penali non sussiste rapporto di specialità ed il generico divieto di cagionare diminuzioni per manenti della propria integrità fisica (art. 5 c.c.) può essere
dallo stesso legislatore derogato con riferimento a taluni atti
dispositivi della funzione procreativa. (1)
(1) La sentenza — importante anche per le più generali implicazioni ideologiche ed etiche connesse al riconoscimento della piena liceità penale della c.d. vasectomia — risolve un contrasto emerso nella giurisprudenza di merito: per la tesi della ri conducibilità delle pratiche di sterilizzazione
volontaria, dopo l'abrogazione dell'art. 552 c.p. (art. 22 1. 194/78), alla
generale fattispecie della lesione personale gravissima, cfr. l'annullata sen tenza App. Firenze 6 marzo 1985, Foro it., 1985, II, 383, con nota di
Lanza; per la tesi contraria, e cioè nel senso della definitiva liceità della
vasectomia, v. Trib. Lucca 7 maggio 1982, Riv. it. medicina legale, 1983, 233, e Foro it., Rep. 1983, voce Procreazione (atti contrari alla), n. 1.
La sussumibilità della sterilizzazione volontaria nella fattispecie delle lesioni gravissime ha, dal punto di vista logico, come primo presupposto l'esistenza di un rapporto di specialità tra l'abrogato art. 552 e l'art.
583, 2° comma, n. 3, c.p.: ed infatti, assumendo che la fattispecie oggi
Il Foro Italiano — 1988.
Svolgimento del processo. — Il chirurgo Conciani Giorgio ve
niva tratto al giudizio del Tribunale di Lucca imputato del reato
di lesioni volontarie gravissime ex art. 583, cpv., n. 3, c.p., per
avere sottoposto a «vasectomia», con il loro consenso, circa cin
abrogata costituiva una ipotesi speciale della più generale fattispecie pre veduta dall'art. 583 cit., ne deriva logicamente, come conseguenza, che
l'abrogazione della norma specifica ha per effetto il riespandersi della
sfera di operatività della norma di portata più ampia, la quale ultima
può cosi tornare ad abbracciare i fatti precedentemente rientranti nella
prima. Senonché, in contrasto con l'orientamento dottrinale prevalente
(Vannini, Quid iurisl, Milano, 1947, 32 s.; Pannain, Procurata impo tenza alla procreazione, voce del Novissimo digesto, 1966, XIII, 1245), la tesi della specialità nel senso predetto è disattesa dalla Cassazione in
base a un duplice ordine di considerazioni. Da un lato, ribadendo in
proposito l'indirizzo giurisprudenziale dominante (cfr. Cass. 2 maggio
1977, Pardini, Foro it., Rep. 1978, voce Legge penale, n. 14; 21 ottobre
1981, Bole, id., Rep. 1982, voce cit., n. 13), la corte circoscrive il concor
so apparente di norme ex art. 15 c.p. ai soli casi in cui tra le fattispecie in questione esista un rapporto di omogeneità tra beni o interessi oggetto di tutela (nel senso della irrilevanza dell'identità del bene giuridico, v.
però, oltre alla dottrina di gran lunga dominante, ad es., Cass. 10 dicem
bre 1982, Finelli, id., Rep. 1985, voce cit., n. 18): omogeneità che appun to sarebbe esclusa nella specie, «trattandosi in un caso della 'potenza' della nazione e della sanità della stirpe, e nell'altro dell'incolumità perso nale». Nel contempo, la Cassazione ravvisa tra le norme a confronto, in luogo di un vero rapporto logico da genere a specie, «una relazione
di incompatibilità, annoverando ciascuna componenti antitetiche che si
escludono a vicenda, cioè il consenso nell'art. 552 c.p. e la carenza di
esso o il dissenso nell'art. 583, cpv., n. 3, c.p., componenti essenziali
perché assunte in funzione di elementi costitutivi o di presupposti del
fatto-reato». A ben vedere, il ragionamento non regge: se esso fosse fon
dato, dovrebbe valere nel caso analogo della relazione intercorrente tra
gli art. 575 e 579 c.p., onde dovrebbe pervenirsi alla assurda conclusione
che, ove per avventura fosse abrogata la fattispecie dell'omicidio del con
senziente, il fatto corrispondente non si trasformerebbe in omicidio tout
court ma diventerebbe penalmente lecito! In realtà, l'estremo del consen
so è un elemento aggiuntivo con funzione «minorante», che determinava
la specialità dell'art. 552 rispetto all'art. 583 (cfr., da ultimo, Padovani,
Procreazione, voce dell' Enciclopedia del diritto, 1987, XXXVI, 972 s.): né quest'ultimo (art. 583) necessariamente presuppone — come invece
opina la corte — il dissenso del soggetto passivo, essendo la lesione gra vissima configurabile, pur in presenza di consenso, tutte le volte in cui
si tratti di atti dispositivi indisponibili ex art. 5 c.c.
Anche a ritenere, con la dottrina dominante, che tra le norme in que stione intercorra un concorso apparente, il problema interpretativo non
sarebbe tuttavia eo ipso risolto. Per stabilire se un determinato fatto con
tinui ad assumere rilevanza penale, l'approccio logico-formale non è in
fatti di per sé decisivo: al di là del rapporto strutturale tra le fattispecie, occorre attingere il piano delle considerazioni «teleologiche», perché è
soltanto dall'esame della ratio normativa che possono essere tratte indica
zioni vincolanti circa il reale significato della scelta abrogatrice compiuta dal legislatore. È proprio in questa più ampia prospettiva che si colloca
la seconda parte della motivazione, in verità ben più convincente: ad av
viso della corte, la tesi della liceità penale della sterilizzazione appare anche la più compatibile con la ratio complessiva della 1. 194/78 (nello stesso senso, v. già in dottrina Riz, Il consenso dell'avente diritto, Pado
va, 1979, 390 ss.; D'Antona, Dell'Osso, Guerrini, Martini, La steri
lizzazione volontaria. Aspetti giuridici, tecnici e medico-legali, Milano,
1980, 9 ss.; Del Re, Sterilizzazione volontaria: non lesione, lesione giu
stificata o delitto?, in Giust. pen., 1980, II, 56 ss.). È da segnalare l'ulteriore importante affermazione di principio, secon
do cui la capacità di procreare non rientra tra i beni indisponibili ex
art. 5 c.c., con la conseguenza che nel nostro ordinamento è da ritenere
lecita la stessa sterilizzazione «edonistica» o «di comodo». La Cassazione
mostra cosi di respingere implicitamente la tesi che configura la procrea zione come una irrinunciabile funzione sociale e di accedere, per contro, all'orientamento che la considera attività rientrante nella sfera di autono
mia privata del singolo: in particolare, la corte distingue tra integrità fisica e salute quale bene tutelato dall'art. 32 Cost., potendo giovare alla
seconda interventi che, ancorché lesivi della prima, favoriscono l'equili brio psichico della persona che volontariamente vi si sottopone. Nella
sostanza, la sentenza finisce in proposito col riecheggiare la tesi sostenuta in dottrina da Padovani, op. cit., 972 ss., il quale, nell'includere la capa cità di procreare tra i beni disponibili, si preoccupa però opportunamente di distinguere tra la rinuncia alla mera capacità procreativa, lecita anche ai sensi dell'art. 5 c.c., e altre forme di sterilizzazione comportanti la
perdita di organi sessuali o del loro uso (come castrazioni e simili), a
tutt'oggi invece vietate in quanto menomanti, sul piano funzionale, la
stessa personalità del soggetto. [G. Fiandaca]
This content downloaded from 185.2.32.14 on Tue, 24 Jun 2014 20:25:47 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions